Aronne Piperno, tu sei giudeo e i tuoi antenati hanno crocifisso Gesù Cristo

Aronne Piperno: Ma c’è quarche cosa che nun va?
Marchese del Grillo: Ma tutto Aronne mio! Tanto comincia a di’ nell’armadio che tu hai costruito io c’ho sbattuto un ginocchio che me so’ fatto pure male!
Aronne Piperno: Ma io che c’entro?…
Marchese del Grillo: Nun è una buona ragione questa?
Amministratore: Sì, Eccellenza!
Marchese del Grillo: E in più… tu sei giudeo e i tuoi antenati falegnami hanno fabbricato la croce dove hanno inchiodato nostro signore Gesù Cristo… posso essere ancora un po’ incazzato pe’ sto fatto?

Ecco una parte del dialogo fra l’ebanista ebreo Aronne Piperno e il Marchese del Grillo, protagonista dell’omonimo film, che ho avuto il piacere di vedere nonostante sia stato girato 15 anni prima della mia nascita.

Mi ha fortemente colpito questa scena, perché il Marchese tira fuori la storia che gli ebrei abbiano compiuto l’orrendo atto di aver crocifisso Gesù Cristo e che ne portino la colpa pur dopo molti secoli, tramandandosela di padre in figlio.

Questa assurda logica venne usata per opprimere gli ebrei, per renderli sempre colpevoli di qualcosa, un semplice pretesto per creare un capro espiatorio. Oggi diremmo che è assurdo, vero?

E invece c’è qualcun altro che lo fa, in un altro modo, ancora oggi.

Ad esempio, quante volte abbiamo sentito dire che è colpa nostra la tratta dei negrieri dall’Africa, lo sfruttamento dei beni naturali nell’oggi terzo mondo, il massacro degli Incas effettuato da Pizarro, lo sterminio dei pellerossa?

Dicono che siamo stati noi “Occidentali”. Che è una nostra colpa, che dobbiamo assumerci questa responsabilità. Quasi mi sorprende non ci abbiano accusato delle Guerre Puniche e chiesto un risarcimento per la ricostruzione di Cartagine.

Io, come tutti voi molto probabilmente, non ho mai fatto né voluto niente di cui sopra. Non ho causato quei problemi e non sarò io a pagarne il conto, ma se qualcuno è tanto solidale può dimostrarlo facendo uso del suo tempo, dei suoi soldi, della sua volontà senza imporre la sua idea sugli altri, completamente innocenti.

Chi pone questi ragionamenti accusatori? Chiaramente, i collettivisti, taluni che credono esista uno spirito rappresentante il popolo che lo guida in ogni sua azione, mentre le persone sono semplici porzioni di questo enorme spirito che agisce per tutti.

Sono sempre quelle le persone che fanno un mea culpa collettivo e decidono che gli altri debbano pagare quel che loro vogliono e sottostare ai dettami che loro ritengono giusti; questi collettivisti posseggono la verità assoluta in tasca, sanno cosa è giusto e cosa è sbagliato, ma soprattutto sanno quali responsabilità dobbiamo assumerci tutti noi.

Chiariamoci, persone incapaci di assumersi le proprie responsabilità -tanto da voler distribuire il rischio di fallimento delle proprie iniziative agli altri, obbligandoli ad accettare con la forza- decidono che siamo noi i responsabili di qualcosa che non abbiamo fatto. In pratica, siamo tutti quanti degli Aronne Piperno, presi in giro dal Marchese del Grillo.

Fortunatamente per l’ebanista, il Marchese scherzava e voleva dimostrare come la giustizia fosse corrotta, sfortunatamente per noi i collettivisti sono molto seri e non ci sarà nessuno a testimoniare in nostro favore.

Non faccia l’ingenuo signor Lang, siamo noi a decidere chi è ebreo e chi no!

Il 30 marzo 1933, il ministro della Propaganda in Germania, Joseph Goebbels, mi convocò nel suo ufficio e mi propose di diventare una sorta di “Fuhrer” del cinema tedesco. Io allora gli dissi: «Signor Goebbels, forse lei non ne è a conoscenza, ma debbo confessarle che io sono di origini ebraiche» e lui: «Non faccia l’ingenuo signor Lang, siamo noi a decidere chi è ebreo e chi no!». Fuggii da Berlino quella notte stessa.

Queste le parole di Fritz Lang, regista del film preferito di Adolf Hitler, ossia Metropolis.

Vorrei partire proprio da queste parole per andare a toccare un tema ben nascosto da certi critici del nazismo: la centralizzazione delle scelte. Eh sì, perché i più grandi critici del nazismo non mettono in dubbio il metodo, bensì i fini: molti non nascondono le proprie simpatie per l’idea di un Governo centralista e dirigista (come quello nazista), ma sono comunque convinti che “solo” i fini fossero sbagliati.

Decidere dall’alto quali persone debbano compiere certi lavori, quali lavori abbiano la priorità, quali persone debbano essere catalogate come più bisognose, quale sistema economico sia migliore, si rivela sempre un disastro, oltre che essere un insulto alla libertà umana.

Anche in un regime democratico potremmo ben vedere come tutto ciò porti al fallimento, se non a una vero e proprio governo della burocrazia e del clientelismo.

Ipotizziamo però che la trasparenza sia tale da rendere possibile ogni controllo, andiamo oltre: bisognerà che qualcuno prenda le decisioni, dopo essere stato eletto e aver opportunamente studiato il caso, dunque deciderà la strada giusta. Ipotizziamo allora che questa persona sia senza malizia, non voglia fare favori a nessuno e non lo faccia per interesse personale.

Questa persona (o questo insieme di persone) avrà un potere veramente ampio, con cui potrà cambiare profondamente la vita delle persone, perlomeno nel suo ambito di riferimento. Ecco che, con il seguito della maggioranza, porterà fino in fondo una riconosciutissima opinione, una semplice opinione, per raggiungere i più nobili obiettivi.

