Quando pensiamo agli euroscettici, solitamente ci vengono in mente loschi figuri che propongono di uscire dall’Unione per poter tornare ad una valuta sovrana da stampare come i soldi del Monopoli o che parlano di quanto sia cattiva l’Europa a imporci cose brutte come il pareggio di bilancio, il divieto degli aiuti di Stato e la concorrenza.
Qualcuno va delirando e addirittura cita Margaret Thatcher, la stessa Margaret Thatcher che era contraria all’euro per l’Italia perché, parole sue, ha “un’economia inefficiente”.
Verrebbe da dire che un liberale non può che essere europeista, ma non è vero. In questo articolo vedremo come essere euroscettici e sostenere idee liberali non sia affatto in contrasto e ipotizzeremo come e perché un governo liberale possa uscire dall’Unione.
Personalmente, sia chiaro, non ho pregiudizi sull’integrazione europea e difficilmente farei campagna attiva per l’uscita, specie valutando quale sarebbe l’alternativa in Italia. Tuttavia sono fortemente sfiduciato dal progetto europeo formato da Stati. Alla fine l’UE è un club di Stati: loro decidono, loro comandano e danno un contentino democratico col Parlamento europeo.
Se poi certi Stati – *coff* Spagna *coff* – sono disposti ad uccidere pur di non perdere la sovranità, state sicuri che non accetteranno supinamente un progetto che un giorno può svegliarsi e dire “Sai Madrid, domani la Catalogna vota per l’indipendenza e se non lo permetti ti commissariamo”.
L’unica Europa federata che a mio parere potrebbe funzionare veramente come vorrebbero gli europeisti duri e puri è quella dei 1000 Liechtenstein, per citare Hoppe.
Perché uscire?
Torniamo a noi. Per quale motivo un governo liberale potrebbe voler uscire dall’Unione? Le possibili ragioni sono varie.
La prima è commerciare più liberamente. Se è vero che l’Unione europea ha raggiunto grandi obiettivi nel libero commercio, soprattutto quello interno, è anche vero che spesso, grazie all’influenza degli stati centralisti dell’Europa occidentale, tale progresso resta bloccato quando il libero commercio può “danneggiare” l’economia di uno di questi Stati, si pensi a tutte le scuse che la Francia ha inventato per provare a bloccare l’accordo col Mercosur, avverso agli agricoltori francesi.
Grosso modo gli Stati dell’Associazione Europea del Libero Scambio, oggi Svizzera, Liechtenstein, Norvegia e Islanda, commerciano come l’UE oltre che con essa. Ma nulla vieta a questi Paesi di avere più trattati di libero commercio rispetto all’Unione europea. Tant’è che, per esempio, l’equivalente EFTA del CETA è entrato in vigore nel 2009, mentre il CETA nel 2017, e tra l’altro in via provvisoria.
Un’altra possibile motivazione è quella di voler liberalizzare l’agricoltura, come fatto ad esempio in Nuova Zelanda. Nell’Unione europea l’agricoltura è fortemente regolata e uno Stato non può semplicemente dire “da oggi liberalizzo”. I Paesi EFTA invece possono fare quello che vogliono, l’agricoltura è esplicitamente esclusa dai trattati.
Se si vuole una nazione con un modello liberale sulle armi, tra l’altro, uscire dall’Unione è praticamente obbligatorio. Bruxelles odia le armi, c’è poco da fare, e se con gli Stati esterni può fare pressioni come minacciare ripercussioni su Schengen, com’è successo per esempio con la Svizzera, con gli Stati membri può agire molto più incisivamente.
Se un governo liberale volesse un “secondo emendamento” starebbe in pratica dicendo “vogliamo uscire dall’Unione europea”, c’è poco da dire.
Ma si potrebbe voler uscire dall’Unione anche per un mero fatto politico: commerciare e scambiare merci, persone e servizi liberamente con uno Stato non vuol dire per forza volerci stare assieme politicamente. Uno Stato può apprezzare i prodotti ungheresi o i servizi spagnoli e voler fare bonifici a commissioni nazionali verso la Polonia ma non voler aver nulla a che fare con le politiche di dubbia qualità democratica dei due Stati in questione.
Per qualcuno perdere un po’ di rappresentanza potrebbe essere un prezzo accettabile per non essere invischiato nei vari problemi dell’UE.
Come uscire?
Come dovrebbe un governo liberale uscire dall’Unione europea? Oggi abbiamo un solo caso di procedura di uscita dall’Unione, quello inglese, che è stato abbastanza confusionario.
La procedura della Brexit è sicuramente un caso da non imitare. A mio parere la miglior maniera di fare una secessione è quella prevista dalla Costituzione del Liechtenstein: si vota sull’argomento e poi sul trattato.
La legge italiana rende tuttavia difficile votare un referendum del genere perché richiederebbe una legge costituzionale. Farne due potrebbe essere difficoltoso, se quindi un governo avesse un mandato popolare chiaro dovrebbe fare una cosa: andare a Bruxelles e trattare fin da subito.
Le cose da ottenere sarebbero principalmente il poter rimanere nello Spazio Economico Europeo, avere la strada aperta per entrare nell’EFTA, mantenere Schengen e poter rimanere nei progetti europei interessanti e concordati. Se ci sono dei debiti è bene pagarli subito per partire da una posizione migliore.
Una volta concluso il trattato i cittadini voteranno per quel trattato in un referendum. Non voteranno un generico “restare” contro “uscire”, voteranno uno specifico trattato. Se questo trattato vince non è colpa del populismo, di Trump, di Bolsonaro o di chicchessia, semplicemente i cittadini hanno ritenuto quel trattato e le relative implicazioni più vantaggiose dell’appartenenza all’UE.
Poche cose cambierebbero nell’immediato: Gli Stati dell’EFTA – eccetto la Svizzera che non è nello Spazio Economico Europeo – sono praticamente come Stati dell’UE. Ma un governo liberale potrebbe iniziare a cercare nuovi trattati di libero scambio, ridurre l’interventismo in agricoltura, modificare la politica sulle armi o altro che onestamente non mi viene nemmeno in mente.
Se ti fosse venuta voglia, beh, pensaci bene
Magari con questo articolo ti ho convinto che uscire dall’Unione europea è una cosa positiva. Ti invito ad approfondire l’argomento anche consultando altre fonti perché da un articolo divulgativo come questo non è saggio trarre insegnamenti tali da mutare le proprie visioni politiche.
Se sei veramente convinto, beh, valuta bene come schierarti. La posizione liberale euroscettica è profondamente minoritaria.
Tipicamente gli italiani euroscettici lo sono perché credono che il libero scambio, la concorrenza e la libertà economica abbiano danneggiato l’Italia. Sostenere un partito euroscettico italiano, oggi, vuol dire negare ogni singola parola scritta in questo articolo.
Significherebbe stare con l’Italia che sussidia l’agricoltura alla follia, che si chiude su sé stessa per tutelare qualche azienda decadente (dimenticando che le proprie Regioni ricche vivono di export), con il partito unico dell’inflazione, della svalutazione e del debito.
Perché, alla fine, se condividi quello che ho scritto non sei euroscettico, sei semplicemente liberale. Credi in piccoli Stati che commerciano liberamente tra di loro, che di scambiano idee, persone e servizi senza che da ciò derivi necessariamente un’unione politica forte. Un sistema che Thomas Jefferson ben sintetizzava come “Pace, commercio, e onesta amicizia con tutte le nazioni ingarbugliando le alleanze con nessuna”
In Italia tutti gli appartenenti alla frastagliata galassia liberale sono convintamente filo-Unione Europea e spesso invocano più Europa come soluzione ai problemi che di volta in volta si discutono.
