Il Marxismo funziona solo come forza distruttrice

Le teorie di Karl Marx non sono mai state valide, ma hanno cambiato il mondo fomentando il malcontento verso lo status quo e promettendo un’utopia non ben definita che sarebbe sorta spontaneamente dalle ceneri del vecchio ordine.

Tra le sue argomentazioni vi sono:

 1. Il valore è dato dal lavoro socialmente utile.

2. Le società capitaliste sono divise in due classi: i borghesi e i proletari.

3. Lo scambio volontario è un gioco a somma zero: una delle due parti guadagna a spese dell’altra.

4. I capitalisti si appropriano del plusvalore dei beni prodotti dagli operai.

5. Gli operai nelle società capitaliste si impoveriranno sempre di più finché sarà necessaria una rivoluzione.

6. Gli operai in disaccordo con Marx soffrono di “falsa coscienza”.

Ma ognuna di queste affermazioni è falsa.

1. Il valore non è dato dal lavoro, ma dalla domanda. Il lavoro ha valore solo se produce beni e servizi che la gente desidera.

Una torta fatta di fango può richiedere la stessa quantità di lavoro di una torta di mele, ma nessuno vuole una torta di fango, quindi non ha valore. Inoltre, il valore cambia al variare di alcune condizioni. Ad esempio, anche se il loro “contenuto di lavoro” non è cambiato, le fruste dei cocchieri avevano molto più valore prima dell’invenzione dell’automobile.

Marx cercò di spiegare queste variazioni di valore con il concetto di lavoro “socialmente utile”, ma non fu mai in grado di definirlo o quantificarlo al punto da consentire ai pianificatori centrali di comprendere il valore di mercato di un bene o un servizio.

2. La società capitalista non è divisa in due classi. I proprietari di imprese e i dipendenti provengono da ogni ceto sociale.

3. Lo scambio volontario non è un gioco a somma zero. Tutte le parti coinvolte in uno scambio ne traggono vantaggio, altrimenti non accetterebbero lo scambio. Ciascuno ne trae vantaggio perché ognuno attribuisce un valore diverso ai beni scambiati. Il valore è soggettivo e non si basa su parametri oggettivi come “la quantità di lavoro socialmente utile”.

4. Il plusvalore di un bene (in pratica, il prezzo di vendita di un bene meno il costo per la sua produzione) serve a pagare:

– L’inventore.
– L’imprenditore (che è spesso, ma non necessariamente, l’inventore stesso) che intercetta la domanda del mercato per quel bene e decide di produrlo.
– Il possessore di un capitale che finanzia l’impresa.
– Finanziatori che trovano altri investitori disposti a rischiare le loro risorse per avviare l’impresa.
– Dirigenti e quadri che coordinano il lavoro degli operai.
– I pubblicitari che pubblicizzano il prodotto affinché venga conosciuto dai consumatori.
– Gli operai stessi.

Marx ignorava gran parte di questi fattori produttivi e il valore aggiunto che i consumatori ottengono acquistando il prodotto. Se non ottenessero alcun vantaggio dall’acquisto, non l’acquisterebbero mai.

Pretendendo che gli operai della fabbrica (insieme a tutti gli impiegati che Marx considerava parte del proletariato piuttosto che della classe dirigente oppressiva) ricevessero tutto il valore del prodotto, Marx chiedeva che nessun altro responsabile dell’esistenza del prodotto fosse pagato e che i consumatori non guadagnassero acquistandolo.

In effetti, il suo “mondo perfetto” era quello in cui nessuno avrebbe avuto un incentivo a inventare, produrre o acquistare qualcosa.

5. I lavoratori nelle economie di mercato non si stanno immiserendo. Al contrario, stanno molto meglio rispetto ai lavoratori di economie meno libere. Secondo i nostri standard, gli operai ai tempi di Marx lavoravano in condizioni terribili per salari miseri. Tuttavia, il lavoro in fabbrica e la retribuzione erano spesso molto migliori rispetto alle alternative disponibili all’epoca.

Il libero mercato ha reso le persone così produttive che hanno bisogno di lavorare meno ore per sfamare se stessi e le proprie famiglie. Invece di lavorare sei o sette giorni alla settimana per 12 ore, nei Paesi in cui vige il libero mercato le persone lavorano in genere cinque giorni a settimana per 7 o 8 ore al giorno. Inoltre, i bambini non hanno più bisogno di lavorare per sopravvivere.

Il libero mercato ha anche aiutato la parità di genere. In un mondo in cui la forza bruta è il fattore più importante per la sopravvivenza, le donne sono cittadini di seconda classe. Ma in una società di libero mercato, dove il cervello conta più dei muscoli, le donne sono più che in grado di competere con gli uomini.

Marx sosteneva che il socialismo avrebbe messo i mezzi di produzione nelle mani dei lavoratori, ma è stato il capitalismo a mantenere la promessa. Oggi i “mezzi di produzione” si traducono sempre più spesso in conoscenze e competenze di un lavoratore, nel suo computer e nel suo cellulare e, forse, in una stampante 3D.

Marx immaginava un’utopia socialista in cui «poter pescare le mattina, cacciare il pomeriggio, allevare il bestiame la sera e fare teoria critica la notte, a piacimento, senza mai diventare un pescatore, un cacciatore, un allevatore o un pensatore». Ancora una volta, è stato il capitalismo a trasformare il sogno di Marx in realtà, aumentando a tal punto la produttività che le persone non devono più trascorrere tutte le loro ore di veglia alla ricerca di cibo.

6. I lavoratori che non sono d’accordo con Marx non soffrono di “falsa coscienza” né sono stupidi. Comprendono i propri interessi molto meglio dei pianificatori centrali o dei teorici.

 

Conclusione

Marx non ha mai compreso, o si è rifiutato di comprendere, gli incentivi creati da una società basata sul principio «Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni». L’attuazione di questo principio crea società in cui le persone hanno capacità minime e bisogni massimi.

Marx non ha mai definito cosa sarebbe un “sistema marxista” o come funzionerebbe. Si rifiutò di descrivere la sua utopia socialista in termini più dettagliati perché riteneva che dovesse emergere spontaneamente e che sarebbe stato sciocco cercare di prevedere la forma finale in cui si sarebbe evoluta.

Allo stesso tempo, però, riteneva che per realizzare il socialismo fosse necessaria una rivoluzione. Ma la rivoluzione implica una brusca rottura dello status quo. Piuttosto che permettere a un nuovo ordine socio-economico di emergere naturalmente, quindi, Marx voleva installare con la forza il suo nuovo ordine sulle ceneri del vecchio, un nuovo ordine che si rifiutava di definire perché doveva emergere naturalmente.

Di conseguenza, il “marxismo” era una specie di secchio vuoto in cui i rivoluzionari potevano versare ciò che volevano.

In pratica, i marxisti si sono dimostrati molto più bravi a distruggere società e culture che a crearne di nuove di successo. Il marxismo funziona solo nella misura in cui rimane una forza distruttrice.

 

(Traduzione dell’articolo Marxism Remains Relevant Only as a Destructive Force, Richard W. Fulmer, FEE.org)

 

Lettura consigliata: Smascherare il Marxismo, L. von Mises

Sul pensiero di Bastiat

Innamoratevi della libertà. Amare la libertà significa, tra le altre cose, interiorizzare il pensiero di Frèdèric Bastiat (1801-1850), economista, filosofo e giornalista francese. La filosofia economica di Bastiat è controcorrente e molto attuale: l’economista francese fu un liberale, un libertario e un liberista ante litteram.

In una società italiana oppressa dallo statalismo più soffocante, le riflessioni di Bastiat sono uno spiraglio di luce. 

Bastiat ha il pregio di essere attuale senza mai sbiadire nel tempo; non si conformò al pensiero economico o filosofico accademico e mainstream, basato su assunti (totalmente fallaci) come il progressismo, la giustizia sociale o il politicamente corretto. Il suo stile di scrittura fu limpido e chiaro, ispirato al giornalismo. Non è un caso che Schumpeter lo definì come il più grande giornalista economico del suo tempo.

 

La prima lezione di Bastiat, che dobbiamo rivendicare ancora con più forza ai giorni nostri, è la teoria della difesa dell’individuo.

Nella sua opera “La legge”, Bastiat difese la concezione del diritto naturale (Ius naturae), ereditata da Grozio e Locke. L’individuo unico e irripetibile della tradizione cristiana e liberale possiede dei diritti inalienabili, come la vita, la proprietà e la libertà, che derivano direttamente da Dio. Bastiat operò una sforbiciata alla “Ockham” e ribaltò la concezione negativa di Bentham sui diritti naturali o individuali.

