Ci serve una Repubblica direttoriale?

Abbiamo appena assistito ad una crisi di governo. Una crisi figlia del nostro assetto costituzionale che, pur volendo dare un bel po’ di potere allo Stato, voleva evitare un forte accentramento politico.

Da tempo mi interrogo sulla forma di governo migliore per uno Stato liberale. A mio parere questa forma dovrebbe avere principalmente tre caratteristiche:

  • Rappresentare quanti più cittadini possibile;
  • Avere una visione a lungo termine e un certo potere di implementarla;
  • Non essere schiava delle logiche elettorali.

Ho scartato subito la Repubblica presidenziale: essendo un ruolo elettivo si rischia di perdere una qualsiasi garanzia e di legare anche la più importante carica del Paese a logiche a breve termine per ottenere voti. Se è accettabile in grandi Stati federali in un sistema di controlli e contrappesi, in Stati unitari invece rischia di essere un pericolo per la prosperità.

La Repubblica parlamentare è migliore ma di poco: il Presidente viene eletto dai Partiti ma dipende un po’ meno da essi che in uno Stato presidenziale, tende ad avere una visione di termine leggermente maggiore ma comunque resta il fatto che, avendo pochi poteri, i problemi si spostano al premier e, premierato debole o forte che sia, resta il problema della visione a breve termine e delle logiche elettorali. E anche se decidessimo, come accade in Cechia o in Austria, di eleggere direttamente il Presidente, poco cambierebbe.

Verrebbe naturale pensare alla Monarchia ma, Liechtenstein a parte essendo un’eccezione, le Monarchie europee sono solo leggermente più stabili delle Repubbliche, per il semplice fatto che hanno il medesimo sistema istituzionale sostituendo il Capo di Stato eletto con uno non eletto e vitalizio.

Un Capo di Stato collegiale?

Nel 1160, tuttavia, i Lombardi idearono un particolare sistema per la propria alleanza: un capo di Stato collegiale. La Lega Lombarda, che era una confederazione con compiti commerciali, giudiziari e politici oltre che militari, aveva un consiglio denominato universitas composto da membri dotti della società nominati dai singoli comuni.

Tale impostazione venne ripresa dai rivoluzionari francesi e, in tempi più recenti, dalla Confederazione Svizzera, che ad oggi rappresenta l’unico Stato ad adoperare questo sistema.

Si parla, in questi casi, di repubblica direttoriale: il Capo di Stato è collegiale ed è composto da pari; se c’è una figura unica, come il Presidente della Confederazione, assume esclusivamente un ruolo di rappresentanza poiché è un primo tra pari.

Perché è un sistema stabile?

Perché più o meno tutti sono rappresentati nel consiglio di governo. Nel sistema elvetico c’è un accordo de facto tra le forze politiche, denominato “formula magica”, ma si può anche immaginare una formula proporzionale direttamente prevista per legge.

Il governo, collegialmente, deciderebbe su vari temi rendendo possibile convergenze parallele e non obbligando a creare alleanze fisse: ogni partito sceglierebbe i migliori uomini e costoro, nel governo, deciderebbero.

E qualora non vi sia un accordo può decidere il popolo, nella forma di Parlamento o con voto diretto. Non è un caso che in Svizzera non esistano elezioni anticipate e sia la Patria della democrazia diretta: è una semplice conseguenza del sistema direttoriale.

Un’altra conseguenza potenzialmente piacevole è che il Capo dello Stato collegiale, se decide all’unanimità, rappresenta gran parte della popolazione. Pensate ad un potere di veto forte (ad esempio superabile solo per voto popolare o con un’elevata maggioranza di entrambe le camere): se venisse dato a Mattarella da solo sarebbe un conto, verrebbe sicuramente contestato, mentre se un consiglio che vede a destra Giorgia Meloni e a sinistra Pietro Grasso decidesse unanime che una legge ha qualcosa che non va forse tutti i torti non li avrebbe.