Cosa significa più Europa?
Analizziamo in breve cosa può significare l’invocazione di più Europa. Chi utilizza questo slogan sostiene in generale che debbano aumentare le materie direttamente gestite dall’Unione Europea, che la legislazione europea debba crescere e intervenire in ambiti sempre maggiori, che le istituzioni europee debbano coordinare e talora dirigere in maniera ancora più decisa le politiche degli stati membri.
Ebbene, tutto ciò non è esattamente in linea con alcuni dei principi fondamentali del metodo liberale.
L’Unione Europea è un’istituzione sovranazionale democratica con finalità politiche, quindi un potere pubblico a tutti gli effetti, per di più caratterizzato da un assetto burocratico enorme e costoso e da una limitata possibilità di controllo “dal basso”, viste le dimensioni continentali.
Una critica liberale
Chiedere più Europa è a mio parere un obiettivo discutibile che sovente si scontra con due principi fondamentali del Liberalismo: la limitazione del potere e la negazione del “punto di vista privilegiato”.
Il principio di limitazione del potere
Riguardo al primo punto, dire acriticamente più Europa equivale a dire più potere pubblico, più intervento pubblico dell’Europa sugli Stati (quindi indirettamente sui cittadini) o direttamente sugli individui. Sia ben chiaro, io non nego che questo sia necessario in qualche settore, anzi sono pronto anche a mettere la firma nero su bianco dove sarebbe necessario questo maggiore intervento. Per esempio io ritengo che su Difesa, Politica Estera e Immigrazione la sovranità dovrebbe essere attribuita all’Unione Europea in maniera sostanziale.
Ma attenzione a dire più Europa sempre e comunque, perché ogni potere pubblico, anche e a maggior ragione quello europeo, deve essere limitato e controllato, altrimenti, per la legge di gravità del potere, diventa ipertrofico e liberticida.
Cosa succederebbe se creassimo una Unione Europea con grandi poteri in ogni campo e poi alle prossime lezioni europee vincessero forze nazionaliste e illiberali? Avremmo consegnato uno strumento potentissimo nelle loro mani.
Non cadiamo nel rischio di miticizzare l’Unione europea come fanno molti partiti dell’area liberal e socialista. Quando sento frasi del tipo “La nostra stella polare è l’Europa”, mi viene in mente il famoso “sol del avvenir” di Sovietica memoria e questo è solo un esempio della visione dogmatica e teleologica che circonda l’Unione Europea. Insomma, bisogna stare alla larga dall’ideologia secondo la quale ad ogni costo bisogna aumentarne le funzioni e i campi di intervento.
La negazione del “punto di vista privilegiato” sul mondo.
E qui mi ricollego al secondo punto: per tutte le forze Euro-fanatiche l’Unione Europea è diventata il nuovo “punto di vista privilegiato” sul mondo. Un punto di vista elevato, illuminato, infallibile che quindi non si discute ma che al contrario va recepito. Quante volte abbiamo sentito la frase “va recepita la direttiva europea n° 123”. Ormai ci siamo abituati e lo accettiamo acriticamente, come farebbe un funzionario sovietico con una direttiva proveniente “dall’alto”.
Invece un liberale ha il dovere di dubitare, ma soprattutto di rifiutare ogni pretesa di infallibilità e di possedere una conoscenza superiore, privilegiata sulla realtà. Non a caso Bruxelles è popolata da una tecnocrazia autoreferenziale e convinta della propria superiorità intellettuale.
L’UE sta diventando il nuovo “legislatore onnisciente” che tutto conosce, tutto decide e tutto risolve. E invece non è così, un liberale deve rifiutare con forza tale paradigma.
Una Unione “forte ma poco affaccendata”.
Una federazione “leggera” di stati europei serve, serve tantissimo, ce lo richiedono le sfide della modernità e della globalizzazione, ma bisogna evitare di beatificare l’UE ad ogni costo. Io lo dico forte e chiaro, W l’Europa, W l’Euro, abbasso i nazionalismi! Però il super-stato europeo burocratizzato, tecnocratico e illimitato questo no, non lo possiamo proprio accettare! Vogliamo una Europa che sia, come direbbe Roepke, “forte ma poco affaccendata”.
Il 13 maggio 1939, da Amburgo salpava la MS St. Louis, transatlantico al comando del capitano Gustav Schröder, tedesco anti-nazista. A bordo c’erano 930 ebrei che, perseguitati in Germania e consapevoli della ghettizzazione in corso, avevano radunato tutto ciò che avevano e comprato biglietti e visti turistici per entrare a Cuba, dove intendevano stanziarsi.
Giunti a Cuba, solo pochissimi di loro vennero accettati poiché le leggi sull’immigrazione erano cambiate e i visti non erano più validi. Inutili furono anche gli appelli a Stati Uniti e Canada: la St. Louis dovette riattraversare l’Atlantico e fare rotta verso Anversa, dove approdò il 17 giugno, dopo oltre un mese in mare.
Gli esuli ebrei, rifiutati nel Nuovo Continente, trovarono rifugio in Gran Bretagna, Belgio, Francia e Olanda. Chi conosce un po’ di storia potrà intuire la loro sorte. 84 morirono in Belgio, 84 in Olanda, 86 in Francia, e 1 soltanto in Gran Bretagna a causa dei bombardamenti.
Qualche anno più tardi, in Germania l’apparato repressivo funzionava a pieno regime. A tonnellate, i corpi degli ebrei eliminati venivano smaltiti in forni crematori, bruciati in grosse fosse comuni, o seppelliti in luoghi remoti lontani dalle città. L’ex soldato polacco Chaim Engel fu uno degli sfortunati internati del campo di sterminio di Sobibor, circa 11 chilometri a sud-est di Wlodawa.
Chaim Engel era nei sonderkommando, le unità di internati adibiti a compiti come gestire i cadaveri, spogliare i nuovi arrivati, depredarne e catalogarne gli averi, eseguire lavori di manutenzione al campo, e così via. In un magazzino di stoccaggio dei vestiti conobbe Selma, colei che sarà la sua futura sposa. Insieme, presero parte al piano di evasione organizzato da alcuni prigionieri dell’Armata Rossa, il 14 ottobre 1943.
Uccisero delle guardie SS con pugnali e asce trovati tra i bagagli sottratti ai prigionieri, indossarono le divise dei tedeschi, e radunarono tutti i prigionieri per l’appello. Il piano era condurli fuori dal campo fingendo di portarli al lavoro, così da ingannare le vere guardie del campo. Purtroppo, i prigionieri (non consapevoli del piano) credettero di essere stati radunati per essere sterminati, e scoppiò il caos.
Tra mitragliatrici e mine, Chaim e Selma riuscirono miracolosamente a lasciare il campo insieme a pochi altri prigionieri. Fuggirono nei boschi e giunsero a un vicino villaggio. Chaim e Selma erano stati previdenti: durante il loro lavoro coi bagagli avevano raccolto un po’ per volta degli oggetti di valore, oro, dollari americani e qualunque cosa potesse essere scambiata.
Riuscirono quindi a pagare lautamente una famiglia del villaggio affinché li nascondesse. I tedeschi arrivarono, catturarono alcuni prigionieri rifugiatisi nel villaggio, e li fucilarono. Chaim e Selma invece, ben nascosti, la fecero franca. La loro vita finirà in tarda età, negli Stati Uniti.
Cos’hanno in comune queste due storie, oltre all’evidente brutalità del regime nazista?