Diciamo che sono sempre i soliti: la pace, la prosperità, il benessere, la felicità, la ricchezza. Sono cose che vorremmo tutti, tranne qualche deviato. Ma davvero qualcuno sa come raggiungere la pace, la prosperità, il benessere, la felicità, la ricchezza? 

Nonostante le troppe assunzioni fatte, il corso degli eventi potrebbe non andare come desiderato. Oppure sì. In parole povere, è stato effettuato un lancio della moneta e tutto è andato per il verso giusto, oppure tutto è andato male.

Ora, però, facciamo un passo indietro: questa persona (o, di nuovo, questo insieme di persone) ha un enorme potere, dunque  può scegliere ciò che è il bene per tutti, ciò che tutti dovrebbero fare, ciò che tutti dovrebbero pensare.

Ovviamente, tutto ben votato dalla maggioranza, con dei fantastici schemi dimostranti che “se tutto fosse così, i risultati sarebbero strabilianti“, ossia partire da condizioni attualmente impossibili, raggiungibili attuando l’assurda pretesa di cambiare la natura delle persone (l’uomo è un legno storto, mai sentito?), educandole. In pratica 1984, anche se diranno che loro invece lo fanno per il tuo bene. Allora proprio come 1984.

Fa davvero acqua da tutte le parti: questo Leviatano ha una mano che oggi “po esse fero o po esse piuma”, se in democrazia sarà a discrezione degli umori del popolo considerando che la maggioranza, il 51%, potrebbe benissimo votare per la schiavitù del restante 49%, anche se non necessariamente una schiavitù formale come quella ai tempi delle piantagioni di cotone nell’Alabama.

Questo 51% -però- è rappresentato da un certo numero di persone, che potranno sempre decidere chi è ebreo e chi no, chi è amico e chi è nemico, chi va alla ghigliottina e chi merita un elogio sui giornali.

Un potere centralizzato non ha limiti. E i limiti sono importanti.

Vediamo un altro esempio: l’URSS negli anni ’20 diede l’incarico a Vavilov di occuparsi dell’Agricoltura nazionale, questi iniziò una catalogazione di tutte le piante e di tutti i metodi di coltura, un lavoro eccezionale, ma troppo costoso.

Vavilov fu parte del caso fortunato, quello in cui l’autorità centrale sceglie una persona che sa cosa fare e lo fa con metodo rigoroso e scientifico. Peccato che fu sostituito da Lysenko, uno di quei sostenitori della teoria lamarckiana secondo la quale le giraffe hanno allungato il proprio collo nel corso del tempo grazie agli imperterriti sforzi nel tentativo di raggiungere alberi molto alti.

Sembra una barzelletta, invece erano proprio così le scelte dell’Unione Sovietica: Lysenko ipotizzò che le piante potessero acquisire caratteristiche in base all’ambiente e al nutrimento che si dava loro. Non serve dire che portò alla fame milioni di persone per capire la vastità della sua anti-scientificità applicata in un ruolo scientifico.

Non esisterà mai qualcuno che saprà qual è il bene per noi, né che avrà le risposte a ogni problema. Ogni Individuo è un caso a sé, l’ordine spontaneo degli Individui in una società può permettere il progresso grazie a innumerevoli tentativi, fra i quali emergerà uno dei migliori, o almeno quello con le caratteristiche migliori secondo le esigenze dei consumatori. Questo è il meglio che si possa fare, ancora oggi, come migliaia di anni fa.

Per proseguire sulla strada dell’ordine spontaneo e della scienza non dovremo mai più permettere che qualcuno abbia il potere tale di decidere come vada governata l’intera società, o nelle parole del totalitario Goebbels, chi è ebreo e chi non lo è.

Un meridionale contro il Parassitismo Sociale

In questo articolo parlerò di Antonio Genovesi (1713-1769), considerato uno dei principali illuministi meridionali del Settecento. Perché parlarne? Partiamo dal presupposto che stiamo parlando di un contesto storico, nel quale il liberalismo, come filosofia politica, era ancora acerbo, soprattutto dal punto di vista economico. Probabilmente era una filosofia maggiormente sviluppata sul piano delle libertà individuali.

Questa premessa era d’obbligo se consideriamo che lo stesso Genovesi, nelle sue opere, alterna idee liberiste con idee mercantiliste. In questo articolo evidenzierò gli elementi liberali più importanti.

Antonio Genovesi è nato nel salernitano ed era una persona piena di speranze, ambizioni e forza di volontà. Viveva in un contesto, come quello del Regno delle Due Sicilie, ostacolato dal connubio tra il feudalesimo radicato sul territorio e la volontà di rinnovamento dello Stato Moderno. Delle sue opere principali, consiglio la lettura dell’opera “Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile” (1766-67).

Nell’opera affronta il rapporto opulenza privata rispetto alla società, sostenendo che gli eccessi non erano un bene per la società. Lui era per un lusso moderato, poiché era non solo importante per il singolo cittadino, ma anche utile per la società stessa.

Con questo Genovesi entra sul dibattito dell’eguaglianza affrontato da Rousseau. Per il meridionale, l’idea dell’eguaglianza era una strada utopistica perché l’uguaglianza non è un processo naturale. Infatti Genovesi si poneva due domande: gli uomini ne sono più felici? E la seconda; lo Stato ne diviene più grande e ricco?

Dalle parole di Genovesi emerge l’intenzione di distinguere l’uguaglianza dalla povertà. Quindi se il primo è utopia, il secondo era più facile da percorrere. Pertanto, lo Stato aveva il compito di correggere le situazioni più gravi e vistose.