I reali “nonsensi sui trampoli” (secondo un’espressione dello stesso Bentham) sono il diritto statale e le sue norme positive e arbitrarie vigenti in un determinato territorio.

 

La seconda straordinaria lezione che possiamo ricavare da Bastiat è la critica dello statalismo. Con il suo inchiostro limpido, il pensatore francese smontò i pregiudizi cristallizzati degli statalisti e le loro opinioni fittizie. Pensiamo solo alla politica economica. L’intervento dello Stato in economia non solo produce inefficienze e disfunzionalità, ma apporta “storture” all’equilibrio del mercato e alla libera iniziativa privata.

La teoria dominante ed in voga nei dipartimenti economici – ovvero la teoria keynesiana – concepisce lo Stato come una sorta di pianificatore retto e morale, guidato dall’intervento dei policy maker, degli ingegneri sociali, ovvero i politici (e i tecnici loro amici). Questa concezione non è solo falsa ma è anche smentita dalla realtà dei fatti.

Bastiat ci mise in guardia in “Quello che si vede e quello che non si vede” sui rischi dell’interventismo statale (con il famoso racconto della “Finestra Rotta”). Inoltre, criticò il monopolio pubblico su certe merci e prodotti, così come sulla moneta e sull’istruzione.

 

Bastiat non fu solo un ottimo pensatore; egli applicò sul campo le sue idee. Pensiamo solo alla politica fiscale. Bastiat fu un apologeta del libero commercio, del laissez faire, dell’ordine spontaneo del mercato e dei suoi meccanismi interni (a partire dalla “mano invisibile” che guida le scelte degli operatori economici). Per questo motivo attaccò senza sosta la politica fiscale francese dell’epoca.

Lo Stato, per l’economista francese, non solo non produce nulla, non solo offre sul mercato, rispetto ai concorrenti privati, servizi o beni costosi e scadenti; ma soprattutto lo Stato non possiede risorse proprie ed è per questo motivo che ambisce a detenere un “patrimonio preda” attraverso la spoliazione legale dei contribuenti.

Attraverso la tassazione lo Stato nutre se stesso e le proprie “élite”, danneggiando in questo modo i produttori della ricchezza, spogliati “legalmente” del frutto del proprio lavoro e delle proprie fatiche. Per Bastiat tutto questo è ingiusto e intollerabile.

 

Il suo lavoro mina le false certezze che contraddistinguono la nostra atmosfera culturale, frutto dell’egemonia di una ristretta minoranza astiosa verso il lavoro, la responsabilità e le fatiche. Una delle opere fondamentali del suo sterminato pantheon economico porta il titolo di “Sofismi economici”. I sofismi sono frutto di un errore della ragione e della logica umana. Al posto della verità si mettono simulacri tanto sbagliati quanto pericolosi. Ed ecco che in economia come in filosofia, nella letteratura come nel giornalismo, dominano opinioni prive di qualunque fondamento. Bastiat ci insegna ad usare la logica e a fare a meno di queste idee false e obsolete.

 

Bastiat è stato un precursore di molti dei concetti espressi in seguito da un grande gruppo di economisti: la Scuola Economica Austriaca. La linfa vitale di questo approccio economico è la libertà, il rigore analitico e la critica di tutti quei substrati che si oppongono al mercato (in primis il marxismo). Accanto al collettivismo sono messi in stato d’accusa i principi della pianificazione centrale. Gli austriaci rivendicano la libertà economica, contro socialisti e statalisti vari.

Leggete quindi Bastiat, per non perdere mai la speranza nemmeno nei momenti difficili che sono parte integrante della storia. Siate dei “Bastiat contrari”, per non adeguare la vostra mentalità al conformismo della nostra epoca.

In difesa del capitalismo – Henry Hazlitt

La guerra ideologica in corso

Oggi tutto il mondo è coinvolto in una dura guerra tra ideologie. Il conflitto attuale sembra essere stranamente simile alle guerre di religione medievali. Le dottrine dibattute a quel tempo sono oggi per noi incomprensibili, eppure ci sono alcuni punti di discussione altrettanto bizzarri anche nell’attuale guerra ideologica.

I comunisti hanno dato il via alla lotta, coscienti sin da subito non solo a cosa fossero avversi, il capitalismo, ma anche a cosa fossero favorevoli. Su entrambe le questioni la loro direzione politica è stata stabilita sin dal principio. Non ammettono alcun cambiamento, pena l’ostracismo, l’imprigionamento, la tortura o la morte. Eppure, dall’altro lato, la maggior parte di coloro contrari al comunismo non si erano nemmeno accorti della guerra ideologica in corso; e che nessuna pacificazione, nessuna conciliazione, nessun tentativo di serena convivenza, era possibile. I comunisti non lo avrebbero mai permesso. Nonostante ciò, i non-comunisti non avevano idea di essere impegnati in una lotta di sopravvivenza.

Ma questo ci porta ad altre contraddizioni. Non esiste un gruppo coeso di anticomunisti. Molte persone importanti affermano ancora oggi: “È vero, i russi non hanno il diritto di imporre a noi il loro sistema, però nemmeno dovremmo noi cercare di imporre a loro il nostro sistema. Il capitalismo, o la democrazia, è probabilmente il miglior sistema per noi come il comunismo lo è per loro. Se smettiamo di armarci contro i comunisti e combattere contro di loro, le loro diffidenze si dissolveranno col tempo e ognuno vivrà pacificamente a modo suo”. Questa visione persiste ancora, nonostante la sua infondatezza, soprattutto perché riesce a incoraggiare la speranza.

Le divergenze tra gli anticomunisti

Inoltre, anche gli anticomunisti non sono uniti. Sono sì contro il comunismo, ma non hanno una vera e propria idea di cosa questo rappresenti. Pochi di loro si rendono conto che il comunismo è principalmente una dottrina economica. Invece la maggior parte lo considera in primo luogo un sistema politico o culturale. Ciò che ripudiano è il dispotismo, la totale soppressione della libertà, politica, religiosa o artistica che sia, le crudeltà, le confessioni forzate, le bugie sistematiche, le violenze e le congiure, le incessanti campagne diffamatorie, le minacce di interventi militari.

Tutte queste cose sono certamente orribili. Eppure, molti anticomunisti non riescono a capire che sono il semplice ed inevitabile risultato della dottrina economica alla base del comunismo. Esse sono ciò che Karl Marx, riferendosi al capitalismo, avrebbe chiamato “sovrastruttura”.

Tra gli anticomunisti circolano varie idee diverse riguardo il sistema economico che intendono sostituire al comunismo. Si passa dai fautori del libero mercato ai socialisti di sinistra, con ogni varietà di ammiratori del New Deal[1], pianificatori e statalisti in mezzo. I fautori del New Deal, in particolare, sembrano decisi a ripudiare il laissez-faire tanto quanto il comunismo. E in fatto di organizzazione economica della società, i socialisti sono pronti a schierarsi con i comunisti per combattere il capitalismo.

A causa delle profonde divisioni tra gli anticomunisti, sono nate svariate idee contrastanti riguardo la corretta “strategia” contro il comunismo. Alcuni pensano che definirsi anticomunisti sia sufficiente per essere uniti. Il comunismo, dicono, non è una dottrina da analizzare, ma una cospirazione da sopprimere. È necessario dare la caccia ai comunisti – nelle istituzioni, nell’esercito, nelle Nazioni Unite, nelle scuole e nelle università – smascherarli e liberarcene. Qualsiasi altra cosa, sostengono, o non conta o è fuorviante.

È sufficiente la democrazia?

C’è un altro gruppo di anticomunisti che non si limita a schierarsi contro il comunismo. Pensano che gli oppositori del comunismo debbano condividere una filosofia comune. Ripongono la loro fede nella democrazia, e credono essa sia sufficiente. Questa è stata sostanzialmente la posizione del Dipartimento di Stato e della Voice of America[2] sotto Truman. È la posizione della maggior parte della stampa americana.

Cos’è la democrazia?

