Liberismo e Liberalismo: Benedetto Croce si sbagliava

Nel 1927 Benedetto Croce pubblicò alcuni scritti, fra cui il noto Liberismo e Liberalismo, nel quale non negava certamente la necessità del libero mercato, ma asseriva che non fosse condizione necessaria per giungere ad una società capace di mantenere salde le libertà politiche e individuali.

Nel corso del lungo dibattito, che spaziava dalla filosofia alla sociologia, sostenuto con l’amico e avversario Luigi Einaudi, altri autori e ricercatori hanno detto la propria, con alcune basi storiografiche e scientifiche talvolta più solide: parliamo di Karl Polanyi (il quale nonostante fosse ostile al libero mercato, diede un contributo positivo al dibattito), Eduard Meyer, Karl Popper e Friedrich Von Hayek.

Il metodo da loro utilizzato è consistito nell’osservare l’evoluzione delle società del passato, traendone i caratteri che potessero rivelare informazioni sulla correlazione fra libertà individuali e libertà economiche [1] ; è chiaramente un metodo induttivo e in quanto tale non se ne può dedurre una legge universalmente valida, tuttavia i risultati hanno portato ad evidenze interessanti: la libertà individuale si è presentata in modo indipendente dal sovrano solamente quando si è potuto contare sul libero scambio di merci e idee.

Eduard Meyer fu uno dei primi a mettere in discussione l’idea -rafforzatasi nel periodo hegeliano- che l’economia greca fosse ristretta a quella dell’Oikos ( οἶκος ), ossia un’economia di tipo familiare, di auto-sussistenza. Sostenne che quando Atene incominciò «a partecipare sempre più vividamente alla lotta della concorrenza»[2] ed i capitali e le idee di diversi popoli iniziarono ad affluire nella città, la popolazione riuscì ad emanciparsi dalla sussistenza e dai privilegi, entrando in un clima di benessere economico e libertà politica, quest’ultima sviluppatasi attraverso la democrazia.

La democrazia greca, però, era di una forma molto particolare: essa «richiedeva salvaguardie materiali per impedire ai ricchi di mantenere quella parte di popolo politicamente attiva»[3] in modo tale da evitare il clientelismo, ma imponeva anche che la polis si facesse carico della distribuzione degli alimenti per il popolo, seppur senza burocrazia; sembrerebbe un paradosso, eppure i greci trovarono una soluzione geniale: il mercato, il quale distribuiva gli alimenti molto meglio dei pianificatori, dei burocrati e degli aristocratici desiderosi di corrompere gli elettori. Ovviamente, ciò poteva funzionare per via della ricchezza fornita dal fiorente commercio, grazie alla quale ogni cittadino poteva emanciparsi dai lavori di sussistenza per poter guadagnare molto di più servendo le necessità altrui tramite il mercato.

Karl Popper, noto per lo studio della Società Aperta e i suoi nemici, individuò anche i nemici della società chiusa: «l’instaurazione di contatti culturali diede vita a quello che è forse il peggior nemico per la società chiusa, cioè il commercio» [4]. Ecco a noi il punto cruciale del discorso: il commercio favorisce l’incontro fra culture, l’apertura verso di esse e la loro accettazione, lo scambio commerciale diventa uno scambio filosofico, come fece notare anche Nicola Abbagnano, il quale sosteneva che la Filosofia sia nata nelle isole ioniche[5] (e non nella Grecia continentale!) proprio per mezzo del commercio, che ha favorito il logos, il discorso, fra popoli.

Constatato che anche Popper riconosce e sottolinea il legame fra libertà economiche e libertà individuali, troviamo una formulazione ancor più puntuale grazie ad Hayek [6]: «L’autorità che dirige l’intera attività economica non controllerebbe semplicemente un settore della vita umana, che possa essere separato dal resto; controllerebbe l’allocazione di mezzi limitati per tutti i nostri fini. E chiunque abbia l’esclusivo controllo dei mezzi determina quali fini debbano essere perseguiti, quali valori debbano essere considerati superiori e quali inferiori: in breve cosa gli uomini devono credere e a che cosa aspirare.»

Una società in cui vengano garantite le libertà individuali da un ente superiore (e, dunque, privilegiato) che ha il potere discrezionale di decidere come allocare le risorse, avrà direttamente e conseguentemente il potere di decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato; pensare che ci si possa affidare ad un buon legislatore, un Messia politico, o alla burocrazia,  è ingenuità o pura illusione.

Note:

[1]: alcune citazioni di autori in questo articolo sono tratte da Ignoranza e Libertà, 1999, Lorenzo Infantino

[2]: L’evoluzione economica dell’antichità, 1905, Eduard Meyer

[3]: Traffici e mercati negli antichi imperi, 1957, Karl Polanyi

[4]: Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza, 1960, Karl Popper

[5]: Storia della Filosofia, 1946, Nicola Abbagnano

[6] Liberalismo, 1973, Friedrich Von Hayek

Quando l’Ungheria era comunista

Nel 1945, centinaia di migliaia di Ungheresi entrarono in possesso di terreno coltivabile grazie alla redistribuzione delle terre. Dopo aver subito gli orrori del nazismo, i vecchi e nuovi proprietari confidavano che la propria stabilità economica non fosse più in pericolo. Tuttavia una nuova minaccia incombeva sull’Ungheria: il comunismo.

 

Nonostante la guerra fosse terminata,

i contadini dovevano continuare a pagare dei dazi molto ingenti. La popolazione ungherese doveva provvedere alle spese statali, alle provvigioni delle truppe sovietiche occupanti e alla produzione delle derrate alimentari per l’indennità di guerra. Il prodotto era dunque diviso in tre parti inique: una restava nelle mani del contadino e della sua famiglia, una veniva messa da parte per assicurare il raccolto dell’anno successivo, e la terza doveva essere ceduta ai sovietici.

Contemporaneamente alla presa del potere, i comunisti intrapresero una spietata campagna contro la borghesia Ungherese. Fra il 1948 e il 1953 triplicarono i già ingenti dazi che i contadini erano tenuti a versare. Nel 1952 cambiarono anche l’ordine della distribuzione: prima di tutto i contadini dovevano cedere la quota prevista ai sovietici, per poi mantenere una quota da parte per l’anno successivo. Solo il poco rimanente, ammesso che ce ne fosse, sarebbe rimasto a disposizione dei contadini.

Molto spesso alle famiglie non rimaneva abbastanza di che vivere. Quando alcuni coraggiosi si rifiutavano di pagare, iniziavano le intimidazioni: gli ufficiali esattori arrivavano insieme agli uomini dell’ AVH, la polizia segreta comunista ungherese, che terrorizzava l’intero borgo.

 

Qual era il folle disegno dell’Unione Sovietica?