Certo: in Italia collaborare col nemico si chiama “inciucio” se lo fa l’avversario, se invece lo fanno gli alleati si chiama accordo. Ma vediamo bene i risultati: instabilità, riduzione della sovranità popolare, trasformazione del parlamento in un passacarte dell’esecutivo e, in definitiva, uno Stato peggiore.

Dove invece l’inciucio è legge, dove la “governabilità” sarebbe vista come un concetto degno di una dittatura, dove in ogni livello, dallo Stato federale al più piccolo comune montano, bisogna giungere ad accordi e dove, per buona pratica istituzionale, la minoranza del governo sostiene le decisioni prese collegialmente invece di aprire le crisi di governo defollowandosi su Instagram, si ha stabilità politica, economica e una vera partecipazione popolare.

Io, un pensierino, ce lo farei.

Evasione fiscale? La colpa è dello Stato

In questa settimana è tornata, direi con prepotenza, il tema dell’evasione fiscale. Oltre ai soliti slogan “se finalmente pagano tutti, potremo abbassare le tasse”, arrivano nuovi slogan e, soprattutto, nuove proposte.

Il Movimento 5 Stelle è giunto a proporre il carcere per chi non paga le tasse. Non si tratta di qualcosa di basso rilievo, ma di carcere fino a 8 anni con possibilità di confiscare i beni. Quest’ultima misura, oggi, è prevista solo per reati di Mafia. Ma l’interesse di Luigi Di Maio è di estenderlo anche a coloro che non pagano le tasse.

La battaglia all’evasione fiscale è dunque iniziata. Lo dimostrano le stesse parole dell’attuale Presidente del Consiglio:

“Stiamo mettendo a punto gli ultimi dettagli della manovra, le ultime misure, non voglio anticipare ovviamente i dettagli ma ci sta molto impegnando il piano anti-evasione”.

Le cifre dell’evasione fiscale sono spaventose per dimensioni. Si parla di circa 100 miliardi di euro. Le principali evasioni provengono dall’IVA e dall’IRPEF.

Sempre secondo il presidente Conte:

“Essere onesti conviene, recuperare un euro dall’economia sommersa significa poter investire nella scuola pubblica, poter investire negli ospedali, significa poter ridurre le tasse a tutti”.

Eccolo quà. Si torna sempre al punto di partenza. L’immancabile slogan “pagare tutti per pagare meno” è ormai roba diffusa tra i lottatori contro l’evasione fiscale.

Peccato però che questo slogan sia più falso di una banconota di 15 euro. L’impressione è che anche stavolta, il governo di turno, è cieco rispetto all’attuale scenario. Cieco, o meglio, finto-cieco? Forse non è nemmeno corretto definirli ciechi. Forse questa strategia di comunicazione è particolarmente efficace per il socialista di turno.

Attualmente, la realtà italiana è ben diversa da quella raccontata da Conte:

  • Spesa Pubblica: +2.4% rispetto al 2018
  • Pressione fiscale generale pari al 55% (550€ ogni 1000 di PIL finiscono allo Stato)
  • Abbiamo lo stesso PIL pro capite di 15 anni fa
  • Non si riscontrano aumenti significativi di produttività negli ultimi 25 anni
  • Un dipendente costa all’azienda quasi il doppio (rispetto all’effettivo stipendio ricevuto dal lavoratore – ndr)
  • La quota di profitto – che riguarda le società non finanziarie e il reddito da capitale ottenuto sul valore aggiunto prodotto – è al 40,7%, cifra più bassa dal 1999
  • Molti servizi pubblici sono del tutto inefficienti

(Dati raccolti Da Institute Heritage, OCSE, CGIA di Mestre, 2019)

Questi dati, seppur non esaustivi, devono invitarci a fare una riflessione molto seria. Ci sono delle differenze sostanziali tra i dati reali dell’economia italiana rispetto al racconto del Governo. Il Governo di turno racconta l’evasione fiscale come una “mancata solidarietà”, “i cattivi che non vogliono pagare le tasse”, “l’avidità dei ricchi”. In realtà il quadro italiano racconta tutt’altro. Racconta un Paese in estrema difficoltà economica. Le aziende non vanno avanti, ma si trascinano avanti. La produttività è appena sufficiente, i profitti sono appena sufficienti, i redditi degli italiani sono gli stessi.