Altro aspetto interessante, se consideriamo quel contesto storico e quello attuale, era l’intenzione del meridionale di combattere il Parassitismo Sociale. Perché? Perché Genovesi partiva dal presupposto che il compito principale dell’uomo fosse quello di lavorare per sé, per la propria famiglia e per l’utile comune. Proprio perché era favorevole ad un diffuso medio benessere, il lavoro era la strada per raggiungere tale obiettivo. Per questo motivo, i “privilegi irrazionali” presenti nel territorio e gli abusi feudali erano anacronistici e paralizzavano l’economia. Spettava allo Stato preoccuparsi di rimuovere questi ostacoli e di combattere qualsiasi forma di parassitismo per permettere all’agricoltura, all’industria e al commercio di operare nelle migliori condizioni possibili. Il feudalesimo non era il solo ostacolo dell’economia, ma anche il Clero che, con le sue vaste proprietà immobiliari, con gli ordini religiosi che favorivano il parassitismo e il suo potere giurisdizionale, contribuivano a paralizzare l’economia nel suo complesso.

Per concludere, aggiungo che quando si vuole mettere in discussione un sistema “rognoso e tosto” come quello italiano o come quello meridionale, la prima caratteristica fondamentale è l’ottimismo. Chi pensa che non ci sia alcuna speranza convive con un Pessimismo Cronico, ma chi pensa che ci sia un’alternativa alla realtà in cui viviamo, vuol dire essere ottimisti, proprio come Antonio Genovesi.

Concludo con una citazione, di Winston Churchill.

“L’ottimista vede opportunità in ogni pericolo, il pessimista vede pericolo in ogni opportunità.”

 

Come si autorealizza un Individuo? La risposta di W. von Humboldt

Nella sua eccelsa opera “I Limiti dell’Azione Statale”, un titolo che già lascia presagire 92 minuti di applausi per ogni paragrafo letto, Wilhelm von Humboldt intraprende la sua analisi partendo da come un Individuo debba autorealizzarsi: “Dell’Individuo e dei più alti confini della sua esistenza“, così il titolo del secondo capitolo. Eccone alcuni estratti, quelli a parer mio più significativi:

Il vero fine dell’Uomo, o ciò che è prescritto dai dettami eterni e immutabili della ragione e non suggerito da desideri vaghi e passeggeri, è lo sviluppo più alto e più armonioso dei suoi poteri verso un’interezza completa e coerente.

La libertà è la prima e indispensabile condizione che presuppone la possibilità di tale sviluppo; ma c’è anche un altro essenziale, – intimamente connesso con la libertà, è vero, – ossia la varietà delle situazioni. Anche il più libero e autosufficiente degli uomini è ostacolato nel suo sviluppo quando si trova in una situazione di staticità.

Quindi deduco,in maniera naturale da quanto sostenuto, che la ragione non può desiderare per l’uomo alcuna condizione diversa da quella in cui ogni individuo non solo gode della più assoluta libertà di svilupparsi con le proprie energie, nella sua perfetta individualità, ma in cui anche la natura esteriore è lasciata fuori moda da qualsiasi agenzia umana, ma riceve solo l’impronta che gli viene data da ciascun individuo di se stesso e dal proprio libero arbitrio, secondo la misura dei suoi desideri e istinti, e limitato solo dai limiti del suo poteri e i suoi diritti.

Humboldt dunque vuole arrivare a spiegare come l’azione statale impedisce all’uomo di realizzarsi correttamente e pienamente, ponendogli i bastoni fra le ruote o facilitandolo eccessivamente rendendogli inutile ogni sforzo, ma pur sempre a scapito di tutti gli altri Individui.

Oltretutto vuole far notare l’ipocrisia degli statalisti, un’ipocrisia “data dal fatto che essi considerino ciò che l’uomo possiede rispetto a ciò che è realmente, e che rispetto a quest’ultimo non coltivano, neppure all’uniformità, le facoltà fisiche, intellettuali e morali” nonostante si ergano a protettori del suo spirito, della sua mente, del suo corpo. Questi statalisti, dunque, vorrebbero decidere la maniera in cui ogni Individuo debba condurre la propria vita, facendosi carico del fardello che non riescono a sorreggere sulle proprie spalle pur di avere il Potere decisionale, di vita e di morte sugli altri , sostenendo come unico valore “l’unità perfetta di tutto l’essere“.

E con un coraggioso confronto asserisce: “Gli antichi cercavano la felicità nelle virtù; i moderni hanno troppo a lungo cercato di sviluppare le virtù a partire dalla felicità“, dunque, critica la scelta di imporre la felicità qualunque cosa si faccia, anziché di lasciare che la si cerchi a partire dai propri valori e dalle proprie virtù, passando per la realizzazione individuale.

Autarchia: una pericolosa utopia

Il dibattito fra libero mercato e protezionismo non è certo un’invenzione dei nostri tempi. Già nell’Ottocento Cavour,convinto sostenitore del libero scambio,con le sue politiche economiche rese il Regno di Sardegna il più florido fra gli Stati italiani pre-unitari. Al contrario uno dei suoi successori,Francesco Crispi,nel pieno della grande depressione del 1873-1896 si imbarcò in una guerra commerciale contro la Francia,il nostro principale partner economico di allora,che risultò disastrosa per il Paese. Allora come oggi,dunque,una grave crisi economica spinse molti governi ad abbandonare il libero scambio per adottare politiche protezionistiche, che prolungarono ulteriormente la crisi. Il protezionismo, malgrado i danni che esso determina, non è nulla se confrontato all’antitesi stessa del libero mercato, l’autarchia.

Per “autarchia” si  intende l’assoluta autosufficienza del mercato nazionale,in grado di rispondere al fabbisogno interno di qualsiasi merce indipendentemente dagli scambi con i mercati esteri. Ciò era lo scopo ultimo della politica economica dei regimi totalitari europei del secolo scorso, ed è oggi il principio ispiratore delle proposte economiche di molti movimenti populisti,no global e della nuova sinistra.