Agli ebrei di queste due storie, non uniche nel loro genere, fu tolto ogni diritto dal regime nazista, persino lo status di esseri umani. Ma neanche il regime nazista poté privarli della ricchezza che avevano accumulato e della possibilità di usarla per comprare beni e servizi. Nonostante la distruzione delle attività commerciali di ebrei, nonostante i prelievi dai conti correnti, nonostante le deportazioni nei ghetti, gli ebrei riuscirono sempre a portare con sé contante e metalli preziosi coi quali scavalcare ogni divieto legale.
La zona grigia tra legalità e illegalità fu la loro salvezza. Lo “stato di natura” in cui un umano scambia qualcosa con un altro umano, senza intermediari. Se il regime nazista avesse potuto bloccare i conti correnti e abolire completamente il contante, gli ebrei sarebbero stati privati anche di quei pochi mezzi per comprare un biglietto e fuggire via, per comprare del pane in nero, per pagarsi un rifugio, dei vestiti, corrompere una guardia, e così via.
Gli ebrei della St. Louis furono sfortunati, ma come loro, migliaia e migliaia di ebrei si allontanarono dalla Germania prima che fosse troppo tardi. Un blocco dei conti correnti li avrebbe irrimediabilmente imprigionati nel loro Paese, dove sarebbero stati condotti al macello come bestie inermi. Chaim Engel ebbe moltissima fortuna rispetto agli altri internati di Sobibor, ma se poté sopravvivere fuori dal lager fu solo grazie al denaro e all’oro che aveva rubato ai suoi sfortunati correligionari massacrati.
Il contatto diretto e fisico con il denaro, un mercato basato sullo scambio manuale, tangibile, naturale, furono elementi essenziali per Chaim Engel. Nei ghetti ripuliti dai rastrellamenti sopravvissero a lungo numerosi ebrei nascosti tra le macerie. Anche costoro comprarono ciò di cui avevano bisogno grazie ai risparmi che il regime nazista non aveva potuto raggiungere. Ma se per pagare del cibo fosse stato richiesto loro di mostrare una carta di credito associata a un conto corrente, sarebbero morti di fame.
La prospettiva di smaterializzare la ricchezza e delegarne per legge l’intera gestione al sistema bancario è il sogno di ogni regime totalitario come quello nazista. Resta quasi impossibile raggiungere il denaro nascosto nelle abitazioni private, che sono milioni, ma è facilissimo agire coattivamente su poche banche e, in pochi secondi, bloccare l’accesso ai conti correnti ai cittadini sgraditi. In un batter d’occhio lo Stato può impoverire completamente un cittadino.
Ciò non significa che i metodi di pagamento elettronici vadano demonizzati o vietati. Questi restano un’ottima invenzione, ma è l’abolizione del contante ad essere una deriva molto pericolosa, perché colpirebbe principalmente i poveri, gli ultimi, gli sgraditi. Permetterebbe allo Stato di decidere chi vive e chi muore.
Nessuno crede davvero di potersi ritrovare sotto una spietata dittatura, eppure accade ancora nel mondo. Preservare la libertà è un nostro compito, nessun altro lo farà per noi. Il contante non salvò tutti gli ebrei dalla persecuzione, questo è chiaro, ma permise a molti di fuggire o di sopravvivere nell’illegalità. Questo non va mai dimenticato.
Qualche settimana fa Matteo Salvini, sul caso Cucchi, dichiarava:
Questo testimonia che la droga fa male sempre e comunque
Ecco, non ci vuole un genio a capire che una frase del genere ha una logica sostanzialmente inesistente. Sarebbe come fermare uno che ha violato la legge Mancino, sparargli e citare l’esempio come pericolo dell’odio. Ma evidentemente frasi del genere fanno breccia nei cuori di certe classi conservatrici che temono che qualche parente “usi la morte” e credono che qualcuno debba intervenire.
Ma, in secondo luogo, ci mostra come avere politici senza alcun tipo di formazione economica sia un male, sempre e comunque.
Piaccia o no, la lotta alla droga è una posizione irrazionale perché parte dall’idea che la legge possa fermare il consumo e la vendita di sostanze stupefacenti. Ma se c’è domanda e c’è offerta la legge è inutile, tant’è che tutte le tragedie di droga avvengono oggi, con la droga vietata e repressa.
Le leggi di mercato derivano da comportamenti umani innati ed esattamente come le leggi della fisica, che consentono sia di portare la luce in tutte le case sia di uccidere un condannato sulla sedia elettrica, sono impersonali: non smettono di valere se il bene è brutto.
Si deve agire dunque all’interno di queste regole se si vuole portare a casa qualche risultato. I sistemi che non l’hanno capito, che purtroppo per noi costituiscono la maggioranza, solitamente causano più danni della droga come sostanza di per sé.
Non ci vuole un genio a capire il perché. Se ti droghi, e la droga la compri in droghificio, ti metti in una situazione di pericolo (droghe) con alcune precauzioni (personale addestrato del droghificio), se la comperi al boschetto di Rogoredo le situazioni di pericolo aumentano esponenzialmente. Questo non solo per la droga in sé, ma anche per le scelte fatte in quel contesto specifico.
Ecco, in vari paesi, ad esempio in Svizzera, non c’è nulla di male a sostenere la legalizzazione della droga, tant’è che Ignazio Cassis, l’equivalente elvetico del ministro degli esteri, è di quest’opinione.
Ma in Italia no. È considerata una bestemmia e se osi solo proporlo vieni bollato come amico dei drogati nonché sostenitore della morte e attaccato da politici, chiese, comunità di recupero e chi più ne ha più ne metta.
Il punto è il seguente, sarà (anche) perché la nostra classe politica è convinta che basti una legge dello Stato a risolvere ogni problema?
L’Italia è uno dei paesi europei più forti dal punto vista dell’assistenzialismo, delle dimensioni dello Stato, della pressione fiscale, della spesa pubblica e dei sussidi per le aziende.
Secondo l’Istitute Heritage, l’Italia è nella posizione numero 80 dell’Index Of Economic Freedom. L’indice della Libertà Economica è il più famoso indice che classifica tutti i paesi del mondo su fattori come libertà imprenditoriale, di mercato, libertà dalla corruzione, diritti di proprietà, efficienza dell’apparato giudiziale ed ancora libertà fiscale, del mercato del lavoro e livello delle spese governative.
Parliamo di una posizione di classifica assai preoccupante. Consola il fatto che la posizione è inserita in una categoria di nazioni “moderatamente libere”, ma sono maggiori gli aspetti a preoccupare: l’Italia dista solo 15 posizioni e 2,2 punti rispetto alla categoria di nazioni considerate “prevalentemente non libere”. L’Italia è la terza nazione meno libera nell’Europa occidentale, superando solo Croazia e Grecia.
Piaccia o non piaccia, ma esiste una forte correlazione inversa tra libertà economica e statalismo: più il livello di statalismo è forte, minore è la libertà economica. Questo tende a produrre una ricchezza, presumibilmente fittizia. Una ricchezza provocata arbitrariamente dallo Stato, piuttosto che grazie alle logiche di mercato.
Tra i paesi meno liberi o tendenti alla repressione figurano paesi come Russia, Cina, Nord Corea, ma facendo una ricerca approfondita possiamo riscontrare molti aspetti in comune.
Giusto per fare un elenco: – Tra questi paesi riscontriamo uno Stato di diritto piuttosto debole; – La magistratura è fortemente politicizzata e debole; – Il concetto di proprietà privata piuttosto condizionato. In alcune nazioni non esiste la proprietà privata; – Gli affari economici e imprenditoriali sono strettamente legati con il clientelismo; – La corruzione è molto forte; – I burocrati “governano”, godendo di ampia impunità; – Lo Stato dirige direttamente alcuni settori di mercato; – L’iniziativa economica, se è libera, è alle condizioni dello Stato; – Alcuni mercati tendono a liberalizzarsi (vedi Russia), ma i sussidi sono talvolta più incisivi del profitto;
L’Italia non è, oggi, a questi livelli così drammatici. Ma su una cosa possiamo essere tutti d’accordo. In Italia uno scenario simile si è presentato, soprattutto durante o successivamente dopo la crisi del ’29-30, per opera del fascismo. Alla fine degli anni Venti, il governo fascista adottò una serie di misure affinché tutte le imprese private, o comunque quelle decisive a fini strategici, diventassero pubbliche per sopravvivere. Le logiche di mercato vennero messe da parte, e si andò a creare una politica monetaria a circolo chiuso in cui le aziende rimanevano in piedi solo con le droghe (sussidi) statali.
