La battaglia non è destra contro sinistra. È statalismo contro individualismo

(Traduzione dell’articolo The Battle Isn’t Right vs. Left. It’s Statism vs. Individualism di Daniel J. Mitchell su FEE.org)

Ho già scritto di come comunismo e nazismo abbiano molto in comune. Entrambi subordinano l’individuo allo stato, entrambi conferiscono allo stato la facoltà di intervenire nell’economia, ed entrambi hanno massacrato milioni di persone.

La battaglia non è destra contro sinistra. È statalismo contro individualismo .

Diamo un’occhiata ad alcuni scritti su questo tema.

Iniziamo con un articolo di Bradley Birzer, pubblicato da Intellectual Takeout. Teme che il totalitarismo a sinistra stia tornando in auge.

Nel 1936 avevi tre scelte: nazionalsocialismo, socialismo internazionale, o dignità. Nel 2018 ci troviamo in circostanze simili. Perché sta accadendo di nuovo? In primo luogo, noi studiosi non siamo riusciti a convincere il pubblico di quanto dannose fossero e restino tutte le forme di comunismo. Quasi tutti gli storici sottovalutano il fatto più importante del Novecento: che i governi hanno assassinato più di 200 milioni di innocenti, il più grande massacro nella storia del mondo. Il terrore regnava tanto nei campi di concentramento quanto nei gulag.

In secondo luogo, un’intera generazione è cresciuta senza conoscere cose come i gulag sovietici o persino il muro di Berlino. La maggior parte dei giovani difensori del comunismo accetta la più antica linea di propaganda della sinistra: che il vero comunismo non è mai stato applicato.

Il fascismo e il comunismo sono due facce della stessa medaglia.

Che i nazionalsocialisti abbracciassero il socialismo è comprovato. Nazionalizzarono l’industria, molto vitale in Germania, anche se con l’intimidazione piuttosto che con la legge. Nei suoi diari personali, Joseph Goebbels scrisse alla fine del 1925: «Sarebbe meglio per noi porre fine alla nostra esistenza sotto il bolscevismo piuttosto che sopportare la schiavitù sotto il capitalismo». Solo pochi mesi dopo, aggiunse «penso che sia terribile che noi e i comunisti ci stiamo picchiando a vicenda».

Qualunque siano le ragioni per la rivalità tra i due partiti, affermava Goebbels, le due forze dovrebbero allearsi e vincere. I fascisti italiani avevano legami ancora più stretti con i marxisti, con Mussolini che aveva iniziato la sua carriera come pubblicista e scrittore marxista. Alcuni fascisti italiani avevano un passato nel Comintern.

Richard Mason fa osservazioni simili in un pezzo che ha scritto per la Foundation for Economic Education.

È superfluo scrivere un articolo per parlare dei milioni di morti che si sono verificati per mano dei regimi comunisti; come l’Olocausto, i gulag dell’Unione Sovietica e i campi di sterminio della Cambogia sono ampiamente noti. Eppure i giornalisti nel Regno Unito sostengono apertamente e con orgoglio il comunismo. Vengono erette statue a Karl Marx. Ai fascisti non è permesso uscirsene con «quello non era vero fascismo». Lo stesso non vale per il comunismo. Poiché Karl Marx non ha mai attuato il comunismo in prima persona, i leader degli Stati comunisti hanno sempre quella carta per cavarsi fuori dai guai.

Tutte le carestie, le tragedie o le crisi che un regime comunista si trova ad affrontare vengono sempre imputate a un’errata applicazione dell’infallibile tabella di marcia di Marx. Puoi anche separare l’ideologia comunista dalla sua applicazione, ma fino a che punto puoi ignorare gli orribili precedenti che il comunismo ha creato? La storia del comunismo è sporca di sangue quanto quella del nazismo; anzi, molto di più. È tempo di trattarla di conseguenza.

Sheldon Richman va più a fondo:

Il fascismo è un socialismo con una facciata capitalista. La parola deriva da fasces, il simbolo romano del collettivismo e del potere: un fascio di verghe legato con un’ascia sporgente. Laddove il socialismo cercava il controllo totalitario dei processi economici di una società attraverso la gestione diretta dei mezzi di produzione da parte dello Stato, il fascismo cercava quel controllo indirettamente, attraverso l’autorità su proprietari solo formalmente privati. Laddove il socialismo ha abolito del tutto i rapporti di mercato, il fascismo ha lasciato l’apparenza dei rapporti di mercato, pianificando tutte le attività economiche. Laddove il socialismo aveva abolito il denaro e i prezzi, il fascismo controllava il sistema monetario e stabiliva politicamente tutti i prezzi e i salari.

Spiega l’enorme differenza tra fascismo e capitalismo:

L’iniziativa economica privata fu abolita. I ministeri, e non più i consumatori, decidevano cosa produrre e a quali condizioni. Il fascismo va distinto dall’interventismo, o economia mista. L’interventismo cerca di guidare il processo di mercato, non di eliminarlo, come fece il fascismo. Nel fascismo, lo Stato, attraverso le corporazioni, controllava tutti gli aspetti della produzione, del commercio, della finanza e dell’agricoltura.

I consigli di pianificazione stabilivano cosa produrre, le quantità, i prezzi, i salari, le condizioni di lavoro e le dimensioni delle imprese. Occorreva una licenza per tutto; nessuna attività economica poteva essere intrapresa senza il permesso del governo. I redditi “in eccesso” dovevano essere consegnati allo Stato sotto forma di tasse o “prestiti”. Poiché la politica del governo mirava all’autarchia, o all’autosufficienza nazionale, il protezionismo era necessario: le importazioni erano vietate o strettamente controllate. 

Non si tratta di teorie nuove. Ecco cosa scrisse Ludwig von Mises su questo argomento negli anni ’40 del secolo scorso.

I marxisti sono ricorsi al polilogismo perché non potevano confutare con metodi logici le teorie sviluppate dall’economia “borghese”, o le conclusioni tratte da queste teorie che dimostravano l’impraticabilità del socialismo. Non potendo dimostrare razionalmente la fondatezza delle proprie idee o la non fondatezza delle idee dei loro avversari, hanno messo in discussione la logica. I nazionalisti tedeschi hanno dovuto affrontare esattamente lo stesso problema dei marxisti.

Anche loro non potevano né dimostrare la correttezza delle proprie affermazioni né confutare le teorie dell’economia e della prasseologia. Così si rifugiarono sotto il tetto del polilogismo, preparato per loro dai marxisti. Naturalmente, hanno la loro versione di polilogismo. Né il polilogismo marxista né quello nazista andarono oltre la dichiarazione che la struttura logica della mente è diversa nelle varie classi o razze. Il polilogismo non è una filosofia o una teoria epistemologica. È l’atteggiamento di fanatici dalla mentalità ristretta.

E questi fanatici sono mossi dall’odio. I nazisti odiano le persone di razza e religione diversa, mentre i marxisti odiano le persone di reddito e classe diversa.

Il Daily Caller riporta la storia di una studentessa che si è arrabbiata molto dopo aver appreso che il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori era… sì, socialista.

La social justice warrior e laureata in storia Shelby Shoup è stata arrestata per aver lanciato latte al cioccolato a un compagno di studi e candidato repubblicano gridando «i nazisti non erano socialisti». È stata accusata di aggressione.

Dato che stiamo facendo umorismo, colgo l’occasione per condividere questo pezzo satirico dei mitici autori di Babylon Bee.

Giovedì, in una conferenza stampa, il leader del partito nazista americano Emmett Scoggins ha dichiarato davanti ai giornalisti che il suo partito non sta cercando di instaurare un nazismo completo, ma un sistema molto migliore chiamato “nazismo democratico”. Scoggins è stato interrogato sull’uso della parola “democratico” e su come il nazismo democratico fosse diverso dal semplice nazismo. «La differenza principale è che aggiungiamo la parola ‘democratico’ perché alla gente piace molto di più rispetto al semplice ‘nazismo’», ha risposto Scoggins. La conferenza si è conclusa con un lungo discorso di Scoggins su come il “vero” nazismo non sia mai stato applicato.

Concludo il mio articolo usando un triangolo per catalogare le varie ideologie.

Qualche osservazione in proposito:

  • Potremmo aggiungere una linea proprio sopra l’autoritarismo, il collettivismo e il socialismo, e dire che le ideologie al di sopra della linea sono democratiche, quelle al di sotto sono dittatoriali.
  • Data la differenza tra la definizione tecnica di socialismo (proprietà del governo, pianificazione centralizzata, controllo dei prezzi) e la definizione di uso comune (molta ridistribuzione), forse dovrei usare “stato sociale” piuttosto che “socialismo democratico”. Ma il risultato è comunque pessimo, comunque lo si chiami.

Mi piace pensare che non ci siano persone civili disposte a tollerare l’ideologia nazista. Ma temo che non si possa dire lo stesso del comunismo. Il capo della Commissione europea ha recentemente tenuto un discorso in Germania per il 200° compleanno di Marx. Aziende come Mercedes-Benz glorificano gli assassini razzisti nella loro pubblicità (parte del culto della morte del Che ), e persino le orchestre usano simboli comunisti.

Quante altre vittime dovranno esserci prima che le persone si rendano conto che il comunismo, come il nazismo, è il male assoluto?

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Lettura consigliata: Il libero mercato e i suoi nemici, L. von Mises

La lezione dei fiorenti mercati neri a Cuba

Il mercato nero è sempre stato considerato una rete di scambio per beni e servizi considerati (generalmente) moralmente sbagliati. Cose come le droghe pesanti, la prostituzione illegale, le armi, sono le prime cose che vengono in mente quando si parla di mercato nero. Eppure, il mercato nero può funzionare per migliorare il benessere generale di una nazione.

Per dimostrarlo non vi è miglior esempio di Cuba.

Cuba è nota per la sua difesa dell’ideologia comunista e per aver attuato diverse politiche comuniste. Nel 2019, il governo cubano ha avviato una politica di controllo totale dei prezzi sui prodotti che i commercianti vendono sul mercato. E sebbene negli ultimi tempi il regime cubano sia stato più gentile nell’aprire settori specifici dell’economia (quelli che non incidono sul potere dei politici), la realtà è che nulla è cambiato in modo radicale.

Come molti sapranno, in un’economia in cui i prezzi sono controllati, c’è scarsità.