In preparazione di una terza guerra mondiale, l’Unione Sovietica e i suoi stati satellite, compresa l’Ungheria, dovevano provvedere a enormi investimenti per favorire l’industria pesante. Ragion per cui i burocrati sottraevano ingiustamente ai borghesi gran parte dei loro averi. Inoltre iniziava a sorgere il bisogno di manodopera da sfruttare.

Il Partito non risparmiò alcuno sforzo nel distruggere lo stile di vita tradizionale della campagna e a deportare i lavoratori non in grado di provvedere alle spese imposte. In ogni caso, il sistema comunista non poteva sopportare la sopravvivenza di una comunità economica indipendente. Per protrarre il proprio dominio dittatoriale all’intera nazione, lo Stato-Partito organizzò la sistematica eliminazione della classe di proprietari terrieri Ungheresi, ancora legata ai suoi valori conservatori, ai propri costumi e alle proprie tradizioni.

 

Chi era nel mirino dello Stato-Partito?

Il bersaglio degli attacchi era il “Kulako” secondo il modello Sovietico. Il termine Kulako non ha equivalente nella lingua ungherese. Chiunque non vivesse in condizioni di povertà assoluta, in qualsiasi momento, poteva diventare un Kulako: nemico pubblico e preda dei comunisti.

Gli amministratori stilavano le liste dei Kulaki e i contadini più eminenti e di successo nel villaggio apparivano su di esse. Stava ai funzionari di partito, che puntualmente abusavano del proprio potere, decidere chi punire. I burocrati vessavano continuamente i Kulaki con tasse speciali, quote sempre maggiori, sottratte attraverso torture fisiche e psicologiche.

I comunisti assemblarono delle brigate e le addestrarono a tenere la popolazione sottomessa attraverso punizioni pubbliche, violenze e ispezioni continue. Gli agenti controllavano anche la spazzatura dei contadini, per assicurarsi che non nascondessero nulla allo stato.

I sovietici provarono a spezzare lo spirito delle persone attraverso lavoro forzato, evacuazioni improvvise e confische di proprietà ingiustificate, misero in piedi centinaia di migliaia di accuse false, migliaia di processi, che portavano sempre a prigionia prolungata e spesso ad esecuzioni. Processarono e incarcerarono quattrocentomila civili per “crimini contro la produzione comunitaria”, inoltre perseguitarono innumerevoli vittime senza un motivo giuridico. La resistenza era punita con la morte.

 

Il risultato? Disastroso.

Non è sorprendente che nel negli anni 50′ trecentomila lavoratori abbandonarono la propria terra, fuggendo nell’Europa liberale. I contadini rimasti persero la volontà di continuare a lavorare, dato che creando profitto avrebbero rischiato la propria vita. La situazione portò ad una drammatica scarsità di viveri. Il partito reintrodusse il razionamento del cibo e condannò i “sabotatori”.

 

Sabotatori?

Dato che il sistema socialista attribuiva ogni fallimento al sabotaggio di un nemico sconosciuto, era necessario trovare un capro espiatorio. I comunisti attribuirono la carenza di cibo ad alcuni dirigenti ungheresi di spicco. Furono tutti giustiziati. Vennero introdotti nuovi fantasiosi modi per punire i contadini: il reato di “Sabotaggio della trebbiatura” portava alla pena di morte. I comunisti punivano il macello di animali non autorizzato dall’autorità con imprigionamenti prolungati.

Come se non bastasse, il partito applicò il “Sistema d’Avanguardia dell’Agricoltura Sovietica” in tutta Ungheria: un modello terribilmente inefficiente. I comunisti svilupparono in Ungheria un piano di agricoltura direttamente orchestrato dal partito. I privati contadini erano costretti a coltivare secondo le direttive dei gerarchi, spesso controproducenti e inattuabili. Un tentativo notoriamente goffo fu la produzione forzata di cotone e riso, allora virtualmente non coltivabili in Ungheria.

Alla fine ogni resistenza della borghesia fu spezzata, e le ultime fattorie private vennero sottratte e collettivizzate.

 

La giustizia Ungherese, su modello Sovietico,

si liberò della presunzione di innocenza garantita dallo stato liberale, con il risultato che i carnefici potevano utilizzare accuse false contro le vittime. Le confessioni ottenute sotto tortura erano sufficienti. Le testimonianze parlano di pestaggi che spesso portavano alla morte. Era usanza colpire la vittima con un randello, per rompere denti e costole, per poi costringerlo a ingerire fino ad un chilogrammo di sale grosso. Non stava all’accusatore provare la colpevolezza dell’accusato, ma l’imputato doveva provare la propria innocenza, cosa ovviamente resa impossibile dalle circostanze.

La legge non proteggeva il cittadino, era anzi un’arma dello stato per colpirlo. Dieci anni dopo la fine della guerra, i comunisti continuavano ad uccidere e a rendere un inferno la vita di chiunque avesse a che fare con loro.

 

Socialismo significa schiavitù.
-Lord Acton

Giù le mani da Isacco: la religione del privato cittadino

Dio vive, Isacco è morto.

Il libro della Genesi (22, 1-19) ci offre il racconto ben noto del sacrificio di Isacco da parte di Abramo.

“Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò»”

Meno nota è l’analisi della figura e del gesto di Abramo, portata avanti anche dal filosofo Søren Kierkegaard nel suo capolavoro Timore e Tremore. Abramo infatti rappresenta perfettamente la Religione (e sia chiaro ogni Religione) prima dell’avvento del secolo dei Lumi e in particolar modo della filosofia di Kant. Il patriarca è l’uomo di fede ciecamente devoto alla chiamata di Dio, che non esita a sacrificare nemmeno il suo unico figlio.

Per chiarezza è opportuno ricordare che Abramo divenne padre in tarda età, quando ormai aveva perduto ogni speranza di vedere continuata la sua stirpe. Sua moglie Sara infatti era vecchia e sterile. Quest’unico figlio, Isacco, fu un autentico dono di Dio, e tuttavia, Abramo è pronto ad ucciderlo.

Certamente non vuole, ma accetta di compiere il gesto orrendo, perché Dio glielo ha chiesto. Sarà poi un angelo del Signore a fermare la mano di Abramo prima che cali il pugnale sul corpo inerme del figlio.

Søren Kierkegaard vide in Abramo l’incarnazione del suo ideale dell’uomo religioso, la terza possibilità di esistenza della filosofia del danese (vita estetica – vita etica – vita religiosa). Abramo infatti è l’uomo che vive la sua Fede come esperienza totalizzante. Non è sfiorato dal dubbio, dalla critica morale o etica. Non si interroga sulla “moralità” del suo atto, e non mette in dubbio la richiesta di Dio.

Abramo vive la Religione come un sistema assoluto fuori dalla possibilità di giudizio del Singolo, o della Società, che si impone con forza su qualsiasi sistema etico umano. In questo racconto dunque la volontà di Dio trionfa sulla Legge degli uomini, sui valori della famiglia, e sulla Morale.