Viene da chiedersi se l’autarchia possa essere considerata non solo un modello teorico,ma anche una concreta politica economica. A parere di chi scrive la risposta è sì,ma non nel XXI secolo. In passato infatti non sono mancati esempi reali di autarchia: cos’era infatti una corte feudale dell’Alto Medioevo,se non un microcosmo autarchico, in cui produttore e consumatore coincidevano nella medesima persona,il contadino?

Come per molte altre realtà storiche,dalla schiavitù al colera,a rendere obsoleta l’autarchia è stato lo sviluppo tecnico-scientifico. Mentre la civiltà feudale necessitava di risorse presenti ovunque nel mondo,quali terre fertili da coltivare e legname come combustibile,la nostra è una civiltà basata sulla tecnologia moderna,la quale tuttavia richiede materie prime che si trovano solo in aree specifiche del globo,come il petrolio (essenziale per carburanti,materiali sintetici e agricoltura) e le “terre rare”,come il neodimio,essenziali per i nostri dispositivi high-tech,dagli smartphone alle automobili elettriche. Ne consegue che nessuno Stato moderno possa sopravvivere senza scambi commerciali con altri Stati,in quanto non esiste paese al mondo dotato di tutte le risorse necessarie alla tecnologia moderna. Per ovviare a questo problema esistono tre possibili soluzioni: l’abbassamento delle condizioni di vita degli esseri umani,la guerra o il libero mercato.

La prima è la via intrapresa dal regime che governa la Corea del Nord,la cui ideologia prende il nome di “Juche”,generalmente tradotta come “autarchia” per l’appunto. La seconda è la scelta spesso adottata dagli Stati Uniti,che dalla seconda guerra mondiale in poi hanno sostenuto dittature e combattuto guerre al fine di assicurarsi il controllo di mercati esteri con le loro risorse. La terza,il libero mercato,rappresenta un modo per rimediare agli squilibri esistenti fra le nazioni senza ricorrere alla forza militare e senza rinunciare alle conquiste della tecnologia moderna,rendendo quindi possibile la ridistribuzione della ricchezza mondiale, non quella da attuare con la forza,figlia dell’ideologia marxista,bensì quella fra produttore e consumatore figlia della libertà economica,presupposto indispensabile per ogni altra libertà personale.

Ne consegue che l’autarchia è doppiamente pericolosa,in quanto ha come risultato un mercato interno bisognoso di espansione (spesso causa di guerre) e l’impoverimento delle nazioni. Soprattutto,l’autarchia è una grave restrizione alla libertà umana. Sin dalla nascita della civiltà,l’uomo ha condotto scambi economici con i suoi simili,prima con il baratto e poi con la moneta. Questi scambi, che oltre alle merci veicolano la diffusione delle idee, devono essere salvaguardati in una società libera,ed è per questo che l’autarchia è la compagna naturale del totalitarismo.

L’Italia del 2018 come la Giudea del 33 d.C. : analisi dell’elettorato

Il 33 d.C. è l’anno in cui -così si narra da due millenni- Gesù venne crocifisso. Cosa stava accadendo in Giudea in quel periodo? Premetto, come sempre, che sono fermamente convinto del mio agnosticismo e che quanto esporrò non avrà l’intenzione di far redimere nessuno come Paolo sulla via di Damasco.

Fra i giudei c’erano due fazioni opposte fra loro: la fazione per la sottomissione ai romani proponeva di chinare un po’ il capo per vivere nella pace instaurata dal dominio di Roma, dialogando con i dominatori per mantenere qualcuna delle proprie tradizioni; l’altra fazione era quella degli Zeloti, che contestavano l’Impero con la violenza e con rappresaglie partigiane, volevano scacciare i loro governanti reclamando il regno di Dio in terra.

Fra gli italiani dei nostri giorni le fazioni sono più di due, ma molto semplicisticamente possiamo dire che si possano dividere così: la fazione per lo Status Quo, quella parte della popolazione che si è rassegnata (consapevolmente o no) ai grandi cambiamenti e che spera tutto si risolva con piccoli e minimi interventi, facendo sì che tutto cambi per non cambiare; dall’altra parte la fazione che è stufa della stazionarietà, quella che vuole il cambiamento e lo accetta di qualsiasi forma esso sia, basta che qualcosa cambi e che l’establishment attuale perda i suoi privilegi.

Nel primo caso, nelle annate d’intorno al 33 d.C. si stava diffondendo una terza via: quella dell’Amore, propugnata dai seguaci di Cristo; predicavano che la Libertà sarebbe arrivata tramite l’Amore, che la pace fra gli uomini sarebbe stata solamente una delle conseguenze di Amore e Libertà. Ci sono voluti diversi secoli, ma il contagio di quelle idee è stato tale da espandersi in ogni continente e sopravvivere per due millenni. Quel marketing ha funzionato alla grande: a differenza delle altre grandi dottrine utopiche, il richiamo del cristianesimo viene spontaneamente da dentro di sé una volta che si ha innescato la miccia, ha funzionato senza imporlo dall’alto (sarà l’imposizione degli ultimi secoli il motivo per cui ora sta indebolendosi e perdendo seguito?). A differenza del comunismo o delle dittature benevole e costruttivistiche del Grande Leviatano, secondo cui è l’ente centrale a imporre la pace e il bene per gli uomini.

Il secondo caso, quello odierno, è più difficile da trattare. Quello che è certo, è che non possiamo aspettare l’avvento di un altro messia e non dobbiamo più riporre le nostre speranze nell’ascesa di un nuovo uomo forte, carismatico e capace che sappia cosa fare. Nessuno più di un liberale dovrebbe sapere che la salvezza, l’autorealizzazione, la dignità, l’impegno, il merito vengano solo da sé e non dagli altri. Nessuno più di un liberale dovrebbe darsi da fare per la lotta quotidiana contro il collettivismo, contro la massificazione, contro l’omologazione (altro che il Capitalismo che ci vuole tutti uguali, quello è il comunismo!), diffondendo senza paura quell’ideale che nascondiamo in un recondito angolo della nostra mente.