Come disse Henry Hazlitt:

La fissazione dei prezzi e dei salari è sempre dannosa. Non c’è un modo giusto di farlo. Non esiste un modo giusto di fare una cosa sbagliata. Non esisterà mai un modo giusto di fare qualcosa che non dovrebbe mai essere fatto. E’ impossibile definire un prezzo equo o un profitto equo o un salario equo al di fuori del mercato, al di fuori delle regole della domanda e dell’offerta.

E’ il caso di Cuba, dove di recente ci sono state proteste per la scarsità di cibo e medicinali; questo in un Paese il cui principale argomento di propaganda è la difesa dei lavoratori dai capitalisti e la tutela del benessere del popolo. Tuttavia, i politici che governano l’isola – in primis la famiglia Castro – non hanno le conoscenze economiche di base per sapere che se si pone un tetto ai prezzi di un prodotto, si può provocarne la scarsità.

Ma ciò che è ancora più dannoso è che, stabilendo dei prezzi fissi, l’economia che una volta funzionava e che poteva allocare le risorse in modo efficiente, smette di funzionare.

Ai cubani piace chiamare questo fenomeno “blocco interno” come risposta satirica a chi sostiene che la causa principale della distruzione economica di Cuba sia l’embargo. Sebbene l’embargo possa causare alcune difficoltà nelle operazioni di diverse microimprese sull’isola, non è la ragione principale per cui a Cuba c’è una diffusissima povertà. Il fatto che Cuba abbia chiuso l’anno scorso (2021, ndr) al 175° posto nell’indice di libertà economica dovrebbe essere sufficiente a fugare ogni dubbio.

Poiché le condizioni sull’isola sono peggiorate dopo il “trionfo” della rivoluzione cubana, i cubani hanno trovato una soluzione alla carenza di forniture e servizi: i mercati neri.

Questi mercati forniscono principalmente beni strumentali e di consumo venduti da burocrati corrotti – e qui si deduce che le carenze siano create di proposito – oppure importati sull’isola tramite voli commerciali. (Queste importazioni non sono considerate di contrabbando dalla legge, poiché sono il bagaglio dei clienti che arrivano all’aeroporto. Tuttavia, il loro scopo è quello di essere vendute in mercati non regolamentati).

Qualcuno potrebbe chiedersi quanto questi mercati siano accessibili ai consumatori o quanto siano visibili alle autorità. La verità è che ci sono guide che mostrano a stranieri e turisti dell’isola come accedere ai mercati neri.

Il commercio illegale è talmente diffuso a Cuba che l’unico modo che il governo ha avuto per contrastarlo è stato quello di iniziare a distribuire licenze ai commercianti. Ma anche se il governo ha regolamentato alcuni settori, la maggior parte del mercato nero a Cuba è ancora illegale.

I mercati neri sono cresciuti negli ultimi quattro anni grazie all’accesso a Internet su dispositivi mobili. L’introduzione di Internet nell’isola è stata ritardata da normative volte a monitorare e controllare rigorosamente ciò che i cubani caricano sui loro social media. Tuttavia, gli sforzi dello Stato per controllare l’uso di Internet sono pressoché inutili perché la maggior parte dei cubani utilizza applicazioni basate sulla crittografia del testo come Telegram, Signal o WhatsApp per acquistare online.

Prima della diffusione di Internet, gli scambi avvenivano localmente, a seconda della conoscenza dell’esistenza di acquirenti e venditori. Tuttavia, i mercati si sono evoluti notevolmente e alcune persone ora si recano in altre province per acquistare i prodotti. In circostanze normali, i venditori potrebbero spedire i prodotti, ma a Cuba è impossibile: il servizio postale è talmente corrotto che se qualcuno spedisce un articolo, questo viene rubato.

Nel portare oggetti da vendere sull’isola, i cubani non badano a limiti. La scarsità è così diffusa che manca persino l’ibuprofene. Dopo l’epidemia di Covid-19, la necessità di farmaci è aumentata al punto che i cubani che vivono fuori dall’isola trasportano farmaci e li vendono illegalmente. Nelle transazioni viene usato anche il Bitcoin a causa della svalutazione del peso. Steve Hanke ha dichiarato che lo scorso luglio l’inflazione cubana è stata dell’85% annuo.

Tuttavia, alcuni libertari come Martha Bueno hanno espresso preoccupazione per le piattaforme che i cubani utilizzano per queste transazioni. Queste piattaforme possono cambiare i Bitcoin dei cubani in una valuta digitale della banca centrale cubana (CBDC) chiamata MLC (“Moneda Libremente Convertible“). Questa moneta non ha alcun valore ed è stata creata dal governo cubano per raccogliere le valute straniere che le persone fuori dall’isola inviano ai loro parenti a Cuba. Per questo motivo, Bueno ha suggerito di utilizzare valute come Monero, meno tracciabili; in questo modo, nessuno può risalire a quando è stata effettuata la transazione o dove è avvenuta.

Cuba non sta passando a un’economia di mercato, ma i mercati neri sorti come risposta a normative dannose stanno avendo un’impatto positivo sulle vite dei cubani.

La crescita di questi mercati dimostra che l’interventismo statale nell’economia non è una soluzione, ma la causa della povertà.

Nel bene e nel male, anche gli stati totalitari hanno bisogno dei mercati per coordinare la produzione e l’allocazione delle risorse.

 

(Traduzione dell’articolo Cuba’s Bustling Black Markets Hold an Important Economic Lesson, Carlos Martinez, FEE.org)

 

Il Marxismo funziona solo come forza distruttrice

Le teorie di Karl Marx non sono mai state valide, ma hanno cambiato il mondo fomentando il malcontento verso lo status quo e promettendo un’utopia non ben definita che sarebbe sorta spontaneamente dalle ceneri del vecchio ordine.

Tra le sue argomentazioni vi sono:

 1. Il valore è dato dal lavoro socialmente utile.

2. Le società capitaliste sono divise in due classi: i borghesi e i proletari.

3. Lo scambio volontario è un gioco a somma zero: una delle due parti guadagna a spese dell’altra.

4. I capitalisti si appropriano del plusvalore dei beni prodotti dagli operai.

5. Gli operai nelle società capitaliste si impoveriranno sempre di più finché sarà necessaria una rivoluzione.

6. Gli operai in disaccordo con Marx soffrono di “falsa coscienza”.

Ma ognuna di queste affermazioni è falsa.

1. Il valore non è dato dal lavoro, ma dalla domanda. Il lavoro ha valore solo se produce beni e servizi che la gente desidera.

Una torta fatta di fango può richiedere la stessa quantità di lavoro di una torta di mele, ma nessuno vuole una torta di fango, quindi non ha valore. Inoltre, il valore cambia al variare di alcune condizioni. Ad esempio, anche se il loro “contenuto di lavoro” non è cambiato, le fruste dei cocchieri avevano molto più valore prima dell’invenzione dell’automobile.

Marx cercò di spiegare queste variazioni di valore con il concetto di lavoro “socialmente utile”, ma non fu mai in grado di definirlo o quantificarlo al punto da consentire ai pianificatori centrali di comprendere il valore di mercato di un bene o un servizio.

2. La società capitalista non è divisa in due classi. I proprietari di imprese e i dipendenti provengono da ogni ceto sociale.

3. Lo scambio volontario non è un gioco a somma zero. Tutte le parti coinvolte in uno scambio ne traggono vantaggio, altrimenti non accetterebbero lo scambio. Ciascuno ne trae vantaggio perché ognuno attribuisce un valore diverso ai beni scambiati. Il valore è soggettivo e non si basa su parametri oggettivi come “la quantità di lavoro socialmente utile”.

4. Il plusvalore di un bene (in pratica, il prezzo di vendita di un bene meno il costo per la sua produzione) serve a pagare:

– L’inventore.
– L’imprenditore (che è spesso, ma non necessariamente, l’inventore stesso) che intercetta la domanda del mercato per quel bene e decide di produrlo.
– Il possessore di un capitale che finanzia l’impresa.
– Finanziatori che trovano altri investitori disposti a rischiare le loro risorse per avviare l’impresa.
– Dirigenti e quadri che coordinano il lavoro degli operai.
– I pubblicitari che pubblicizzano il prodotto affinché venga conosciuto dai consumatori.
– Gli operai stessi.

Marx ignorava gran parte di questi fattori produttivi e il valore aggiunto che i consumatori ottengono acquistando il prodotto. Se non ottenessero alcun vantaggio dall’acquisto, non l’acquisterebbero mai.

Pretendendo che gli operai della fabbrica (insieme a tutti gli impiegati che Marx considerava parte del proletariato piuttosto che della classe dirigente oppressiva) ricevessero tutto il valore del prodotto, Marx chiedeva che nessun altro responsabile dell’esistenza del prodotto fosse pagato e che i consumatori non guadagnassero acquistandolo.

In effetti, il suo “mondo perfetto” era quello in cui nessuno avrebbe avuto un incentivo a inventare, produrre o acquistare qualcosa.

5. I lavoratori nelle economie di mercato non si stanno immiserendo. Al contrario, stanno molto meglio rispetto ai lavoratori di economie meno libere. Secondo i nostri standard, gli operai ai tempi di Marx lavoravano in condizioni terribili per salari miseri. Tuttavia, il lavoro in fabbrica e la retribuzione erano spesso molto migliori rispetto alle alternative disponibili all’epoca.

Il libero mercato ha reso le persone così produttive che hanno bisogno di lavorare meno ore per sfamare se stessi e le proprie famiglie. Invece di lavorare sei o sette giorni alla settimana per 12 ore, nei Paesi in cui vige il libero mercato le persone lavorano in genere cinque giorni a settimana per 7 o 8 ore al giorno. Inoltre, i bambini non hanno più bisogno di lavorare per sopravvivere.

Il libero mercato ha anche aiutato la parità di genere. In un mondo in cui la forza bruta è il fattore più importante per la sopravvivenza, le donne sono cittadini di seconda classe. Ma in una società di libero mercato, dove il cervello conta più dei muscoli, le donne sono più che in grado di competere con gli uomini.

Marx sosteneva che il socialismo avrebbe messo i mezzi di produzione nelle mani dei lavoratori, ma è stato il capitalismo a mantenere la promessa. Oggi i “mezzi di produzione” si traducono sempre più spesso in conoscenze e competenze di un lavoratore, nel suo computer e nel suo cellulare e, forse, in una stampante 3D.

Marx immaginava un’utopia socialista in cui «poter pescare le mattina, cacciare il pomeriggio, allevare il bestiame la sera e fare teoria critica la notte, a piacimento, senza mai diventare un pescatore, un cacciatore, un allevatore o un pensatore». Ancora una volta, è stato il capitalismo a trasformare il sogno di Marx in realtà, aumentando a tal punto la produttività che le persone non devono più trascorrere tutte le loro ore di veglia alla ricerca di cibo.