Lo stesso IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, non solo nacque per raccogliere i rottami dell’industria privata, ma esistette fino al 1995 a “governare” il mercato italiano. La stessa IRI che per quasi mezzo secolo fu il principale datore di lavoro d’Italia, in quanto possedeva un numero impressionante di aziende considerate “private”. Si otteneva una ricchezza falsa, priva di fondamento. Ma soprattutto è con il Fascismo che si inizia una non-cultura del profitto e della libera concorrenza.
Ma non limitiamoci all’aspetto meramente industriale ed economico: l’apparato statale costituito dal fascismo all’indomani della crisi economica di fine anni Venti era molto simile all’elenco sopra citato. La stessa Carta del Lavoro, nonostante sia sorta nel 1927 e sia quindi pre-crisi, è la dimostrazione della nascita dello Statalismo in Italia.
Giusto per fare qualche esempio: – Punto II. Il lavoro, sotto tutte le sue forme, organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche e manuali, è un dovere sociale. A questo titolo, e solo a questo titolo, è tutelato dallo Stato. Il complesso della produzione è unitario dal punto di vista nazionale; i suoi obbiettivi sono unitari e si riassumono nel benessere dei singoli e nello sviluppo della potenza nazionale; – Punto VII. […] L’organizzazione privata della produzione essendo una funzione di interesse nazionale, l’organizzazione dell’impresa è responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato […]. – Punto IX. L ‘intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi politici dello Stato. Tale intervento può assumere la forma del controllo, dell’incoraggiamento o della gestione diretta.
Anche dal punto di vista burocratico è da considerare l’altissimo tasso di corruzione e clientelismo negli affari interni dello Stato durante gli anni Trenta. Da non dimenticare, ma è superfluo ricordarlo considerando che stiamo parlando di uno Stato Totalitario, lo “schiacciamento” politico nei confronti della Magistratura e uno Stato di Diritto pressoché inesistente.
Possiamo certamente dire che l’Italia ha abbandonato una buona parte del marciume statalista nato con il Fascismo, anche se il percorso è iniziato molto tardi dato che la primissima Italia repubblicana diede continuità al progetto statalista precedente. Sicuramente con la Costituzione si posero le basi per uno Stato di Diritto, per una democrazia, e per la libertà, ma dal punto di vista economico e burocratico la strada è ancora molto lunga.
Da considerare che, anche se negli anni novanta abbiamo abbandonato quel mostro chiamato IRI, recentemente lo Stato sta ancora una volta dimostrando di non comprendere di non potersi permettere di fare l’imprenditore (VEDI Alitalia) e di avere al suo interno una corruzione e clientelismo forti (VEDI la pubblica amministrazione o aziende come Trenitalia).
Questo per capire che il cordone ombelicale con il passato non è stato ancora tagliato. I passi avanti dell’Italia ci sono stati, ma sono deboli e insufficienti. Abbiamo tanto lavoro da fare, ma il timore è che le forze politiche oggi maggioritarie abbiano l’intenzione, per fini differenti, di ripristinare sempre di più quel mostro chiamato Statalismo.
Con questo articolo analizzeremo in dettaglio come si è sviluppata la massiva inflazione che colpisce oggi il Venezuela.
Nel 2019, questo paese è l’incontrastato campione mondiale dell’inflazione, con un fantasmagorico 10,000,000%, secondo le ultime stime del FMI.
Per dare un ordine di magnitudine, ad oggi (Ottobre 2019), per comprare 1 Dollaro, i Venezuelani devono spendere la bellezza di 19.709 Bolivar Soberano (VES). Questo vuol dire che 1 Milione di VES equivalgono a soli USD 50,73.
La domanda è, come siamo arrivati fino a questo punto?
La storia dell’inflazione del Venezuela, in fin dei conti, è la storia del Venezuela degli ultimi anni, il risultato naturale dell’implementazione del cosiddetto “Socialismo del XXI Secolo”, tanto caro a Hugo Chavez ed a molti altri leader della sinistra latino-americana, tornato recentemente in auge, grazie anche alle rivolte in Cile ed in altri paesi latino-americani.
Per questo motivo, l’articolo sarà diviso in tre parti.
Nella prima parte parleremo delle cause alla base di questo fenomeno, le quali sono da ricercare nell’orribile gestione economica e nell’aumento massivo di spesa pubblica perpetrato durante l’epoca delle “vacche grasse” del governo Chavez, il quale riuscì a finanziare ogni delirio populista grazie al prezzo incredibilmente alto del petrolio.
Nella seconda parte poi, analizzeremo come la situazione è sfuggita completamente di mano dal 2013 in poi. La forte caduta del prezzo del petrolio, lasciò il paese con uno spaventoso deficit fiscale e commerciale, che il governo di Maduro decise (purtroppo) di finanziare in larga misura con emissione monetaria e riduzione di stock di dollari della Banca Centrale del Venezuela.
Nell’ultima parte poi, tratteremo a livello quantitativo l’andamento del Bolivar e dell’inflazione in Venezuela.
I parte: L’epoca delle “vacche grasse“
Abbiamo chiamato questo come il periodo delle “vacche grasse”, a causa dell’esorbitante aumento del prezzo del petrolio che caratterizzò gli anni dal 2003 al 2013. Questo fu il vero motore che permise di finanziare le prime fasi del socialismo Venezuelano.
Per rendere l’idea, nel 2003 il prezzo del Crude Oil WTI si aggirava intorno ai $31 al barile, mentre nel 2008, anno in cui il prezzo del petrolio raggiunse l’apice, questo triplicò raggiungendo i $100 al barile. Tutto ciò ebbe ovviamente un tremendo impatto nelle possibilità di finanziamento del governo Venezuelano, dato che il petrolio rappresentava circa il 40% delle entrate del governo ed oltre il 90% delle esportazioni del Venezuela.
Si potrebbe parlare a lungo di questo periodo. Tuttavia crediamo che le cause principali dell’attuale crisi, e della conseguente inflazione, siano da attribuire principalmente all‘aumento esorbitante della spesa pubblica, attraverso il cosiddetto “Sistema Nacional de Misiones”, all’orribile gestione finanziaria di PDVSA, la compagnia petrolifera nazionale del Venezuela, ed alle nazionalizzazioni intraprese dal governo di Hugo Chavez, le quali distrussero in maniera drammatica il settore privato Venezuelano.
Il “Sistema Nacional de Misiones “
Durante questo periodo Chavez cominciò un’enorme espansione della spesa pubblica, che passò dal 28% del PIL al 40% nel 2013. L’aumento principale della spesa avvenne attraverso una serie di programmi sociali pubblici chiamati “Sistema Nacional de Misiones”. Creati per “beneficiare” le classi più povere del Venezuela e tuttora in vigore, questi abbracciano un vasto numero di aree, tra cui educazione, sanità, abitazioni pubbliche, lavoro, alimentazione etc.