Il Governo e la stessa OCSE (documento aprile 2019) spiegano come i sussidi alla povertà dovrebbero stimolare la ripresa economica. Allora, Vi pongo una domanda: se in Italia gli occupati sono il 59% (dati ISTAT), il reddito pro capite allo stesso livello del 2004, con una spesa pubblica che nel 2004 incideva del 15% e nel 2019 incide del 26%, con una pressione fiscale generale che nel 1999 era al 49.7% e oggi al 55%, come possiamo pretendere che gli italiani possano resistere economicamente?

Questo è un torto incredibile, perché gli italiani hanno lo stesso guadagno ma sono più poveri per colpa dello stesso Stato. Ma la beffa è presto vicina. Dagli annunci di Conte e Di Maio, l’impressione è che non solo manca l’intenzione di abbassare le tasse, ma prevale quella di aumentare l’interventismo statale (estendendo il reddito di cittadinanza) e quella di istituire uno Stato di Polizia Tributaria.

L’assistenzialismo e i servizi offerti dallo Stato, secondo i socialisti, nascono per “governare e redistribuire la ricchezza”. Ma con questo ritmo rischiamo seriamente di rendere gli Italiani con una ricchezza tra le mani sempre più misera.

Ed è qui che entriamo nel paradosso. Se l’assistenzialismo è per chi non detiene reddito, e chi lo detiene è in ginocchio perché non può più pagarlo, come ne usciamo?

Daenerys Targaryen: le buone intenzioni uccidono

Moltissimi fan del Trono di Spade si sono ritrovati a fare i conti con una svolta decisamente inquietante che coinvolge uno dei personaggi più amati della serie: Daenerys sembra essere improvvisamente diventata un tiranno sanguinario.

Nel corso della stessa puntata, la tanto amata “distruttrice di catene” condanna a morte e brucia vivo il brillante consigliere Lord Varys e minaccia di morte il suo primo cavaliere Tyrion. Inoltre distrugge senza pietà la capitale di un continente con una storia lunga secoli ed insegue e massacra migliaia di civili innocenti in sella al suo drago sterminando un esercito di giovani uomini che hanno deposto le armi nella speranza di essere risparmiati.

Randyll e Dickon Tarly, colpevoli di non essersi inginocchiati al cospetto della Regina dei Sette Regni, aspettano di essere arsi vivi da Daenerys, una delle tante scene che mi hanno spinto ad odiare questo personaggio.

LA DISILLUSIONE DI UN LIBERTARIO

Inutile dire che io, da buon libertario, non sono rimasto affatto sorpreso dalla svolta autoritaria della giovane Targaryen; dopotutto ci ha già dimostrato di essere un killer spietato quando le circostanze l’hanno spinta a fare uso della violenza. Ma lo sterminio della brava gente di Westeros, agli occhi dello spettatore medio, è ben più grave e appariscente dei piccoli semi di follia che Daenerys ha poco a poco iniziato a manifestare con l’accrescere del proprio potere personale.

Daenerys è una giovane donna motivata, coraggiosa, intelligente. Ci ha dimostrato di provare empatia per il suo popolo, di voler rendere il mondo un posto migliore, di voler costruire un futuro senza violenza, senza sfruttamento e senza odio. Ma allora perché decide di commettere le nefandezze di cui siamo stati testimoni?

La giovane Daenerys, prima che la sete di potere si impadronisse di lei.