Noi liberali sappiamo cosa c’è da fare: diffondere la Libertà, il progresso, il mercato e darci da fare per cambiare il tessuto culturale del nostro paese; un paese che rischia di rimanere senza futuro a causa di chi ha troppa paura del cambiamento o di chi vuole rivoltare il sistema senza rigor di logica.

Il liberale che salvò Torino dal collasso economico

È il 20 Settembre 1864, da pochi giorni è trapelata la notizia che la capitale d’Italia non sarà più Torino. Scoppia una manifestazione che dura tre giorni, muoiono 62 cittadini e 138 rimangono feriti.

Credete che i torinesi dell’epoca ci tenessero così tanto allo status di capitale? No: stavano per perdere il posto di lavoro. E, non essendoci molto altro a Torino sennonché l’amministrazione, ben 32’000 abitanti dei 224’000 complessivi abbandonarono la città nel primo anno.

Il Sindaco Emanuele Luserna di Rorà, apprezzatissimo dagli elettori (entrò in Parlamento con 643 preferenze su 657 votanti), ma anche noto per il suo ingegno, aveva passato i primi due anni dell’amministrazione cittadina migliorandone le condizioni igieniche e riqualificando i servizi essenziali della città. Al compiersi della crisi, Quintino Sella gli propose un indennizzo per finanziare i progetti di riconversione, ma il Sindaco rifiutò asserendo che «Torino non è in vendita!»  e preparò un piano, tutt’oggi riproponibile, per realizzare il suo nuovo obiettivo: «Torino dovrà divenire la Manchester d’Italia».

Ecco i punti fondamentali:

  • Logistica e infrastrutture per rendere più appetibile agli imprenditori la zona;
  • Turismo (loisir) basato sulla “coltura” della bellezza e dell’ospitalità;
  • Detassazione per le industrie estere e non che decidessero di investire (con grande pubblicità su tutti i giornali europei);
  • Trarre frutto dal territorio, costruendo canali per impianti energetici e industriali.

Il Marchese di Rorà voleva, dunque, che Torino divenisse la capitale italiana dell’industria, dopo aver smesso di essere la capitale amministrativa. Avviò un processo d’industrializzazione che divenne un imperativo categorico per ogni singolo funzionario torinese. Nel 1865 Rorà lasciò l’incarico al suo successore, il quale si impegnò nel proseguire il progetto, e venne lanciato l’Appello in più lingue diretto verso ogni industriale italiano ed europeo, informando che a Torino avrebbe trovato agevolazioni fiscali e pronte infrastrutture.

L’impianto di approvvigionamento raggiunse in poco tempo i 2000 cavalli vapore, per mezzo dei numerosi canali provenienti dal torrente Ceronda e -soprattutto- grazie all’apporto scientifico dell’ingegner Galileo Ferraris, a cui oggi è dedicata una delle più importanti e lunghe vie della città di Torino.

È innegabile che queste menti illustri e brillanti abbiano evitato il collasso della città di Torino, ma ciò che è più importante è che siano stati dei liberali a farlo, senza intromettersi nel mercato ma unicamente fornendo all’industria tutte le possibilità di svilupparsi, migliorando al contempo il benessere cittadino e le condizioni di vita. Ecco un breve estratto del discorso del Sindaco Rorà tenuto il 22 Aprile 1862 (prima dei fatti succitati):

Or qui mi affretto a dichiarare che malgrado queste mie non modeste idee di tante forze motrici d’ogni genere io non intendo punto debbasi inaugurare un nuovo sistema di grandiosissimi lavori e di enormi spese.
Questo urterebbe coi principii che professo, e secondo i quali l’amministrazione pubblica può bensì soccorrere, ma non surrogarsi alla privata industria sotto pena di diventare essa stessa speculatrice o creare a quella una vita fittizia e mal sicura.

Il suo spirito non mutò durante il discorso del 23 Maggio 1865 (dopo aver iniziato il piano d’industrializzazione):

Noi vorremmo al certo rendere all’operaio men caro il vivere, ma anzitutto dobbiamo pensare a far sì che non possa mancargli lavoro.
La Commissione partendo da due principii vi proporrà di ridurre il dazio di tutto quanto parve possibile: cioè affrancare l’industria da quelle tasse che maggiormente l’inceppano, e sgravare dal dazio i generi che servono specialmente al vitto della classe meno agiata e che danno luogo a maggiori reclami nella riscossione.

Ed ecco che il discorso volge parafrasando Adam Smith, che il buon Sindaco dimostra d’aver letto, indicando come la voglia e la necessità dell’Individuo di avere di più in concorrenza possano conciliarsi con la cooperazione:

Spero riusciremo, perché confido nel carattere dei nostri concittadini, nel loro coraggio, nella loro fede nell’avvenire e nella loro operosità che, se poco può fare da sé adoperata parzialmente, può tutto qualora sia riunita in associazione.

Spero di avervi convinto maggiormente delle tesi liberali, avendo come testimone la Storia, e per farvi rendere conto del circolo virtuoso innescato da Rorà, basti pensare che Torino fu per i cent’anni successivi uno dei tre poli del triangolo industriale. Ti chiederai se sono sicuro della causalità? Certamente, altre cause non ce ne sono: la manifattura avrebbe potuto fiorire in Veneto, in Toscana, in Emilia; e invece no, fu proprio Torino -mossa dal propulsore liberale- a divenire fulcro del Triangolo Industriale.

Conoscere Einaudi: Rappresentanze di interessi e Parlamento (1919)

Questo articolo di Luigi Einaudi fu pubblicato da parte del Corriere della Sera il 29 novembre 1919.