 

Dio svanisce, Isacco vive.

Il progetto di vita religiosa di Kierkegaard si rivelò sostanzialmente fallimentare perché questa mentalità era già stata superata da anni grazie all’avvento della filosofia di Immanuel Kant. Dopo Kant nessuno si sognò più di provare a dimostrare l’esistenza di Dio o di principi metafisici, che proprio in quanto tali sono inconoscibili da parte dell’uomo.

Dio dunque, in quanto ente metafisico per eccellenza, è inconoscibile e la sua stessa esistenza non è dimostrabile. Di conseguenza la morale individuale dell’uomo, che è fondata su principi universali e necessari ed è superiore a Dio, trionfa sul precetto religioso.

 

Dio è morto, Isacco vive.

Mostrandoci il predominio della morale individuale sulla religione, Kant diede inconsapevolmente inizio a quel “processo filosofico” che in un secolo porterà Nietzsche ad affermare: “Dio è morto”. Dio è morto perché l’uomo si è trovato nel nulla del nichilismo passivo. L’età della tecnica ha trionfato e qualsiasi velleità di metafisica è stata definitivamente cancellata. Il Dio di Abramo e di Isacco è morto perché l’umanità, stanca del sacrificio del povero Isacco, lo ha ucciso.

È dunque giunto il momento della filosofia del mezzogiorno, il momento degli spiriti liberi e dei giovani leoni, che si liberano dal giogo millenario della Religione, “il drago d’oro che dice all’uomo: «Tu devi»”. Dopo secoli di teocrazia mascherata, l’uomo riconosce la sua Libertà e riconduce Fede e Religione alla sfera privata, accettando il mistero personale che riguarda il metafisico. Forse l’aveva già detto in modo migliore a suo tempo il filosofo Ludwig Wittgenstein:

“Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”

Emancipazione femminile: il perché di un’anomalia storica

Sin da quando ne ho memoria, sono stato abituato a vedere donne in posizioni di potere, di prestigio, di rispetto. Questo dovrebbe essere, in sé per sé, del tutto scontato, quasi insignificante, se non fosse per il fatto che non lo è. In ogni tempo e in ogni luogo, solo in Occidente, e solo negli ultimi tre secoli la condizione della donna si è evoluta in questo modo.

La domanda da porsi, quindi, è perché solo qui, e perché solo adesso? Forse il socialismo ha eliminato le disuguaglianze fra i sessi, o forse per generosità i governanti hanno concesso il suffragio femminile, il divorzio e l’aborto? Per comprendere questa anomalia storica, è necessario identificare i principali punti di rottura fra l’Occidente moderno e le altre civiltà, passate e contemporanee.

In primo luogo, l’industrializzazione. L’impatto storico di questo fenomeno sul nostro mondo non potrà mai essere sopravvalutato, e questo vale soprattutto per la condizione della donna. Senza elettricità, macchine e la medicina moderna, le donne nei Paesi sviluppati vivrebbero ancora come le loro antenate di secoli prima, quasi tutte analfabete, impegnate esclusivamente a lavorare nei campi, a svolgere le faccende domestiche ed a partorire numerosi figli, spesso a costo della vita.

Tuttavia, il vero contributo dell’industria all’emancipazione femminile consiste nell’aver aperto alle donne il mondo del lavoro. Prima della nascita delle industrie, la manodopera femminile era confinata in una ristretta cerchia di attività economiche, spesso legate in ogni caso alla dimensione domestica (come la tessitura dei vestiti). Con l’avvento dell’industria le donne lavorano insieme agli uomini, imparano a leggere e a scrivere, acquisendo in questo modo i mezzi materiali e la volontà per vivere autonomamente.

L’industrializzazione, a sua volta, è stata resa possibile dallo sviluppo, nel corso di secoli di storia europea, di un sistema economico e produttivo favorevole all’innovazione, il capitalismo. Infatti, senza il sostegno economico di Matthew Boulton, facoltoso imprenditore britannico, James Watt non avrebbe mai avuto i mezzi per sviluppare la sua macchina a vapore, simbolo stesso della prima rivoluzione industriale. Lo stesso Boulton si interessò alle scoperte di Watt per un solo motivo: il profitto. Egli infatti era alla ricerca di soluzioni tecniche per migliorare la produttività delle proprie fabbriche. Come già menzionato, lo sviluppo industriale seguente generò una crescente domanda di manodopera, che ebbe ripercussioni soprattutto sulle donne.

Il capitalismo, a sua volta, si basa su di un singolo punto centrale, dal quale deriva tutto il resto: lo scambio volontario di merci o servizi fra due soggetti, due individui. Non può esservi coercizione, in quanto entrambi gli individui devono essere soddisfatti della transazione. Ciò è possibile solo in un sistema che metta al primo posto l’individuo e la sua libertà. Per questo, in ultima analisi, è sull’individualismo che si basano le conquiste dell’Occidente, compresa l’emancipazione femminile.

Basta pensare ai diritti per cui hanno combattuto le prime femministe: l’individuo ha diritto a prendere parte alla vita pubblica dello Stato, e quindi il voto deve essere esteso anche alle donne; l’individuo ha diritto a decidere in autonomia sulla propria vita affettiva e sessuale, e quindi il divorzio; l’individuo ha diritto sul proprio corpo, e quindi l’aborto (anche se in questo caso, essendo per forza di cose coinvolti più individui, ritengo sia necessario che venga preso in considerazione l’interesse di tutte le parti).

Il movimento femminista delle origini, dunque, aveva un’importante componente individualista, e quindi liberale, e non è un caso che tra i suoi sostenitori ci siano stati grandi nomi liberali come quello di John Stuart Mill. Questa componente si è poi persa nel tempo, e oggi il movimento femminista, dominato dalla sua componente marxista, si batte contro il patriarcato, contro il “gender pay gap” e in generale contro le disuguaglianze (ma solo in Occidente ovviamente, per loro le donne degli altri Paesi non contano niente), proponendo misure collettiviste come le ridicole quote rosa.

L’involuzione subita dal movimento femminista, tuttavia, non ne cancella le vere origini, e sebbene oggi molte femministe siano contro l’industrializzazione, il capitalismo e l’individualismo, è proprio grazie alla combinazione di questi fattori nel corso di secoli se anche loro, così come tutte le altre donne che hanno la fortuna di vivere nei Paesi occidentali, sono libere di cercare la propria felicità, senza influenze esterne che non siano quelle dovute al caso.

Sciopero 3 agosto 1981. I licenziamenti di massa di Reagan

«Non c’è diritto di sciopero contro la sicurezza pubblica per nessuno, in nessun luogo, in nessun momento»

Queste furono le parole dichiarate da Ronald Reagan (frase dell’ex presidente Calvin Coolidge, presidente degli Stati Uniti dal 1923 al 1929) il 3 agosto 1981, in risposta allo sciopero di massa di 13000 controllori di volo e membri della PATCO, sindacato ufficiale dei controllori di volo.