LE BUONE INTENZIONI NON BASTANO

Non sono state le sue buone intenzioni, ampiamente dimostrate nelle stagioni scorse, a persuadermi che in futuro sarebbe diventata una volgare assassina. Il mondo di Game of Thrones è pieno di personaggi genuinamente buoni, onesti e altruisti, che hanno uno scopo molto simile a quello della madre dei draghi, una buona parte di loro fa una brutta fine proprio per questo.

A convincermi della sua follia è stata la sua mania del controllo: per raggiungere i suoi nobili scopi. Daenerys deve accentrare tutto il potere possibile nelle sue mani celebrando il concetto che “il fine giustifica ogni mezzo” ma anche che l’omicidio politico è legittimo. Allo stesso modo legittima il nascondere le origini di Jon a chi rischia la vita per servirla, tutto in virtù del fatto che il popolo è con lei.

Daenerys, circondata da “liberti” riconoscenti. Liberare Meereen dagli schiavisti è stata indubbiamente una grandissima vittoria e un gesto nobile, certo non sono riuscito ad apprezzare la conseguente crocefissione di massa per le strade della città.

JON E TIRYON AVREBBERO DOVUTO ASCOLTARE VARYS

Il saggio Varys aveva intuito da tempo che Daenerys si sarebbe abbandonata ad ogni genere di orrore contro i “nemici del popolo”. Vedeva in Jon un Targaryen, molto più morbido e moderato di sua zia, come possibile pretendente al trono. Scommetto che Tyrion si sia profondamente pentito di aver tradito la sua fiducia, dopotutto il maestro dei sussurri aveva pienamente ragione.

Jon è un personaggio freddo, razionale, ragionevole e nobile d’animo. La caratteristica principale che lo distingue dai pessimi regnanti che lo hanno preceduto è che lui non aspira ad esercitare l’enorme potere che il titolo di Re dei Sette Regni gli attribuirebbe. Ritengo cruciale questo lato del suo carattere: Jon è, almeno potenzialmente, un valido difensore dell’ordine spontaneo. Daenerys è, invece, terribilmente dirigista. Sa cos’è meglio per la gente ed in forza di ciò manipola la verità, uccide e governa con il pugno di ferro.

In questa scena stupenda, che mi fa rimpiangere la innegabile superiorità delle prime stagioni, Jon Snow convince il padre (adottivo) Ned Stark a risparmiare ed adottare i cinque cuccioli di meta-lupo sopravvissuti alla madre.

Da fan della serie, sono convinto che il continente occidentale meriti finalmente un re morigerato al governo, e non un altro tiranno invasato. Per questo spero vivamente che Jon Snow riesca a spodestare Daenerys nella puntata conclusiva. Sono curiosissimo di sapere cosa stanno architettando quei mattacchioni di “Comunisti per Daenerys Targaryen”, che hanno annunciato scherzosamente una prossima “dichiarazione ufficiale” da parte del partito.

Essere (felicemente) schiavi di se stessi

In questi giorni, si parla tanto di schiavi del lavoro, di dignità, di chiudere la domenica, di chi ha un salario troppo basso. Tutto ciò trascurando il fatto che esistono tantissime persone che decidono di essere padrone del proprio destino. Si tratta di una decisione responsabile, quella di puntare tutto su te stesso e di prendere in mano la tua vita, incurante di ciò che accade intorno a te.

