Breve apologia dell’individualismo

Sentir usare la parola individualismo in senso positivo fa storcere il naso a molti. Essa è una parola che ha assunto un valore negativo per la maggior parte delle persone, basti pensare alla dicotomia individuo-società, dove il polo positivo è rappresentato, nel senso comune, dal secondo termine. Per i più questa è una opposizione binaria perfetta che riesce a descrivere la realtà. Però, dal punto di vista liberale, le cose sono leggermente diverse.

Innanzitutto, partiamo dal presupposto che il termine individualismo può assumere diverse sfumature in base al contesto in cui è usata e da chi ne fa uso.  Queste sfumature sono molto diverse tra loro e parlare di individualismo senza aver ben chiaro di cosa si parla può portare a cadere in luoghi comuni e banalità.

Senza pretese di alcun tipo, questo articolo si propone di illustrare alcuni dei significati del termine individualismo, con l’auspicio di essere un incipit per una riflessione sul tema stesso.

In primo luogo, l’individualismo è un approccio metodologico ben preciso. Esso è il principio di indagine alla base della riflessione sulla società e l’economia di Mises, poi ripreso anche da Rothbard. Utilizzando le parole del pensatore newyorkese, questo approccio metodologico può essere così sintetizzato: «solo gli individui hanno fini e possono agire per perseguirli. Non esistono fini delle azioni imputabili a “gruppi”, “collettività” o “Stati” che non possano essere ricondotti ad azioni di specifici individui».[1] Ciò significa utilizzare un certo filtro nel leggere i fenomeni economico-sociali, nell’analisi del diritto e così discorrendo. In questa maniera è possibile vedere cosa c’è alla base della società: essa non è altro che l’insieme degli individui e delle loro relazioni reciproche.

Questa analisi può sembrare banale, ma essa demistifica una visione della società che ha avuto enorme fortuna, ovvero l’idea di una società organica che viene prima dell’individuo e anzi ne è il fondamento. È sostanzialmente la concezione platonico-aristotelica, ripresa poi da Hegel. La dicotomia individuo-società è importante, ma bisogna capovolgere il rapporto rispetto a come comunemente viene inteso. Inoltre, non si può attribuire un valore morale negativo o positivo ad uno dei due termini. Semmai sono le azioni degli individui a poter essere biasimate o lodate. La società, se intesa alla maniera comune, diviene una sorta di ente metafisico che “tiene all’essere l’individuo” il quale, fuori di essa, non può esistere. In realtà, quest’ultima affermazione non è del tutto sbagliata se si prescinde dall’utilizzo dei vari termini attinenti alla metafisica. L’individuo ha bisogno della società. Non può vivere senza di essa, è veramente animale sociale. Ma non è la società ad essere alla base dell’individuo, semmai è il contrario e questo è un punto fermo da tenere a mente.

Quindi, una volta preso atto di ciò, non si può rimproverare ad un individualista di voler essere contrario alla società, di essere una mina vagante. Un individualista non cerca di recidere i legami che tengono insieme il tessuto sociale, ha soltanto preso atto dell’importanza della sua posizione all’interno di quel reticolo.

Individualismo significa anche autonomia, ovvero la capacità di darsi fini liberamente posti e di perseguirli; significa scegliere liberamente cosa fare e come portare avanti le proprie iniziative; significa cercare di realizzarsi il più possibile. Tutto questo non può avvenire al di fuori della società.

Spesso si cerca di descrivere negativamente gli individualisti ricorrendo al concetto di monade o di atomo. Infatti, si rimprovera agli individualisti di essere chiusi in sé stessi, senza finestre sul mondo esterno, egoisticamente arroccati nel proprio rifugio mettendo a repentaglio la società. Ma, come insegna la chimica, gli atomi hanno delle configurazioni elettroniche che li portano a legarsi con altri atomi in maniera da avere una situazione più favorevole ad entrambi. Così si formano molecole via via sempre più grandi fino ad arrivare agli oggetti della quotidianità. Non è forse così che si forma una società? Sono gli interessi individuali ad essere la linfa della società stessa.

[1] Rothbard (1962), p.2.

Perché essere contrari al Salario Minimo?

Leggendo le varie proposte per la campagna elettorale, vorrei analizzare quella di Salvini sul Salario Minimo.
Che cos’è il Salario Minimo? Il Salario Minimo sarebbe una soglia di retribuzione sotto la quale l’imprenditore non può scendere. Per esempio se il Salario Minimo fosse di 1000€, allora all’imprenditore non è permesso pagare uno stipendio inferiore ai 1000€.

Sembra una proposta positiva, ma è in realtà pare sia l’ennesima proposta socialista che non fa bene al lavoro e ai lavoratori.

Vi spiego il mio ragionamento. Il mercato del lavoro in Italia è sempre stato penalizzato dai presunti successi ottenuti dalle lotte sindacali che hanno favorito le riforme pro-lavoro, a cavallo  fra la fine degli anni sessanta ed i primi anni settanta. Stiamo parlando di riforme come lo Statuto dei lavoratori e i Contratti Collettivi. Queste riforme rafforzarono la posizione lavorativa – con una serie di “privilegi” – dei lavoratori di aziende di medio grandi dimensioni, ma con il passare del tempo diventarono sempre di più una penalizzazione per chi poi entrava nel mercato del lavoro.

Nel corso di questi decenni, sulle questioni di lavoro, i governanti hanno “insistito” su un approccio difensivista, ossia eterna diffidenza verso il datore di lavoro; perciò hanno preferito adottare delle politiche per difendere il posto di lavoro anziché favorire l’occupazione. Dunque, i datori di lavoro hanno preferito ricorrere ai contratti instabili oppure al nanismo (porsi un limite di dipendenti per non rientrare nei requisiti posti su pressione dei sindacalisti). Non per niente le imprese italiane hanno un tasso di anzianità interna molto alta (cioè da quanti anni lavorano gli stessi dipendenti) e uno scarso turnover (cioè pochi cambiamenti di dipendenti).
Non finisce qui, perché i contratti collettivi sono i principali responsabili della scarsa crescita dei salari.

Quindi, riepilogando, quando si tenta di regolamentare il mercato del lavoro, spesso e volentieri si incentiva il datore di lavoro – già abbastanza stufo di lungaggini burocratiche- a non assumere o a ricorrere a contratti instabili. Se in una nazione manca il turnover vuol dire che nessun dipendente vorrà mai cambiare lavoro in cerca di stipendi migliori e tenderà a proteggere, con le unghie e i denti, il proprio posto di lavoro. Stabilità non vuol dire “fare la muffa” nello stesso posto di lavoro, ma poter vivere il presente e programmare il futuro. Servono poche regole che sappiano disciplinare i rapporti umani, non di certo i salari. Inoltre, è arrivato il momento di abolire i contratti collettivi e di permettere ai datori di lavoro e al dipendente di contrattare su salari e durata del contratto. Non abbiate timore che non funzioni. Ci vuole un pochino di fantasia e immaginazione. Con tutte le tasse e i costi burocratici, probabilmente si rischierebbe di andare verso un basso salario non tanto diverso da quello attuale, ma con meno tasse e meno burocrazia sarà il mercato a determinare il giusto Salario.
Lasciate fare, o come si dice “Laissez-Faire”.