All’inizio, come talvolta accade con questo tipo di programmi pubblici, ci fu un significativo miglioramento delle condizione di vita delle classi più povere del Venezuela. Per rendere l’idea, dal 1999 al 2006, la povertà passò da circa il 50% al 30% e la povertà estrema calò dal 21% al circa 10%. Si ebbero miglioramenti significativi anche in altre aree come alimentazione, educazione etc.
Insieme a questi risultati positivi, però, ci furono anche tutta una serie di scandali legati al “Sistema Nacional de Misiones”, tra cui episodi di corruzione, inefficienza, mala gestione e addirittura casi di vere e proprie violazioni dei diritti umani. Uno dei più interessanti e drammatici, è quello legato all’ambito sanitario, il cui programma denominato “Mission Barrio Adentro” fu implementato, così come altre misiones, anche grazie all’aiuto di professionisti cubani inviati in massa dal regime di Fidel Castro. Si stima infatti che Cuba, abbia inviato oltre 44.800 concittadini, di cui oltre la metà medici, per servire come veri e propri schiavi nelle misiones, in parte come mezzo di pagamento per il debito pubblico contratto dal governo Cubano. Il governo Venezuelano, inoltre, paga per gran parte di questi professionisti tra $1500 ai $4000 al mese, ma il governo Cubano trattiene quasi tutto il loro stipendio, pagando i suoi concittadini intorno ai $100 al mese. La ONG “Solidaridad sin fronteras” descrive questo fenomeno come:
Uno dei più grandi traffici di esseri umani mai perpetrati da uno stato nazionale.
Dal 2010, ci sono state oltre 700 diserzioni di medici ed altre figure professionali Cubane. Casi simili sono stati riportati anche in altri paesi, come ad esempio in Brasile.
Aldilà di queste gravissime problematiche, il vero problema del “sistema di misiones” era ed è l’insostenibilità del loro finanziamento.
Le nazionalizzazioni e la mala gestione delle imprese statali
Un altro elemento alla base della crisi attuale, furono le nazionalizzazioni in molti settori, tra cui quello agrario e petrolifero, e l’orribile gestione finanziaria di molte imprese pubbliche, tra cui la più eclatante fu quella di PDVSA, la compagnia petrolifera nazionale del Venezuela ed una delle principali fonti di finanziamento del governo, poiché come precedentemente menzionato, il petrolio rappresenta il 90% dell’export Venezuelano e praticamente l’unica fonte di dollari per l’economia.
Al riguardo di PDVSA ci sarebbero moltissime storie da raccontare. Ci concentreremo tuttavia su 3 episodi particolarmente importanti.
Il primo di questi è lo sciopero generale del settore petrolifero del 2002. Questo sciopero scaturì come conseguenza del recente colpo di stato di Hugo Chavez, il quale aveva preso da poco il potere, ed in seguito ad un pacchetto di leggi molto polemiche approvato dalla assemblea nazionale venezuelana, chiamato “ley habilitante”. Immediatamente dopo questo evento, il governo di Chavez decise di licenziare in tronco oltre 18.000 dipendenti e di rimpiazzarli con funzionari più vicini al regime. Questo all’epoca rappresentava circa la totalità dei dipendenti della compagnia.
Il secondo episodio è legato alla nazionalizzazione di molti asset di imprese petrolifere straniere come ad esempio Exxon Mobil e ConocoPhilips, i quali passarono in mano a PDVSA nel 2007, dopo che queste compagnie si rifiutarono di formare una join venture con il governo Venezuelano. Questo risultò in una massiva fuga dal paese di compagnie petrolifere, che portarono via con se anche le loro competenze.
Il terzo e ultimo episodio poi, è stato forse il più drammatico dal punto di vista finanziario per PDVSA. Questo si tratta di una misura presa dal governo Bolivariano, chiamata “Sistema de Democratización del Empleo” (SISDEM), tradotto dallo spagnolo in sistema di democratizzazione del lavoro, la quale portò PDVSA a quadruplicare il numero di dipendenti, senza alcun tipo di giustificazione economica. Il numero di barili prodotti dalla petroliera infatti, non solo non aumentò, ma non fece altro che diminuire nel corso degli anni.
Possiamo quindi soltanto immaginare il livello di inefficienza e mala gestione raggiunti da questa compagnia, la quale riusciva a restare a galla solo ed esclusivamente grazie all’altissimo prezzo del greggio.
Oltre alla mala gestione di PDVSA, come in ogni buon governo populista di taglio socialista, il governo di Chavez iniziò tutta una serie di nazionalizzazioni. Questo tipo di misure hanno ovviamente contribuito a distruggere il già scarno tessuto industriale del Venezuela, rendendo la nazione ancora più dipendente dal petrolio e dalle importazioni di prodotti esteri.
Dal 2005 ad oggi il governo Venezuelano avrebbe nazionalizzato 1.359 compagnie attraverso espropri e confische. I dati del “Observatorio de Derechos de Propiedad del Centro de Divulgación del Conocimiento Económico para la Libertad” della ONG “Cedice” ci dicono che oggi oltre 1000 di queste imprese hanno chiuso definitivamente i battenti.
Oltre a questo negli ultimi 17 anni, il governo Venezuelano sarebbe intervenuto su oltre 60 imprese multinazionali, le quali avrebbe scatenato una vera e propria fuga di massa di questo tipo di compagnie dal paese, oltre ad una serie enorme di battaglie legali, che sarebbero costate miliardi di dollari allo stato del Venezuela. Una delle più recenti, quella con Exxon Mobil, è costata ad esempio $1.4 miliardi.
II Parte: La crisi
La crisi in Venezuela cominciò intorno al 2013. I primi sentori della crisi imminente si iniziarono ad avvertire già durante l’ultimo periodi di Chavez. In quel periodo iniziò a cadere fortemente il prezzo del petrolio, il quale si dimezzò nel 2015, raggiungendo i $49 a barile.
Come abbiamo precedentemente visto, a causa dell’implementazione del “sistema di misiones”, la spesa pubblica non aveva fatto altro che aumentare negli anni.
Inoltre, nonostante un prezzo del petrolio ancora molto alto, le entrate del governo erano diminuite notevolmente anche a causa anche della sempre minor efficienza produttiva di PDVSA.
Come vediamo di seguito, infatti, dall’inizio del governo di Chavez, il trend seguito dalla produzione di barili di petrolio è stato costantemente decrescente. Questo andamento si è poi notevolmente intensificato dopo il 2013, anche a causa delle sanzioni degli U.S.A. le quali sono iniziate ad Agosto 2017, in seguito alle ripetute violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime di Maduro.
Tutto questo, unito al consistente aumento dei costi affrontati da PDVSA, molti dei quali legati all’aumento smisurato del numero di dipendenti dopo l’implementazione del SISDEM, contribui notevolmente a diminuire la redditività della compagnia.
Un’altra cosa che contribui notevolmente a ridurre le fonti di finanziamento del governo fu anche la distruzione del settore privato, verificatasi durante il governo di Chavez. Secondo la ONG “Cedice”, dall’inizio del suo governo ci sarebbe stata una vera e propria ecatombe di aziende in Venezuela. Ilnumero di aziende presenti nel paese si sarebbe infatti ridotto di un 75%, e le poche aziende rimaste ad oggi sarebbero quasi tutte aziende storiche del Venezuela o aziende direttamente controllate dal governo.
Nel grafico di seguito vediamo quindi l’evoluzione del deficit pubblico in Venezuela. In blu troviamo le entrate del governo ed in grigio la spesa pubblica.
Ad oggi le cifre ufficiali del deficit pubblico Venezuelano non sono note, poiché il governo di Maduro non rilascia statistiche ufficiali al riguardo. Tuttavia, la CIA stima questo numero intorno ad un fantasmagorico 46% del PIL.