Questa posizione non regge ad una accurata indagine. “Democrazia” è una di quelle parole così vaghe che assumono mille significati diversi a seconda di chi ne parla. Può essere estesa o ridotta, come una fisarmonica, per rispondere alle diverse esigenze del momento. Il concetto univoco di “democrazia” è diventato difatti quasi un’elusione semantica. Per alcuni corrisponde a un sistema politico nel quale il governo dipende a tal punto dalla libera volontà popolare, da poter essere cambiato pacificamente qualora cambi la volontà del popolo. Per altri si riduce invece ad uno smisurato controllo di massa nel quale per legge sono tutti uguali, a prescindere dal proprio valore e dalle proprie capacità. È un sistema in cui le minoranze non hanno diritti che la maggioranza deve rispettare, in cui la proprietà privata può essere confiscata e ridistribuita a chi non ha fatto nulla per guadagnarsela, in cui tutti devono percepire lo stesso stipendio, nonostante l’evidente differenza di capacità, impegno e contributo fornito. Questo secondo concetto di democrazia si avvicina inevitabilmente a un sistema comunista, non di certo ad uno libero.

La parola “democrazia”, quindi, non solo è diventata così vaga da essere quasi priva di significato, ma ha perso anche quasi tutto il suo valore anche come strumento semantico. Il nemico se ne è impadronito e l’ha usata per i propri scopi. I comunisti chiamano il loro sistema (in maniera ingannevole ma non per questo meno accattivante) una “democrazia popolare” e sostengono che la democrazia capitalista è una contraddizione in termini.

Anche se il concetto di “democrazia” non fosse così ambiguo, si riferirebbe comunque in primo luogo a un sistema politico. Tuttavia, il comunismo rappresenta principalmente un sistema economico, di cui l’aspetto politico costituisce una conseguenza o una sovrastruttura. Quindi “democrazia” è comunque un’antitesi errata al comunismo. È come dichiarare che l’ovest è l’opposto del nord, o il freddo è l’opposto del nero.

Comunismo contro capitalismo

Il vero opposto del comunismo è il capitalismo. I comunisti lo sanno, ma molti fra noi anticomunisti no.

Questa è la vera ragione della debolezza ideologica di chi si oppone al comunismo, e dell’inefficacia della maggior parte della propaganda contro quest’ultimo, soprattutto quella del Dipartimento di Stato, del Voice of America e dei governi occidentali in generale. Tutti loro pongono la democrazia in contrapposizione al comunismo, in parte perché sono sufficientemente confusi da crederlo veramente e in parte perché non hanno né la volontà né il coraggio di difendere il capitalismo.

Ci sono diverse ragioni alla base di questa riluttanza. Per cominciare, la stessa parola “capitalismo” è stata coniata e diffusa da Marx ed Engels. È stata deliberatamente concepito come una parola dall’accezione negativa. Doveva indicare quello che probabilmente molti ancora credono: un sistema fatto dai capitalisti per i capitalisti.

La stragrande maggioranza dei burocrati nei Paesi occidentali non crede veramente nei principi fondamentali del capitalismo. La libertà economica insita in esso è estranea alla loro mentalità. Non è naturale per coloro che dirigono lo Stato credere in minore potere statale. Inoltre, non capiscono davvero come funzioni il capitalismo o quali misure sono compatibili con esso. Per natura preferiscono favorire l’inefficiente sistema dei sussidi statali. Quindi si dichiarano a favore di enormi programmi di sussidi esteri, come Point Four[3], degli interventi del Fondo Monetario Internazionale e delle interminabili ingerenze delle Nazioni Unite. Non si rendono conto che queste misure e istituzioni in realtà ritardano o impediscono la libertà di commercio e il libero flusso internazionale di investimenti privati da cui dipendono la ripresa reale, la crescita economica e la produttività.

Infine, anche quando un funzionario pubblico americano comprende e preferisce il capitalismo, è imbarazzato dal fatto che molti dei nostri più importanti alleati europei siano così vicini al socialismo. Pertanto, non osa elogiare particolarmente il capitalismo per paura di offendere indirettamente i nostri alleati socialisti. La vera critica al comunismo non è quasi mai fatta pubblicamente.

Cosa fa la libertà

Il diffuso utilizzo del termine “capitalismo” con intento diffamatorio fa sì che nessuno sarebbe disposto a morire per il capitalismo – certamente non sotto questo nome. Al contrario, milioni di persone sono morte per le fantasie comuniste. Eppure, il termine “capitalismo” è semplicemente l’epiteto marxista per il sistema del libero mercato, della concorrenza privata, del sistema in base al quale ciascuno può guadagnare e godere del frutto del proprio lavoro – in breve, la libertà economica.

Il capitalismo si aggiudica il merito di miglior sistema produttivo del mondo grazie alle sue libertà e alla sicurezza che assicura. Non ha bisogno di “provare” la sua superiorità al socialismo o al comunismo. Lo ha già dimostrato mille volte, sia che si confronti la produttività o che si guardi alle libertà individuali. È sbagliato affermare che il capitalismo sia il sistema migliore per i ricchi o per i datori di lavoro. Al contrario, è il sistema migliore proprio per il lavoratore e per i poveri. Il capitalismo ha dato la possibilità ai lavoratori di migliorare il proprio status, il proprio salario e il proprio benessere a livelli tali che prima della rivoluzione industriale sarebbero stati impensabili. Ancora oggi la crescita non si è arrestata, ma è addirittura accelerata.

La risposta al comunismo è dunque il capitalismo. Ed una volta compreso questo, i dubbi di “strategia ideologica” che abbiamo a lungo discusso iniziano a dissolversi. Non dobbiamo chiederci se stiamo “predicando nel deserto”. Questa stessa domanda si basa su un’idea infondata, come se stessimo parlando di un’azione legale, in cui c’è la “nostra parte” contro la “loro parte”. In questo senso entra inconsapevolmente in gioco la teoria marxista di un vero conflitto di interessi tra “classi” economiche – imprenditori contro lavoratori, ricchi contro poveri. Ma una volta che riconosciamo che il sistema del capitalismo è l’unico praticabile, l’unico che promuove l’interesse sia dei datori di lavoro che dei lavoratori, l’unico che fornisce il massimo delle opportunità per i poveri di uscire dalla miseria, allora la vera distinzione è tra coloro che comprendono il sistema e chi no. Una persona in grado di capire un problema non predicherà mai nel deserto; tutti coloro che sono desiderosi di comprendere saranno pronti ad ascoltarla.

Non dobbiamo nemmeno più chiederci se sia necessario limitarsi esclusivamente a combattere il comunismo, in quanto è un complotto ed una minaccia militare, o se possiamo più semplicemente ignorarlo – in base al fatto che è stato già denunciato in abbondanza – e concentrarci sulla lotta contro le misure di stampo socialiste perché è molto più probabile che esse vengano adottare anche in casa nostra.

La soluzione è semplice. C’è solo una risposta giusta alla somma di 2 + 2 e un numero infinito di risposte sbagliate. Dimostrare che 2 + 2 fa 4 è sufficiente per escludere tutte le altre opzioni erronee. Il comunismo non è altro che la più pericolosa delle risposte errate al problema sociale di base. Il socialismo propone le stesse misure economiche di base del comunismo, nel lungo termine solo leggermente meno aggressive e meno pericolose. La pianificazione, il controllo dei prezzi, l’inflazione e il keynesianismo sono altre risposte errate. Come in aritmetica, esistono infinite risposte erronee. Ma una volta trovata quella corretta, possiamo dimostrare perché tutte le altre siano sbagliate usando quella giusta come base.

In ambito sociale ed economico, dobbiamo impegnarci a sviluppare un programma produttivo. Quel programma è il miglioramento e la diffusione del capitalismo.

Traduzione a cura di Laura Pizzorusso

Fonte: https://mises.org/library/lets-defend-capitalism

[1] Riferimento al programma economico di forte interventismo statale adottato dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt negli anni ’30 del XX secolo

[2] Servizio radiotelevisivo statunitense

[3] Point Four è stato un programma di assistenza tecnica per Paesi in via di sviluppo introdotto dal presidente americano Harry Truman nel 1949

Una riflessione liberale su Hegel

Spesso il liberalismo si concentra troppo sulla critica, assolutamente doverosa, al sistema marxiano tralasciando molti altri pensatori ugualmente contestabili e pericolosi per la società aperta.

Ve ne uno in particolare che, assieme a Platone, possiamo considerare il padre del pensiero collettivista e totalitario, un filosofo ricordato, oltre che per la sua smodata passione per le tripartizioni, anche per essere stato il punto di partenza della riflessione di Marx sulla società: stiamo parlando di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, il massimo rappresentante dell’Idealismo tedesco nonché uno dei pensatori più celebri ed influenti del XIX secolo.

In questo articolo ci concentreremo principalmente sulla aberrante concezione politica anti-liberale e anti-democratica che Hegel affronta all’interno di due opere: l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830)e i Lineamenti di filosofia del diritto (1821). 