Democrazia è sinonimo di uguaglianza, giustizia e bene comune?

La libera scelta può esistere almeno in una dittatura che può limitarsi, ma non sotto il governo di una democrazia illimitata che non può”, Friedrich Von Hayek.

Partendo da questa  famosa citazione dello studioso austriaco, in questo articolo tratteremo il tema della demarchia, ovvero dello stato minimo in regime di democrazia, il cui potere è quindi limitato.

Per un liberale di stampo evoluzionista l’accento va posto non sul “chi governa” ma sul “quanto potere ha chi governa”, la demarchia mostra proprio questa propensione alla ricerca di porre dei limiti al potere di chi governa, chiunque sia.

Il significato del termine “democrazia” è con il tempo diventato, ingiustificatamente ed in modo prettamente retorico, sinonimo di giustizia ed uguaglianza.

Come tutti sanno invece esso indica il governo del demos, ossia del popolo, non si tratta quindi di una caratteristica del governo ma è proprio la modalità, per citare nuovamente Hayek “indica un metodo per determinare decisioni politiche, non una qualità sostanziale”.

Si è assistito quindi alla degenerazione del concetto di modo di governo, approvando di fatto un sistema che rappresenta l’insieme incoerente di interessi particolari (non del demos quindi), a favore di un gruppo che riesce mantiene lo status quo grazie al proprio limitato consenso popolare.

Nella attuale democrazia, la maggioranza ripudia la limitazione del potere (necessaria per evitare la tirannia) perché qualunque suo desiderio viene ritenuto giusto per il semplice fatto che sia la maggioranza stessa a determinarlo.

Se il potere legislativo e quello esecutivo sono espressione della medesima maggioranza, a questo punto non vengono sottoposti a nessuna limitazione e il loro agire sarà indirizzato al mantenimento del loro consenso per non uscire dallo status quo, redistribuendo ad esempio reddito in nome di una fantomatica giustizia sociale (giustizia determinata dalla maggioranza).

Il governo dovrebbe essere soggetto alla Legge, non avere un potere illimitato, diventando così impossibilitato a rendere conto agli interessi particolari dei gruppi di consenso, non avendo modo di soddisfarli. L’emanazione poi di sole leggi generali ed astratte, valenti erga omnes, renderebbero i cittadini liberi di muoversi nella propria sfera di autonomia delimitata appunto da esse.

L’indiscutibilità del parlamento e del governo derivano da principi collettivisti il cui assunto è che le norme derivino da società preesistenti, quando nella realtà la società si è creata inintenzionalmente con l’interazione tra singoli individui che sulla base di principi comuni si sono uniti e si sono sottomessi a questi principi (estrinsecati nella Costituzione della Nazione) .

E’ necessaria quindi una sottomissione dei poteri legislativo ed esecutivo ai fondamenti della società creatasi in intenzionalmente, pena cadere nella tirannia della maggioranza.

La DEMARCHIA Heyekiana è una democrazia il cui potere non è illimitato giustificato dal fatto di essere espressione della maggioranza, ma limitato perché sottomesso ai principi sui quali si fonda la società.

Questo concetto non è mai stato più attuale di oggi, l’unica speranza di poter superare l’attuale imbarazzante stasi Istituzionale è proprio quella di poter muoversi verso la direzione demarchica, annullando di fatto la “tirannia” dei gruppi di consenso e dell’apparato burocratico, in nome della libertà e del merito.

La Cina è ancora comunista?

La Cina è ancora comunista? La risposta a questa domanda è complessa ed è possibile scinderla in due parti distinte, che rispondono alla dimensione sociale e alla dimensione economica. La “Repubblica” Popolare Cinese è tutt’ora guidata da una dittatura comunista a partito unico, nella quale il dissenso viene represso anche violentemente.

Società

La situazione dei diritti umani in Cina continua a subire numerose critiche da parte della maggior parte delle associazioni internazionali che si occupano di diritti umani, le quali riportano numerose testimonianze di abusi ben documentati in violazione delle norme internazionali. Il sistema legale è stato spesso criticato come arbitrario, corrotto e incapace di fornire la salvaguardia delle libertà e dei diritti fondamentali.

La Cina è il Paese al mondo in cui si eseguono più condanne a morte, sebbene le autorità si rifiutino di rendere pubblica alcuna statistica ufficiale. Riguardo le condanne eseguite nel 2007, Amnesty International  ha raccolto notizie su 470 esecuzioni, ma ne stima un totale di almeno 6000 nell’arco dell’anno. Nessuno tocchi Caino stima una cifra simile di almeno 5000 esecuzioni nello stesso periodo, con un’incidenza dell’85,4% sul totale mondiale. Entrambe le associazioni riconoscono però che c’è stata una diminuzione nel numero delle esecuzioni, dopo che è stata reintrodotta la norma per cui tutte le condanne a morte devono essere confermate dalla Corte suprema del popolo: ciò consente di attutire la piaga delle condanne a morte comminate dopo processi sommari e iniqui. Alcune stime, tuttavia, sono ben più pessimistiche: un esponente politico cinese, Chen Zhonglin, delegato della municipalità di Chongqing, giurista e preside della facoltà di legge dell’Università Sudorientale Cinese, in un’intervista al China Youth Daily ha parlato di 10.000 esecuzioni l’anno. In quell’occasione Chen dichiarava la sua intenzione di lavorare per migliorare la situazione dei diritti umani in Cina.

Secondo quanto rivelato dal viceministro della salute Huang Jiefu nel corso del 2005, è dai condannati a morte che proviene la maggioranza degli organi espiantati in Cina, spesso senza che il donatore abbia dato il suo consenso, sebbene la legge lo esiga. L’espianto non consensuale pare che venga praticato sistematicamente ai condannati appartenenti al movimento spirituale del Falun Gong, perseguitato dal regime di Pechino ufficialmente dal 20 Luglio 1999, quando l’allora leader del PCC mobilitò le forze di Stato per sradicare il Falun Gong e i suoi praticanti. Questo fenomeno, che ha determinato di fatto un traffico illegale di organi umani, ha generato il sospetto che le condanne vengano eseguite quando c’è richiesta di organi compatibili con il condannato.