Vediamo un andamento molto simile per quanto riguarda il deficit commerciale. Il governo Venezuelano, attraverso le sue politiche, ha portato il Venezuela a non produrre praticamente più niente internamente. Praticamente tutto viene importato, creando uno spaventoso deficit commerciale, che necessita di dollari per essere finanziato.
Le cause della crisi inflazionaria Venezuelana a questo punto sono chiare, e sono legate alle necessità di finanziamento del governo, in particolare dopo l’assunzione di Maduro nel 2013.
A causa della quasi completa distruzione del settore privato, il governo Venezuelano non aveva la possibilità di aumentare le tasse. A questo punto quindi, per il governo di Maduro restavano solo 2 strade da percorrere. La prima, tagliare i programmi sociali e rischiare fortemente di perdere la base di sostegno popolare, la seconda, ricorre a forme di finanziamento alternative come debito pubblico ed emissione monetaria. Ovviamente, il governo di Maduro optò per la seconda via, erodendo sempre più velocemente il valore del Bolivar, rendendolo oggi una moneta praticamente priva di valore.
III Parte: l’evoluzione dell’inflazione in Venezuela
Dobbiamo dire che il Venezuela, così come altri paesi sudamericani, ha sempre sofferto il male dell’inflazione. L’inflazione a due digiti è sempre stata la norma da queste parti.
Tuttavia, il vero problema iperinflazionario iniziò intorno al 2014, poco dopo l’insediamento del governo di Maduro e in concomitanza con la diminuzione del prezzo del petrolio. Per rendere l’idea, l’inflazione nel 2013 si attestava intorno al 29,4%, solo 0,1% superiore rispetto all’anno precedente. Nel 2014, questa saltò a 61,5%.
Negli ultimi anni, abbiamo assistito anche ad una massiva diminuzione delle riserve di dollari della Banca Centrale Venezuelana. Come possiamo vedere nel grafico di seguito, lo stock di dollari ha un trend discendente dal 2008, periodo in cui, come abbiamo visto precedentemente, il deficit pubblico e commerciale Venezuelano cominciò ad ingrandirsi.
Di seguito, possiamo vedere la correlazione tra deficit ed emissione monetaria e riduzione delle riserve di dollari. Come possiamo vedere dal grafico, la correlazione è assolutamente cristallina. L’emissione monetaria, così come la diminuzione dello stock di dollari della Banca Centrale del Venezuela, è servita a finanziare il deficit.
Come si può vedere dal grafico, lo stock di moneta, espresso in dollari, è drammaticamente diminuito negli anni. Questo è legato al fatto che il governo, nonostante abbia continuato a stampare moneta a man salva, non ha potuto mantenere il passo dell’inflazione, lasciando l’economia in una crisi di liquidità molto grande.
Si stima che ad oggi il 95% della liquidità sia in moneta elettronica, principalmente depositi bancari, e che solo il 5% della base monetaria sia effettivamente in contanti. Questo comporta, che gran parte dei beni arrivi a costare fino a quattro volte meno se pagato in moneta fisica.
Il governo venezuelano, nel tentativo di controllare l’aumento dei prezzi, ha deciso di intraprendere un programma di limitazione di prezzi. Questo, insieme ad altri fattori, ha portato ad una scarsità generalizzata di prodotti di consumo, che già nel 2014 raggiungeva il 25% dei beni. Negli ultimi anni, questo problema si è talmente aggravato, tanto che oggi il Venezuela, il paese con la più grande riserva di petrolio del mondo, affronta addirittura una mancanza generalizzata di combustibile.
Un altro dato interessante, anche se estremamente drammatico, è quello legato all’andamento del salario minimo, il quale è diminuito in maniera incredibile, durante il governo di Maduro, proprio a causa dell’erosione del potere d’acquisto. Nel 2012, il salario minimo si aggirava intorno ai $360 al mese, ed era abbastanza in linea con altri della regione. Nel 2015 purtroppo, questo aveva già raggiunto la misera cifra di $31. Oggi, dopo l’ultimo decreto presidenziale, il salario minimo in Venezuela si attesta intorno ai $3. Questo oggigiorno equivale al prezzo di due “happy meal” a Caracas. Ovviamente ciò non ha fatto altro che far esplodere la povertà in Venezuela, la quale oggi si attesta intorno al 90%.
Il futuro del Venezuela è molto buio purtroppo. Il danno fatto prima da Chavez, e poi da Maduro è stato enorme, lasciando il paese in una crisi economica profondissima, che si è poi trasformata in una delle più grandi crisi umanitarie della regione, e mi spingerei a dire della storia moderna. Si stima infatti che ad oggi i Venezuelani che hanno lasciato il paese sono oltre 4 Milioni e l’esodo sembra non fermarsi.
In aggiunta a tutto ciò, in Venezuela si è installato ormai un vero e proprio narco-regime, che rappresenta senza ombra di dubbio, la maggior fonte di destabilizzazione per una regione, che già storicamente è stata più e più volte fortemente soggetta al populismo più selvaggio e becero. Il problema più grande inoltre, è che a causa di tutte queste problematiche che abbiamo elencato, il regime Venezuelano è ormai disperato, e possiamo solo immaginare cosa sarà capace di fare pur di mantenere il potere nei prossimi anni.
Abbiamo appena assistito ad una crisi di governo. Una crisi figlia del nostro assetto costituzionale che, pur volendo dare un bel po’ di potere allo Stato, voleva evitare un forte accentramento politico.
Da tempo mi interrogo sulla forma di governo migliore per uno Stato liberale. A mio parere questa forma dovrebbe avere principalmente tre caratteristiche:
Rappresentare quanti più cittadini possibile;
Avere una visione a lungo termine e un certo potere di implementarla;
Non essere schiava delle logiche elettorali.
Ho scartato subito la Repubblica presidenziale: essendo un ruolo elettivo si rischia di perdere una qualsiasi garanzia e di legare anche la più importante carica del Paese a logiche a breve termine per ottenere voti. Se è accettabile in grandi Stati federali in un sistema di controlli e contrappesi, in Stati unitari invece rischia di essere un pericolo per la prosperità.
La Repubblica parlamentare è migliore ma di poco: il Presidente viene eletto dai Partiti ma dipende un po’ meno da essi che in uno Stato presidenziale, tende ad avere una visione di termine leggermente maggiore ma comunque resta il fatto che, avendo pochi poteri, i problemi si spostano al premier e, premierato debole o forte che sia, resta il problema della visione a breve termine e delle logiche elettorali. E anche se decidessimo, come accade in Cechia o in Austria, di eleggere direttamente il Presidente, poco cambierebbe.
Verrebbe naturale pensare alla Monarchia ma, Liechtenstein a parte essendo un’eccezione, le Monarchie europee sono solo leggermente più stabili delle Repubbliche, per il semplice fatto che hanno il medesimo sistema istituzionale sostituendo il Capo di Stato eletto con uno non eletto e vitalizio.
Un Capo di Stato collegiale?
Nel 1160, tuttavia, i Lombardi idearono un particolare sistema per la propria alleanza: un capo di Stato collegiale. La Lega Lombarda, che era una confederazione con compiti commerciali, giudiziari e politici oltre che militari, aveva un consiglio denominato universitas composto da membri dotti della società nominati dai singoli comuni.
Tale impostazione venne ripresa dai rivoluzionari francesi e, in tempi più recenti, dalla Confederazione Svizzera, che ad oggi rappresenta l’unico Stato ad adoperare questo sistema.
Si parla, in questi casi, di repubblica direttoriale: il Capo di Stato è collegiale ed è composto da pari; se c’è una figura unica, come il Presidente della Confederazione, assume esclusivamente un ruolo di rappresentanza poiché è un primo tra pari.
Perché è un sistema stabile?