Motivo Sciopero? Retribuzioni basse, perciò si puntava ad un aumento con riadeguamento al ribasso delle ore lavorative settimanali. Inoltre, si richiedeva la possibilità di pensionamento dopo soli 20 anni di servizio.

Questi controllori di volo erano dipendenti federali, pertanto lo stesso presidente americano si mobilitò per ordinare agli scioperanti di rientrare al lavoro entro 48 ore, altrimenti ne avrebbe disposto il licenziamento. Reagan riteneva di essere dalla parte della ragione, appellandosi a due norme ben precise, che si riferivano non solo al fatto che occorressero almeno 60 giorni di preavviso, ma anche al fatto che lo sciopero era da vietare, qualora comportava gravi rischi per la salute o la sicurezza dei passeggeri o dei cittadini.

Ma se Reagan era convinto di essere dalla parte giusta, i sindacati erano convinti di aver messo “in trappola” il presidente americano. Minacciare il licenziamento di più di diecimila persone poteva essere un pretesto per considerare immorale il gesto del presidente. Pertanto lo stesso Robert Poli, presidente del sindacato PATCO, era abbastanza sicuro che Reagan, alla fine, avrebbe mollato la presa.

Reagan non si fermò e allo scadere dell’ultimatum, decise di proseguire con il licenziamento dei controllori coinvolti nello sciopero. Pertanto, con la collaborazione dei controllori che non scioperarono o che non erano coinvolti in alcun sindacato, si cercò di risolvere l’emergenza, ottenuta successivamente con risultati positivi.

In quel momento gli Stati Uniti, insieme all’Inghilterra ed Europa (Italia compresa), vivevano un momento di forte declino sociale ed economico. Dopo il boom economico del secondo dopoguerra, l’impianto di welfare state dominato dalla figura del sindacato iniziò a rallentare l’economia della superpotenza economica e del continente europeo. Negli Stati Uniti ebbero Ronald Reagan e in Inghilterra ebbero Margaret Thatcher, due figure straordinarie che furono in grado di creare una netta rottura con il passato, per porre le basi di una straordinaria ripresa economica.

Nel caso americano, Reagan dimostrò che era possibile andare controcorrente contro le logiche socialiste, come il sindacato. La PATCO abusò delle sue stesse funzioni, ritrovandosi a “chiudere baracca” qualche anno dopo. Il presidente americano, non solo ottenne l’appoggio popolare, ma con questo gesto riuscì a trasmettere un mix di ottimismo e di speranza ad un popolo che ormai si stava abituando alla mediocrità socialista.

L’Italia è oggi nelle stesse condizioni sociali ed economiche di Stati Uniti e Inghilterra degli anni settanta, con la differenza che questi due sono arrivati al 2018 grazie alle politiche, talvolta adottate con decisione e fermezza, da personaggi come Reagan e Thatcher. L’Italia no. Purtroppo siamo rimasti agli anni settanta, abbiamo perso quasi quattro decenni di rilancio economico. Per ripartire, bisogna considerare il fatto che gli avversari da affrontare sono figure come il sindacato, che anziché “proteggere” i lavoratori, riesce soltanto a far scappare l’imprenditore di turno. Proprio come nel caso dei controllori di volo, la PATCO fallì completamente la sua strategia. Invece, in Italia, gli imprenditori sono spesso costretti a ricorrere contratti interinali di scarsa qualità contrattuale o a far emigrare le proprie aziende all’estero. Reagan sapeva che darla vita al sindacato voleva dire, non solo compromettere la sua figura, ma compromettere sopratutto la figura della stessa nazione, che si sarebbe presto ritrovata a vivere secondo le logiche del sindacato.

Come disse perfettamente la stessa Maggie Thatcher:

“Ogni richiesta di sicurezza, che riguardi il posto di lavoro o il reddito, implicherebbe l’esclusione di tali vantaggi di quelli che non appartengono allo specifico gruppo privilegiato e provocherebbe richieste di privilegio compensativi da parte dei gruppi esclusi. Alla fine, tutti verrebbero a perdere”.

I 10 presidenti più libertari degli Stati Uniti

Molti presidenti lungo il corso della storia statunitense hanno ispirato quello che oggi è il movimento libertario, contribuendo al rafforzamento delle basi della dottrina liberale.

 

Ronald Reagan

10. Ronald Reagan

Reagan è l’unico presidente post-1929 in elenco ed è uno dei due presidenti libertari di tutto il ventesimo secolo. Reagan ha spesso affermato che “il cuore e l’anima” del conservatorismo è il libertarismo. Inoltre, fu molto meno guerrafondaio di quanto alcuni conservatori -e non- moderni desiderino ricordare. Molti dei suoi sforzi per ridurre il governo furono ostacolati dal Congresso (e lo stesso Reagan favorì un governo con grandi poteri con progetti come la “war on drugs”, bisogna pur ammettere avesse qualche difetto) e persino dai membri del suo stesso partito, ma comunque Reagan combatté duramente per diminuire il perimetro statale, fino all’ultimo giorno del suo secondo mandato.

 

Zachary Taylor

9. Zachary Taylor

Taylor fu presidente per poco più di un anno, prima della sua morte nel 1850. Firmò il trattato Clayton-Bulwer con il Regno Unito, che impedì a entrambi i paesi di impadronirsi del Canale del Nicaragua. Nel tentativo di impedire che la schiavitù si estendesse a sud-ovest, si oppose al Compromesso del 1850.

 

Rutherford B. Hayes

8. Rutherford B. Hayes

Hayes visse e governò durante la fine dell’Era della Ricostruzione (1863-1877), lavorando per proteggere gli americani neri che erano oppressi nel sud. Era a favore del gold standard e mise fine al “sistema del bottino” (Spoil System, ossia il cambio degli alti dirigenti con il cambiare del governo), designando così i funzionari del governo per merito e non attraverso le loro associazioni politiche. Era un forte seguace della Dottrina Monroe, ossia riteneva che gli Stati Uniti non dovessero intervenire negli affari di altri paesi. Tuttavia, usò le truppe federali per sedare il famoso sciopero chiamato Great Railway Strike.

 

George Washington

7. George Washington

Al padre degli Stati Uniti d’America, George Washington, venne affidato un incredibile lavoro: avrebbe dovuto dare l’esempio a tutte le persone che lo avrebbero seguito nel governo degli uomini liberi. Si rifiutò sempre di essere nominato in termini regali e si dimise dopo il suo secondo mandato, nonostante le insistenze. Nel suo discorso di addio, avvertì della possibilità di stringere alleanze all’estero, nonché alleanza con un intero sistema di partiti politici vicini alla causa della Libertà. Purtroppo, ha anche uno scheletro nell’armadio: nominò e seguì il consiglio del difensore della banca centrale Alexander Hamilton e usò l’esercito per sedare la ribellione del whisky.