In questo articolo, il presidente della Repubblica denuncia la tendenza italiana di far decidere su alcune tematiche che appartengono alla politica solo coloro che lui denomina gli “interessati”, ossia coloro che hanno particolarmente a cuore, come i socialisti per disciplinare sul lavoro, come gli industriali sulle tariffe doganali. Questo è un grave problema per l’Italia, come sostiene lo stesso autore.

Dare alle rappresentanze professionali una funzione deliberativa è voler mettere gli interessi particolari al posto di quelli generali, è compiere opera per lo più sopraffattrice ed egoistica. Gli “interessi” debbono esser ascoltati e consultati. Ma qui finisce la loro sfera di azione.

Questo perché secondo Einaudi è opportuno distinguere i competenti dell’azione politica dai competenti dei singoli rami, poiché non coincidono.

I “competenti” dell’azione politica non sono e non debbono essere i “competenti” nei singoli rami di industrie o di commercio o di lavoro o di professione. Da qui inizia un elenco con tre critiche nei confronti delle rappresentanze di interessi presenti in Parlamento.

Essi non rappresentano normalmente neppure la generalità degli interessi presenti.

Come si può affermare che la confederazione generale dell’industria, che le camere di commercio, che il segretariato agricolo nazionale siano le vere, genuine rappresentanze di tutti gli interessi industriali, commerciali ed agricoli d’Italia? Non lo sono neppure per burla. Questi corpi rappresentano quei gruppi, rispettabilissimi sì, ma pochi, che avevano appunto un forte interesse da far valere e da patrocinare. Chi ci dice che altri non vi sia che abbia un interesse contrario; che coloro i quali hanno interessi diversi si siano accorti di ciò che si sta combinando ai loro danni da parte di coloro che dicono di rappresentarli?

Non rappresentano certamente gli interessi futuri, che è compito principalissimo essenziale dello stato difendere contro gli interessi presenti. Riferendosi alle richieste, da parte degli industriali potenti, di avere maggiore protezionismo, penalizzando le nuove ed emergenti industrie che sono il futuro del Paese. Il compito dell’Uomo di Stato, secondo Einaudi, è quello di eliminare gradualmente qualsiasi aiuto nei confronti dei potenti e di aiutare provvisoriamente coloro che stanno emergendo.

Non difendono l’interesse generale.

Non da oggi, non da quando è cominciata la guerra, ma da ben prima gli economisti insegnarono che potevasi dare protezione ad industrie essenziali per la difesa militare dello stato. Anche a ciò sono disadatte le rappresentanze degli interessi. Oggi queste chiedono protezioni per le industrie-chiavi, per le industrie che furono essenziali durante la guerra passata: siderurgiche, chimiche, ecc. Se si ascolta il loro voto, noi difenderemo industrie che hanno guadagnato moltissimo, che, se fossero state bene amministrate, avrebbero dovuto in molti casi ridurre a valore zero i loro impianti e trovarsi ora agguerritissime contro la concorrenza estera. Invece, col pretesto delle industrie essenziali per la guerra, si vogliono mantenere i prezzi ad un livello tale da remunerare gli impianti al valore bellico, come se non fossero stati o non avessero dovuto essere ammortizzati. Vi è una grande probabilità che in tal modo si proteggano industrie diverse da quelle che saranno essenziali nella futura guerra. Io non so quali possano essere queste future industrie chiavi; ma nego nel modo più assoluto la validità della indicazione fatta dai rappresentanti delle industrie che hanno maggior voce nei loro consessi sedicenti rappresentativi.

In sostanza, quelli che vengono definiti come competenti interessati, in realtà sono coloro che tendono a consolidare quegli interessi forti e antichi. Viene escluso il nuovo. Da badare che in questo articolo Luigi Einaudi parla di Industria e dei vari settori – d’altronde siamo nel 1918, l’Italia è in guerra e siamo in un contesto storico molto diverso da quello attuale, però credo che questo articolo sia molto attuale se facciamo caso a chi si è occupato del lavoro, dell’economia, dell’Industria ecc. in questi decenni. Mi sentirei di dire, e scusate se non siete d’accordo, che questo problema delle Rappresentanze di Interessi sia ancora palesemente presente. D’altronde, oltre ad essere un paese collettivista, statalista e socialista, l’Italia è anche uno Stato nettamente sindacalista, nel senso che è soffocata dai vari interessi dei Sindacati che riescono a prendere il potere, direttamente con il voto o indirettamente con le pressioni politiche.

Si consultino dunque gli interessati, tutti gli interessati. […] Prima di concedere ad un privato industriale di tassare gli altri industriali ed i consumatori in genere a proprio beneficio sicuro ed a beneficio preteso della collettività, bisogna far conoscere pubblicamente le ragioni del privilegio. Chiedesi soltanto di non brancolare nel buio e di non essere messi dinnanzi al fatto compiuto ed irrevocabile.