6. I lavoratori che non sono d’accordo con Marx non soffrono di “falsa coscienza” né sono stupidi. Comprendono i propri interessi molto meglio dei pianificatori centrali o dei teorici.

 

Conclusione

Marx non ha mai compreso, o si è rifiutato di comprendere, gli incentivi creati da una società basata sul principio «Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni». L’attuazione di questo principio crea società in cui le persone hanno capacità minime e bisogni massimi.

Marx non ha mai definito cosa sarebbe un “sistema marxista” o come funzionerebbe. Si rifiutò di descrivere la sua utopia socialista in termini più dettagliati perché riteneva che dovesse emergere spontaneamente e che sarebbe stato sciocco cercare di prevedere la forma finale in cui si sarebbe evoluta.

Allo stesso tempo, però, riteneva che per realizzare il socialismo fosse necessaria una rivoluzione. Ma la rivoluzione implica una brusca rottura dello status quo. Piuttosto che permettere a un nuovo ordine socio-economico di emergere naturalmente, quindi, Marx voleva installare con la forza il suo nuovo ordine sulle ceneri del vecchio, un nuovo ordine che si rifiutava di definire perché doveva emergere naturalmente.

Di conseguenza, il “marxismo” era una specie di secchio vuoto in cui i rivoluzionari potevano versare ciò che volevano.

In pratica, i marxisti si sono dimostrati molto più bravi a distruggere società e culture che a crearne di nuove di successo. Il marxismo funziona solo nella misura in cui rimane una forza distruttrice.

 

(Traduzione dell’articolo Marxism Remains Relevant Only as a Destructive Force, Richard W. Fulmer, FEE.org)

 

Lettura consigliata: Smascherare il Marxismo, L. von Mises

I nazisti erano socialisti? La risposta nelle parole di Joseph Goebbels

Invecchiando ci si rende conto che alcune cose non cambieranno mai.

Gli appassionati di sport discuteranno sempre  del fuorigioco e di chi sia il miglior pugile di tutti i tempi (Muhammad Ali). Gli appassionati di cinema non saranno mai d’accordo su quale film del Padrino sia il migliore (il primo). E le trombe annunceranno la seconda venuta di Cristo prima che liberali e socialisti si saranno accordati sulla questione: i nazisti erano socialisti?

Quest’ultima questione mi ha sempre lasciato perplesso, lo confesso, e non solo perché la risposta è proprio nel nome: “nazionalsocialismo”. Se si leggono i discorsi e le conversazioni private dei gerarchi nazisti risulta evidente che amavano il socialismo e disprezzavano l’individualismo e il capitalismo.

Nel suo nuovo libro “Hitler’s National Socialism“, lo storico Rainer Zitelmann offre una visione a tutto tondo sulle idee che hanno plasmato uomini come Hitler e Goebbels. Sebbene sia chiaro che essi considerassero il loro socialismo come distinto dal marxismo (e su questo punto ci soffermeremo più avanti), non c’è dubbio che vedessero nel socialismo l’ideologia del futuro e disprezzassero il capitalismo e la borghesia.

Consideriamo, ad esempio, le seguenti citazioni di Joseph Goebbels, il Ministro della Propaganda del partito nazionalsocialista:

  1. “Il socialismo è l’ideologia del futuro.” – Lettera a Ernst Graf zu Reventlow, riportata in “Goebbels: A Biography
  2. “La borghesia deve cedere alla classe operaia […] Tutto ciò che sta per cadere deve essere spinto a terra. Siamo tutti soldati della rivoluzione. Vogliamo la vittoria dei lavoratori sullo sporco profitto. Questo è il socialismo.” – Citato in “Doctor Goebbels: His Life and Death
  3. “Siamo socialisti perché vediamo nel socialismo, cioè nella dipendenza di tutti i compagni gli uni dagli altri, l’unica possibilità per la conservazione della nostra genetica razziale e quindi per la riconquista della nostra libertà politica e per il ringiovanimento dello Stato tedesco”. – Citato in “Perché siamo socialisti?“, Der Angriff, 16 Luglio 1928.
  4. “Non siamo un’istituzione caritatevole, ma un partito di socialisti rivoluzionari”. Editoriale del Der Angriff, 27 maggio 1929
  5. “Il capitalismo assume forme insopportabili nel momento in cui gli interessi personali che serve sono contrari all’interesse della collettività. Esso si fonda sulle cose e non sulle persone. Il denaro è l’asse attorno al quale ruota tutto. Per il socialismo è il contrario. La visione del mondo socialista inizia con la gente e poi passa alle cose. Le cose sono asservite al popolo; il socialista mette il popolo al di sopra di tutto, e le cose sono solo mezzi per un fine”. – “Capitalismo“, Der Angriff, 15 luglio 1929
  6. “Nel 1918 il socialista tedesco aveva un solo compito: tenere le armi e difendere il socialismo tedesco” – “Capitalismo“, Der Angriff, 15 luglio 1929
  7. “Essere socialista significa lasciare che l’io serva il prossimo, sacrificare l’io per il tutto. Nel suo senso più profondo, il socialismo è altruismo.” – Note del diario, 1926
  8. “Le linee del socialismo tedesco sono nitide e il nostro cammino è chiaro. Siamo contro la borghesia politica e per un autentico nazionalismo! Siamo contro il marxismo, ma per il vero socialismo!” – “Those Damn Nazis: Why Are We Socialists?“, 1932
  9. “Siamo socialisti perché vediamo la questione sociale come una questione di necessità e di giustizia per l’esistenza stessa di uno Stato per il nostro popolo, non come una questione di pietà a buon mercato o di insulso sentimentalismo. Il lavoratore ha diritto a un tenore di vita che corrisponda a ciò che produce”. – “Those Damn Nazis: Why Are We Socialists?“, 1932
  10. “L’Inghilterra è una democrazia capitalista. La Germania è uno Stato popolar-socialista” – “Englands Schuld” (il discorso non è datato, ma probabilmente è stato pronunciato nel 1939).
  11. “Poiché siamo socialisti abbiamo sentito le più profonde benedizioni della nazione, e poiché siamo nazionalisti vogliamo promuovere la giustizia socialista in una nuova Germania” – “Die verfluchten Hakenkreuzler. Etwas zum Nachdenken“, 1932
  12. “Il peccato del pensiero liberale è stato quello di trascurare i punti di forza del socialismo nella costruzione della nazione, permettendo così alle sue energie di andare in direzioni antinazionali”. – “Die verfluchten Hakenkreuzler. Etwas zum Nachdenken“, 1932
  13. “Essere socialisti significa sottomettere l’io al tu; il socialismo è sacrificare l’individuo al tutto. Il socialismo è nel suo senso più profondo servizio”. – Citato in “Fuga dalla libertà“, Erich Fromm
  14. “Siamo un partito operaio perché vediamo nella prossima battaglia tra finanza e lavoro l’inizio e la fine della struttura del ventesimo secolo. Siamo dalla parte del lavoro e contro la finanza […] Il valore del lavoro sotto il socialismo sarà determinato dal suo valore per lo Stato, per l’intera comunità” – “Those Damn Nazis: Why Are We Socialists?“, 1932

Queste citazioni rappresentano solo un’infarinatura della concezione di Goebbels del socialismo. Si può notare che per molti versi i nazisti parlavano in modo molto simile a Karl Marx.

Frasi come “siamo un partito operaio“, “l’operaio ha diritto a un tenore di vita corrispondente a ciò che produce“, “il denaro è l’opposto del socialismo” e “siamo contro la borghesia politica” potrebbero essere facilmente estrapolate dai discorsi e dagli scritti dello stesso Marx, ma è chiaro che Goebbels disprezzava Marx e vedeva il suo modello di “nazionalsocialismo” come distinto dal marxismo.

Cosa distingue dunque il nazionalsocialismo dal marxismo? Le differenze principali sono due.

La prima è che Hitler e Goebbels fusero il loro socialismo con il nazionalismo e il razzismo tedeschi, rifiutando lo spirito internazionale del marxismo – lavoratori di tutto il mondo unitevi! – per uno più pratico che enfatizzava il movimento popolare tedesco.

Questa fu un’abile mossa da parte dei nazisti. Come ha sottolineato il premio Nobel per l’economia F. A. Hayek, essa rese il socialismo più appetibile a molti tedeschi che non erano in grado di vedere il nazismo per quello che era veramente:

“La tragedia suprema è che ancora non ci si rende conto che in Germania sono state in gran parte le persone di buona volontà che, con le loro politiche socialiste, hanno preparato la strada alle forze che rappresentano tutto ciò che detestano”, scrisse Hayek in “La via della schiavitù” (1944). “Pochi riconoscono che l’ascesa del fascismo […] non fu una reazione contro le tendenze socialiste del periodo precedente, ma un risultato necessario di quelle tendenze”.

La seconda differenza è che i nazionalsocialisti erano meno propensi a controllare direttamente i mezzi di produzione.

Nel suo libro del 1940 “German Economy“, Gustav Stolper, economista e giornalista austro-tedesco, spiegò che sebbene il nazionalsocialismo fosse anti-capitalista fin dall’inizio, era anche in diretta competizione con il marxismo dopo la Prima Guerra Mondiale. Per questo motivo, i nazionalsocialisti decisero di “corteggiare le masse” da tre diverse angolazioni.

“La prima era il principio morale, la seconda il sistema finanziario, la terza la questione della proprietà. Il principio morale era la comunità prima dell’interesse personale. La promessa finanziaria era rompere la schiavitù dagli interessi. Il programma industriale era la nazionalizzazione di tutte le grandi imprese. Accettando il principio ‘la comunità prima dell’interesse personale’, il nazionalsocialismo enfatizzava semplicemente il suo antagonismo allo spirito di una società competitiva, rappresentato presumibilmente dal capitalismo democratico […]. Ma per i nazisti questo principio significava anche la completa subordinazione dell’individuo alle esigenze dello Stato. E in questo senso il nazionalsocialismo è indiscutibilmente un sistema socialista”.

Stolper, fuggito dalla Germania agli Stati Uniti dopo l’ascesa al potere di Hitler, notò che i nazisti non avviarono mai una nazionalizzazione diffusa dell’industria, ma spiegò che questo non comportò alcuna differenza con il socialismo.