 

Martin Van Buren

6. Martin Van Buren

Van Buren cercò la diplomazia con il Messico, in contrasto con le politiche di guerra di Andrew Jackson. Sostenne con vigore l’idea di dazi più bassi e difese allo strenuo il libero scambio. Durante il Panico del 1837 (forte depressione economica), praticò politiche di libero mercato e si rifiutò di coinvolgere il governo federale. Tuttavia, Van Buren aderì al piano Trail of Tears (deportazione forzata dei nativi americani in riserve) promulgato da Andrew Jackson.

 

John Tyler

5. John Tyler

Tyler entrò in carica dopo la morte di William Henry Harrison (che alcuni potrebbero dire fosse stato il presidente più libertario perché non visse abbastanza a lungo per portare avanti anche solo una minima iniziativa). Tyler governò quasi 4 anni e usò spesso il suo potere di veto, ad esempio per cancellare i fondi alle banche. Concluse la Seconda Guerra Seminole contro alcuni nativi americani e non usò truppe federali durante la Ribellione di Dorr. Tuttavia, fece annettere il Texas, che in seguito portò alla guerra tra il Messico e gli Stati Uniti.

 

Thomas Jefferson

4. Thomas Jefferson

Considerato da molti come l’epitome del libertarismo moderno, Jefferson fece tutto il possibile per attuare politiche a favore della libertà una volta diventato presidente. Eliminò gran parte dell’eccesso del governo “hamiltoniano” che i presidenti Washington e Adams si erano lasciati alle spalle. Vietò la schiavitù nel territorio del nord-ovest e proibì il commercio internazionale degli schiavi nel 1807. Mentre alcuni libertari possono criticare l’acquisto della Louisiana, è documentato che Jefferson fu molto esitante e premuroso circa la costituzionalità di queste azioni.

 

James Madison

3. James Madison

Il padre della Costituzione continuò lungo la strada ereditata dal suo predecessore Jefferson. Grazie alle politiche economiche di successo di Jefferson, Madison ereditò un surplus di bilancio e optò per ridurre le tasse. L’assalto alla enorme struttura del governo nazionale di Hamilton continuò. Pose il veto sulla creazione della Seconda Banca nel 1814. Dopo la guerra del 1812, Madison dovette trattare con un Congresso di totale opposizione, permettendo che i poteri governativi lievitassero. Tuttavia, nel suo atto finale di presidente, Madison pose il veto ai dividendi della Seconda Banca nel 1817 e colse  l’occasione per criticare il Congresso per aver interpretato così ampiamente i poteri di imposizione e di spesa della Costituzione.

 

2. Grover Cleveland

L’unico presidente a d aver governato in due mandati non consecutivi, Cleveland fu uno dei pochi democratici favorevoli al minarchismo. Dopo la sua elezione, proprio come Hayes, combatté duramente contro lo Spoil System e ha inoltre ridotto il numero di lavoratori governativi. Si oppose all’imperialismo americano e in diverse occasioni impedì agli Stati Uniti di intraprendere azioni militari.

 

1. Calvin Coolidge

Calvin Coolidge

Silent Cal” è in cima alla nostra lista per il suo ruolo nel consolidare i principi libertari di oggi. Come Reagan, Coolidge usò il pulpito intimidatorio nel tentativo di cambiare la percezione di come il governo dovrebbe funzionare. In un’epoca che ha visto come presidenti i grandi personaggi delle alte tasse e delle enormi spese governative come Theodore Roosevelt, Woodrow Wilson, Herbert Hoover e Franklin Roosevelt, il nostro Coolidge si distinse notevolmente.

Venne eletto nel 1923 e prestò servizio per quasi sei anni alla Casa Bianca. Ridusse sostanzialmente le tasse in almeno tre occasioni e inserì attori del laissez-faire presso agenzie governative come la Federal Trade Commission e la Interstate Commerce Commission. Il debito federale venne ridotto di un quarto dopo un’epoca che aveva visto crescere i governi statali e locali in modo esponenziale. Coolidge pose il veto alle sovvenzioni agricole e respinse l’intervento federale nel controllo delle inondazioni.

 

Tradotto da Alessio Cotroneo dal partner hispanoamericano Mas Libertad.

Miracolo economico anni ’60? Merito di Einaudi

L’anno scorso (si riferisce al 1959, aggiunta mia) il Daily Mail cominciò a lodare l’Italia parlando di “miracolo economico”. Quest’anno il “Financial Times” dà l’Oscar delle monete alla lira. Grazie a Fellini siamo diventati per il mondo intero il paese della Dolce Vita. Finirà che ci monteremo la testa. Anzi: si monteranno la testa i nostri politici, così pronti a convincersi che la ricchezza privata si produce perché essi possano metterci le mani sopra.

Il Miracolo Economico non è stato miracoloso, ma spontaneo. Non ha seguito lo Schema Vanoni, lo ha travolto.

Così Sergio Ricossa racconta e commenta il miracolo economico italiano degli anni cinquanta-sessanta. Nel titolo, se lo avete notato, ho scritto “grazie Einaudi”. Perché proprio Luigi Einaudi se lui è stato solo il governatore della Banca d’Italia e il Ministro delle Finanze fino al 1948, oltre ad essere stato presidente della repubblica fino al 1955? Perché durante il brevissimo periodo da ministro (con la collaborazione di Donato Menichella, successore di Einaudi al ruolo di governatore della Banca d’Italia), Luigi Einaudi riuscì a salvare la Lira, adottando misure parsimoniose sia per quanto riguarda la spesa pubblica e sia per i cittadini, adottando misure anti-inflazionistiche.

I liberisti, guidati da Einaudi, riuscirono a bloccare l’offensiva socialcomunista che avevano un progetto finalizzato a produrre un livello di gettito elevato, utili per il risanamento dei conti pubblici e per porre le basi per una pianificazione economica, in stile Unione Sovietica. Questa pianificazione economica, esattamente, consisteva nell’affidare una parte importante della gestione della ricostruzione alla mano dello Stato per inserire il nostro paese all’interno di un tipo di sistema economico nel quale lo stato potesse esercitare una forma di intervento e controllo piuttosto incisiva.

La strada per la ripresa, secondo il PCI, era quella dell’imposta, attraverso una redistribuzione di ricchezza fra le classi più ricche e le classi più povere e più colpite dalla guerra. Per non parlare, inoltre, dell’idea di istituire una tassazione straordinaria a varie forme di liquidità e titoli di Stato che, solo dal pensiero, provocò talmente terrore alle persone che immediatamente andarono a ritirare i propri depositi bancari e postali.