Fondamentalmente, si possono individuare tre aspetti critici principali della filosofia politica hegeliana:

  • la visione collettivista e organicista;
  • la divinizzazione dello Stato;
  • storicismo e totalitarismo.

La visione collettivista e organicista

Per poter analizzare l’organicismo e il collettivismo che caratterizza la visione del filosofo bisogna introdurre un concetto essenziale del sistema hegeliano: l’eticità [Sittlichkeit].

Definta come la sintesi tra diritto astratto (tesi) e moralità (antitesi), l’eticità permette di superare la separazione, tipica della moralità, tra la soggettività che deve attuare il bene e il bene stesso: quest’ultimo, nella sfera morale-individuale, assume quindi l’aspetto di un dover essere mentre solo all’interno della dimensione etica-collettiva, per Hegel, riesce ad attuarsi concretamente. 

L’eticità perciò rappresenta la moralità sociale, ovvero la realizzazione concreta del bene nelle istituzioni come la famiglia, la società e lo Stato. Hegel fa inoltre derivare il termine Sittlichkeit da un altro termine tedesco, Sitte, che vuol dire costume/usanza, alludendo come ogni individuo si trovi inserito in un determinato contesto storico-culturale che orienterà inevitabilmente le sue scelte. Per Hegel quindi qualsiasi individuo non può, anzi non deve, agire in modo autonomo e personale poiché esso si trova all’interno di un sistema di relazioni interpersonali e valori che devono essere rispettati: lo Stato etico diviene quindi il soggetto del bene e del male e ciò che sostiene e condiziona le scelte del singolo.

Hegel biasima l’individualismo liberale e borghese vagheggiando un ritorno consapevole alla bella eticità greca, all’unità sovra-individuale tra cittadino e Stato che caratterizzava appunto le poleis greche. Il filosofo perciò, come verrà in seguito contestato sul piano filosofico-esistenzialista da Kierkegaard, considera l’individuo sempre e solo in una relazione di appartenenza ad una collettività dimenticando l’unicità del singolo: per dirlo come Ludwig von Mises, è solo l’individuo che pensa, ragiona e agisce, non il popolo o qualsiasi altra collettività, che sono solo dei concetti astratti non dotati di alcuna volontà propria. 

Spiegato il concetto di eticità, possiamo adesso parlare in dettaglio dello Stato etico hegeliano, ovvero la ri-affermazione dell’unità familiare superando e mantenendo la conflittualità della società civile.

Per Hegel lo Stato è la massima espressione etica nonché l’incarnazione suprema della moralità sociale e del bene collettivo: è il mezzo necessario, non tanto alla soppressione, quanto all’indirizzare tutti gli interessi individuali, i particolarismi, verso un qualche bene comune e collettivo; cito ad esempio un passaggio abbastanza celebre che riguarda la libertà di commercio: 

Questo interesse [la libertà economica individuale] richiede libertà contro la regolamentazione dall’alto, ma più ciecamente ha radici in uno scopo egoistico, e quindi deve essere riportato [dallo Stato] all’universale e le sue pericolose convulsioni devono essere abbreviate e mitigate.

G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, 1821

Il bene comune tuttavia è un concetto vago ed indefinito che è stato usato in passato per giustificare scelleratezze di vario genere commesse dai vari regimi comunisti, fascisti e nazional-socialisti. 

Gli individui hanno interessi spesso divergenti, ed è giusto così; può capitare però che essi si possano organizzare spontaneamente, dal basso diciamo, per raggiungere un obiettivo comune stabilito da loro stessi, che abbia per loro una qualche utilità.

Il bene comune dello Stato Etico, pianificato dall’alto, si raggiunge invece solo tramite un completo annullamento delle libertà individuali volto a coadiuvare gli sforzi dei singoli individui verso questo “bene” collettivo.

Per dirlo con le parole di Friedrich Von Hayek, la via che si percorre in quest’ultimo caso è quella della schiavitù, della pianificazione e dell’organicismo, in cui l’individuo è ridotto a singolo ingranaggio del tutto sacrificabile alla grande causa (il trionfo del proletariato per i socialisti, il trionfo della nazione e della razza per i fascisti e nazisti).

La divinizzazione dello Stato

La filosofia politica hegeliana può essere accusata di “statolatria”: Hegel definisce lo Stato “l’ingresso di Dio nel mondo” o “volontà divina; possiamo allora ben comprendere che lo Stato Etico è considerato un’istituzione superiore, fondamentale per congiungere spirito soggettivo (l’individuo) e Assoluto, i cui burocrati e funzionari sono addirittura definiti come coloro “che hanno per occupazione gli interessi universali della situazione sociale”.

Tuttavia, l’apparato statale non è composto da individui illuminati (dalle anime auree come diceva Platone) ma bensì è formato da comuni esseri umani, dotati degli stessi difetti di me che sto scrivendo questo articolo o di te che lo stai leggendo. Una riflessione interessante, che sembra quasi una risposta alla citazione precedente, ci viene offerta da Bastiat nel suo pamphlet La legge (1850):

Poiché le tendenze naturali dell’umanità sono abbastanza cattive perché le si debba togliere la sua libertà, come è possibile che le tendenze degli organizzatori siano buone? I Legislatori [lo Stato] e i loro agenti non fanno parte del genere umano? Si credono di un altra pasta rispetto al resto degli uomini? […]Hanno dunque ricevuto dal cielo una intelligenza e delle virtù che li pongono al di fuori e al di sopra dell’umanità? Essi vogliono essere pastori e vogliono che noi siamo gregge

F. Bastiat, La Legge, 1850

La nuova impostazione organicista proposta rifiuta quindi la concezione liberale dello Stato, intesa come istituzione volta a garantire i diritti degli individui, visione che Hegel disprezza in quanto sarebbe garante dei soli particolarismi smettendo di essere il “ponte” tra individuo e Assoluto; egli scrive infatti:

Se lo Stato vien confuso con la società civile e la destinazione di esso viene posta nella sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà personale, allora l’interesse degli individui come tali è il fine estremo per il quale essi sono uniti.

G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, 1821

Lo Stato etico hegeliano è quindi fondato non tanto sugli individui quanto sull’idea di Stato ed è proprio quest’ultimo che fonda gli individui stessi, sia da un punto di vista storico-cronologico, visto che lo Stato nasce prima degli individui, sia da un punto di vista assiologico, poiché lo Stato è superiore agli individui come il tutto-universale è superiore alle parti e al particolare.

Hegel abbandona perciò sia il modello contrattualista, dato che ritiene l’idea che lo Stato nasca da un contratto tra individui come un insulto all’assoluta autorità e maestà dello Stato, sia la prospettiva giusnaturalista, dato che è impossibile che gli individui posseggano dei diritti prima dell’esistenza dello Stato stesso.

Storicismo e totalitarismo

Concludo questo articolo parlando del perché Hegel è ascrivibile tra i padri del pensiero totalitario. Per fare ciò, basta porsi una semplice domanda: “Come può uno Stato del genere sopravvivere?”.

Hegel essenzialmente sostiene che la sfera dello Stato non sia soggetta ad alcun tipo di limitazione:

Il benessere di uno Stato ha una giustificazione del tutto diversa che non abbia il benessere dell’individuo [e non può in alcun modo dipendere da quei pensieri universali che vanno sotto il nome di principi morali].

G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, 1821

Il filosofo tedesco, distaccandosi nettamente dalla tradizione kantiana, ritiene inoltre che non possa esistere un’organizzazione sovra-statale in grado di mantenere la pace tra Stati esaminando le loro pretese: da questo deriva anche l’abbandono del cosmopolitismo pacifista di Kant. In Hegel infatti troviamo l’esaltazione della guerra e della lotta come strumento di affermazione non solo necessario e inevitabile ma anche con un grande valore morale, dato che preservebbe il popolo dalla “fossilizzazione”.

Se ciò non dovesse aver ancora convinto, ci viene in soccorso Karl Popper, uno dei critici più duri della filosofia e metodologia hegeliana.

Il filosofo austriaco parte da una critica delle filosofie storiciste-oracolari, ovvero tutte quelle filosofie che hanno preteso di cogliere un senso oggettivo e globale della storia, secondo le quali essa tenderebbe verso un destino al quale gli uomini dovrebbero uniformarsi.

I principali esponenti di correnti di pensiero di questo tipo, secondo Popper, sono Eraclito, Comte, Platone, Marx ed ovviamente Hegel.