“La nazionalizzazione dell’intero apparato produttivo tedesco, sia agricolo che industriale, fu ottenuta con metodi diversi dall’espropriazione, in misura molto maggiore e su una scala incommensurabilmente più ampia di quanto gli autori del programma del partito nel 1920 probabilmente avessero mai immaginato. Infatti, non solo i grandi trust furono gradualmente ma rapidamente sottoposti al controllo statale, ma anche ogni tipo di attività economica, lasciando solo il titolo di proprietà privata”.

Nel suo libro del 1939 “The Vampire Economy: Doing Business Under Fascism“, Guenter Reimann giunse a una conclusione simile.

Lo storico dell’economia Richard Ebeling osserva che:

“Sebbene la maggior parte dei mezzi di produzione non fosse stata nazionalizzata, era stata comunque politicizzata e collettivizzata sotto un’intricata rete di obiettivi di pianificazione nazista, di regolamenti sui prezzi e sui salari, di regole e quote di produzione e di severi limiti e restrizioni all’azione e alle decisioni di coloro che erano rimasti, nominalmente, i proprietari delle imprese private in tutto il Paese. Ogni imprenditore tedesco sapeva che la sua condotta era prestabilita dallo Stato e collocata all’interno dei più ampi obiettivi di pianificazione del regime nazionalsocialista”.

La documentazione storica è chiara: il fascismo europeo era semplicemente una sfumatura diversa del socialismo, il che aiuta a spiegare, come ha notato Hayek, perché così tanti fascisti erano “ex” socialisti, “da Mussolini in avanti“.

Come Marx, i nazisti detestavano il capitalismo e consideravano la volontà e i diritti individuali subordinati agli interessi dello Stato. Non dovrebbe sorprendere che queste diverse sfumature di socialismo abbiano ottenuto risultati simili: povertà e miseria.

I socialisti continueranno a sostenere che il nazismo non era il “vero” socialismo, ma le parole del famigerato ministro della propaganda nazista suggeriscono il contrario.

(Traduzione dell’articolo Joseph Goebbels’ Own Words Show He Loved Socialism and Saw It as ‘the Future’, J. Miltimore, FEE.org)

Cosa sta succedendo in Cina?

Mentre in tutto il mondo le restrizioni anti-Covid vengono alleggerite o rimosse, l’esatto opposto sta succedendo in Cina.

Un lockdown, severo come non mai, è stato imposto a Shanghai, uno dei centri nevralgici del Paese, abitato da 25 milioni di persone. Girano voci di cittadini cinesi ridotti alla fame, perché il governo non gli permette di uscire di casa per procurarsi da mangiare.

Cosa ha portato a tutto ciò? Quale potrebbe essere l’impatto di questa decisione sul futuro del Partito Comunista Cinese?

I FATTI

La situazione è ancora in corso, ed il PCC sta censurando il flusso di notizie in uscita dal Paese, per cui non abbiamo un quadro molto chiaro su cosa stia realmente accadendo. Ad ogni modo, questi dovrebbero essere i fatti.

Negli ultimi due anni Shanghai era sfuggita alle restrizioni più dure imposte ad altre zone della Cina. A partire dalla fine di marzo, tuttavia, la città è stata colpita severamente dalla diffusione della nuova variante Omicron del virus.

Contro tale variante, il vaccino cinese si è rivelato meno efficace rispetto ai vaccini a mRNA occidentali, ma il governo si è rifiutato di importarli. Dietro a questa decisione non vi è alcun motivo valido, se non una sorta di “nazionalismo vaccinale”.

Ora, a differenza di quasi tutti gli altri governi al mondo, quello cinese resta fedele alla sua strategia “zero-Covid”. Secondo tale strategia, qualsiasi misura restrittiva, anche la più severa, è giustificabile al fine di stroncare la curva dei contagi sul nascere.

Pertanto, il 28 marzo è stato ufficialmente dichiarato il lockdown.

A dispetto della linea dura adottata dal PCC, i contagi sono saliti. Apparentemente, il picco è stato raggiunto circa un mese fa, con oltre 27.000 nuovi casi ogni giorno verso la metà di aprile.

Sul fronte virus sembra infine che le cose stiano migliorando, ed il governo ha annunciato che presto le restrizioni verranno allentate. Ma tra quello che dice il PCC e quello che fa davvero ci sono grosse discrepanze.

Molti cittadini, infatti, si lamentano sul web perché le autorità continuano a limitare severamente la loro libertà di movimento. Numerosi abitanti di Shanghai si sono affrettati a fare scorte appena possibile, temendo un lockdown prolungato de facto.

Ma anche se il governo cinese mantenesse la parola data, il danno ormai è fatto.

Sul versante meramente economico, il PIL nazionale potrebbe aver perso quasi 30 miliardi di dollari per ogni settimana di lockdown, ed altrettanti per ogni settimana in cui Shanghai continuerà ad essere paralizzata.

Ancora più pesante è il costo umano. Per settimane gran parte dei 25 milioni di abitanti di Shanghai è stata confinata in casa. Non potevano uscire per fare una passeggiata, per fare provviste, o perfino per recarsi in ospedale.

Potevano solo uscire per sottoporsi ai test anti-Covid (cosa che comunque molti evitavano, per il timore di prendere il virus nei centri sovraffollati).

Tutto ciò ha minato la sanità fisica e mentale di milioni di persone, generando un malcontento popolare come se ne vedono raramente, sotto l’occhio vigile del PCC.

“Voci di aprile”, un video realizzato con gli audio di diversi cittadini di Shanghai, in cui ognuno descrive l’impatto del lockdown sulla propria vita, è diventato virale sui social media cinesi.

LE MOTIVAZIONI

Dal momento che le misure draconiane del PCC hanno danneggiato l’economia nazionale e hanno reso critici del governo milioni di cittadini, perché Xi Jinping non ha cambiato rotta?

La risposta più probabile è forse la più semplice: in un sistema come quello cinese, chi è al potere non può permettersi di ammettere di aver sbagliato.

Il regime comunista cinese può sembrare inattaccabile dall’esterno, ma la realtà è che la sua presa sul potere non è salda come vorrebbe far credere ai suoi nemici.

Spogliato di tutta la retorica marxista, esso non è altro che l’incarnazione moderna di quella forma di governo centralista, burocratica ed assolutista che ha dominato la Cina per millenni, durante l’epoca imperiale.

Tale governo, però, deve legittimare il proprio potere sulla base di un mandato divino, il “Mandato del Cielo”. Secondo tale pensiero, se chi è al potere non riesce più a garantire prosperità e sicurezza alla nazione, allora vuol dire che ha perso tale “Mandato del Cielo”, quindi può e deve essere deposto.

Sin dai tempi delle riforme di Deng Xiaoping, il PCC ha giustificato il proprio diritto di governare tramite la drastica riduzione della povertà prodotta dalla liberalizzazione dell’economia cinese.

Oggi tuttavia, per tutta una serie di fattori (declino demografico, diminuzione delle risorse naturali, competizione da parte dei Paesi in via di sviluppo), la crescita è rallentata. Anzi, con il repentino invecchiamento della popolazione, è probabile che la Cina entri in futuro in un periodo di stagnazione economica.

Il PCC ne è al corrente, e sta correndo ai ripari.

Ecco dunque il perché della retorica aggressiva di Xi Jinping su Taiwan, ed ecco perché non può tornare indietro sulla strategia “zero-Covid”.

Soffiare sulla fiamma del nazionalismo aiuta a distrarre i cittadini dalla situazione economica, supportando così il “Mandato del Cielo” del PCC.

Al contrario, se Xi Jinping cambiasse la propria linea sul Covid, questo vorrebbe dire ammettere ai cittadini che il governo ha inflitto loro sofferenze inutili.

Un simile governo, ovviamente, sarebbe un governo che ha perso il “Mandato del Cielo”.

LE CONSEGUENZE

Sia ben chiaro: il Partito Comunista Cinese gode ancora di una forte presa sul potere. Decine di milioni di cinesi, fra funzionari del Partito e semplici iscritti, traggono vantaggio dal suo governo, e sono pronti quindi a difenderlo.

Oltretutto, a differenza delle dinastie imperiali che lo hanno preceduto, il PCC dispone di sofisticati sistemi tecnologici per tenere a bada il malcontento popolare, e stroncare sul nascere qualsiasi seria opposizione.

Tuttavia, il tempo non sembra essere dalla sua parte. La sua gestione del Covid in generale, e gli ultimi lockdown in particolare, hanno disilluso molti cittadini in merito ai vantaggi della vita sotto il regime comunista.

Senza dubbio, questa non è l’ultima crisi che Xi Jinping ed i suoi successori si ritroveranno ad affrontare. Forse il lockdown di Shanghai sta per finire, ma è facile che in futuro il PCC sarà costretto a prendere altre decisioni impopolari, per non ammettere i suoi fallimenti.

Ad ogni crisi, sempre più cittadini resteranno disillusi, ed arriveranno alla conclusione che i benefici offerti dal sistema non superano più gli svantaggi.

In questo scenario, chissà per quanto ancora il PCC riuscirà a preservare il suo “Mandato del Cielo”.

FONTI

1) https://www.vox.com/future-perfect/23057000/beijing-covid-zero-lockdown-china-pandemic

2) https://www.bbc.com/news/world-asia-china-61023811

3) https://www.reuters.com/world/china/shanghai-inches-towards-covid-lockdown-exit-beijing-plays-defence-2022-05-21/

4) https://www.ilpost.it/2022/03/30/cina-zero-covid-omicron-coronavirus/

5) https://www.afr.com/world/asia/worse-than-wuhan-shanghai-suffers-as-xi-doubles-down-20220505-p5aiun

Sul pensiero di Bastiat

Innamoratevi della libertà. Amare la libertà significa, tra le altre cose, interiorizzare il pensiero di Frèdèric Bastiat (1801-1850), economista, filosofo e giornalista francese. La filosofia economica di Bastiat è controcorrente e molto attuale: l’economista francese fu un liberale, un libertario e un liberista ante litteram.

In una società italiana oppressa dallo statalismo più soffocante, le riflessioni di Bastiat sono uno spiraglio di luce. 

Bastiat ha il pregio di essere attuale senza mai sbiadire nel tempo; non si conformò al pensiero economico o filosofico accademico e mainstream, basato su assunti (totalmente fallaci) come il progressismo, la giustizia sociale o il politicamente corretto. Il suo stile di scrittura fu limpido e chiaro, ispirato al giornalismo. Non è un caso che Schumpeter lo definì come il più grande giornalista economico del suo tempo.

 

La prima lezione di Bastiat, che dobbiamo rivendicare ancora con più forza ai giorni nostri, è la teoria della difesa dell’individuo.