Nel 2006 l’avvocato per i diritti umani David Matas e l’ex segretario di Stato canadese David Kilgour, hanno condotto in un’indagine indipendente dimostrando che il personale militare e sanitario nelle carceri e negli ospedali cinesi rimuove forzatamente gli organi dei praticanti del Falun Gong ancora in vita per scopo di lucro. Secondo il loro rapporto, denominato “Bloody Harvest”, tra il 2000 e il 2005 quasi 41.500 praticanti sono morti per questo motivo, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto. Il governo cinese si è frequentemente macchiato di violazioni dei diritti umani nei confronti di minoranze etniche e religiose e dissidenti politici: l’esempio più celebre, per l’opera di sensibilizzazione mondiale in cui si è prodigato il Dalai Lama, è l’occupazione armata del suolo tibetano, oltre che il sopracitato esempio della pratica di qigong del Falun Gong.

Il governo cinese assicura di dispensare la pena capitale solo in caso di gravi reati (omicidio, strage, terrorismo…), escludendo reati politici o di qualsiasi altro genere, e ha pubblicato sul web una copia del proprio codice penale che conferma questa versione. Tuttavia Amnesty International afferma che in Cina sono 68 i crimini punibili con la pena di morte, inclusi reati non violenti come l’evasione fiscale, l’appropriazione indebita, l’incasso di tangenti e alcuni reati connessi al traffico di droga.

In Cina vengono applicate gravi limitazioni alla libertà di informazione, alla libertà religiosa, quella di parola e persino alla libertà di movimento dei cittadini. L’evento più conosciuto in occidente delle azioni di forza perpetrate dalla Cina nei confronti dei dissidenti politici è rappresentato dalla repressione della Protesta di piazza Tiananmen il 4 giugno 1989, in cui perse la vita un numero imprecisato di manifestanti e soldati (200 secondo il governo cinese, tra 2 e 7 mila secondo alcuni dissidenti).

In Cina non esistono sindacati indipendenti, ma solo quello governativo ed è severamente vietato lo sciopero. Lo stato, almeno sulla carta, assicura i diritti dei lavoratori, ma la quantità annua di morti sul lavoro ha destato molte preoccupazioni e parecchie critiche e denunce non solo da organizzazioni umanitarie, ma anche dall’interno degli stessi organi di governo cinesi.

Un’altra accusa di lesione dei diritti umani rivolta al governo cinese è la pianificazione familiare obbligatoria, voluta dallo stesso Mao Zedong e tutt’ora impiegata. La legge che la regola, in vigore dal 1979, è la “Legge eugenetica e protezione della salute”, altrimenti detta ‘’Legge del figlio minore” che si è successivamente evoluta nella cosiddetta “Legge del Figlio Unico“, introdotta nel 2002 e abrogata dalla Corte Suprema cinese nel 2013. Secondo le fonti governative, grazie all’introduzione di questa pratica le nascite evitate nella Repubblica Popolare Cinese sono state 300 milioni. La legge prevedeva che una coppia potesse avere un figlio nelle zone urbane, e due in quelle rurali. I trasgressori potevano portare a termine un’eventuale gravidanza dietro pagamento di un’ingente multa, oppure erano obbligati a rinunciare al figlio.

Le accuse verso questo progetto sono molto pesanti: la lesione della libertà dei genitori; l’uso massiccio e obbligatorio dell’aborto, per di più in modi particolarmente dolorosi; le dure repressioni contro i cittadini che, specialmente in zone rurali o povere, opponevano resistenza al progetto; la violenza verso le donne, visti i casi certificati di sterilizzazioni forzate, operate in molti casi ai danni delle colpevoli; discriminazione verso le donne; in moltissime famiglie (dato anche il divieto di diagnosticare il sesso del nascituro), specialmente nelle zone rurali, le neonate sarebbero uccise, oppure non registrate all’anagrafe (costringendole alla totale assenza di diritti politici e alla rinuncia di istruzione e di qualunque assistenza sanitaria); discriminazioni sociali, perché il sistema fa in modo che i più facoltosi possano “pagarsi” il diritto al secondo (o al terzo) figlio pagando la sanzione corrispondente (in genere di 50.000 yuan, circa 7.700 dollari, 6.400 euro).

Da questi semplici esempi è possibile vedere che il tanto osannato paradiso socialista Cinese esiste solo nella mente dei suoi ignoranti sostenitori.

Economia

Dal punto di vista economico, invece, la situazione è ben diversa. Da circa 40 anni, il PCC ha progressivamente abbandonato il Comunismo Maoista, il quale si rivelò fallimentare e lesivo della società (gli storici stimano che “il Grande Balzo in Avanti”, cioè le riforme economiche volute da Mao per un’industrializzazione forzata della Cina fra il 1958 e il 1961, abbia causato una gravissima carestia nel 1960 che provocò fra i 14 e i 43 milioni di morti, a seconda delle fonti).

Nel 1976, a seguito della morte di Mao Zedong, Deng Xiaoping assurse a leader de facto del PCC. Deng era consapevole che la politica economica attuata dal suo predecessore non avrebbe portato alla crescita, e perciò una volta ottenuto il potere si prodigò per riformare l’economia cinese. Archiviata definitivamente la lotta di classe come elemento fondamentale della società, insieme alla Rivoluzione Culturale voluta da Mao, Deng pose, come obiettivo del governo cinese, lo sviluppo economico del paese.

Nel 1978 Deng presentò al congresso del PCC la riforma delle “Quattro Modernizzazioni”, una riforma destinata cioè a modernizzare quattro settori: agricoltura, scienza e tecnologia, industria e difesa nazionale. Alla base della riforma c’era il cambiamento degli obiettivi strategici dei piani di sviluppo: l’industria pesante, che fino ad allora era stato il settore trainante dell’economia, cedette il posto ad agricoltura ed industria leggera. In particolare il settore agricolo fu profondamente riformato in quanto non più in grado di soddisfare le necessità della popolazione: il problema principale stava nelle tecniche agricole arcaiche utilizzate, rimase immutate per secoli, che il piano economico di Mao non aveva neanche lontanamente pensato di modernizzare.

Ma il vero fulcro della riforma che consentì il boom economico negli anni ’80 e ’90, fu la ristrutturazione dell’apparato statale. In particolare, Deng capì l’importanza di creare un sistema economico nel quale l’industria fosse libera dall’ingerenza dell’amministrazione statale. Per consentire un più stabile collegamento tra imprese locali, statali e collettive e per abbattere le barriere amministrative che ostacolavano la fluidità del processo produttivo, si ricorse alla suddivisione e specializzazione del lavoro. Particolare attenzione fu posta nella preparazione del personale tecnico specializzato e molti studenti cinesi furono mandati all’estero per apprendere le più moderne tecniche produttive. L’attenzione fu focalizzata sulle richieste del mercato, che avrebbe guidato le scelte produttive ed impegnato gli imprenditori a incrementare la competitività e la produzione.