Accanto a critiche di natura epistemologica (ipotesi di un senso precostituito della storia, confusione tra leggi e tendenze) si affianca quella che è una contestazione squisitamente politica; per Popper nello storicismo è sempre annidata un’ideologia utopica e totalitaria, fatta di fanatismo e dogmatismo politico dove la collettività o lo Stato soffocano inevitabilmente l’individuo: se si ritiene infatti che la storia possegga un senso e una direzione oggettivi, coloro che si ritengono i portavoce del suo destino non avranno alcuna esitazione a liquidare, anche fisicamente, chiunque si opponga ad essi ed alla direzione che la storia deve prendere:

“Marx ed Hegel sostituirono […] alla Natura divinizzata la Storia divinizzata […]. “I criminali che si oppongono vanamente al corso della storia” prendono il posto dei peccatori contro Dio; e impariamo che non Dio, ma la Storia (delle “Nazioni” o dei “Popoli”) sarà il nostro giudice.

K. R. Popper, Congetture e Confutazioni, 1963

Perché non sarai mai ricco se hai una mentalità socialista

Tra Filosofia e Comportamento

Prima di leggere è bene spiegare che nell’articolo non si andrà ad indagare su quelle che sono le ideologie, le dottrine o i pensieri degli esponenti delle diverse correnti, ma si andrà a valutare il comportamento delle persone, le loro scelte di vita e quindi la loro mentalità.

Mentalità Socialista ed Ideologia Socialista

Bisogna mettere in chiaro che avere una mentalità socialista è ben diverso da essere socialista. L’ideologia politica, purtroppo o per fortuna, non sempre combacia con la mentalità che si ha. Questo per via dell’ignoranza della popolazione sulle grandi dottrine economiche oppure perché si crede romanticamente a un’idea, salvo poi avere una mentalità totalmente diversa nella pratica.

Pertanto, esistono comunisti e socialisti con una mentalità individualista e liberali con una mentalità socialista, sebbene questi ultimi siano un po’ più difficili da trovare.

Cos’è la Mentalità Socialista?

La mentalità socialista si distingue dalla mentalità individualista per la responsabilità. Una persona dalla mentalità socialista tende a spostare verso l’esterno le cause dei mali che egli vive, delle condizioni in cui versa. Chi ha una mentalità socialista dà la colpa allo Stato, chiede più Stato o chiede che sia lo Stato ad occuparsi di lui.

Una persona con una tale mentalità la riconoscete perché tende con facilità a scaricare la responsabilità verso terzi, ad autoassolversi da ogni responsabilità. Egli è vittima delle circostanze, spesso perché dimenticato dalle istituzioni, come ama ripetersi.

Chi condivide la mentalità socialista ha sempre bisogno di qualcosa o qualcuno che si debba occupare di lui, il perenne bisogno di un padre che risolva i suoi problemi e lo salvi dalle sue disgrazie.

Con questa definizione riusciamo subito a capire che molti imprenditori hanno una mentalità socialista, ossia aprono un negozio/impresa o una partita Iva per crearsi un lavoro libero da “padrone”, si assumono responsabilità da imprenditore, ma poi sono pronti a scaricare ogni responsabilità se le cose vanno male (la crisi, lo stato, i cinesi, l’Europa, le tasse etc..) con una perenne aria di vittimismo.

La mentalità socialista è parte integrante della società italiana. La potete trovare anche in coloro che si professano anticomunisti, specie in quelli più aggressivi che attaccano direttamente i comunisti non risparmiando insulti, salvo poi essere, molte volte, più comunisti dei comunisti stessi. Ma anche tra sedicenti liberali c’è una forte mentalità socialista ed ora sapete come individuarla con facilità.

I politici sono i primi a diffondere questa mentalità scaricando le proprie colpe sull’Europa, l’Euro e gli altri Paesi, piuttosto che assumersi la responsabilità delle scelte fatte fino a quel momento. Scaricare la propria responsabilità su terzi è da una parte comodo e dall’altra parte un po’ da codardi.

I partiti socialisti (o comunisti) sono soliti prendersela con gli imprenditori, senza capire che la gran parte del tessuto imprenditoriale italiano ha una mentalità socialista. Non è il lavoro che si svolge o il partito a cui si è iscritti a determinate il tipo di mentalità che si ha.

La Mentalità Individualista

Dalla parte opposta dello spettro c’è la mentalità individualista. Essa, innanzitutto, si distingue dall’egoismo, pertanto è bene fare una prima distinzione. Chi è egoista pensa solo alla soddisfazione del sé. La soddisfazione del sé non è un atto di responsabilità, ma piuttosto la ricerca di un vantaggio che sia solo a proprio beneficio o della cerchia più ristretta.

Pertanto l’egoista potrebbe anche avere una mentalità socialista, basti pensare a quegli imprenditori che chiedono aiuti allo Stato, per poi evadere o sfruttare il lavoro in nero per pagare il meno possibile i propri operai, oppure a quegli imprenditori che si battono per evitare di far aprire concorrenti nella loro zona d’influenza chiedendo allo Stato maggiori regolamentazioni a danno dei consumatori, ma a loro preciso beneficio.

Dall’altro lato sono molti gli esempi, invece, di individualisti (o capitalisti come vengono definiti dai più) che hanno donato milioni a fondazioni benefiche o hanno costruito ospedali e scuole in luoghi disastrati[1].

La mentalità individualista si contrappone alla mentalità socialista per il suo approccio alla responsabilità. Mentre la mentalità socialista scarica verso l’esterno la responsabilità, la mentalità individualista si assume la responsabilità delle sue scelte e delle conseguenti condizioni.

Non importa quanto sia svantaggiata la sua condizione di partenza o gli effetti che le sue scelte abbiano provocato, chi ha una mentalità individualista cerca un modo per migliorare la propria vita assumendosi la responsabilità della sua futura condizione o dei problemi che egli stesso ha creato, anche se ciò comporta immani sacrifici.

Condizione di Partenza e Paese d’origine

Se parliamo di solo successo economico, è chiaro che il Paese di origine possa influenzare molto le possibilità di ottenerlo, non a caso nei paesi più liberali e liberisti diventare/essere ricchi è più facile, rispetto ai paesi più socialisti e meno aperti al libero mercato.

Un’eccezione è costituita dalla Cina, che sebbene non sia liberale è comunque liberista. Un secondo fattore che può influenzare il successo è la condizione di partenza, è chiaro che chi ha una famiglia più agiata abbia meno difficoltà, ma è davvero così? Uno studio rivela che il 78% dei nuovi milionari è partito da una condizione di povertà o di classe media[2].

Mentalità Individualista Vs Mentalità Socialista

Essere consci che si è artefici del proprio destino è il primo passo per poter migliorare la propria vita. Riflettete, perché una persona, il cui pensiero è che le cose non possano cambiare perché dipendono dall’esterno, dovrebbe mai impegnarsi in qualcosa?

Sarebbe uno sforzo inutile, al pari di voler abbattere una sequoia secolare a mani nude. Perché una persona in sovrappeso, che pensa che siano le sue “ossa grosse” a farlo essere in sovrappeso, dovrebbe mai impegnarsi per andare in palestra o a correre?

Perché una persona povera, il cui pensiero è quello che lo Stato debba prendersi cura di lui, e che se è povero è solo colpa dello Stato, dovrebbe mai impegnarsi per migliorare la sua condizione economica?

Una persona con una mentalità individualista, invece, sa che la sua vita dipende maggiormente dalle sue scelte, tutto dipende dalle sue azioni, ecco che quindi si opera per migliorare la propria condizione. Alla fine, se siamo principalmente noi artefici del nostro destino, è meglio muoversi fin da subito.

Ovviamente è molto difficile trovare una persona con una mentalità totalmente socialista o totalmente individualista, il più delle volte si tende da una parte o dall’altra.

In conclusione, voi che tipo di mentalità avete? Tendete ad assumervi la responsabilità individuale delle vostre scelte oppure a scaricarla sugli altri?

 

 

[1] – https://www.businessinsider.com/most-generous-people-in-the-world-2015-10?IR=T
[2] – https://millionairefoundry.com/millionaire-statistics/

Il liberismo, il sistema economico di Adam Smith

 

Esistono uomini che lasciano il segno, individui che condizionano con il loro sistema di pensiero un’epoca intera, per non dire secoli di storia sociale e globale. Lo spirito dei tempi, la genialità umana, la cultura e il sapere hanno prodotto menti lucidissime, intelligenze ineguagliabili, studiosi che hanno dato il loro contributo a forgiare un sistema capace di resistere allo scorrere dei tempi, all’erosione del ticchettio delle lancette.