Perché più o meno tutti sono rappresentati nel consiglio di governo. Nel sistema elvetico c’è un accordo de facto tra le forze politiche, denominato “formula magica”, ma si può anche immaginare una formula proporzionale direttamente prevista per legge.
Il governo, collegialmente, deciderebbe su vari temi rendendo possibile convergenze parallele e non obbligando a creare alleanze fisse: ogni partito sceglierebbe i migliori uomini e costoro, nel governo, deciderebbero.
E qualora non vi sia un accordo può decidere il popolo, nella forma di Parlamento o con voto diretto. Non è un caso che in Svizzera non esistano elezioni anticipate e sia la Patria della democrazia diretta: è una semplice conseguenza del sistema direttoriale.
Un’altra conseguenza potenzialmente piacevole è che il Capo dello Stato collegiale, se decide all’unanimità, rappresenta gran parte della popolazione. Pensate ad un potere di veto forte (ad esempio superabile solo per voto popolare o con un’elevata maggioranza di entrambe le camere): se venisse dato a Mattarella da solo sarebbe un conto, verrebbe sicuramente contestato, mentre se un consiglio che vede a destra Giorgia Meloni e a sinistra Pietro Grasso decidesse unanime che una legge ha qualcosa che non va forse tutti i torti non li avrebbe.
Certo: in Italia collaborare col nemico si chiama “inciucio” se lo fa l’avversario, se invece lo fanno gli alleati si chiama accordo. Ma vediamo bene i risultati: instabilità, riduzione della sovranità popolare, trasformazione del parlamento in un passacarte dell’esecutivo e, in definitiva, uno Stato peggiore.
Dove invece l’inciucio è legge, dove la “governabilità” sarebbe vista come un concetto degno di una dittatura, dove in ogni livello, dallo Stato federale al più piccolo comune montano, bisogna giungere ad accordi e dove, per buona pratica istituzionale, la minoranza del governo sostiene le decisioni prese collegialmente invece di aprire le crisi di governo defollowandosi su Instagram, si ha stabilità politica, economica e una vera partecipazione popolare.
Non me la sento di condannare totalmente gli scioperi, se usati come mezzo di contrattazione col datore di lavoro. Se, ad esempio, il datore di lavoro non paga, non fa lavorare in sicurezza o non rinnova i contratti, ritengo comprensibile il protestare astenendosi dal lavoro.
Tuttavia, ultimamente, lo sciopero è fin troppo spesso usato come strumento politico. Basta leggere le ragioni degli ultimi scioperi nella scuola, nelle poste o nel trasporto pubblico per leggere cose come:
Sciopero contro la regionalizzazione della scuola
Sciopero del TPL contro la liberalizzazione
Sciopero del TPL contro l’austerità e per il diritto alla casa
Sciopero delle Poste contro le politiche neoliberiste
Sia chiaro, le persone hanno diritto di credere in ciò che vogliono e di manifestare collettivamente. Non hanno tuttavia il diritto di interrompere un servizio pubblico quale la scuola o il trasporto pubblico per le proprie idee.
È infatti assurdo che, se i professori sono contro la volontà della maggioranza dei cittadini in tema d’autonomia, possano tranquillamente bloccare la scuola in tutta Italia quando, se la stessa cosa fosse fatta dagli studenti di una singola scuola anche per ragioni pratiche (si pensi alle scuole in pietose condizioni, grande successo della nostra scuola pubblica), si configurerebbero gli elementi per un’accusa di Interruzione di Pubblico Servizio.
Non si può, tuttavia, pensare di risolvere il tutto limitando il diritto di sciopero. Se Reagan ci insegna che ogni tanto andare di forza può aver senso, è chiaro che se categorie protette e lobbistiche come quelle dei dipendenti pubblici possono avere così tanto potere è per connivenza della politica e, soprattutto, perché c’è troppo Stato nell’economia.
Se iniziamo a mischiare economia e lavoro, esattamente come fin troppo spesso accade in questo Paese dove essere “pubblico” -anche se spesso corrisponde a malagestione- è sinonimo di “bello”, è chiaro che stiamo dando un enorme potere ad una categoria singola a discapito delle scelte democratiche e individuali degli altri, cioè a chi può garantirsi il supporto della politica proprio scioperando. Ed è un circolo vizioso che solo una presa liberale di coscienza potrà evitare.
Perché è semplicemente discriminatorio che il cittadino comune, se ha un problema, debba agire secondo la legge mentre il membro della casta possa semplicemente interrompere il proprio servizio, imponendo la propria idea a tutti. Occorre dunque eliminare la mano dello Stato in settori dove non è essenziale, come l’istruzione o il trasporto pubblico, e fare in modo che diventino delle normali società private, con responsabilità chiare, e dove lo sciopero non è un’arma elusiva della democrazia e delle scelte individuali.
Nelle società necessariamente pubbliche, invece, si può mantenere un’autorità di garanzia che si occupi di impedire gli scioperi meramente politici permettendo, invece, quelli non politici.
Vi stupirà sapere che un liberale classico come me, quando legge i post del Fronte della Gioventù Comunista, non resta amareggiato, almeno fino ai tre quarti del post.
Infatti il FGC ha varie volte fatto notare problemi palesi dell’istruzione italiana, l’ultimo in ordine temporale quello dei problemi dell’edilizia scolastica. Giusto per capirci: c’è un crollo nelle scuole pubbliche ogni tre giorni e, aprendo un giornale a caso della provincia lombarda, il dato è confermato empiricamente: A distanza di due giorni è crollato l’intonaco in una scuola di Caravaggio, appena costruita, e in un’altra di Treviglio. E sono due paesi confinanti.
Ma ciò che mi lascia sempre l’amaro in bocca è vedere questi giovani disposti a mettersi in gioco per cambiare le cose dare la colpa a chi non c’entra nulla: il liberismo.
La scuola pubblica italiana è quanto più lontano esista dal liberalismo economico. E’ gestita dallo Stato, in un regime di quasi-monopolio: essendo l’alternativa a pagamento, nonostante si sia già pagata la propria parte con la tassazione, la concorrenza è disincentivata. E in certe regioni del Sud, più disagiate economicamente, è un monopolio totale (in Calabria solo l’1% frequenta scuole non statali, infatti è la peggiore istruzione d’Italia), senza cura per alcuna logica di costi, tant’è che spende 3000€ in più ad alunno rispetto ad un largo e generoso sistema a voucher.
Ed è da ciò, dall’essere statale, che derivano questi problemi.
Pensateci: gli studenti, per la scuola statale, sono di fatto un peso. Non apportano alcun contributo tangibile, a parte accrescere le spese di gestione.
Ma, al contempo, queste spese non hanno bisogno di un vero controllo, non c’è un vero e proprio bilancio da rispettare. Risultato? Lo Stato ha trasformato l’istruzione pubblica in un gran poltronificio e, siccome i ragazzi non votano per praticamente tutto il proprio percorso scolastico, ai politici non interessano.
Loro puntano ai voti di chi aspetta il concorsone per entrare in ruolo. Quando chiedete più soldi, di fatto, state facendo il loro gioco, perché così potranno assumere più persone per scopi clientelari. Non useranno mai quei soldi per voi, perché non votate.
Ma arriviamo al vostro istituto, una piccola periferia dello Stato. Questo sistema clientelare l’ha essenzialmente lasciato con pochi soldi, quindi non può fare cose come: rendere sicuro l’edificio, sistemare il riscaldamento, comperare la carta igienica o effettuare interventi ecologici. Cosa potete fare voi?
Oh, nulla, perché la scuola è pubblica e voi siete solo un numero in un database del MIUR. Non è come qualunque altro business dove, se non soddisfatti, avreste la possibilità di spostare altrove il vostro capitale.