Einaudi e i liberali erano fortemente contrari e volevano puntare a manovre politiche che riuscissero a tenere buoni i cittadini tenendo a bada l’inflazione e senza penalizzare chi era già stato penalizzato in precedenza (scusate il gioco di parole). Si puntava ad affrontare i problemi in cui si trovavano le finanze statali in gran parte con ordinari strumenti di politica economica e fiscale, e alle difficili condizioni economiche del sistema con strumenti tipici di una politica economica liberale: diminuzione della spesa pubblica, incentivazione del risparmio, libertà di iniziativa privata, aumento del reddito prodotto dalle imprese, innescando così il circolo virtuoso di maggior produzione, maggiori risorse risparmiate, maggiore accumulazione di capitali, maggiori investimenti, maggiore ricchezza, prestiti pubblici, assoluto divieto di emissione di nuova moneta e pressione fiscale non eccessiva.

Un carico fiscale più leggero avrebbe favorito maggiori risorse per la produzione di ricchezza che, una volta aumentata, avrebbe prodotto anche maggiori entrate fiscali ordinarie, contribuendo in tal modo ad una progressiva eliminazione del disavanzo di bilancio. L’obiettivo era anche la stabilizzazione della moneta che, una volta ottenuta, avrebbe permesso di rendere il settore pubblico sempre più minimo, permettendo ai privati di svolgere la parte preponderante nel processo ricostruttivo; quasi come se ci fosse una mano invisibile (come quella auspicata da Adam Smith) che avrebbe garantito l’equilibrio di mercato alle cui leggi anche lo Stato, seppure con compiti suoi propri di rimozione degli ostacoli alla libera iniziativa e di garanzia del suo libero sviluppo, avrebbe dovuto sottostare.

In quel brevissimo periodo, Einaudi non riuscì ad ottenere tutti gli suoi obiettivi (d’altronde non era nemmeno il presidente del consiglio), ma almeno evitò le forti pressioni dei socialcomunisti. Purtroppo anche la pressione e l’influenza liberale dello stesso Luigi Einaudi andò a calare con l’avvicinarsi della scadenza del suo mandato da presidente della repubblica.

In contemporanea, i governanti durante il periodo del miracolo economico italiano si presero i meriti; mi sto riferendo alla Democrazia Cristiana post-De Gasperi primeggiata da persone come Gronchi e Fanfani che sostenevano – rispettivamente – che “l’industria pubblica può sopravvivere senza profitti” e che “se qualcuno ha un problema, lo Stato glielo deve risolvere”. In particolare, vennero dati molti meriti allo Schema Vanoni che puntava alla piena occupazione, alla creazione di nuovi posti di lavoro. Peccato però che il limite dello stesso schema fosse quello di preoccuparsi che la manodopera fosse abbondante dimenticando – però – che è il capitale favorisce l’occupazione. Pertanto si è preso dei meriti quasi per caso.

In realtà, il vero merito fu di Luigi Einaudi, grazie alla sua azione di stabilizzazione monetaria che attuò dall’estate 1947, salvando l’Italia e gli italiani da un’inflazione che avrebbe provocato dei seri problemi all’economia. Ottenendo questo risultato non provocò direttamente il miracolo economico, ma fu il punto di partenza per qualcosa di spontaneo e straordinario come quello accaduto alla fine degli anni cinquanta e inizio sessanta.

Peccato però che ingredienti come intervento statale in economia per controllare, con il sostegno sindacale e dei consigli di gestione, l’iniziativa privata (pianificazione); nazionalizzazioni; riforma agraria – tutte misure realizzate dal 1955 fino agli anni settanta – non solo resero la Lira sempre più debole, non solo la spesa pubblica sempre più alta, non solo meno ricchezza privata, ma anche un’Italia sempre più povera e mediocre. Ma come insegna, lo stesso Einaudi, se punti sulla spesa pubblica e alla stabilità della moneta, metti in condizione la tua nazione di poter puntare al meglio e alla crescita.

Dazi e cannoni

Attraversando le strade di Bordeaux nel 1808, il console americano W. Lee rilevò lo stato di totale abbandono della città, e scrisse nei suoi appunti di viaggio che «Grass is growing in the streets of this city. The beautiful port is totally deserted»1 . Il commissario di polizia, in un rapporto, parlava di miseria estrema e di mancanza quasi totale di lavoro. A Livorno il numero di famiglie iscritte nel registro dei poveri aumentò da 2.512 nel 1810 a oltre 20.000 nel 18132. Le due città, seppur lontanissime, erano state colpite dalla guerra di Napoleone. Non dai suoi formidabili cannoni, ma da qualcosa di più letale, subdolo e radicale: il blocco commerciale.

Verso la fine del 1808, Napoleone aveva imposto all’Impero francese e alle repubbliche sorelle il tristemente famoso blocco continentale, un sistema di dazi e divieti nei confronti della Gran Bretagna e delle sue colonie. L’idea, in verità, fu di tre economisti fisiocratici che osservarono come la Gran Bretagna avesse gradualmente abbandonato l’agricoltura in favore dell’industria. Con il blocco continentale, la Francia bloccò tutte le esportazioni agricole dal continente verso la perfida Albione, indebolendola; nel contempo, avrebbe impedito ai manufatti britannici di avere uno sbocco commerciale nel continente, causando una crisi economica all’odiato nemico e eliminando la concorrenza per le industrie francesi.

Le cose non andarono esattamente così. Il blocco indebolì certamente l’economia inglese, ma solo in minima parte: casi di contrabbando, filtrazioni, corruzione o addirittura elusione delle regole dettate dall’Imperatore (lo stesso zar russo tentò di aggirare il blocco) furono così diffusi da permettere ugualmente il commercio. Si pensi che ad Amburgo, nel 1810, il direttore della dogana ammetteva che dalle 15 alle 20 mila persone (circa un sesto della popolazione) vivevano unicamente grazie ai proventi delle filtrazioni3, cioè di piccoli contrabbandi con le regioni confinanti.  Inoltre, gli stessi cittadini francesi furono duramente colpiti dal blocco, poiché i manufatti francesi erano molto più costosi di quelli inglesi o coloniali.

Emblematico fu il caso svizzero. Il blocco continentale eliminò la concorrenza britannica nel settore tessile, che in Svizzera conobbe una notevole espansione (1808-14). Il numero di stabilimenti aumentò a «60 nel cant. Zurigo, a 17 nel cant. San Gallo e a sette nella regione appenzellese. Imprenditori che si rifacevano al modello britannico come Johann Caspar Zellweger a Trogen o Hans Caspar Escher a Zurigo trovarono, malgrado gli ostacoli posti dai franc., nuovi sbocchi commerciali in Germania e realizzarono durante la congiuntura bellica ricavi elevati»4. Caduto Napoleone e ripristinato il libero commercio, le industrie tessili svizzere furono travolte dalla concorrenza britannica e fallirono.