Adam Smith (1723-1790) è stato uno di questi. Egli ha dato un contributo eccezionale allo sviluppo di una disciplina che condiziona la vita di tutti i giorni: l’economia. Fu il primo che riuscì  a sganciare dalla filosofia e, in particolare, dalla filosofia morale, la scienza economica. Egli fu il primo economista classico, il pensatore sistematico che fondò una nuova disciplina: l’economia politica, intesa in senso stretto, come studio e analisi del sistema economico capitalistico oppure-in termini microeconomici-come scienza sociale che indaga il comportamento umano in maniera razionale per allocare in maniera ottimale le poche risorse disponibili.

 

Dopo Smith l’Occidente si è diviso in due agguerrite categorie: i sostenitori radicali del suo sistema, come la scuola austriaca, gli anarco-capitalisti-, i neoclassici, i liberali, liberisti, i libertariani, i minimalisti, e i critici più polemici del suo pensiero come gli statalisti, i marxisti, i collettivisti, i Keynesiani, i sovranisti e i protezionisti. Quali sono, quindi, le idee principali di Adam Smith?

Egli riuscì a sintetizzare come in un mosaico gli elementi cardine del capitalismo, nella sua opera principale: “La ricchezza delle nazioni”, pubblicato nel 1776.  Il primo principio che permette un aumento dello sviluppo e della produttività è la divisione del lavoro. Questa divisione porta i suoi benefici all’interno dell’intero sistema economico garantendo la supremazia dello scambio e del mercato; un’entità libera da dogane, dazi e protezionismi interni. Un altro principio, leitmotiv del liberismo, è la superiorità del libero mercato , della libera iniziativa economica. Ogni intervento dello Stato nell’economia  è considerato- da Smith-inopportuno, scandaloso e inefficiente. Smith a tal proposito per limitare lo strapotere della pianificazione statale, dramma odierno della burocrazia italiana, ipotizzò l’esistenza della cosiddetta “Mano invisibile”. La presenza della mano invisibile permette di realizzare un ordine sociale che soddisfa l’interesse generale e la convergenza spontanea degli interessi personali verso il benessere collettivo.

Demonizzando l’intervento dell’autorità statale, la mano invisibile permette un equilibro solido e duraturo dei mercati: Domanda e offerta di un bene o di una merce su differenti mercati tendono ad uguagliarsi e a rimanere in equilibrio. Quali sono le lezioni più importanti che possiamo ricavare dalle teorie di Smith? La libertà dell’individuo, la sua priorità rispetto alla collettività, la necessità di un capitalismo che non sia solo esorcizzato ma valorizzato: attraverso il capitale, nonostante crisi e incertezze generali, attraverso investimenti razionali, con una ridotta tassazione, attraverso la libera iniziativa è stato possibile creare ricchezza, comfort e benessere su larga scala.

È stato il capitalismo che ha fornito, nei paesi liberali, la possibilità di mettersi in gioco. È grazie al libero mercato che è stato possibile evitare qualsiasi deriva autoritaria e dittatoriale. Lo scrisse anche Friedrich Von Hayek, economista liberista, ad affermarlo nella sua opera “Verso la schiavitù “: il capitalismo teorico legittimato da Smith ci ha salvato più volte dalla “dittatura” dei nazionalismi, dei protezionismi, e dalle demagogie insite nel pensiero populista. 

 

 

 

Alcuni autori per conoscere il pensiero libertario

La libertà è il valore più importante per l’essere umano. Eppure quando cerchiamo di definirla, di catturarla o spiegarla attraverso simboli o concetti, ci troviamo di fronte a problemi insormontabili: tentare di definirla equivale a limitarla. 

Non è così per quell’insieme di filosofie politiche che cadono sotto la categoria del libertarianismo, corrente raffinata e pluralistica che considera la libertà come il più alto fine politico, senza restrizioni o imposizioni esterne, in primis statali. La libertà, secondo i libertari, si esplica in numerose forme: la libertà politica, la libertà individuale e la libertà economica come fulcro dell’intero assetto societario. Ben lontani dalla pedante distinzione di Benedetto Croce tra liberalismo e liberismo, che non ritrova riscontri nella terminologia e nel vocabolio anglosassone, il libertarianismo si rifà completamente al sistema economico capitalista, all’economia di mercato, alla politica economica del Laissez-Faire. Ovvero alla piena capacità dei mercati di equilibrarsi spontaneamente senza l’intervento dello Stato. 

Ed ecco il grande nemico della libertà: lo Stato, questo meccanismo astratto, questa potente macchina burocratica, questo Leviatano intollerante e artificioso, sovrano e paternalista. Con la biforcazione delle correnti del libertarianismo, troviamo differenti idee su come lo Stato possa e debba agire, ammesso che debba esistere. 

I miniarchisti prospettano uno Stato ridotto alla minima funzione di garante della libertà, un “guardiano notturno” della tradizione liberale, che deve garantire il rispetto dei contratti tra liberi individui.

Autori che hanno una valenza significativa nella teoria del miniarchismo sono, nel pantheon dei classici, John Locke ideatore del liberalismo classico, Friedrich Von Hayek della Scuola austriaca e Robert Nozick autore, tra le altre cose, della celebre opera Anarchia, Stato e utopia

Dall’altra parte della barricata si trovano, invece, gli anarco-capitalisti. Questi ultimi, attraverso una valida e argomentata filosofia, propongono l’eliminazione totale dello Stato, del suo monopolio nell’economia (attraverso l’abbattimento del regime delle imposte), nella sanità, nell’istruzione e nella giustizia.

Al posto di questo “meccanismo infernale”, l’anarco-capitalismo propone radicalmente una società di liberi individui legittimata da un sistema di privatopie. Entità territoriali auto-organizzate, capaci di offrire servizi di libero mercato, l’adesione volontaria degli individui alla regole della comunità, escludendo a priori l’esistenza di nazioni ed entità sovranazionali. La giustizia, il benessere e la pace della società, improntata al più vasto individualismo metodologico, può basarsi sul principio di non aggressione, insito nella natura umana. 

L’autore più influente della filosofia anarco-capitalista è stato Murray Newton Rothbard, già autore di un’opera straordinaria: For a new liberty.

In Italia, nonostante questo paese sia la culla dello statalismo assistenzialista, insieme alla figura del giurista “liberista” Bruno Leoni, il libertario per eccellenza impegnato in questa battaglia per la tutela libertà totale, contro qualsiasi collettivismo, è Leonardo Facco. Studioso ed editore poliedrico, critico e polemico, è stato autore di un libro del 2009 che fece molto scalpore: Elogio dell’evasore fiscale. All’interno del manuale possiamo trovare delle valide soluzioni per una rivolta fiscale densa di significato, improntata alla razionalità categorica. 

A livello internazionale occupa un posto di primo piano nel panorama libertario Javier Milei, economista argentino, promotore di una robusta critica al sistema politico vigente, figura presente nei dibattiti televisivi capace di sfoderare le armi della dialettica contro ogni censura liberticida che vuole soffocare la libertà in nome di un collettivismo socialista o di un assistenzialismo di Stato senza scrupoli. Il pensatore economico argentino ha un motto straordinario capace di infuocare gli animi libertari per tenere vivo il valore sacrale della libertà, contro coloro che vorrebbero sottrarcela:

Viva la libertad, carajo!

 

Chi è il liberalconservatore di oggi?

Oggi il termine “conservatore” è diventato quasi una parolaccia, “liberale” è un insulto, “liberista” non ne parliamo; al contrario “nazionalista” viene percepito come un titolo di encomio. Che fine hanno fatto però i liberalconservatori? Chi è il liberal conservatore?

Oggi il termine sembrerebbe una contraddizione, ma in realtà non lo è. Minoranza di una minoranza (i liberali), i liberalconservatori sono ritenuti ambigui proprio per la loro attitudine positiva verso il laissez-faire in economia e il conservatorismo relativo in alcuni cosiddetti valori, sebbene siano aperti alla cosiddetta “nuova generazione” dei diritti, senza dimenticare la centralità e l’unicità dell’individuo.

Nell’economia e nella società, il mercato è la loro guida. Sono tante le sfumature di liberalismo; le versioni occidentali non-anglosassoni, come evidenziato da Friedrich von Hayek, cercano disperatamente di tenersi alla larga dal liberalism, a cui si ispirano i movimenti del centrosinistra (e dalla ex Terza Via, in voga negli anni Novanta), che con John Locke o Adam Smith hanno poco a che fare.