Importanti e decisive furono le iniziative intese a incoraggiare gli investimenti esteri. A questo fine furono istituite le “Zone ad economia speciale“, nel sud-est del Paese, nelle province del Guangdong e del Fujian, Zhuhai, Shenzhen, Shantou e Xiamen, seguite poi, nel 1988, dall’intera isola di Hainan elevata a provincia. In queste zone vennero previsti dei trattamenti preferenziali riservati agli stranieri che avevano intenzione di investire in Cina.

L’apertura verso l’estero e l’introduzione del libero mercato rappresentarono così il cardine del disegno politico voluto da Deng Xiaoping. La dottrina “un Paese, due sistemi”, consentì di giungere tra il 1984 e il 1987 agli accordi fra Pechino e Londra e fra Pechino e Lisbona per il ritorno di Hong Kong e Macao alla madrepatria rispettivamente nel 1997 e nel 1999.I due territori avrebbero avuto lo status di “zone economiche speciali” e un alto grado di autonomia e poteri legislativi e giudiziari indipendenti.

Le riforme messe in atto hanno portato a quella che lo stesso Deng Xiaoping definì “economia socialista di mercato” o “socialismo con caratteristiche cinesi”, una nuova struttura economica che combinava il socialismo, che reggeva la struttura amministrativa ed istituzionale, ad un sistema economico che prevedeva il libero mercato e il libero scambio.

Il concetto di Economia Socialista di Mercato fu portata avanti dai successori di Deng, e la Cina è entrata nel nuovo millennio come attore di primo piano nella politica internazionale. Addirittura nel 1997, il quindicesimo congresso del partito riconobbe l’importanza per l’economia cinese dell’impresa privata, fino ad allora considerata una forza secondaria rispetto alle aziende di stato. Infatti, sebbene le più grandi aziende cinesi siano ancora quelle controllate dallo stato, l’economia è stata trainata dalla crescita del settore privato. Per fare un esempio tra i tanti, secondo un recente rapporto di McKinsey la Cina ha dato vita a un terzo del numero globale di start up tecnologiche “unicorno” (aziende private valutate più di un miliardo di dollari).

Lo stesso Xi Jinping, attuale presidente della Repubblica Popolare Cinese, nel suo discorso in occasione del XIX Congresso del Partito Comunista Cinese, ha parlato esplicitamente di continuazione del processo di liberalizzazione dei cambi e dei tassi d’interesse, assicurando che “la porta della Cina è stata aperta e non sarà chiusa, ma si aprirà di più”.

Tuttavia, ombre si allungano sulla Cina: come in qualsiasi altro Paese caratterizzato da un potere centrale dittatoriale, anche lì è possibile vedere la mano dello Stato smorzare e reprimere le libertà dei cittadini, sia in ambito sociale che in ambito economico:

  • l’indipendenza futura del settore privato è fragile. Negli ultimi mesi il governo cinese ha effettuato un giro di vite su quegli imprenditori che sembrerebbero avviati a diventare degli oligarchi in stile russo. Ha inoltre cercato di frenare le acquisizioni all’estero, oltre che le attività delle principali aziende tecnologiche cinesi, come Alibaba e Tencent;
  • nel 1987, il tredicesimo congresso di partito aveva presentato un ambizioso programma di riforme politiche che secondo Zhao Ziyang, all’epoca Segretario Generale, erano finalizzate a rendere la dirigenza cinese più pluralistica, trasparente e responsabile (pur evitando la democrazia multipartitica, come imposto da Deng Xiaoping). Oggi assistiamo a un indebolimento della società civile dopo anni di repressione politica e ad un rafforzamento dell’autoritarismo. L’obiettivo delle riforme politiche all’interno del partito sembra esser stato soffocato dalla campagna anticorruzione di Xi, che ha effettuato purghe contro funzionari corrotti ma anche contro i suoi avversari politici;
  • nel 1997, il quindicesimo Congresso del Partito ha celebrato il passaggio della sovranità su Hong Kong dal Regno Unito alla Cina: il territorio sarebbe stato amministrato secondo la politica di “un Paese, due sistemi”. Nel 2012 e 2014 sono esplose delle proteste, confluite poi nel “movimento degli ombrelli” del 2014, che ha portato le lotte di Hong Kong all’attenzione del mondo. Eppure, in quegli anni il modello dei “due sistemi” sembrava solido. Oggi, invece, l’elemento più preoccupante della questione di Hong Kong è quanto sia diventato fragile questo stesso modello. Joshua Wong, giovane leader degli attivisti di Hong Kong nel periodo precedente al diciottesimo Congresso del Partito del 2012, oggi è un prigioniero politico. Carrie Lam, succeduta a C.Y. Leung nel ruolo di chief executive di Hong Kong dal luglio di quest’anno (scelta tramite una procedura pilotata in modo da fare emergere una figura gradita a Pechino) ha invitato a enfatizzare i temi patriottici nelle scuole locali. Xi ha chiarito che è determinato a fare tutto quel che potrà per minimizzare le differenze tra le modalità di governo di Hong Kong e quelle delle altre città.

In conclusione, è possibile affermare che l’attuazione di politiche liberiste, seppur molto annacquate dalla pervasiva presenza dello Stato nella vita pubblica, sia stata la principale causa del successo e della prosperità economica cinese. Consapevole che solo un’economia di mercato avrebbe portato allo sviluppo economico, Deng Xiaoping e i suoi successori hanno tacitamente sacrificato l’ideologia all’economia, mantenendo inalterati solo i meccanismi tipici dei regimi totalitari che consentirono a pochi uomini il controllo assoluto della Cina. Ma la prosperità economica non basta, e la Cina potrà definirsi veramente grande solo quando affronterà la “Quinta Modernizzazione”, tanto voluta da Wei Jingsheng e altri riformisti, e cioè la transizione del sistema politico cinese da un regime dittatoriale a una democrazia multi-partitica, nella quale i cittadini cinesi non siano semplici numeri asserviti alla macchina statale, ma uomini con diritti e libertà inalienabili.

A dispetto di quanto dicano molti nostalgici maoisti, la Cina non ha bisogno di una nuova Rivoluzione Culturale, volta alla dittatura del proletariato, ma piuttosto di una vera Rivoluzione Liberale.

Il liberalismo può essere considerato un antidoto patriottico?

Il liberalismo può essere considerato un antidoto patriottico? Dipende da cosa intendiamo come patriottismo. Il patriottismo è spesso associato al nazionalismo, nonostante siano in realtà due pensieri politici molto diversi. Se un giorno dovessi spiegare che differenze ci siano tra i due pensieri, direi che il nazionalismo  è un aspetto oggettivo e il patriottismo un aspetto soggettivo.
 