Nella sua opera “La legge”, Bastiat difese la concezione del diritto naturale (Ius naturae), ereditata da Grozio e Locke. L’individuo unico e irripetibile della tradizione cristiana e liberale possiede dei diritti inalienabili, come la vita, la proprietà e la libertà, che derivano direttamente da Dio. Bastiat operò una sforbiciata alla “Ockham” e ribaltò la concezione negativa di Bentham sui diritti naturali o individuali.

I reali “nonsensi sui trampoli” (secondo un’espressione dello stesso Bentham) sono il diritto statale e le sue norme positive e arbitrarie vigenti in un determinato territorio.

 

La seconda straordinaria lezione che possiamo ricavare da Bastiat è la critica dello statalismo. Con il suo inchiostro limpido, il pensatore francese smontò i pregiudizi cristallizzati degli statalisti e le loro opinioni fittizie. Pensiamo solo alla politica economica. L’intervento dello Stato in economia non solo produce inefficienze e disfunzionalità, ma apporta “storture” all’equilibrio del mercato e alla libera iniziativa privata.

La teoria dominante ed in voga nei dipartimenti economici – ovvero la teoria keynesiana – concepisce lo Stato come una sorta di pianificatore retto e morale, guidato dall’intervento dei policy maker, degli ingegneri sociali, ovvero i politici (e i tecnici loro amici). Questa concezione non è solo falsa ma è anche smentita dalla realtà dei fatti.

Bastiat ci mise in guardia in “Quello che si vede e quello che non si vede” sui rischi dell’interventismo statale (con il famoso racconto della “Finestra Rotta”). Inoltre, criticò il monopolio pubblico su certe merci e prodotti, così come sulla moneta e sull’istruzione.

 

Bastiat non fu solo un ottimo pensatore; egli applicò sul campo le sue idee. Pensiamo solo alla politica fiscale. Bastiat fu un apologeta del libero commercio, del laissez faire, dell’ordine spontaneo del mercato e dei suoi meccanismi interni (a partire dalla “mano invisibile” che guida le scelte degli operatori economici). Per questo motivo attaccò senza sosta la politica fiscale francese dell’epoca.

Lo Stato, per l’economista francese, non solo non produce nulla, non solo offre sul mercato, rispetto ai concorrenti privati, servizi o beni costosi e scadenti; ma soprattutto lo Stato non possiede risorse proprie ed è per questo motivo che ambisce a detenere un “patrimonio preda” attraverso la spoliazione legale dei contribuenti.

Attraverso la tassazione lo Stato nutre se stesso e le proprie “élite”, danneggiando in questo modo i produttori della ricchezza, spogliati “legalmente” del frutto del proprio lavoro e delle proprie fatiche. Per Bastiat tutto questo è ingiusto e intollerabile.

 

Il suo lavoro mina le false certezze che contraddistinguono la nostra atmosfera culturale, frutto dell’egemonia di una ristretta minoranza astiosa verso il lavoro, la responsabilità e le fatiche. Una delle opere fondamentali del suo sterminato pantheon economico porta il titolo di “Sofismi economici”. I sofismi sono frutto di un errore della ragione e della logica umana. Al posto della verità si mettono simulacri tanto sbagliati quanto pericolosi. Ed ecco che in economia come in filosofia, nella letteratura come nel giornalismo, dominano opinioni prive di qualunque fondamento. Bastiat ci insegna ad usare la logica e a fare a meno di queste idee false e obsolete.

 

Bastiat è stato un precursore di molti dei concetti espressi in seguito da un grande gruppo di economisti: la Scuola Economica Austriaca. La linfa vitale di questo approccio economico è la libertà, il rigore analitico e la critica di tutti quei substrati che si oppongono al mercato (in primis il marxismo). Accanto al collettivismo sono messi in stato d’accusa i principi della pianificazione centrale. Gli austriaci rivendicano la libertà economica, contro socialisti e statalisti vari.

Leggete quindi Bastiat, per non perdere mai la speranza nemmeno nei momenti difficili che sono parte integrante della storia. Siate dei “Bastiat contrari”, per non adeguare la vostra mentalità al conformismo della nostra epoca.

Putin ed i suoi oligarchi: breve storia della cleptocrazia russa

La Russia di Putin, come qualsiasi altro Stato di polizia, è uno Stato governato da criminali. I crimini qui discussi, però, non sono quelli che stanno venendo alla luce in questi giorni a Bucha, Irpin, Hostomel.

Si tratta di crimini altrettanto disgustosi, ma un po’ meno sanguinari. Questa è la storia della cricca decadente, corrotta e megalomane di oligarchi che fa capo a Putin, e che ha reso possibile tutti gli orrori che vediamo oggi.

Le origini

Lo Stato ereditato da Putin vent’anni fa era una nazione in crisi. I cittadini russi non solo avevano visto il loro Paese ridotto da superpotenza a potenza regionale, si erano anche ritrovati grandemente impoveriti sotto Yeltsin.

Durante il suo governo, beni statali vennero privatizzati in massa, ufficialmente allo scopo di aprire la Russia all’economia di mercato e di generare fondi per il nuovo governo post-sovietico.

Quello che accadde in realtà, però, fu che pochi politici e burocrati si arricchirono, svendendo proprietà dello Stato ad una stretta cerchia di uomini politicamente ben collegati. Oggi li conosciamo come oligarchi.

Gli oligarchi ed i loro amici prosperarono, ma il cittadino russo medio rimase povero ed amareggiato. In questi anni, circa un terzo della popolazione russa viveva sotto la soglia di povertà[1].

Per via della carenza di fondi (dato che il ricavato delle privatizzazioni era andato perso in corruzione), il governo dovette tagliare pesantemente il welfare ed i servizi come scuola e sanità, esacerbando il malcontento popolare.

A tutto ciò bisogna poi aggiungere l’inflazione galoppante, che dopo il “martedì nero” del 1994 raggiunse livelli critici (in questo periodo, un dollaro americano valeva circa 4000 rubli)[2].

Per proteggersi da tale malcontento, gli oligarchi si affidarono al braccio destro di Yeltsin, favorendone l’ascesa. Costui era un politico fino a quel momento semi-sconosciuto, un certo Vladimir Putin.

Gli anni d’oro

La scommessa degli oligarchi si rivelò, all’inizio, un successo. Dal 1999 (inizio del primo mandato di Putin come presidente) al 2014 (annessione della Crimea), l’economia russa prosperò.

Questo soprattutto grazie ad un fattore esterno a Putin, cioè il massiccio aumento dei prezzi degli idrocarburi, che la Russia produce ed esporta in grandi quantità.

Fra il 1998 ed il 2008, l’economia russa crebbe del 7-8% ogni anno[3]. In seguito, con la grande recessione ed il conseguente crollo del prezzo di gas e petrolio, tale crescita rallentò, ma la Russia soffrì meno per la crisi rispetto ai Paesi occidentali.

Complessivamente, questo periodo fu molto piacevole per il cittadino medio russo, infatti il numero di persone sotto la soglia di povertà scese al 10%, ed il potere d’acquisto dei russi (malgrado l’inflazione) aumentò di quasi dieci volte[4].

Risulta facile capire come mai Putin non abbia avuto grandi difficoltà nel farsi rieleggere una volta dopo l’altra.

Certo, per andare sul sicuro il suo governo ha perseguitato, imprigionato o assassinato chiunque minacciasse il suo potere, ma in ogni caso i consensi necessari non mancavano.

Non bisogna però lasciarsi trarre in inganno da questa prosperità apparente. La vendita dei combustibili fossili russi ha generato enormi profitti, non c’è dubbio, ma di tali profitti ai cittadini sono andate solo le briciole.

La parte più consistente, infatti, è rimasta nelle mani degli oligarchi e dello stesso Putin, il quale ne ha approfittato, tra le altre cose, per farsi costruire una gigantesca villa sul mar Nero da 1.4 miliardi di dollari (a spese dei contribuenti)[5].

Le prime sconfitte

La luna di miele fra Putin e l’economia non durò a lungo. Dal 2014 in poi, per via delle sanzioni occidentali dovute all’annessione della Crimea e del calo nel prezzo degli idrocarburi, la Russia è entrata in una grave recessione, che ha spazzato via gran parte dei risultati economici conseguiti nei primi anni Duemila.

Come ai tempi di Yeltsin, il governo russo si è ritrovato a corto di fondi, e sempre come allora ha dovuto tagliare welfare e servizi.

La strategia di Putin per mantenere il consenso popolare, quindi, è cambiata. Per distrarre i cittadini dal peggioramento dei loro standard di vita, il governo si è affidato sempre di più ai successi militari[6].

Con le avventure militari in Crimea, Donbass e Siria, il presidente russo ha potuto “dimostrare” ai suoi concittadini di aver restaurato il prestigio nazionale all’estero. Grazie al controllo dei media da parte del governo, tale strategia si è rivelata complessivamente un successo nel preservare la popolarità di Putin.

Il suo regime, tuttavia, non è più stabile come una volta, e questo ha avuto profonde conseguenze. Negli ultimi otto anni, le ultime tracce di democrazia e legalità sono state spazzate via.

Nuove riforme autoritarie hanno indebolito il sistema giudiziario ed il Parlamento, concentrando il potere nelle mani del presidente. Emendamenti alla Costituzione hanno aperto a Putin la possibilità di restare al governo per altri due mandati, fino al 2036[7].

L’evoluzione sempre più marcatamente dittatoriale della scena politica russa non ha colpito solo i cittadini comuni. Stavolta, neanche gli oligarchi stessi sono stati risparmiati dal mostro che hanno contribuito a creare.

Quale futuro?

Un esempio di come il rapporto fra Putin e gli oligarchi sia cambiato è dato dal “caso Bashneft”.

Nel 2014 l’oligarca Vladimir Evtushenkov venne inaspettatamente arrestato, e la sua compagnia petrolifera (Bashneft) venne statalizzata[8].

Tempo dopo, il governo russo mise in vendita la compagnia, e molti oligarchi si mostrarono interessati ad acquistarla. Tra questi spiccava Igor Sechin, CEO di Rosneft (la più grande compagnia petrolifera russa), probabile istigatore della caduta in disgrazia di Evtushenkov.

Sechin, però, era già considerato da molti come il secondo uomo più potente in Russia dopo Putin, di conseguenza il presidente intimò a Sechin di rinunciare ai suoi progetti.

Inizialmente Sechin si rifiutò, ed arrivò perfino a cercare il sostegno di altri oligarchi, ma venne ben presto messo all’angolo.