Nello studio di Napoleone ci si sofferma spesso sul suo genio strategico, sulle sue artiglierie e sulle conquiste. Ben poco si dice riguardo il blocco continentale, un’arma che sfuggì di mano a Napoleone, impoverendo la sua stessa gente ancor prima che gli inglesi. Nel ventunesimo secolo è essenziale ricordare la lezione del blocco continentale. Per Napoleone, il protezionismo economico e i dazi furono parte integrante della guerra. Sebbene confusamente e con i già rilevati errori, Napoleone intuì come il blocco dei commerci causasse povertà, non crescita economica. Fu cieco sugli effetti interni, ma va detto che nei suoi piani il blocco doveva essere una misura temporanea, accessoria all’invasione delle isole britanniche – mai avvenuta.

I dazi doganali, nonostante ciò che vuole vendere la propaganda, funzionano oggi allo stesso modo di duecento anni fa. Aiutano un settore a crescere eliminando la concorrenza più produttiva e conveniente, ma colpiscono tutti i consumatori, indiscriminatamente. Un produttore di maglie italiano che può vendere il suo prodotto a 20 euro vedrà sicuramente male l’arrivo di un produttore cinese che può vendere lo stesso prodotto a 5 euro. I dazi hanno il compito di compensare al divario dei prezzi, così che anche il venditore cinese, dovendo pagare una tassa in più, dovrà alzare il prezzo del suo prodotto. Chi perde è il consumatore. Comprare un prodotto di 5 euro significa risparmiarne 15, da poter impiegare in altri commerci presso altri venditori che hanno diritto di restare sul mercato tanto quanto il venditore di maglie. E’ vero che il settore tessile nazionale verrebbe danneggiato – nessuno lo nega – ma è anche vero che il consumatore (soprattutto il più povero) potrebbe permettersi di comprare più prodotti con quei 20 euro che un tempo avrebbe speso per un solo bene.

Purtroppo questo è un esempio. I dazi hanno effetti ancora peggiori, nella pratica. Spesso le nazioni estere verso cui vengono innalzate barriere doganali, rispondono con le medesime contromisure. In breve tempo, anche le esportazioni verso l’estero subiscono un duro colpo, poiché anche i venditori nazionali saranno costretti a vendere le merci a prezzo più caro sui mercati stranieri – vendendo quindi di meno.

L’intero gioco si conclude in un totale impoverimento, da una parte e dell’altra. Come duecento anni fa. Perché le leggi dell’economia sono immutabili, ma la memoria è troppo corta.

 

1 “I negozianti delle città portuali in età napoleonica: Amburgo, Bordeaux e Livorno di fronte al blocco continentale, 1806 – 1813”, S. Marzagalli, p. 358, Istituto Universitario Europeo, Dipartimento di Storia e Civiltà, 16 dicembre 1993.

2 “I negozianti delle città portuali in età napoleonica: Amburgo, Bordeaux e Livorno di fronte al blocco continentale, 1806 – 1813”, S. Marzagalli, p. 359, Istituto Universitario Europeo, Dipartimento di Storia e Civiltà, 16 dicembre 1993.

3 “I negozianti delle città portuali in età napoleonica: Amburgo, Bordeaux e Livorno di fronte al blocco continentale, 1806 – 1813”, S. Marzagalli, pp. 264 e seg., Istituto Universitario Europeo, Dipartimento di Storia e Civiltà, 16 dicembre 1993.

4 “Blocco continentale”, A. Fankhauser, Dizionario Storico della Svizzera, 19 maggio 2004.

 

L’individualismo di genere

Il femminismo è un’arma per mantenere vivo il fantasma comunista: dal genericidio del voler rendere uomini e donne -due universi opposti e complementari- uguali è stata creata una lobby che crea una solidarietà volta al guadagno e al mantenimento dello status quo del politicamente corretto tra chi di questa lobby fa parte e ci guadagna e tra chi, tramite il lavaggio del cervello proposto dalla stessa, crede di fare una cosa giusta sentendovisi appartenente, così tanto da arrivare a straziare il proprio corpo de-generizzandolo pur di perpetrare il suo linguaggio.

Che il femminismo della quarta ondata sia cominciato e sia esploso con il #metoo a fini strumentali, come arma per nuocere ad un presidente che sta ottenendo consensi sempre maggiori, pare ovvio; sono i risvolti dello stesso a fare paura a chi del proprio pene o della propria vagina ne va fiero. Che sesso, soldi e politica vadano a braccetto è un’altra ovvietà, ma dirlo è una sconcezza. Da questo paradigma così ovvio ma così altamente politicamente scorretto ho fatto partire un’intera ideologia volta a difendere il maschio in un mondo dove le femmine sono scorrette a definirsi tali se non aggiungono quell’-ista finale che accompagna ogni aggettivo volto a definire una presa di campo.

Essere individualista comporta un -ista minore nella sua portata rispetto all’essere un’altra forma di -ista o un collettivista: l’individualista deve usare questa desinenza per aggettivarsi, ma è per definizione sé stesso.

Noi donne possiamo essere femministe, oppure si può pensare con la propria testa e con la propria vagina ed essere femmine individualiste accanto a maschi altrettanto fieri di esprimere la propria natura senza essere etichettati per forza come maschilisti.

I maschilisti prima, e le femministe poi, commettono terrorismo di genere escludendo il genere avversario da alcune forme della società civile. Se le donne erano prima escluse dalla vita politica e hanno ottenuto i diritti politici millenni dopo gli uomini, adesso si assiste alla versione opposta, o almeno al suo albore, con strumenti assurdi come le quote rosa, paragonabili ai gradi di invalidità civile.

Promuovendole come strumenti democratici e conquiste femminili, le femministe si sono auto-discriminate; praticamente ammettono di essere inferiori agli uomini e di non riuscire ad ottenere un posto di lavoro nel settore pubblico o una poltrona in parlamento per merito personale. Perfino l’Organizzazione delle Nazioni Unite in ogni offerta di lavoro ha bisogno di chiarire che in caso di parità di requisiti la donna è preferita; sia mai infatti che l’ONU risulti politicamente scorretta!

Pur di rientrare nell’ambito della legalità si scaglia infatti contro qualsiasi reale ingiustizia, o almeno non è capace di mettersi nei panni di chi realmente ha bisogno di difendersi: vengono create convenzioni per le donne ma intanto in alcuni paesi mussulmani queste vengono ancora lapidate per adulterio; Hamas spende i pochi soldi dei palestinesi per creare armi fai-da-te e li manda a morte sicura, ma gli assassini sono gli israeliani che non possono dire di difendersi davanti ai media in quanto si parlava di manifestazioni pacifiche, nonostante ci fossero telecamere a dimostrare il contrario.