Non siete in possesso di alcun peso contrattuale da poter usare contro una dirigenza negligente, una minaccia simile a “se non sistemi il riscaldamento vado dalla concorrenza” non avrebbe alcun effetto.
Anche perché, nascosti dietro una coltre di vittimismo, o dirigenti potranno fare poco: è Roma che ha deciso di assumere più gente del dovuto, lasciando voi e la vostra scuola in braghe di tela.
Provate a pensare ad una cosa: concorrenza nelle scuole. Scuole di enti locali, scuole sociali (potreste aprirne una anche voi!) e scuole private per profitto che competono per avervi come studenti. Lo Stato, invece di provare a fare il tuttologo fallendo miseramente paga l’istituto di vostra scelta per istruirvi e certifica, con degli esami, i vostri progressi. Questo è il sistema a voucher.
Ah, l’orribile logica del profitto! Ma chi ha un profitto dalla vostra istruzione sarebbe incentivato ad offrirvi un buon servizio, sapendo che potete cambiare istituto e che creare nuovi istituti non richiede un lungo processo. Anzi, potrebbe essere tranquillamente la società civile di un luogo ad aprire una scuola. In sostanza una riforma del genere toglierebbe allo Stato per dare a noi cittadini.
Gli istituti sarebbero incentivati non solo ad offrirvi una buona didattica, cosa che spesso l’attuale scuola statale non fa, ma anche ad offrire un ambiente positivo, sicuro, dignitoso e anche ecologico, dato che pagherebbero le bollette e una scuola coibentata spende meno di una con spifferi in ogni dove. In sostanza, un sistema che risponde a voi. Chi andrebbe mai in una scuola con risultati negativi e che cade a pezzi?
La gran parte di coloro che frequentano la scuola pubblica. Perché essa non lascia libertà di scelta e risponde ai politici. E, come già detto, a loro voi non interessate.
Quindi, ascoltate un liberale: volete un’istruzione dove siate persone e non numeri, dove non dovete aspettare mesi per un prof, dove non rischiate che vi crolli in testa mezza scuola, dove tutti, dal figlio dell’operaio a quello del dirigente di banca abbiano le medesime opportunità? Bene, la voglio anche io.
Ma lo Stato non ce la darà mai. Solo un sistema dove noi, non un burocrate, scegliamo può darcelo. Un cambiamento reale arriverà solo in questo modo.
Qualcuno vorrà credere nella favoletta che l’istruzione in Italia sia schiava del neoliberismo, dei tagli per colpa delle private e che sia necessario più Stato per cambiare le cose. Ebbene, costoro sono liberissimi di coltivare questa opinione; ma abbiano almeno la decenza di non scendere in piazza a chiedere proprio ciò che ha rovinato l’istruzione italiana, almeno per rispetto di chi ha vissuto sulla propria pelle i disagi di essere un numero in una scuola che non si cura degli interessi dei suoi studenti.
In questa settimana è tornata, direi con prepotenza, il tema dell’evasione fiscale. Oltre ai soliti slogan “se finalmente pagano tutti, potremo abbassare le tasse”, arrivano nuovi slogan e, soprattutto, nuove proposte.
Il Movimento 5 Stelle è giunto a proporre il carcere per chi non paga le tasse. Non si tratta di qualcosa di basso rilievo, ma di carcere fino a 8 anni con possibilità di confiscare i beni. Quest’ultima misura, oggi, è prevista solo per reati di Mafia. Ma l’interesse di Luigi Di Maio è di estenderlo anche a coloro che non pagano le tasse.
La battaglia all’evasione fiscale è dunque iniziata. Lo dimostrano le stesse parole dell’attuale Presidente del Consiglio:
“Stiamo mettendo a punto gli ultimi dettagli della manovra, le ultime misure, non voglio anticipare ovviamente i dettagli ma ci sta molto impegnando il piano anti-evasione”.
Le cifre dell’evasione fiscale sono spaventose per dimensioni. Si parla di circa 100 miliardi di euro. Le principali evasioni provengono dall’IVA e dall’IRPEF.
Sempre secondo il presidente Conte:
“Essere onesti conviene, recuperare un euro dall’economia sommersa significa poter investire nella scuola pubblica, poter investire negli ospedali, significa poter ridurre le tasse a tutti”.
Eccolo quà. Si torna sempre al punto di partenza. L’immancabile slogan “pagare tutti per pagare meno” è ormai roba diffusa tra i lottatori contro l’evasione fiscale.
Peccato però che questo slogan sia più falso di una banconota di 15 euro. L’impressione è che anche stavolta, il governo di turno, è cieco rispetto all’attuale scenario. Cieco, o meglio, finto-cieco? Forse non è nemmeno corretto definirli ciechi. Forse questa strategia di comunicazione è particolarmente efficace per il socialista di turno.
Attualmente, la realtà italiana è ben diversa da quella raccontata da Conte:
Spesa Pubblica: +2.4% rispetto al 2018
Pressione fiscale generale pari al 55% (550€ ogni 1000 di PIL finiscono allo Stato)
Abbiamo lo stesso PIL pro capite di 15 anni fa
Non si riscontrano aumenti significativi di produttività negli ultimi 25 anni
Un dipendente costa all’azienda quasi il doppio (rispetto all’effettivo stipendio ricevuto dal lavoratore – ndr)
La quota di profitto – che riguarda le società non finanziarie e il reddito da capitale ottenuto sul valore aggiunto prodotto – è al 40,7%, cifra più bassa dal 1999
Molti servizi pubblici sono del tutto inefficienti
(Dati raccolti Da Institute Heritage, OCSE, CGIA di Mestre, 2019)
Questi dati, seppur non esaustivi, devono invitarci a fare una riflessione molto seria. Ci sono delle differenze sostanziali tra i dati reali dell’economia italiana rispetto al racconto del Governo. Il Governo di turno racconta l’evasione fiscale come una “mancata solidarietà”, “i cattivi che non vogliono pagare le tasse”, “l’avidità dei ricchi”. In realtà il quadro italiano racconta tutt’altro. Racconta un Paese in estrema difficoltà economica. Le aziende non vanno avanti, ma si trascinano avanti. La produttività è appena sufficiente, i profitti sono appena sufficienti, i redditi degli italiani sono gli stessi.
Il Governo e la stessa OCSE (documento aprile 2019) spiegano come i sussidi alla povertà dovrebbero stimolare la ripresa economica. Allora, Vi pongo una domanda: se in Italia gli occupati sono il 59% (dati ISTAT), il reddito pro capite allo stesso livello del 2004, con una spesa pubblica che nel 2004 incideva del 15% e nel 2019 incide del 26%, con una pressione fiscale generale che nel 1999 era al 49.7% e oggi al 55%, come possiamo pretendere che gli italiani possano resistere economicamente?
Questo è un torto incredibile, perché gli italiani hanno lo stesso guadagno ma sono più poveri per colpa dello stesso Stato. Ma la beffa è presto vicina. Dagli annunci di Conte e Di Maio, l’impressione è che non solo manca l’intenzione di abbassare le tasse, ma prevale quella di aumentare l’interventismo statale (estendendo il reddito di cittadinanza) e quella di istituire uno Stato di Polizia Tributaria.
L’assistenzialismo e i servizi offerti dallo Stato, secondo i socialisti, nascono per “governare e redistribuire la ricchezza”. Ma con questo ritmo rischiamo seriamente di rendere gli Italiani con una ricchezza tra le mani sempre più misera.
Ed è qui che entriamo nel paradosso. Se l’assistenzialismo è per chi non detiene reddito, e chi lo detiene è in ginocchio perché non può più pagarlo, come ne usciamo?