Con il nazionalismo è lo Stato o il Governo che dice cosa dobbiamo fare per rendere forte l’Italia, con il patriottismo siamo noi cittadini che diamo qualcosa per rendere forte l’Italia. Facciamoci caso, i movimenti nazionalisti della storia italiana si sono sempre espressi come partiti socialisti, in quanto i cittadini si devono “sottomettere” al governo per il bene della nazione.
 
Queste politiche finivano sempre con il rafforzare qualcuno, mentre tanti finivano con l’essere indeboliti. Il socialismo rafforza chi rientra nelle grazie del Governo e dello Stato, ma indebolisce e rende poveri tutti gli altri cittadini.
 
Con il patriottismo, la situazione è molto diversa. Con il patriottismo, sono i cittadini che si rendono disponibili per il proprio Paese. Con i propri doveri, ciascun cittadino contribuisce per migliorare il proprio Paese.
 
In tutto ciò che rapporto esiste tra liberalismo e patriottismo? Se con il socialismo, non solo non siamo liberi, ma tendiamo a ricevere ingiustizie e tendiamo a diventare sempre meno civili con il prossimo, con il liberalismo, invece, nessuno è più penalizzato da tasse e tutti sono posti sullo stesso piano formale.
 
Essere costantemente “aggrediti” dalle tasse vuol dire che il reddito che noi produciamo, non solo finisce alle persone che non producono reddito, ma non riceviamo lo stesso equivalente in servizi da parte dello Stato. Questo provoca malumori, inciviltà e cattiva propensione verso la solidarietà.
 
In Italia la solidarietà imposta dallo Stato ha fallito.
 
Dunque è opportuno iniziare a cambiare questo Paese, iniziando a dare più potere ai cittadini e meno allo Stato. La solidarietà e il civismo possono essere stimolati anche senza ricorrere alle tasse. La solidarietà e il civismo non si stimolano rendendoci tutti “poveri” come pretendono di fare i movimenti o partiti socialisti.
 
In sostanza, il pensiero liberale è l’unico a poter sostenere e incoraggiare le virtù dei cittadini, in modo tale che grazie ai nostri comportamenti, altruisti o egoisti che siano, l’Italia possa essere forte, non solo nel proprio quartiere, ma anche nel mondo.
 
Avere una cultura liberale vuol dire sostenere la nazione senza dover penalizzare altre persone. Si tratta di approcci diversi, in quanto secondo le culture non liberali il cittadino deve sacrificarsi per il bene di tutti. Un liberale, invece, ritiene che il successo di una nazione dipenda dall’insieme dei successi dei suoi cittadini, permettendo a loro di poter dare il meglio di sé.

Quali sono i danni dei sindacati italiani?

 

In principio ci furono le battaglie sindacali degli anni sessanta. Si raggiungessero risultati importanti come lo Statuto dei Lavoratori (1970).
Per i sindacati e gli ambienti del comunismo si trattava di un passaggio storico per l’Italia con l’emancipazione del lavoratore. In realtà, si trattava dell’inizio di una serie di diritti riconosciuti che – con il passare del tempo – iniziavano ad apparire sempre più come dei privilegi.

Molte delle aziende coinvolte erano strategiche per lo Stato (vedasi FIAT) e di medie e grandi dimensioni, perché erano quelle più in grado di mettere in crisi un Paese (con scioperi e manifestazioni) e in difficoltà i governi.
Le lotte sindacali hanno permesso di raggiungere dei risultati, sia dal punto di vista contrattuale, con il contratto a tempo indeterminato sempre più forte e con i contratti collettivi, sia dal punto di vista economico.
Grazie alle lotte sindacali i lavoratori godevano di protezioni statali di ogni genere (malattia, maternità, disoccupazione parziale o temporanea) e di pensioni molto generose. Con le lotte sindacali nasce il famoso “posto fisso” della Prima Repubblica.

Questo modello si manteneva funzionale fino a quando c’era solo il padre di famiglia che lavorava (tranne alcune aziende che assumevano anche donne). Ma con il passare del tempo, con la globalizzazione, le dislocazioni e le diverse esigenze dei cittadini (e non solo dei datori di lavoro), le aziende che rientravano nella categoria dei protetti da Stato e Sindacati iniziarono a vacillare. In parallelo, con l’aumento delle tasse e del costo della vita, non bastava più il lavoro del padre di famiglia, ma serviva anche il lavoro della madre, con tutte le conseguenze che ne determinava, come pagare l’asilo nido.
Ma i sindacati, nonostante si autoproclamavano “difensori dei lavoratori”, si sono concentrarti solo su una parte sempre più minoritaria di lavoratori, ostacolando qualsiasi tentativo di riforma e garantendo proficue pensioni ai lavoratori di queste categorie.

  • Morale della favola è che oggi sono cambiate tante cose, ma dal punto di vista del lavoro:
  • I contratti collettivi a tempo indeterminato e le varie protezioni, nate con le battaglie sindacali, risultano troppo costosi e poco funzionali;
  •  chi è stato assunto fino a metà duemila, oggi risulta un grande costo sia per il datore di lavoro e sia per tutti i cittadini (visto il grande costo tra indennità, pensione e disoccupazione);
  • i datori di lavoro tendono ad assumere con altri contratti che godono di poche protezioni, ma sono meno costosi;
  • Chi viene assunto con contratti non-protetti, è costretto a pagare tante tasse per coloro che hanno avuto o hanno attualmente un contratto protetto.

In sostanza, i sindacati per proteggere una categoria di lavoratori, ha indebolito gravemente il resto dei lavoratori e contribuendo allo sviluppo di lavori irregolari e temporanei. Bisogna, dunque, riformare i contratti di lavoro anche di coloro che sono stati assunti in passato, perché siamo stanchi di vedere delle persone sacrificate per colpa di coloro che sono stati assunti con le condizioni stabilite durante le lotte sindacali. Per quanto riguarda i sindacati, sono per l’abolizione e la sostituzione con mediatori civili che sappiano essere imparziali e propositivi nel far raggiungere un punto d’incontro e per il reciproco rispetto tra datore di lavoro e lavoratori.

Cosa è e cosa NON è il Liberalismo

Da quando sono entrato ne “L’Individualista Feroce”, ho letto con estremo interesse i numerosi commenti scritti sotto i nostri post. Tralasciando i commenti caustici e odiosi di certi utenti, che avevano il solo scopo di denigrare non solo le nostre idee, ma anche noi stessi, non ho potuto fare a meno di notare una certa confusione, per non dire ignoranza, su cosa sia effettivamente il liberalismo. Sia chiaro, il termine ignoranza è inteso nel senso letterale del termine, il semplice non-sapere, dunque scevro da qualsiasi accezione dispregiativa.