Nel 2015, di punto in bianco, Putin obbligò il potente Vladimir Yakunin, oligarca a capo delle Ferrovie dello Stato russe, a dimettersi. In questo modo, gli altri oligarchi capirono che nessuno di loro era intoccabile. Sechin tornò sui propri passi e rinunciò ai suoi piani[9].

Questa storia, come tante altre, mostra come il rapporto di potere fra Putin e la sua vecchia cerchia si sia capovolto nel corso degli anni.

Un tempo, lui era il politico semi-sconosciuto, scelto dagli oligarchi come burattino per proteggere i loro interessi. Oggi, lui è lo zar indiscusso di tutta la Russia, davanti al quale perfino i più ricchi fra loro devono piegarsi.

Come accadde in Germania all’epoca di Hitler, i ricchi e potenti che ne hanno appoggiato l’ascesa al potere sono stati messi da parte e ora non possono più contrastarlo, neanche quando i suoi piani vanno contro i loro interessi. La guerra criminale in Ucraina è solo l’ennesima dimostrazione della loro impotenza.

Quale futuro attende Putin, i suoi oligarchi e la cleptocrazia che hanno creato? Difficile da prevedere. Una cosa, però, è certa: ancora una volta, il russo medio finirà per pagare gli errori e gli eccessi dei suoi governanti.

[1][2] https://www.crf-usa.org/bill-of-rights-in-action/bria-8-1-c-on-the-road-to-revolution-with-boris-yeltsin

[3][4] https://www.youtube.com/watch?v=2F4x2-rVkIk&t=585s

[5] https://fortune.com/2022/03/02/vladimir-putin-net-worth-2022/

[6] https://www.youtube.com/watch?v=ZAMz5kgb7V4

[7] https://www.institutmontaigne.org/en/blog/putins-grip-power-beginning-end

[8][9] https://www.youtube.com/watch?v=BT4sK36cU3Y&t=598s

Un tributo a F.A. von Hayek – di Ludwig von Mises

(Scritto per essere letto durante una cena in onore di Hayek, Chicago, 24 Maggio 1962)

Mi dispiace che per una serie di motivi — la geografia, la mia agenda fitta di impegni e non ultimo la mia età — non sia riuscito a partecipare a questa cena. Se fossi stato lì presente, avrei detto qualche parola sul conto del professor Hayek e sui suoi traguardi. Per come stanno le cose, devo mettere per iscritto questi pensieri e ringraziare i nostri amici che lo leggeranno per me.

Per apprezzare pienamente i risultati del professor Hayek, bisogna tener conto delle condizioni politiche, economiche e ideologiche prevalenti in Europa, e soprattutto a Vienna, alla fine della Prima Guerra Mondiale.

Per secoli, i popoli d’Europa hanno cercato la libertà e hanno tentato di liberarsi da governanti tirannici per istituire governi rappresentativi. Tutti gli uomini ragionevoli chiedevano la sostituzione del potere arbitrario di principi ed oligarchi ereditari con l’istituzione di uno stato di diritto. Questa accettazione generale del principio di libertà era talmente radicata che anche i partiti marxisti furono costretti a fare ad essa concessioni verbali. Decisero di definirsi socialdemocratici. Questo riferimento alla democrazia era, naturalmente, un tentativo di gettare il fumo negli occhi agli elettori, poiché i seguaci di Marx erano pienamente consapevoli del fatto che il socialismo non significa libertà dell’individuo, ma la sua completa sottomissione agli ordini dell’autorità centrale. Ma i milioni di persone che hanno votato i partiti socialisti erano convinti che la progressiva dissoluzione dello Stato significasse libertà illimitata per tutti e non sapevano come interpretare l’oscura espressione “dittatura del proletariato”.

Ma ora c’era di nuovo un dittatore all’opera, un uomo che – sulla scia di Cromwell e di Napoleone – scioglieva il Parlamento liberamente eletto a suffragio e liquidava senza pietà tutti coloro che osavano opporsi a lui. Questo nuovo dittatore rivendicava un potere illimitato non solo nel suo Paese, ma in tutti i Paesi. Migliaia e migliaia di sedicenti intellettuali di tutte le nazioni sostenevano con entusiasmo la sua rivendicazione.

Solo chi ha vissuto in Europa Centrale in quegli anni critici tra la caduta dell’impero zarista e il tracollo definitivo delle valute dell’Europa Centrale sa quanto fosse difficile per un giovane, in quel periodo, non arrendersi al comunismo o a uno degli altri partiti dittatoriali che ben presto sorsero come scadenti imitazioni del modello russo. Friedrich von Hayek faceva parte di questo piccolo gruppo di dissidenti che si rifiutò di unirsi a quello che Julien Benda chiamò appropriatamente il “tradimento degli intellettuali”[1]. Hayek era un solerte allievo della Facoltà di Giurisprudenza e Scienze Sociali dell’Università di Vienna e a tempo debito ottenne il dottorato. Poi gli fu offerta l’opportunità di trascorrere un anno e diversi mesi a New York come segretario del professor Jeremiah Jenks della New York University, un grande esperto nel campo delle politiche monetarie internazionali.

Qualche tempo dopo il suo ritorno a Vienna, gli fu affidata la gestione di un ente di ricerca di recente fondazione, l’Istituto Austriaco per la Ricerca sul Ciclo Economico. Svolse un brillante lavoro in questo ambito, non solo come economista ma anche come statistico e amministratore. Ma in tutti questi anni il suo principale interesse fu quello degli studi economici. Era uno dei giovani che parteciparono alle lezioni e alle discussioni presso il mio Seminario Privato all’Università di Vienna. Pubblicò diversi ottimi saggi sui problemi del denaro, dei prezzi e del ciclo economico.

Le condizioni politiche in Austria rendevano piuttosto complicata la sua nomina a professore ordinario in un’università austriaca. Ma l’Inghilterra, a quel tempo, era ancora libera da pregiudizi nei confronti dell’economia di libero mercato. Così, nel 1931, Hayek fu nominato professore di scienze economiche e statistiche all’Università di Londra. Liberato dalle responsabilità amministrative che avevano ridotto il tempo che poteva dedicare al lavoro scientifico a Vienna, ora poteva pubblicare una serie di importanti contributi alla teoria economica e alla loro applicazione nella politica. Ben presto fu considerato uno dei più importanti economisti del nostro tempo.

L’economista non è un semplice teorico il cui lavoro è di diretto interesse solo per gli altri economisti ed è raramente letto e compreso da persone al di fuori degli “addetti ai lavori”. Quando si occupa degli effetti delle politiche economiche, si trova per forza di cose sempre in mezzo alle controversie che ruotano attorno alle politiche, e quindi al destino, delle nazioni. Che gli piaccia o no, è costretto a lottare per le sue idee e a difenderle da attacchi feroci.

Il dottor Hayek ha pubblicato molti libri e saggi importanti e il suo nome sarà ricordato come uno dei più grandi economisti. Ma ciò che lo ha fatto conoscere da un giorno all’altro a tutte le persone in Occidente, è stato un breve saggio pubblicato nel 1944, La via della schiavitù.

In quel momento, le nazioni occidentali stavano combattendo le dittature nazi-fasciste, in nome della libertà e dei diritti dell’uomo. Per come la vedevano gli Alleati, i loro avversari erano schiavi, mentre loro stessi erano risolutamente dediti alla conservazione dei grandi ideali dell’individualismo. Ma Hayek scoprì il carattere illusorio di questa interpretazione. Egli mostrò che tutte quelle caratteristiche del sistema economico nazista che apparivano come riprovevoli agli occhi degli inglesi e anche dei loro alleati occidentali, erano proprio il risultato necessario delle politiche a cui miravano i cosiddetti progressisti, i pianificatori, i socialisti e, negli Stati Uniti, i sostenitori del New Deal. Mentre combattevano il totalitarismo, gli inglesi e i loro alleati si entusiasmarono per i piani di trasformazione dei loro paesi in regimi totalitari e procedevano sempre più lontano su questa strada verso la schiavitù.

Nel giro di poche settimane, il libro divenne un bestseller e fu tradotto in tutte le lingue più diffuse. Molti sono così gentili da chiamarmi uno dei padri della rinascita del liberalismo classico. Mi chiedo se sia davvero così. Ma non c’è alcun dubbio che il professor Hayek con la sua Via della schiavitù abbia spianato la strada alla formazione di un’organizzazione internazionale degli amici della libertà. È stata la sua iniziativa che ha portato, nel 1947, alla fondazione della Mont Pelerin Society, in cui collaborano eminenti liberali e libertari di tutti i Paesi di questo lato della cortina di ferro.

Dopo aver dedicato trent’anni allo studio dei problemi della teoria economica e dell’epistemologia delle scienze sociali e aver svolto un lavoro pionieristico nel trattamento di molti di questi problemi, il professor Hayek si è rivolto alla filosofia generale della libertà. Il risultato dei suoi studi è il monumentale saggio La Società Libera, pubblicato due anni fa. È il frutto degli anni trascorsi in questo Paese come professore all’Università di Chicago. È particolarmente significativo che questo rampollo di origine austriaca della Scuola Austriaca di Economia, che ha insegnato per molti anni a Londra, abbia scritto il suo libro sulla libertà nel Paese di Jefferson e Thoreau.

Non stiamo perdendo del tutto il professor Hayek. D’ora in poi insegnerà in un’università tedesca, ma siamo certi che di tanto in tanto tornerà in questo Paese per conferenze e congressi. E siamo certi che, in queste visite, avrà molto da dire sull’epistemologia, sul capitale e sul capitalismo, sul denaro, sulle banche e sul ciclo del commercio, e, prima di tutto, anche sulla libertà. In attesa di ciò, possiamo considerare un buon auspicio che il nome della città dove insegnerà sia Friburgo, Freiburg in tedesco. “Frei” – che significa libera.

Non consideriamo l’evento di stasera come una festa di addio. Non diciamo “addio”, diciamo “alla prossima volta”.

Traduzione a cura di Gabriele Pierguidi e Alessio Langiano

Fonte: https://mises.org/library/tribute-fa-von-hayek

[1] Riferimento all’opera di Julien Benda The Treason of the Intellectuals (1928), tradotta in italiano come “Il tradimento dei chierici”.

Pensieri sulla burocrazia – di Ludwig von Mises

L’effetto della burocratizzazione si manifesta chiaramente nel suo rappresentante: il burocrate. In un’impresa privata, le assunzioni di lavoro non sono un dono caritatevole, ma una transazione commerciale da cui entrambe le parti, datore di lavoro e dipendente, traggono beneficio.