Innanzitutto, quando si tenta di identificare i liberalconservatori c’è storicamente un’enorme confusione nei termini da utilizzare per definire la categoria. «Moderati, liberali, centristi: non sono sinonimi» ha scritto Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 26 giugno 2019). Inoltre: «Un moderato è uno che non sopporta né le urla né le semplificazioni/banalizzazioni» (in questo senso, è avversario supremo dei demagogo-populisti di destra e di sinistra); «un moderato non è necessariamente un liberale: erano moderati (ma non liberali) quegli elettori della Democrazia Cristiana […] che accettavano come normale un livello di intrusione statale nella vita economica tale da suscitare la ripulsa dei (pochi) liberali allora in circolazione.»

In Italia il liberalismo non ha attecchito granché (non stupisce dunque l’assenza o quasi dei liberalconservatori), ma sebbene la cultura liberale sia poco studiata e applicata in diversi campi sociali, questo non vuol dire che non sia presente.

Ai margini della vita politica ed economica del paese, i liberalconservatori vanno distinti categoricamente dalla destra sociale (quella sì ben presente in Italia), che a livello economico ha sempre promosso ricette e formule, semplificando, para-socialiste. La destra (più o meno sociale) non è affatto mancata nell’Italia repubblicana e non è stata neppure tanto una minoranza (sebbene mai maggioranza).

Solo nella cosiddetta Seconda Repubblica ce ne sono state addirittura tre: una postfascista, corporativista, antiliberale, nazional-statista (l’ex Movimento Sociale, poi Alleanza Nazionale, oggi Fratelli d’Italia); una leghista, protezionista, localistica, secessionista, anti-nazionalistica prima (Lega Nord 1987-2012) e nazionalista e a tratti xenofoba poi (Lega 2013 oggi); una berlusconiana, confusamente colbertista, a parole liberale, vagamente post-democristiana, antistatalista, affaristica (Forza Italia 1994-2008, Popolo della Libertà 2008-2013, Forza Italia 2013-oggi?).

A sua volta, la destra (di nuovo, più o meno sociale) va distinta dal “conservatorismo”. Secondo Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 1° ottobre 2016), «cultura conservatrice vuol dire identificazione ragionata con il lascito del passato, con gli edifici, il passaggio e i costumi di un luogo, l’attaccamento ai valori ricevuti […]; e poi senso delle istituzioni, considerazione non formale per i ruoli, i saperi, le competenze, rispetto delle regole.»

In tutto questo, c’è poco di liberale, ma un ponte primordiale con tale micro-universo politico lo aveva gettato nel 1972 nel Manifesto dei Conservatori Giuseppe Prezzolini, secondo cui «il Vero Conservatore si guarderà bene dal confondersi con i reazionari, i retrogradi, i tradizionalisti, i nostalgici, perché il Vero Conservatore intende “conservare mantenendo”, e non tornare indietro a fare esperienze fallite». In questo paradossale “progressisimo”, è vicino al liberale. Il conservatore può essere moderno e molto vicino a quest’ultimo (come ha spiegato proprio von Hayek). I due non sono incompatibili.

Una figura controversa nel mondo tradizionalista come Giovannino Guareschi scrisse ad Alcide De Gasperi sintetizzando bene alcuni elementi liberal-conservatori: «Siamo noi, […] noi cittadini liberi […] Noi che siam […] cristiani pur rifiutando sdegnosamente di metterci in testa papaline colorate, noi che sentiamo la necessità di una migliore giustizia sociale ma che mai accetteremo di fare alcunché di demagogico. Noi che per vivere dobbiamo lavorare duramente come l’ultimo dei proletari ma abbiamo l’orgoglio di essere borghesi. Noi che siamo per l’ordine ma che odiamo ogni tipo di dittatura. Noi che siamo per il trionfo dell’individuo ma non ammettiamo il divismo. Noi che abbiamo orrore della guerra ma che non ci siamo mai sottratti […] ai nostri doveri di cittadini […] Noi che sosteniamo il diritto di scioperare ma che non abbiamo scioperato mai […] Noi che vogliamo il trionfo dei nostri diritti ma ci preoccupiamo, prima di ogni altra cosa, di fare il nostro dovere.» (Il Candido, 1948, riportato da Bombardate Roma! di Mimmo Franzinelli).

Interessanti considerazioni su cosa sia un conservatore oggi – e quest’ultimo va conosciuto e studiato per differenziarlo dal liberale – le ha fatte Gian Enrico Rusconi nel suo Dove va la Germania?, in cui ha stabilito chiaramente le differenze tra il mondo conservatore e quello della destra (sociale): «Il conservatore sa che il cambiamento generale non può essere impedito: vuole dare forma a questo cambiamento. Il tradizionalista decide che tutto deve rimanere com’è. Il reazionario vorrebbe far tornare indietro la ruota del cambiamento. Il conservatorismo non conosce verità eterne, al contrario: […] difende oggi quello che ieri ha combattuto». Cosa che non è del tutto estranea all’immoderatezza, all’anticonformismo e all’effervescenza liberale.

A dispetto di quanto afferma chi lo identifica come populista, «il conservatore accetta la pluralità delle culture e la loro coesistenza. Quello di destra invece è un modo di pensare che mette al primo posto la (presunta) omogeneità del proprio gruppo, ed è indifferente verso le altre culture e forme di vita finché non interferiscono con la propria»; parliamo dei nazionalisti-populisti, o altrimenti detti, sovranisti. Profondamente collettivisti e, come tutti i collettivisti (di destra e di sinistra) – seguendo Ayn Randrazzisti.

Non da ultimo, continua Rusconi, «una differenza fondamentale tra conservatori e destra sta nel linguaggio. I conservatori sanno che molte delle loro richieste […] non trovano consenso maggioritario, ma non per questo recriminano parlando di “terrorismo” nei loro confronti o di “stampa bugiarda”, quando le loro opinioni non sono accolte. Un vero conservatore considera l’ordinamento liberale della società un valore in sé e la difesa più grande contro i tentativi autoritari.» Un conservatore è moderato individualista (lo è anche il liberale); un nazionalista è un estremista collettivista. I ponti tra liberali e conservatori ci sono. I liberalconservatori esistono.

 

La critica a Keynes della Scuola Austriaca

All’interno della fenomenologia teorica dell’economia odierna, nei meandri delle accademie e dei dipartimenti di studi economici, domina incontrastato un approccio unico e incontestabile: il paradigma keynesiano. Quest’ultimo, nato sotto l’effige dell’economista John Maynard Keynes, sviluppato nei suoi punti chiave nella sua mostruosa opera principale “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”, pubblicato nel 1936, considera l’intervento dell’autorità statale nei periodi di crisi economica indispensabile per poter far ripartire i consumi e la produzione.

Secondo Keynes, l’autorità statale, attraverso lo stimolo della domanda aggregata e con iniezioni significative di liquidità, può emendare il problema dell’eccesso di disoccupazione oltre la soglia di normalità per il sistema capitalistico. Se guardiamo bene alla storia, tuttavia, ci accorgiamo che le teorie di Keynes sono state utilizzate in gran parte come meri strumenti ideologici e politici.

L’economista britannico che vide applicate le sue teorie con il piano del “New Deal” di Roosevelt, ha goduto di successo e onori per un semplice motivo: la classe politica, nelle sue opere, venne paragonata paragonata  all’ingegneria sociale, capace di estirpare i malesseri sociali. Laddove “falliva” il mercato, interveniva il politico, il settore pubblico, coadiuvato dall’interesse generale.

I discepoli di Keynes- animati dalla “General theory”- videro, tuttavia, smentite le loro teorie economiche con la stagflazione degli anni ‘70 in seguito allo stock petrolifero. La stagflazione comporta un aumento dei prezzi e, in contemporanea, la mancanza di crescita economica. Insomma, Keynes fallì completamente analisi e riflessioni. Lo notiamo nella dimensione stessa del cosiddetto (così lo definì Kahn) moltiplicatore keynesiano.

All’ammontare della spesa pubblica, degli investimenti, o dei consumi, per quale motivo dovrebbe aumentare in percentuale in funzione delle variabili macroeconomiche il reddito nazionale? Esiste un’altra Scuola, un altro importante approccio economico che merita di essere menzionato ed analizzato attentamente: è la Scuola Austriaca di economia.

Gli studiosi austriaci furono altamente innovativi grazie alle loro analisi economiche e delle scienze sociali. All’interno del pantheon economico austriaco ritroviamo il meglio degli economisti classici come Adam Smith, l’analisi della natura umana di David Hume, le più prestigiose e raffinate teorie psicologiche sull’individuo, la critica economia di Bastiat. Una teoria, quindi, che si adegua all’uomo e alle sue esigenze più profonde.