Tale ignoranza non deve sorprendere, poiché sono anni che dal dibattito pubblico italiano sono scomparsi rappresentanti del liberalismo classico. Parlando per esperienza personale, quando ti definisci liberale la gente tende a fraintendere il tuo pensiero, semplicemente perché non sa cosa significhi effettivamente.

Ebbene questo articolo ha l’ambizione (forse la presunzione) di voler dare una definizione chiara di questa idea che è il liberalismo, ricordando sempre che esso non è un dogma, ma una serie di principi guida.

Prima di tutto ritengo opportuno fare una distinzione semantica di concetti fra loro correlati, ma differenti, che troppo spesso vengono usati come sinonimi.

  • Liberalismo: Atteggiamento etico-politico dell’età moderna e contemporanea, tendente a concretarsi in dottrine e prassi opposte all’assolutismo, fondate essenzialmente sul principio che il potere dello Stato debba essere limitato per favorire la libertà d’azione del singolo individuo. Dal rischio assolutistico e totalitaristico di uno Stato, deriva l’opposizione liberale allo Statalismo. Uno dei principali teorici del Liberalismo fu Ludwig Von Mises.
  • Liberismo: Il liberismo è una teoria economica che sostiene e promuove la libera iniziativa e il libero mercato come unica forza motrice del sistema economico, con l’intervento dello Stato limitato al più alla realizzazione di infrastrutture di base (ponti, strade, ferrovie, autostrade, gallerie, edifici pubblici etc.) a sostegno della società e del mercato stesso. La sottolineatura è stata inserita per evidenziare un concetto poco noto ai detrattori del liberismo. Noi consideriamo lo Stato un attore fondamentale per il coordinamento dell’attività economica di un Paese. Lo Stato fa da supporto all’economia, non ne è il motore.
    Per la verità, il termine Liberismo fu coniato da Benedetto Croce per indicare la teoria economica afferente al Liberalismo, ma per questo fu criticato da diversi esponenti del liberalismo classico fra cui Von Hayek, Einaudi e Antonio Martino, i quali sostenevano che i concetti sopra esposti fossero parte integrante e non scindibile del concetto di Liberalismo.
  • Libertarismo: Libertarismo, dal francese libertaire, è un termine che indica un ideale e una filosofia-politica che considera la libertà come valore fondamentale, anteponendo la difesa della stessa ad ogni autorità o legge. Il libertarismo mira, cioè, ad una forte limitazione o ad una eliminazione del potere dello Stato e di tutti quegli enti che limitano o avversano la giustizia sociale e la libertà individuale e politica.
  • Capitalismo: è un concetto molto vago sul quale nessuno è mai riuscito a dare una definizione che fosse in grado di mettere d’accordo tutti. Impropriamente usato come sinonimo di liberismo, il termine capitalismo nasce con un’accezione dispregiativa per indicare un’economia in cui è prevista la proprietà privata dei mezzi di produzione da parte di individui o società e che compra e vende beni capitali e fattori di produzione, senza alcun tipo di controllo statale.
  • Neoliberismo: si indica un orientamento di politica economica favorevole ad un mercato privo di regolamentazione e di autorità pubblica ovvero in balia delle sole forze di mercato. Si differenzia dal liberalismo classico per la quasi totale esclusione dello Stato, in qualità di attore economico.
  • Liberal: Termine anglo-sassone, adottato negli USA negli anni ’50-’60 da coloro che rivendicavano e promuovevano posizioni socialiste. Come ovvio, i Liberal americani e i Liberali Classici sono su posizioni completamente opposte, nonostante i nomi simili. I Socialisti americani adottarono il termine molto più morbido di liberal, a causa della repressione su chiunque si dichiarasse apertamente socialista o ancor peggio comunista in quel periodo, e in special modo durante la campagna “terroristica” del Senatore McCarthy.

Noi de “L’Individualista Feroce” ci definiamo Liberali classici (e dunque anche Liberisti, secondo l’accezione di Einaudi e Hayek). Crediamo nel libero mercato, nella concorrenza leale, nella difesa e protezione dei diritti dei consumatori e affidiamo all’autorità pubblica, e alla legge che da essa scaturisce, il compito di difendere le libertà individuali, anche quelle economiche. In termini più semplici, il pensiero liberale si può riassumere in: “La mia libertà finisce dove comincia quella degli altri. La libertà degli altri finisce dove comincia la mia”.

Ora vorrei spiegare cosa non è il liberalismo, passando per una serie di esempi o luoghi comuni che puntualmente vengono attribuiti a esso:

  • “Voi Liberali volete distruggere il Welfare e lasciare la gente ad arrancare nel Far West”: No, non siamo contrari al Welfare, nel modo più assoluto. Noi siamo critici verso un sistema di Welfare pubblico che, a parole, dice di essere per tutti, ma che in realtà, molto spesso, offre un servizio infimo e costoso, tanto che molte persone sono costrette a usufruire del welfare privato, per avere quel servizio per il quale già pagano il sistema pubblico. Noi liberali vorremmo semplicemente poter intavolare una discussione su un riassetto del sistema, anche considerando la possibilità di demandare al privato l’erogazione di alcuni servizi, smettendo di considerare l’argomento un tabù. L’obiettivo di questa discussione sarebbe trovare il sistema più efficace ed efficiente possibile per il consumatore finale. P.S. Onestamente non ho ancora capito questa storia del Far West, che più volte viene ripresa.
  • “La politica neoliberista ha mandato in rovina il paese”:  Non è vero, ciò che ha rovinato questo paese sono state le politiche dissennate del “tassa e spendi” degli anni ’70 e ’80, e continuate poi successivamente senza discontinuità, basate su un’errata interpretazione, o meglio portando come giustificazione, le teorie economiche keynasiane. È vero che Keynes sostenesse l’intervento dello Stato nei momenti più critici per l’economia (crisi del ’29, dopoguerra ecc.), ma è anche vero che persino lui invitava ad un progressivo abbandono dell’intervento statale, nel momento in cui si fosse innescata la ripresa economica. In Italia invece, nonostante il boom economico già in atto, si è continuato a spendere esponenzialmente senza alcun riguardo per la tenuta dei conti pubblici e senza alcuna parsimonia da “buon padre di famiglia”. Soprattutto non era spesa per investimenti pubblici che nel lungo periodo avrebbero portato grande utilità al paese, ma era solo spesa ingente di breve periodo, con poco o nullo impatto sullo sviluppo economico. L’aumento di debito pubblico in fase di espansione economica ha fatto sì che, quando si è arrivati alla recessione del 2009-2010, i margini di spesa che si potevano sfruttare fossero strettissimi, proprio nel momento in cui ne avremmo avuto più bisogno. La Germania nel 2003 aveva una situazione di conti pubblici molto peggiore a quella che noi abbiamo attualmente, ma con una politica economica rigorosa (effettivamente “lacrime e sangue”) è riuscita a sistemarla, diventando la potenza economica che è adesso. La medicina fu amara, ma il paziente ne aveva bisogno. Affrontando adesso il discorso Austerity, vorrei fare alcune precisazioni: le politiche cosiddette di austerità, hanno il solo scopo di ridurre il deficit e rendere il debito pubblico sostenibile nel tempo. Questo si può fare in due modi, distinguendo così fra quelle che io chiamo Austerity buona e Austerity cattiva: il primo modo prevede la riduzione, riformulazione ed efficientamento della spesa pubblica, che nel lungo periodo può e deve portare alla riduzione delle tasse. Il secondo modo, invece, prevede l’aumento delle tasse e il successivo aumento della spesa pubblica. Entrambi i metodi passano in primis per una politica fiscale restrittiva e poi per una politica fiscale espansiva, successivamente. La differenza è che nel secondo caso i margini di manovra sono molto più stretti, poiché non si possono aumentare troppo le tasse, a meno di non causare sconquassi a livello economico e sociale, e dunque non si può neanche aumentare troppo la spesa, specialmente quando è già molto alta come quella italiana. Inutile ricordare cosa scelse di fare il “mitico” Governo Monti, che non solo scelse il metodo meno efficace, ma riuscì a farlo anche male. Riassumendo, le politiche “tassa e spendi”, portate ancora avanti dal governo attuale, hanno sconquassato i conti pubblici senza avere una proporzionata crescita di PIL, e successivamente, poiché ridimensionare la spesa pubblica in questo paese è un tabù assoluto (basti vedere che fine hanno fatto i commissari alla Spending Review e le loro relazioni), si è optato per delle politiche fiscali folli, in continuità con il passato. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
  • “La Riforma Fornero è una politica liberista che ha creato un sacco di danni”: Dato che so già che arriverà un commento di questo tenore, faccio che rispondere subito. Si stima che circa 2/3 della spesa pubblica italiana sia destinata al sistema pensionistico. Questo è di fatto un problema di non semplice soluzione. La Riforma Fornero fu un tentativo di rimodulare il sistema previdenziale che, come tutti sanno, è uno dei grandi problemi di questo paese. Sebbene tale riforma potesse essere lodevole nell’intento, gli effetti sul lungo periodo sono stati disastrosi e soprattutto fu incapace di scalfire minimamente il problema del sistema previdenziale. Fu una riforma raffazzonata, pasticciata e fatta di fretta. La riforma del sistema previdenziale è un passaggio obbligato per il risanamento dei conti pubblici e per il rilancio dell’economia, ma non riteniamo che questo sia il metodo. Mi permetto anche di aggiungere che, oltre che prendersela con la Fornero, bisognerebbe anche prendersela anche con coloro che hanno creato il problema in primis, e cioè coloro che per anni hanno sostenuto un sistema previdenziale retributivo.
  • “Voi liberali vi curate solo degli interessi delle multinazionali”:  Questo è uno dei punti preferiti dei detrattori del liberalismo. Questa frase è palesemente falsa. I liberali si curano degli interessi di TUTTE le imprese, piccole o grandi che siano, poiché riteniamo che siano il vero motore della prosperità economica e sociale di un paese, e allo stesso tempo difendiamo a spada tratta i diritti dei consumatori. Su quest’ultimo punto non transigiamo. Fra queste imprese, difendiamo anche gli interessi delle multinazionali o big corporation, nazionali e non, e riteniamo stupido scagliarsi contro queste aziende, e ora intendo spiegare perché. Qualche dato giusto per orientarsi (fonte ISTAT, periodo di riferimento 2014): In Italia sono attive circa 13569 imprese a controllo estero, contro le 22388 controllate italiane all’estero. Le multinazionali estere contribuiscono per il 27,4% dell’export italiano, un fatturato di circa 524 mld €, valore aggiunto per 97 mld e un contributo all’ R&D del 23,9% e danno lavoro a circa 1,2 mln di persone. A discapito della vulgata comune, in media, i dipendenti delle multinazionali sono trattati molto meglio e hanno stipendi e condizioni di lavoro migliori rispetto ai loro omologhi di imprese nazionali. Per quanto riguarda, invece, quelle multinazionali che si trasferiscono all’estero, in paesi dove la considerazione per i diritti dei lavoratori, civili e umani è scarsa, riteniamo che sfruttare queste condizioni da parte di queste imprese sia un errore, se non un atto criminale. Ogni qual dove si violino i diritti delle persone, tale violazione va perseguita giudiziariamente se possibile, o attraverso azioni di protesta. La violazione dei più elementari diritti umani e civili non può essere tollerata in alcun caso.
  • “Le multinazionali si trasferiscono all’estero per pagare meno tasse”. Verissimo, dato che in Italia abbiamo un Total Tax Rate di circa il 62%, non si capisce perché dovrebbero volontariamente restare in Italia, quando possono legalmente trasferirsi altrove e pagare di meno. Se invece di sbraitare ci rendessimo conto di questo e decidessimo di ridurre e semplificare le tasse sulle imprese, non solo avremmo un effetto benefico per le imprese nazionali e per l’economia tutta, ma diventeremmo anche un paese attrattivo per queste multinazionali che a quel punto si trasferirebbero molto volentieri in Italia.
  • “I liberisti sfruttano e schiavizzano i dipendenti”: Ho in parte già risposto poco sopra, ma intendo approfondire. A tal proposito mi viene in mente un pezzo di cronaca letto tempo fa: la vicenda girava intorno un grande negozio di elettronica di consumo e riguardava una dipendente che, durante il turno di lavoro, chiese al titolare di potersi assentare per poter andare in bagno. Il titolare rispose di no, nonostante le ripetute richieste della dipendente, la quale alla fine non riuscì più a trattenersi e finì per farsela addosso, con sua grande vergogna, davanti ai clienti. Sotto la notizia lessi parecchi commenti dello stesso tenore: “maledetti neo liberisti, capitalisti, sfruttatori dei lavoratori ecc.”. La vicenda è vergognosa e sfortunatamente ricalca numerose situazioni lavorative, ma dare la colpa ai liberali e alle nostre idee è sbagliato. Il titolare, e chiunque si comporti così verso i propri dipendenti, non è un liberale, è semplicemente un coglione. Andando più nello specifico, questo comportamento non attiene al liberalismo poiché il violare i diritti dell’individuo è assolutamente contrario alle nostre idee. Noi aborriamo comportamenti di questo tipo, che sia il titolare del piccolo negozio, l’imprenditore, l’amministratore delegato ecc. ad adottarli. Non solo, un comportamento del genere è classificabile come mobbing e DEVE essere denunciato. Noi siamo a favore delle imprese, degli imprenditori E dei dipendenti, i quali devono essere trattati in modo giusto, equo e rispettoso.
  • “Voi liberisti state dalla parte delle Banche” Altro punto che piace molto ai nostri detrattori. Non è vero, noi riteniamo importantissimo il ruolo delle banche e di tutti gli intermediari finanziari all’interno del quadro legislativo, ma lo interpretiamo come supporto all’economia. Bisogna fare finanza per l’economia e non finanza per la finanza. La finanza deve essere l’olio lubrificante e non il motore dell’economia. Noi liberali rifiutiamo il concetto di “Too Big to Fail”, anche se riconosciamo che a volte, per il bene del paese, costi meno salvare la banca, ma allo stesso tempo pretendiamo che i manager che hanno portato al dissesto della banca vengano processati penalmente, e che vengano tolti loro tutti i requisiti di onorabilità necessari per sedere nuovamente in consigli di amministrazione di banche o imprese. Le banche sono a tutti gli effetti imprese non dissimili dalle altre e, se gestite malamente/criminalmente, fatti salvi i depositi e i conti correnti, bisogna avere il coraggio di far chiudere loro i battenti.