Chi compie questa decisione spesso non rispetta un vero e proprio orario di lavoro, potrebbe lavorare sia in ufficio che a casa, anche solo per la programmazione del lavoro futuro. Ma prima di continuare vorrei riportare queste tre citazioni:

Sono convinto che circa la metà di quello che separa gli imprenditori di successo da quelli che non hanno successo sia la pura perseveranza. Steve Jobs

L’ingrediente critico è alzare le chiappe e metterti a fare qualcosa. È così semplice. Un sacco di gente ha delle idee, ma sono pochi quelli che decidono di fare qualcosa a riguardo subito. Non domani. Non la prossima settimana. Ma oggi. Il vero imprenditore è un uomo d’azione. Nolal Bushnell

Dietro ogni impresa di successo c’è qualcuno che ha preso una decisione coraggiosa. Peter Ferdinand Drucker

 

A coloro che parlano tanto di dignità e schiavi, siete consapevoli che tante di queste persone che hanno deciso di mettersi in proprio, sono obbligate a lavorare di giorno e pensare di notte?
Forse non sapete che tante di queste persone, che sono ancora agli inizi, si ritrovano costrette a dover far tanti sacrifici?
Questo perché l’imprenditore, il commerciante ed il libero professionista sono spesso (felicemente) schiavi di se stessi, alla ricerca di continue soddisfazioni personali, economiche e professionali.

Non hai datori di lavoro, non hai un giorno prefissato per la bustapaga, devi riuscire a coniugare il tuo guadagno con le tasse da pagare e, se si è imprenditori con dipendenti, pagare gli stipendi. Come detto in precedenza, fare impresa in Italia è roba da eroi e coraggiosi, perché chi ha il capitale da investire viene spesso scoraggiato dall’altissima pressione fiscale, e dalle spese per l’iter burocratico.

Rispetto ai nostri genitori, riscontro nei giovani un’ammirevole volontà di mettersi in gioco, di voler rischiare, di voler tentare una strada alternativa rispetto al declino italiano. Questo è di buon auspicio per tutta la nazione, in chiave futura, in quanto credo che per essere imprenditori non si debba necessariamente aprire un’azienda. Anche un operaio (o un dipendente) potrebbe essere imprenditore di se stesso.

Infatti esserlo non è soltanto una scelta, ma soprattutto un atteggiamento. In Italia ci hanno abituati a “vegetare” nella stessa azienda per 30-40 anni. In futuro sarà sempre più una rarità vedere un dipendente lavorare nella stessa azienda per tutta la vita lavorativa, proprio perché il lavoro diventerà sempre più flessibile e dinamico.

Ciò che stiamo vivendo in Italia è una fase del lavoro flessibile-statica, in quanto si cambia spesso lavoro, ma le retribuzioni sono le stesse, o persino più basse. Oggi riusciamo a raccogliere tante esperienze professionali, ma a questa esperienza non corrispondono stipendi più alti o impieghi più delicati ed importanti. Questo perché i contratti di lavoro tradizionali sono troppo carichi di tasse, sia per l’imprenditore che per il lavoratore, e sono troppo carichi di burocrazia, compresa la presenza (inutile?) dei sindacati.

Pertanto, occorre lavorare affinché il mondo del lavoro diventi flessibile e dinamico, in modo tale che anche chi ha un contratto a tempo indeterminato sia spinto a non accontentarsi del posto fisso, bensì a tentare qualcosa di nuovo, ed investirci sopra.

Adam Smith diceva che la forza lavoro è la prima proprietà privata dell’uomo, ma di questo parleremo un’altra volta.

Miracolo economico anni ’60? Merito di Einaudi

L’anno scorso (si riferisce al 1959, aggiunta mia) il Daily Mail cominciò a lodare l’Italia parlando di “miracolo economico”. Quest’anno il “Financial Times” dà l’Oscar delle monete alla lira. Grazie a Fellini siamo diventati per il mondo intero il paese della Dolce Vita. Finirà che ci monteremo la testa. Anzi: si monteranno la testa i nostri politici, così pronti a convincersi che la ricchezza privata si produce perché essi possano metterci le mani sopra.

Il Miracolo Economico non è stato miracoloso, ma spontaneo. Non ha seguito lo Schema Vanoni, lo ha travolto.