Il datore di lavoro si impegna a pagare un salario corrispondente al valore del lavoro svolto. Se non lo fa, rischia di perdere il proprio dipendente per un concorrente che lo paghi meglio. L’impiegato, per non perdere il proprio lavoro, deve a sua volta sforzarsi di adempiere ai doveri della sua posizione abbastanza bene da valere il suo salario. Poiché l’impiego non è un favore, ma una transazione commerciale, l’impiegato non deve temere di essere licenziato se vittima di pregiudizi soggettivi. Per l’imprenditore che licenzia, per ragioni di natura personale, un impiegato utile che vale veramente la sua paga, nuoce solo a sé stesso e non al lavoratore, che può trovare una posizione simile altrove.

È quindi conveniente affidare al direttore di ogni reparto l’autorità di assumere e dirigere gli impiegati. Questo perché sotto la pressione del controllo esercitato sulle sue attività dalla contabilità in entrata e in uscita, egli deve fare in modo che il suo reparto fatturi il più possibile, e quindi è obbligato, nel suo stesso interesse, a non perdere i migliori impiegati. Se per dispetto licenzia qualcuno che non avrebbe dovuto allontanare, dunque se le sue azioni sono motivate da ragioni personali e non oggettive, allora è lui stesso a subirne le conseguenze.

In un’organizzazione burocratica le cose sono molto diverse. Il contributo produttivo del singolo dipartimento, dunque del singolo dipendente, anche di chi ricopre una posizione dirigenziale, è immerso in un terreno fertile per favoritismi e favoreggiamenti personali, sia nella nomina che nella remunerazione. Il fatto che l’intercessione di persone influenti svolga un ruolo molto importante nelle assunzioni della pubblica amministrazione non è dovuto ad una particolare bassezza morale da parte dei responsabili delle assunzioni, ma al fatto che non esiste un criterio oggettivo a priori per determinare quanto un individuo sia qualificato per una determinata posizione. Naturalmente, è il più competente che dovrebbe essere assunto, ma la domanda è: Chi è il più competente? Un certo grado di discrezionalità è necessariamente impiegato nel confrontare le qualifiche di diversi individui.

La crescita del clientelismo

Al fine di mantenere questo entro i limiti più stretti possibili, si inseriscono condizioni formali per la nomina e la promozione. Il raggiungimento di una particolare posizione viene fatto dipendere dall’adempimento di certi requisiti formativi, dal superamento di esami e da un determinato periodo di lavoro in altre posizioni; la promozione dipende dunque dagli anni di servizio precedenti.

Naturalmente, tutti questi espedienti non sostituiscono in alcun modo la possibilità di trovare il miglior candidato disponibile per ogni posto di lavoro attraverso il calcolo di profitti e perdite. Sarebbe inopportuno sottolineare che la frequenza scolastica, lo studio e l’anzianità non offrono la minima garanzia che la scelta sia giusta. Anzi, il sistema impedisce fin dal primo momento a persone preparate e competenti di occupare posizioni in linea con le proprie competenze e capacità. Non è mai avvenuto che una persona realmente competente sia salita al vertice seguendo un iter prestabilito di studio e di promozione a tempo debito, secondo modalità predefinite. Anche in Germania, che ha una pia fede nei propri burocrati, l’espressione “un perfetto funzionario” è usata per indicare una persona dal carattere debole e inefficiente, per quanto ben intenzionata.

Il marchio caratteristico della gestione burocratica è quindi che le manca la guida fornita dal calcolo di utili e perdite nel giudicare il proprio successo in relazione alle spese sostenute ed è quindi obbligata, al fine di compensare a questa mancanza, a ricorrere all’espediente del tutto inadeguato di subordinare la gestione degli affari e l’assunzione del proprio personale a una serie di direttive formali. Tutti i mali che comunemente vengono imputati alla gestione burocratica sono il risultato di questa fondamentale carenza.

Un’impresa pubblica che si prefigge l’obiettivo di massimizzare i profitti può ovviamente fare uso del calcolo monetario fintanto che la maggior parte delle imprese è di proprietà privata e quindi esiste ancora un mercato e si formano i prezzi di mercato. L’unico ostacolo al suo funzionamento e sviluppo è il fatto che i suoi dirigenti, in quanto funzionari dello Stato, non hanno l’interesse personale per raggiungere il successo o evitare il fallimento dell’impresa, che invece è un aspetto fondamentale delle imprese private. Non si può quindi permettere al direttore di agire liberamente e in modo indipendente nel prendere le decisioni cruciali.

Ma, di fatto, solo raramente un’impresa pubblica mira semplicemente al profitto e mette da parte tutte le altre considerazioni. Normalmente si pretende che un’impresa pubblica tenga conto di determinate esigenze “nazionali”. Ci si aspetta, per esempio, che nella sua politica di approvvigionamento e vendita favorisca la produzione nazionale a discapito di quella straniera. Si esige dalle ferrovie statali che fissino una linea di prezzi finalizzata a una specifica politica commerciale da parte del governo, che costruiscano e mantengano linee infruttuose, semplicemente per promuovere lo sviluppo economico di una certa zona, e che ne gestiscano altre per ragioni strategiche o simili.

Quando tali fattori giocano un ruolo nella gestione di un’impresa, ogni controllo con metodi di contabilità industriale e con il calcolo dei profitti e delle perdite è fuori questione. Il direttore delle ferrovie statali che presenta un bilancio sfavorevole alla fine dell’anno può dire: “Le linee ferroviarie sotto la mia supervisione hanno sicuramente operato in perdita se rigidamente comparate alle imprese private in cerca di mero profitto: ma se si prendono in considerazione fattori come la nostra politica economica e militare nazionale, non si deve dimenticare che hanno realizzato molto, anche se ciò non rientra nel calcolo di profitti e perdite”. In tali circostanze, quando si giudica il successo di un’impresa il calcolo di utili e perdite non ha alcun valore, cosicché – anche a prescindere da altri fattori della stessa natura – deve necessariamente essere gestita in modo tanto burocratico quanto, per esempio, l’amministrazione di una prigione o di un ufficio delle imposte.

La burocratizzazione delle imprese private

Nessuna impresa privata, per quanto possa essere grande, potrà mai diventare burocratica fintanto che sia interamente e unicamente gestita sulla base del profitto. La ferma adesione al principio imprenditoriale del massimo profitto rende possibile a qualsiasi impresa, anche la più grande, di stabilire con precisione il ruolo svolto da ogni movimento e dall’attività di ogni dipartimento in vista del risultato totale. Focalizzarsi sull’obiettivo finale permette all’impresa di aggirare i mali della burocratizzazione.

La burocratizzazione delle imprese private che vediamo in corso ovunque oggi è il risultato dell’interventismo, che le costringe a prendere in considerazione fattori che, se fossero libere di organizzare autonomamente la propria attività, non giocherebbero alcun ruolo all’interno dei loro affari. Se un’impresa deve prestare attenzione ai pregiudizi politici di ogni tipo per evitare di essere continuamente perseguita da vari organi dello stato, non sarà più in grado di basare i propri calcoli sul solido terreno di utile e perdita. Giusto per fare un esempio, immaginiamo che alcuni enti pubblici statunitensi, per evitare conflitti con l’opinione pubblica e con gli organi legislativo, giudiziario e amministrativo dello Stato, decidano di non assumere cattolici, ebrei, atei, darwinisti, uomini di colore, irlandesi, tedeschi, italiani e tutti gli immigrati appena sbarcati. In uno stato interventista, ogni impresa ha la necessità di adeguarsi agli ordini delle autorità per evitare pesanti sanzioni.

Il risultato è che queste e altre questioni estranee al principio di ricerca del profitto della gestione imprenditoriale iniziano a giocare un ruolo sempre più importante nella gestione degli affari, mentre il ruolo giocato dal calcolo e dalla gestione dei costi diminuisce sempre di più, e l’impresa privata comincia a imitare la gestione delle imprese pubbliche, adeguandosi al loro elaborato apparato di regole formalmente prescritte. In una parola, si burocratizza.

Pertanto, la progressiva burocratizzazione delle grandi imprese non è affatto il risultato automatico e inesorabile dello sviluppo dell’economia capitalista. Non è altro, invece, che la conseguenza necessaria dell’adozione di una politica interventista. In assenza di interferenza dello Stato negli affari, anche le aziende più grandi potrebbero essere gestite con spirito commerciale esattamente come le piccole imprese.

Traduzione a cura di Laura Pizzorusso

Fonte: https://www.cato.org/sites/cato.org/files/serials/files/regulation/1985/9/v9n5-8.pdf?queryID=c72ba5cc5b55e62f7ba6cac911721184

In difesa del capitalismo – Henry Hazlitt

La guerra ideologica in corso

Oggi tutto il mondo è coinvolto in una dura guerra tra ideologie. Il conflitto attuale sembra essere stranamente simile alle guerre di religione medievali. Le dottrine dibattute a quel tempo sono oggi per noi incomprensibili, eppure ci sono alcuni punti di discussione altrettanto bizzarri anche nell’attuale guerra ideologica.

I comunisti hanno dato il via alla lotta, coscienti sin da subito non solo a cosa fossero avversi, il capitalismo, ma anche a cosa fossero favorevoli. Su entrambe le questioni la loro direzione politica è stata stabilita sin dal principio. Non ammettono alcun cambiamento, pena l’ostracismo, l’imprigionamento, la tortura o la morte. Eppure, dall’altro lato, la maggior parte di coloro contrari al comunismo non si erano nemmeno accorti della guerra ideologica in corso; e che nessuna pacificazione, nessuna conciliazione, nessun tentativo di serena convivenza, era possibile. I comunisti non lo avrebbero mai permesso. Nonostante ciò, i non-comunisti non avevano idea di essere impegnati in una lotta di sopravvivenza.

Ma questo ci porta ad altre contraddizioni. Non esiste un gruppo coeso di anticomunisti. Molte persone importanti affermano ancora oggi: “È vero, i russi non hanno il diritto di imporre a noi il loro sistema, però nemmeno dovremmo noi cercare di imporre a loro il nostro sistema. Il capitalismo, o la democrazia, è probabilmente il miglior sistema per noi come il comunismo lo è per loro. Se smettiamo di armarci contro i comunisti e combattere contro di loro, le loro diffidenze si dissolveranno col tempo e ognuno vivrà pacificamente a modo suo”. Questa visione persiste ancora, nonostante la sua infondatezza, soprattutto perché riesce a incoraggiare la speranza.