Il Fronte dell’Uomo Qualunque: un liberalismo dimenticato

Dedichiamo questo articolo al Fronte Dell’Uomo Qualunque, movimento e, successivamente, un partito politico italiano sorto attorno all’omonimo giornale (L’Uomo qualunque) fondato a Roma nel 1944 dal commediografo e giornalista Guglielmo Giannini. Perché? Perché ritengo che egli abbia lasciato – almeno per noi liberali – un’eredità culturale importante. Un’eredità, probabilmente, considerata troppo povera. In questo articolo proverò a mettere l’accento su tantissimi contenuti liberali liberisti presenti nei saggi politici del commediografo italiano.
Siamo nel periodo 1943-44, l’Italia Fascista è in grave declino e Mussolini si rifugia al Nord con lo Stato Fantoccio della Repubblica Sociale, dopo l’esperienza di Salerno e con la successiva liberazione di Roma si tenta lentamente di creare un Governo e i partigiani e gli americani tentano di liberale il territorio dal dominio nazifascista. In tutto questo caos istituzionale arriva nelle edicole di Roma, mercoledì 27 dicembre 1944, il primo numero della testata giornalistica denominata «L’Uomo Qualunque». Il fondatore era Guglielmo Giannini (1891-1960), giornalista, scrittore e regista italiano. Il primo elemento che colpisce in modo particolare è il simbolo della testata.
Una delle coppie di mani appartiene alla tassazione, l’altra alla statizzazione che schiacchia una persona. Chi è questa persona? Vi rispondo con le stesse parole di Guglielmo Giannini.
Il borghese, il lavoratore onesto che lascia le sue ultime monete, schiacciato sotto il torchio
Lo scopo di Giannini era quello di dare voce alle opinioni dell’uomo della strada, contrario al regime dei partiti e ad ogni forma di statalizzazione. Fin da subito la posizione è chiarissima: abbasso tutti. Si considera antifascista e anticomunista e porta avanti una linea editoriale pungente e satirica. Il fenomeno avviato da Guglielmo Giannii fu erroneamente associato all’etichetta di Qualunquismo, che vuol dire “atteggiamento, morale e politico, polemico nei confronti dei partiti politici tradizionali in nome di una gestione tecnocratica e non ideologica del potere, assunto dai promotori e sostenitori del movimento qualunquista” (fonte Treccani).
In realtà dietro questa etichetta, il pensiero politico di Giannini e del Fronte dell’Uomo Qualunque, era molto più profondo e articolato. Proprio per questo ho deciso di parlare degli aspetti liberali che, a mio parere, sono stati poco analizzati e discussi nel corso della storia.
Il principio ispiratore è la libertà.
nella formula con cui fu enunciata dai Fondatori delle Nazioni Unite, Franklin Delano Roosevelt, Winston Churchill, Libertà di parola — Libertà di Religione — Libertà dal bisogno — Libertà dalla paura
Nello specifico, era un convinto sostenitore dello Stato Minimo. Non era d’accordo con il motto statalista mussoliniano “tutto nello Stato niente contro, al di fuori o al di sopra dello Stato”, ma era favorevole allo Stato Minimo (o Stato Amministrativo). La citazione dello storico Dino Cofrancesco (1942) penso sia la più adatta per descrivere l’idea di Stato di Giannini.
Uno Stato che si tiene lontano dal farsi attore sociale
Nel saggio di teoria politica scritto da Giannini, La Folla, insiste molto sulla questione del rapporto tra il cittadino e il governo statale, facendo vari esempi, dalla visione dello stato come «una scrivania alla quale sta seduto un impiegato che con un campanello può chiamare un poliziotto», all’idea di Stato al servizio del cittadino e non paternalista, all’opposizione allo «Stato scocciatore». Il suo obiettivo è quello contrastare la presenza dello stato nella vita sociale italiana, in quanto l’unica cosa di cui ha bisogno il cittadino qualunque (o l’uomo qualunque) è quello di essere amministrato. Di conseguenza, egli nonostante sia opportuno contrastare il comunismo e sia il capitalismo della grande industria, il suo programma politico era incentrato su un liberismo economico individuale.
Il tiranno c’è sempre, la rottura di coglioni c’è sempre; e sia l’uno che l’altra si valgono dello Stato e della forza oppressiva dello Stato per fare il proprio comodo e i propri interessi
Lui si ispirava all’idea libertaria di Henry Thoreau (1817-1862), filosofo e scrittore americano, nel quale nella sua opera Disobbedienza Civile, esprime la sua contrarietà nei confronti del governo invadente.
Il governo migliore è quello che governa di meno
A tal proposito, Giannini era favorevole ad un certo turnover della classe politica.
Vogliamo invece mettere i governanti nell’impossibilità di far male, o quanto meno, nelle condizioni di fare il minor male. […] Nessuno dovrebbe occupare una carica per più di due volte di seguito, nessuno dovrebbe essere presidente della Repubblica per più di due anni consecutivi, nessuno dovrebbe essere Capo del Governo per più di un anno, nessuno dovrebbe essere eletto deputato per più di due volte senza intervallo e via discorrendo.
Inoltre, lo Stato pretende di comportarsi come se fosse un privato cittadino, quindi pretende di fare commercio. Proprio le tasse vengono adottate per fare il “mestiere altrui” di imprenditore, per coprire le perdite economiche. Come dice anche lo stesso Giannini.
Lo Stato considera il Paese come una miniera da sfruttare i suoi abitanti come un gregge da tosare, scuoiare, squartare, cucinare, mangiare.
Quindi insisteva nel fare propaganda contro lo Stato Azienda, promosso dai comunisti, in particolare con Nikita Krusciov nel 1956.
la Ford e la Fiat, la Montecatini e la Standard saranno lo Stato, miei datori di lavoro e maestri, direttori di coscienza e confessori. Se un amministratore delegato s’incapriccerà di una donna di casa mia dovrò dargliela o finire in galera. È questa la perfezione che mi si promette con lo Stato Azienda che assorbe ogni iniziativa privata? Se è questa sono Contro questo Stato e ritengo più civile e progredita l’Età della Pietra, con tutti i suoi disagi compensati però dalla sua impagabile libertà.
Dal rifiuto al modello teorico di organizzazione statale proposto dai comunisti, Giannini è favorevole ad affidare l’economia nazionale nella sua totalità, ai privati.
Angelo Imbriani, autore del testo Vento del Sud : moderati, reazionari, qualunquisti, 1943-1948 (1996), spiega che l’idea di Stato di Giannini era:
un modello organizzativo dello stato estremamente suggestivo per il ceto medio dell’impiego e delle professioni, perché basato sulla valorizzazione delle competenze individuali e capace quindi di restituire a queste fasce sociali quel ruolo che esse temono di poter perdere o immaginano di aver già in parte perduto.
La visione di Stato di Giannini prevedeva il matrimonio tra Politica e Tecnica, in quanto dividerli vorrebbe dire:
vuol dire soltanto favorire la peste del politicantismo puro, astratto, metafisico, inutile e anzi dannoso; vuol dire Mussolini. ministro della guerra, Togliatti ministro della giustizia, Scoccimarro ministro delle Finanze, e quindi Mussolini, Togliatti, Scoccimarro alla perpetua ricerca di tecnici che attuino la loro politica (pericoloso doppione) con il risultato che o la tecnica si debba mettere al servizio della politica contorcendosi ai suoi voleri, o la politica debba cedere il posto alla tecnica snaturandosi fino al
proprio annullamento.
Guglielmo Giannini e il Fronte dell’Uomo Qualunque non aveva un rapporto buonissimo con il Partito Liberale Italiano. I contrasti con Benedetto Croce erano evidenti e difficili da risolvere. Il problema era soprattutto organizzativo e di comunicazione, in quanto Croce era per una politica di élite e Giannini era per una politica di massa. Lo stile populista di Giannini non era particolarmente ben visto, dunque, dagli ambienti liberali del Partito Liberale Italiano.
Il successo del Fronte dell’Uomo Qualunque fu tanto breve tanto quanto intenso. Ritengo per l’Italia che sia stata una grande occasione liberale mancata. Forse con un pizzico di lungimiranza, adottare una linea politica liberale di massa, probabilmente avrebbe evitato il declino del Partito Liberale Italiano che, a mio parere, si è sempre “intestardito” (e tuttora insiste) con la politica dei pochi o di élite.
Sarà bellissimo un domani raccontare e diffondere le opere di Guglielmo Giannini..