Il miracolo economico della Rep.Ceca: dal socialismo all’Europa

In vista delle elezioni parlamentari del paese, esaminiamo il cambio di rotta dell’economia ceca dopo essersi liberata dalla camicia di forza dello statalismo sovietico. Come ha fatto la nazione ceca a generare uno sviluppo economico così sostenuto nel lungo periodo e a diventare uno dei centri più dinamici del mercato unico?

Dopo la dissoluzione del blocco comunista, iniziata con le rivoluzione nei paesi dell’Europa dell’est a cavallo tra gli anni ottanta e gli anni novanta, e il fallimento de facto del socialismo e della pianificazione centralizzata dell’economia, tutti i paesi che precedentemente facevano parte del patto di Varsavia dovettero risollevare un economia completamente disastrata e sempre più atrofizzata dall’incipiente inflazione, ripristinare i diritti di proprietà, sviluppare un mercato interno e cercare di attrarre capitali esteri.

Storicamente parlando, la Cecoslovacchia fu una delle economia più avanzate, visto la sua lunga tradizione industriale, ad adottare un sistema di pianificazione socialista dell’economia: aveva delle grandissime potenzialità di crescita economica nel secondo dopoguerra, ma in poco tempo, dopo una lieve crescita del PIL nell’età dell’oro grazie all’industrializzazione forzosa, seguì le orme del URSS e, intorno agli anni settanta, le contraddizioni insite nel sistema diventarono palesi.

La scarsa efficienza degli investimenti statali deriva dalle difficoltà insite nella pianificazione dei processi produttivi che prevedeva una fase di organizzazione della produzione, una di politica del prezzo e, infine, un’imposizione del prodotto nel mercato; diversamente da quanto accadeva in un sistema capitalistico. Perciò le risorse venivano allocate senza tener conto dei costi opportunità dei fattori di produzione, con un costante aumento del deficit statale.

Ciò era possibile solo con una politica monetaria espansiva e inflazionistica, poiché oltre a mantenere in vita settori industriali obsoleti e in perdita, si doveva acquietare una popolazione sempre più povera, e soprattutto rifornirla di beni di consumo. Tra il 1950 e il 1970, il PIL dell’Europa orientale era pari al 50% di quello dell’Europa occidentale, e nel 1990 sarebbe sceso al 30% del PIL Europeo.

A distanza di quasi 30 anni dal crollo del blocco socialista, le economie dell’est Europa presentano un quadro dell’economia nazionale ben diverso rispetto all’era sovietica e post sovietica e rappresentano ormai uno dei poli con maggiore attrazione di capitali esteri, in particolare la Polonia e la Rep.Ceca.

La recente storia economica della Rep.Ceca è un classico esempio contemporaneo di come l’apertura con l’esterno, il ripristino dei diritti di proprietà, il libero commercio, il capitalismo e la democrazia rappresentativa abbiano avuto effetti costruttivi sulle economia che prima erano socialiste. Ma non solo. È un esempio di come questi prerequisiti, coadiuvati dal vantaggio dell’arretratezza, siano i principi cardine che stanno alla base della crescita economica.

Possiamo individuare tre ragioni alla base di questo fenomeno:

  • Il trasferimento tecnologico e l’importazione della maggior parte delle tecnologie industriali dal vicino tedesco, paese leader nel settore, si sono tradotti in un miglioramento della qualità nel settore manifatturiero ceco, in particolare nel comparto automobilistico.

  • Il prodotto nazionale lordo è dato dalla somma di tutti i settori e ovviamente fra questi vi sono grandi differenze in termini di produttività: le dimensioni dei settori tradizionali a bassa produttività (commercio al dettaglio, servizi…) sono in genere piccole nei paesi economicamente avanzati e numerosi nei paesi arretrati. Di conseguenza, le economie più povere recupereranno terreno rispetto a quelle più ricche con il semplice spostamento della forza lavoro da settori a bassa produttività, come l’agricoltura, a settori ad alta produttività, come l’industria, rendendo comunque i settori tradizionali più efficienti e dinamici.

  • In questa prima fase, partendo da livelli salari molto bassi, i paesi poveri registreranno maggior quantità di investimenti, poiché presentano un rapporto capitale-lavoro molto basso. Ma soprattutto, registreranno tassi di crescita del PIL annuo di gran lunga superiore a quelli delle economie già industrializzate.

Difatti, dall’entrata nell’Unione Europea nel 2004, la Rep.Ceca, così come gli altri paesi dell’Europa dell’est, ha conosciuto un’espansione economica senza precedenti, passando da un tasso di incremento del PIL intorno al 1,9% nel 2003 al 6,9% del 2006, a fronte di quello tedesco passato dallo -0,3% nel 2003 al 3,7% del 2006. Dopo essersi ripresa dalla recessione del 2008, il paese ceco è tornato ad essere dinamico nel mercato europeo (con un modesto calo durante la breve recessione del 2011-13) registrando nel 2015 un tasso di crescita del PIL del 5,3%, a fronte di quello tedesco intorno al 1,7% nello stesso anno. Anche gli scambi commerciali hanno conosciuto un’espansione notevole dal 2011 al 2016 con un tasso di crescita delle esportazioni del 2,61%, passando da $151 miliardi a $160 miliardi, e una diminuzione delle importazioni, passate da $149 miliardi a 138 miliardi. La Repubblica Ceca è la conferma di come il vantaggio dell’arretratezza, la convergenza tecnologica e culturale e l’apertura commerciale siano le fondamenta su cui edificare una crescita economica e sociale sostenuta nel tempo. 

Come paradossalmente aveva predetto Karl Marx, i sistemi sociali che creano benessere materiale e progresso sociale si autoconsolidano, mentre quelli che non sono in grado di creare e garantire prosperità falliscono, per poi crollare sotto il peso delle proprie contraddizioni.