Le divergenze tra gli anticomunisti

Inoltre, anche gli anticomunisti non sono uniti. Sono sì contro il comunismo, ma non hanno una vera e propria idea di cosa questo rappresenti. Pochi di loro si rendono conto che il comunismo è principalmente una dottrina economica. Invece la maggior parte lo considera in primo luogo un sistema politico o culturale. Ciò che ripudiano è il dispotismo, la totale soppressione della libertà, politica, religiosa o artistica che sia, le crudeltà, le confessioni forzate, le bugie sistematiche, le violenze e le congiure, le incessanti campagne diffamatorie, le minacce di interventi militari.

Tutte queste cose sono certamente orribili. Eppure, molti anticomunisti non riescono a capire che sono il semplice ed inevitabile risultato della dottrina economica alla base del comunismo. Esse sono ciò che Karl Marx, riferendosi al capitalismo, avrebbe chiamato “sovrastruttura”.

Tra gli anticomunisti circolano varie idee diverse riguardo il sistema economico che intendono sostituire al comunismo. Si passa dai fautori del libero mercato ai socialisti di sinistra, con ogni varietà di ammiratori del New Deal[1], pianificatori e statalisti in mezzo. I fautori del New Deal, in particolare, sembrano decisi a ripudiare il laissez-faire tanto quanto il comunismo. E in fatto di organizzazione economica della società, i socialisti sono pronti a schierarsi con i comunisti per combattere il capitalismo.

A causa delle profonde divisioni tra gli anticomunisti, sono nate svariate idee contrastanti riguardo la corretta “strategia” contro il comunismo. Alcuni pensano che definirsi anticomunisti sia sufficiente per essere uniti. Il comunismo, dicono, non è una dottrina da analizzare, ma una cospirazione da sopprimere. È necessario dare la caccia ai comunisti – nelle istituzioni, nell’esercito, nelle Nazioni Unite, nelle scuole e nelle università – smascherarli e liberarcene. Qualsiasi altra cosa, sostengono, o non conta o è fuorviante.

È sufficiente la democrazia?

C’è un altro gruppo di anticomunisti che non si limita a schierarsi contro il comunismo. Pensano che gli oppositori del comunismo debbano condividere una filosofia comune. Ripongono la loro fede nella democrazia, e credono essa sia sufficiente. Questa è stata sostanzialmente la posizione del Dipartimento di Stato e della Voice of America[2] sotto Truman. È la posizione della maggior parte della stampa americana.

Cos’è la democrazia?

Questa posizione non regge ad una accurata indagine. “Democrazia” è una di quelle parole così vaghe che assumono mille significati diversi a seconda di chi ne parla. Può essere estesa o ridotta, come una fisarmonica, per rispondere alle diverse esigenze del momento. Il concetto univoco di “democrazia” è diventato difatti quasi un’elusione semantica. Per alcuni corrisponde a un sistema politico nel quale il governo dipende a tal punto dalla libera volontà popolare, da poter essere cambiato pacificamente qualora cambi la volontà del popolo. Per altri si riduce invece ad uno smisurato controllo di massa nel quale per legge sono tutti uguali, a prescindere dal proprio valore e dalle proprie capacità. È un sistema in cui le minoranze non hanno diritti che la maggioranza deve rispettare, in cui la proprietà privata può essere confiscata e ridistribuita a chi non ha fatto nulla per guadagnarsela, in cui tutti devono percepire lo stesso stipendio, nonostante l’evidente differenza di capacità, impegno e contributo fornito. Questo secondo concetto di democrazia si avvicina inevitabilmente a un sistema comunista, non di certo ad uno libero.

La parola “democrazia”, quindi, non solo è diventata così vaga da essere quasi priva di significato, ma ha perso anche quasi tutto il suo valore anche come strumento semantico. Il nemico se ne è impadronito e l’ha usata per i propri scopi. I comunisti chiamano il loro sistema (in maniera ingannevole ma non per questo meno accattivante) una “democrazia popolare” e sostengono che la democrazia capitalista è una contraddizione in termini.

Anche se il concetto di “democrazia” non fosse così ambiguo, si riferirebbe comunque in primo luogo a un sistema politico. Tuttavia, il comunismo rappresenta principalmente un sistema economico, di cui l’aspetto politico costituisce una conseguenza o una sovrastruttura. Quindi “democrazia” è comunque un’antitesi errata al comunismo. È come dichiarare che l’ovest è l’opposto del nord, o il freddo è l’opposto del nero.

Comunismo contro capitalismo

Il vero opposto del comunismo è il capitalismo. I comunisti lo sanno, ma molti fra noi anticomunisti no.

Questa è la vera ragione della debolezza ideologica di chi si oppone al comunismo, e dell’inefficacia della maggior parte della propaganda contro quest’ultimo, soprattutto quella del Dipartimento di Stato, del Voice of America e dei governi occidentali in generale. Tutti loro pongono la democrazia in contrapposizione al comunismo, in parte perché sono sufficientemente confusi da crederlo veramente e in parte perché non hanno né la volontà né il coraggio di difendere il capitalismo.

Ci sono diverse ragioni alla base di questa riluttanza. Per cominciare, la stessa parola “capitalismo” è stata coniata e diffusa da Marx ed Engels. È stata deliberatamente concepito come una parola dall’accezione negativa. Doveva indicare quello che probabilmente molti ancora credono: un sistema fatto dai capitalisti per i capitalisti.

La stragrande maggioranza dei burocrati nei Paesi occidentali non crede veramente nei principi fondamentali del capitalismo. La libertà economica insita in esso è estranea alla loro mentalità. Non è naturale per coloro che dirigono lo Stato credere in minore potere statale. Inoltre, non capiscono davvero come funzioni il capitalismo o quali misure sono compatibili con esso. Per natura preferiscono favorire l’inefficiente sistema dei sussidi statali. Quindi si dichiarano a favore di enormi programmi di sussidi esteri, come Point Four[3], degli interventi del Fondo Monetario Internazionale e delle interminabili ingerenze delle Nazioni Unite. Non si rendono conto che queste misure e istituzioni in realtà ritardano o impediscono la libertà di commercio e il libero flusso internazionale di investimenti privati da cui dipendono la ripresa reale, la crescita economica e la produttività.

Infine, anche quando un funzionario pubblico americano comprende e preferisce il capitalismo, è imbarazzato dal fatto che molti dei nostri più importanti alleati europei siano così vicini al socialismo. Pertanto, non osa elogiare particolarmente il capitalismo per paura di offendere indirettamente i nostri alleati socialisti. La vera critica al comunismo non è quasi mai fatta pubblicamente.

Cosa fa la libertà

Il diffuso utilizzo del termine “capitalismo” con intento diffamatorio fa sì che nessuno sarebbe disposto a morire per il capitalismo – certamente non sotto questo nome. Al contrario, milioni di persone sono morte per le fantasie comuniste. Eppure, il termine “capitalismo” è semplicemente l’epiteto marxista per il sistema del libero mercato, della concorrenza privata, del sistema in base al quale ciascuno può guadagnare e godere del frutto del proprio lavoro – in breve, la libertà economica.

Il capitalismo si aggiudica il merito di miglior sistema produttivo del mondo grazie alle sue libertà e alla sicurezza che assicura. Non ha bisogno di “provare” la sua superiorità al socialismo o al comunismo. Lo ha già dimostrato mille volte, sia che si confronti la produttività o che si guardi alle libertà individuali. È sbagliato affermare che il capitalismo sia il sistema migliore per i ricchi o per i datori di lavoro. Al contrario, è il sistema migliore proprio per il lavoratore e per i poveri. Il capitalismo ha dato la possibilità ai lavoratori di migliorare il proprio status, il proprio salario e il proprio benessere a livelli tali che prima della rivoluzione industriale sarebbero stati impensabili. Ancora oggi la crescita non si è arrestata, ma è addirittura accelerata.

La risposta al comunismo è dunque il capitalismo. Ed una volta compreso questo, i dubbi di “strategia ideologica” che abbiamo a lungo discusso iniziano a dissolversi. Non dobbiamo chiederci se stiamo “predicando nel deserto”. Questa stessa domanda si basa su un’idea infondata, come se stessimo parlando di un’azione legale, in cui c’è la “nostra parte” contro la “loro parte”. In questo senso entra inconsapevolmente in gioco la teoria marxista di un vero conflitto di interessi tra “classi” economiche – imprenditori contro lavoratori, ricchi contro poveri. Ma una volta che riconosciamo che il sistema del capitalismo è l’unico praticabile, l’unico che promuove l’interesse sia dei datori di lavoro che dei lavoratori, l’unico che fornisce il massimo delle opportunità per i poveri di uscire dalla miseria, allora la vera distinzione è tra coloro che comprendono il sistema e chi no. Una persona in grado di capire un problema non predicherà mai nel deserto; tutti coloro che sono desiderosi di comprendere saranno pronti ad ascoltarla.

Non dobbiamo nemmeno più chiederci se sia necessario limitarsi esclusivamente a combattere il comunismo, in quanto è un complotto ed una minaccia militare, o se possiamo più semplicemente ignorarlo – in base al fatto che è stato già denunciato in abbondanza – e concentrarci sulla lotta contro le misure di stampo socialiste perché è molto più probabile che esse vengano adottare anche in casa nostra.

La soluzione è semplice. C’è solo una risposta giusta alla somma di 2 + 2 e un numero infinito di risposte sbagliate. Dimostrare che 2 + 2 fa 4 è sufficiente per escludere tutte le altre opzioni erronee. Il comunismo non è altro che la più pericolosa delle risposte errate al problema sociale di base. Il socialismo propone le stesse misure economiche di base del comunismo, nel lungo termine solo leggermente meno aggressive e meno pericolose. La pianificazione, il controllo dei prezzi, l’inflazione e il keynesianismo sono altre risposte errate. Come in aritmetica, esistono infinite risposte erronee. Ma una volta trovata quella corretta, possiamo dimostrare perché tutte le altre siano sbagliate usando quella giusta come base.

In ambito sociale ed economico, dobbiamo impegnarci a sviluppare un programma produttivo. Quel programma è il miglioramento e la diffusione del capitalismo.

Traduzione a cura di Laura Pizzorusso

Fonte: https://mises.org/library/lets-defend-capitalism

[1] Riferimento al programma economico di forte interventismo statale adottato dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt negli anni ’30 del XX secolo

[2] Servizio radiotelevisivo statunitense

[3] Point Four è stato un programma di assistenza tecnica per Paesi in via di sviluppo introdotto dal presidente americano Harry Truman nel 1949