Il protezionismo è nemico dell’Industria [Discorso di Cavour]

Quando si fece la riforma del 1851, molti onorevoli e benemeriti industriali vennero a me per cercare di convincermi che se la riduzione [ndr: dei dazi] venisse approvata dal Parlamento, tutte le fabbriche si chiuderebbero.

E mi ricordo che uno di quei signori, che non nominerò, mi disse: ebbene, l’anno venturo ci vedrà in piazza Castello con sei o settemila operai a domandare il pane.

Io espressi un vivissimo dolore di questa eventualità, ma siccome credevo fermamente che s’ingannasse, non m’arrestai.

Si fece la tariffa. Otto mesi dopo mi annunciano quello stesso industriale, ed immaginai a tutta prima che fosse seguito da seimila operai; ma era solo.

Ei s’avanza e mi dice -scusate la parola un po’ volgare-, mi dice: io era un gran minchione, Lei aveva tutte le ragioni; fatta la riforma mi sono detto due cose: o chiudere la fabbrica o migliorarla; presi il secondo partito, andai in Inghilterra e vidi che ella aveva ragione, che noi eravamo indietro ancora di venti e più anni; mutai tutti i miei meccanismi e tutto procede bene.

Alcuni anni dopo, passando nel paese dove questa fabbrica è stabilita, ebbi il piacere di vedere una fabbrica che, a parer mio, può essere annoverata fra le prime di questo paese.

Prenderò a considerare una sola industria, quella delle sete.
L’Italia meridionale produce molte sete, e sete piuttosto di qualità reputate; eppure tutta la seta greggia va a farsi lavorare altrove, parte in Lombardia e in Piemonte, parte in Francia ed Inghilterra. Quale ne è il motivo? Perché non vi sono sufficienti capitali e tendenze industriali onde creare nell’Italia meridionale degli edifizi per filare e torcere la seta.

La conseguenza del sistema protettore è di spingere i capitali e gli industriali nelle industrie protette, quella della libertà è di spingerli invece nelle industrie naturali al paese. Quindi io credo che, se la riduzione avesse per avventura per effetto di menomare in Napoli l’industria dei panni (ciò che non credo), per compenso accrescerebbe l’industria della seta.

La miglior prova, del resto, per sapere se questa riforma fu fatta opportunamente è di esaminare le conseguenze della medesima. Questa riforma fu fatta nel mese di settembre scorso, cioè nove mesi or sono. Non mi ricordo se nel primo momento eccitò qualche lagnanza, ma il fatto sta che quindici giorni dopo più nessuno ne parlò, più nessuno di questi industriali se ne rammaricò. Ora, ad un tratto, quando questa legge viene in discussione, si presentano a voi questi industriali e dicono: se voi la sancite siamo rovinati. Ma in questi nove mesi, io chiedo loro: avete voi perduto molto? Signori, sarei ben contento, per la mia fortuna, di avere una piccola porzione dei profitti che questi industriali hanno raccolti in questi pochi mesi!

Finalmente io credo che per favorire l’industria (ed in questa parte l’onorevole Sella potrà fare molto più di me), si conviene di favorire l’istruzione professionale non solo nelle alte, ma nelle basse sfere degli operai. Noi difettiamo ancora di buoni capimastri nelle nostre fabbriche; s’incontrano assai difficoltà onde procacciarsi dei meccanici ingegneri, quelli che gl’Inglesi dicono engineers, che sono meccanici un po’ distinti, e per avere questa classe di capimastri artieri è necessario che vi siano alcune scuole tecniche, dove gli operai, non quelli vestiti di panno fino, ma i veri operai che hanno un ingegno naturale acquistino quelle cognizioni che sono necessarie per diventare buoni capi d’arte, buoni capimastri.

Io credo d’aver fatto il possibile onde alcune di queste scuole fossero attivate; se il mio onorevole collega ministro dell’istruzione pubblica, coadiuvato dall’onorevole deputato Sella, può far sorgere di queste scuole in varii punti dello Stato, avrà reso all’industria un ben altro servigio che non sarebbe l’aumento dell’uno o del due per cento sui dazi protettori.

27 Maggio 1861