La versione dell’ONU è una e l’aggettivo pacifista nasconde forse quel comunista che racchiude il femminismo stesso. Del resto se l’ONU fosse così pacifica e democratica un contraltare per gli uomini vittime di violenza domestica sarebbe già stato creato, o almeno nella CEDAW (Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna) sarebbe stata aggiunta una clausola per scrutare la realtà dei fatti. Per non parlare di oggi, un tempo in cui gli uomini meritano una convenzione per il loro genere che li protegga da accuse di violenza non dimostrabili ed assurde per il fatto che spesso tali accuse piovono su relazioni comprovate nel tempo.

Queste accuse, raccolte sotto l’hashtag #metoo, fanno passare la donna come perenne vittima abusata in un momento di fragilità psichica. Queste femministe saranno contente di aver trovato un modo di guadagnare ulteriore una volta finito di beneficiare dagli uomini che prima di denunciare amavano, ma devono solamente vergognarsi di non ammettere fieramente di essersi prostituite allora e di persistere in tale nobile lavoro castrando il genere maschile. (La prostituta è la più antica lavoratrice del mondo, è una professionista del sesso e viene pagata per dare piacere e non problemi. È notorio che andare a puttane salva tanti matrimoni e dovremmo incentivare questo costume anche legalizzando il settore, piuttosto che giustificare il divorzio.)

In sostanza il mondo non è mai stato così polarizzato su due estremi, e non è mai stato così evidente il contrasto tra ipocrisia e sincerità.

La Natura è varia nelle sue manifestazioni, ma per quanto riguarda il genere dovremmo essere grati di come siamo nati, e ricordarci che siamo anatomicamente fatti per ricevere un solo altro. Siamo individualisti amandoci, perché solo amando sé stessi possiamo amare ed accogliere dentro di noi l’altro. Questa forma di collettività non può essere aggettivata con la desinenza  -ista perché può essere chiamata solamente Amore.

L’individualismo di genere è amore: vi sono coinvolte più persone, ma ne deriva un nucleo unico, chiamato famiglia. E del resto parliamo di due pianeti diversi a comporla, Marte e Venere, azione e compassione (da cum e patior, capacità di sentire insieme); questi restano tali anche nelle coppie omosessuali per i ruoli che vengono presi nella dinamica della coppia. L’amore è tale, trascende, non ha connotazioni etero/omosessuali, rimanendo innegabile che la vita biologicamente nasca da uno spermatozoo e un ovulo.

1945-1955: Quando Einaudi impediva le riforme socialiste

11 maggio 1955. Apparentemente una data normalissima, priva di significato. In realtà, questo fu l’ultimo giorno da Presidente della Repubblica di Luigi Einaudi (1874-1961). In questa data, morì quel poco di liberalismo che influenzava, o almeno tentava, le politiche, che tentava di influenzare i governi. Quel Liberalismo che aveva fondato l’Italia, morì. Morì naturalmente, che sia chiaro. Il problema era – come accadde anche all’indomani della morte di Cavour – l’assenza di eredi che potessero mantenere alta la bandiera del liberalismo anche dopo l’uscita di un grandissimo come Einaudi. Per usucapione, l’Italia venne prese dai cattolici e dai comunisti.

La presenza di Einaudi fu fondamentale nel decennio 1945-1955, sia prima come Governatore della Banca d’Italia, sia come ministro del Bilancio e sia dopo come presidente della Repubblica. Non si trovava nel’ambiente adatto. Era il periodo della convivenza tra liberali, cattolici e comunisti; in particolare, i comunisti chiedevano procedimenti di epurazione per chiunque, Agnelli, Valletta e Pirelli in primis; gli stessi comunisti scioperano e chiedevano a gran voce, occupando le prefetture, le dimissioni e l’allontanamento dello stesso Einaudi. Se vogliamo essere chiari e onesti, potremmo dire che Einaudi è stato protagonista attivo fino al 1948 e fino al 1955 è stato protagonista passivo. Se prima di diventare presidente della Repubblica riusciva ad adottare misure liberali, durante la presidenza, almeno in parte, riuscì ad evitare qualche misura statalista di troppo.

La situazione migliorò nel 1947. Alcide De Gasperi, (1881-1954) nel suo quarto governo, decise di scaricare i comunisti e di coinvolgere i liberali. Luigi Einaudi diventò Ministro del Bilancio e Giuseppe Grassi Ministro Grazia e Giustizia. In meno di dodici mesi, Luigi Einaudi riuscì a salvare la Lira, grazie anche a misure anti-inflazionistiche e anche alla fiducia dei risparmiatori. E’ un momento straordinario per il liberalismo: lo stesso Einaudi è il simbolo della parsimonia ed è amato dai cittadini. Il lavoro compiuto da Einaudi era sostenuto da Donato Menichella, governatore di fatto della Banca d’Italia, e da Mario Scelba, ministro dell’Interno, che ebbe il merito di mantenere l’ordine pubblico.

Il 18 aprile 1948 ci fu la storica sconfitta elettorale dei socialisti e dei comunisti.  Luigi Einaudi diventò il presidente della Repubblica, il primo eletto dal parlamento repubblicano. Da questo momento in poi, per il liberismo di Einaudi iniziò il declino. Il keynesismo americano, come dimostrato dal Progetto di Salvataggio Marshall, era dominante negli ambienti del governo De Gasperi V. Proprio Roberto Tremelloni, esponente del Partito Socialdemocratico Italiano, venne nominato ministro delegato alla presidenza del Comitato Interministeriale per la Ricostruzione, nato per gestire e per ottimizzare il Piano Marshall.

Alcide De Gasperi non era un liberale, ma nemmeno il classico statalista puro. Da denunciare, almeno da parte di noi liberali, l’istituzione del Piano Cassa del Mezzogiorno (1950). Con la Cassa del Mezzogiorno, lo stato italiano inizia con lo spreco di miliardi e miliardi di lire, ingrassando i notabili presenti nei territori meridionali. In ogni caso, l’inizio spropositato e inefficiente dello Stato inizierà proprio dopo la fine del Governo De Gasperi del 1953, ma soprattutto dopo la fine della presidenza di Einaudi del 1955. Chiuso il capitolo Einaudiano, iniziò il capitolo di Giovanni Gronchi, nuovo presidente della Repubblica. Questo nuovo capitolo è l’inizio del dominio delle politiche stataliste e socialiste, che prevede uno Stato super-interventista, dando massimo sviluppo e sfogo al Piano IRI, fregandosene di eventuali debiti. Con lui inizia il motto “Privatizzare gli utili, Socializzare le perdite“.

D’altronde, riferendosi all’Industria Pubblica, il presidente della Repubblica Gronchi ebbe il coraggio di dire:

L’industria privata non sopravvive senza profitti, l’industria pubblica sì

Più chiaro di così…