Il punto di partenza risiede nella presa di coscienza della razionalità umana: l’uomo è un individuo razionale (non nel senso economico inteso come consapevole di tutte le informazioni) capace di prefiggersi degli obiettivi e dei fini che può raggiungere con determinati mezzi. Nata nel 1871 con l’opera di Carl Menger “principles of Economics”, l’indirizzo economico austriaco, che prende spunto dalle minuziose riflessioni -come affermò Rothbard- della Scuola di Salamanca del XV secolo, ebbe dalla sua parte studiosi del calibro di von Mises, von Hayek (premio nobel dell’economia nel 1974), lo stesso Rothbard, Schumpeter e molti altri ancora. In opposizione all’analisi del “Das Kapital” di Marx e andando oltre gli stessi classici, l’economia austriaca si basa su degli “assiomi” incontestabili, a partire dalla prasseologia (filosofia della prassi) umana. 

Ciò comporta l’utilizzo del metodo deduttivo e una nuova e più completa teoria del valore: a differenza degli economisti classici, gli austriaci danno priorità non alla quantità del lavoro necessario a produrre una merce, ma al valore utilità, capace di soddisfare l’esigenza del consumatore. Inoltre gli austriaci, fedeli alla filosofia dell’individualismo metodologico che ha animato i movimenti libertari, credono nel libero mercato, che raggiunge spontaneamente la miglior situazione per produttori e consumatori senza intervento esterno dei policy maker. Gli Austriaci difendono con tenacia la proprietà privata che è la elemento traino del Diritto naturale.

La tutela del singolo individuo si sgancia, quindi, dalla pianificazione statale. Le teorie di questi studiosi possono permettere, nel mondo moderno, una presa di coscienza di ciò che può essere l’economia e una critica seria di quelle sovrastrutture economiche che limitano la libera iniziativa. Non sarà Keynes, questa volta, (e l’ ha ricordato il Fondo Monetario Internazionale indirettamente) a “salvarci” dalla crisi economica e dalle conseguenze nefaste nel settore industriale per una causa esogena: quella del Coronavirus.

Pillola – la visione liberale della libertà

Poiché solo il liberalismo anglosassone convenzionalista ed evoluzionista costituisce una tradizione liberale omogenea e coerente con se stessa, è legittimo ricercare in esso il concetto liberale della libertà. Agire in questo modo significa però circoscrivere la propria ricerca in essa e non nella tradizione costruttivista continentale.

Questo comporta rifiutare la tipica distinzione continentale (ma soprattutto italiana, in cui il celebre Benedetto Croce indicava per “liberalismo” il liberalismo politico e per “liberismo” il liberalismo economico, terminologia che – intenzionalmente o meno – attribuisce chiaramente maggiore importanza alla dimensione politica della concezione liberale) tra liberalismo politico e liberalismo economico intesi da essa come scindibili.

Per la tradizione inglese, invece, i “due liberalismi” sono inseparabili. Ciò perché il ruolo del governo come agente limitato a imporre il rispetto delle norme di condotta generali (fulcro della tradizione inglese) toglie al governo il diritto/potere di internarsi in queste norme e coordinare e dirigere le attività economiche degli individui liberamente associati.

Se, al contrario, il governo avesse questo potere, esso sarebbe dotato di un potere arbitrario e discrezionale, il quale culminerebbe nel controllo economico quindi nella limitazione di tutte quelle altre libertà – di carattere anche non economico – che il liberalismo si propone di garantire come proprio principio. La libertà nella legge implica che gli individui siano anche economicamente liberi, poiché quando si controllano i mezzi economici si controllano, essenzialmente, gran parte dei mezzi attraverso cui gli individui giungono ai propri fini soggettivi.

Accettando quanto detto sopra, può apparire che tra le due correnti liberali sopracitate, sulla materia della libertà individuale, dunque anche del rispetto della libertà personale, sussista una differenza importante. Nell'”epoca d’oro” del liberalismo, libertà individuale significava in sostanza ciò che in storia delle idee viene denominata libertà negativa, ovvero libertà dalla coercizione arbitraria, quindi libertà da i governi illiberali.

Ma per degli uomini che vivono in società la protezione da tale coercizione significava comunque l’imposizione di un vincolo a tutti gli individui, di una limitazione che li privasse, quindi, di applicare coercizione sugli altri. La libertà di ogni individuo in una società avrebbe dunque potuto essere realizzata solo se la libertà di ciascuno non fosse andata oltre ciò che era compatibile con una eguale libertà per tutti gli altri.

La concezione della libertà da parte di un liberale, che dunque si conforma come libertà nella legge, richiede una legge che limiti la libertà di ciascuno allo scopo di garantire la medesima libertà a tutti (uguaglianza formale, isonomia). Dunque la libertà liberale non coincide con la “libertà naturale” o la “libertà spirituale soggettiva”, ma con una libertà eguale per ogni individuo quando è in società con altri individui, limitata dalle norme indispensabili alla garanzia di se stessa.

In questo senso il liberalimo è da distinguersi chiaramente dall’anarchismo e deve riconoscere che, se tutti devono essere liberi, la coercizione non può essere totalmente eliminata, ma solo ridotta al minimo indispensabile affinché un individuo o un gruppo di individui qualsiasi non possano esercitare oppressione a danno di un altro individuo o gruppo di individui.

Si trattava di una libertà entro una sfera limitata da norme conosciute che permetteva agli individui di non subire coercizioni, finché si fosse mantenuta appunto entro tali limiti. Violare queste norme avrebbe poi potuto significare la perdita di tale libertà garantita da coloro i quali si uniformavano ad esse.

Questa libertà, inoltre, poteva essere garantita solo a chi fosse in grado di osservare le norme intese a garantirla. Soltanto l’individuo adulto e sano di mente, interamente responsabile delle proprie azioni, era considerato legittimo fruitore di tale libertà. Per chi non fosse tale, come i minori e gli psicologicamente invalidi, sarebbero state applicate norme speciali di tutela della libertà.

Questa libertà che sarebbe stata valida solo in quanto esercitata da chi consapevole di sé li avrebbe anche resi, moralmente, responsabili della propria sorte. Ciò in virtù del fatto che il governo dovesse garantire la libertà di ogni individuo senza però intervenire nella sua sorte, nelle conseguenze delle sue azioni.

Questo “sistema” di governo era considerato eccelso per due motivi: primo, il governo avrebbe garantito il massimo vantaggio a tutti, secondo, utilitaristicamente, esso avrebbe spinto/incentivato ogni individuo a essere produttivo al massimo delle sue capacità in ogni sua particolare situazione, ovvero a dare il meglio di sé sempre, che avrebbe risultato in un maggiore benessere collettivo rispetto a qualsiasi diretto intervento del governo.

La concezione liberale della libertà è stata, storiograficamente, definita come negativa, e giustamente. Esattamente come la giustizia o la pace, essa si conforma come un bene in quanto assenza di male: la condizione di pace è un tale in quanto assenza di guerra, la condizione di giustizia è tale in quanto assenza di torto, la libertà è tale se considerata come assenza di coercizione arbitraria.

Si riteneva, però, che sarebbero divenuti disponibili maggiormente dei mezzi per raggiungere diversi fini privati: la libertà negativa, infatti, prevede l’assenza della maggior parte dei vincoli governativi alle attività dei privati individui, sebbene alcune funzioni essenziali di comune necessità fossero accettate come eccezione alla regola nel campo della realtà quotidiana (ex. esercito di difesa, misure cautelari per guerra o epidemie).

Ad ogni modo, nessun supposto vantaggio che l’intervento del governo avrebbe apportato nel campo sociale sarebbe stato circoscritto nel paradigma della libertà negativa liberale; questo sarebbe stato legittimo solo quando, appunto, circostanze strettissime l’avessero invocato.

Il declino di questa concezione di libertà, quindi dell’intero liberalismo, si può datare circa a fine Ottocento, quando essa è stata reinterpretata come libertà come disponibilità, dunque libertà positiva. Ciò ha comportato il declino del liberalismo non in quanto una qualche altra forza politica si è appropriata di tale definizione di libertà, che già esisteva ai tempi della teoria della democrazia radicale di Rousseau, ma in quanto essa è diventata, commettendo un enorme errore, la definizione della libertà liberale. Definizione che oggi è totalmente maggioritaria; lo Stato sociale è ormai una prerogativa di ciò che oggi viene definito “Stato liberale moderno”.