Così Sergio Ricossa racconta e commenta il miracolo economico italiano degli anni cinquanta-sessanta. Nel titolo, se lo avete notato, ho scritto “grazie Einaudi”. Perché proprio Luigi Einaudi se lui è stato solo il governatore della Banca d’Italia e il Ministro delle Finanze fino al 1948, oltre ad essere stato presidente della repubblica fino al 1955? Perché durante il brevissimo periodo da ministro (con la collaborazione di Donato Menichella, successore di Einaudi al ruolo di governatore della Banca d’Italia), Luigi Einaudi riuscì a salvare la Lira, adottando misure parsimoniose sia per quanto riguarda la spesa pubblica e sia per i cittadini, adottando misure anti-inflazionistiche.

I liberisti, guidati da Einaudi, riuscirono a bloccare l’offensiva socialcomunista che avevano un progetto finalizzato a produrre un livello di gettito elevato, utili per il risanamento dei conti pubblici e per porre le basi per una pianificazione economica, in stile Unione Sovietica. Questa pianificazione economica, esattamente, consisteva nell’affidare una parte importante della gestione della ricostruzione alla mano dello Stato per inserire il nostro paese all’interno di un tipo di sistema economico nel quale lo stato potesse esercitare una forma di intervento e controllo piuttosto incisiva.

La strada per la ripresa, secondo il PCI, era quella dell’imposta, attraverso una redistribuzione di ricchezza fra le classi più ricche e le classi più povere e più colpite dalla guerra. Per non parlare, inoltre, dell’idea di istituire una tassazione straordinaria a varie forme di liquidità e titoli di Stato che, solo dal pensiero, provocò talmente terrore alle persone che immediatamente andarono a ritirare i propri depositi bancari e postali.

Einaudi e i liberali erano fortemente contrari e volevano puntare a manovre politiche che riuscissero a tenere buoni i cittadini tenendo a bada l’inflazione e senza penalizzare chi era già stato penalizzato in precedenza (scusate il gioco di parole). Si puntava ad affrontare i problemi in cui si trovavano le finanze statali in gran parte con ordinari strumenti di politica economica e fiscale, e alle difficili condizioni economiche del sistema con strumenti tipici di una politica economica liberale: diminuzione della spesa pubblica, incentivazione del risparmio, libertà di iniziativa privata, aumento del reddito prodotto dalle imprese, innescando così il circolo virtuoso di maggior produzione, maggiori risorse risparmiate, maggiore accumulazione di capitali, maggiori investimenti, maggiore ricchezza, prestiti pubblici, assoluto divieto di emissione di nuova moneta e pressione fiscale non eccessiva.

Un carico fiscale più leggero avrebbe favorito maggiori risorse per la produzione di ricchezza che, una volta aumentata, avrebbe prodotto anche maggiori entrate fiscali ordinarie, contribuendo in tal modo ad una progressiva eliminazione del disavanzo di bilancio. L’obiettivo era anche la stabilizzazione della moneta che, una volta ottenuta, avrebbe permesso di rendere il settore pubblico sempre più minimo, permettendo ai privati di svolgere la parte preponderante nel processo ricostruttivo; quasi come se ci fosse una mano invisibile (come quella auspicata da Adam Smith) che avrebbe garantito l’equilibrio di mercato alle cui leggi anche lo Stato, seppure con compiti suoi propri di rimozione degli ostacoli alla libera iniziativa e di garanzia del suo libero sviluppo, avrebbe dovuto sottostare.

In quel brevissimo periodo, Einaudi non riuscì ad ottenere tutti gli suoi obiettivi (d’altronde non era nemmeno il presidente del consiglio), ma almeno evitò le forti pressioni dei socialcomunisti. Purtroppo anche la pressione e l’influenza liberale dello stesso Luigi Einaudi andò a calare con l’avvicinarsi della scadenza del suo mandato da presidente della repubblica.

In contemporanea, i governanti durante il periodo del miracolo economico italiano si presero i meriti; mi sto riferendo alla Democrazia Cristiana post-De Gasperi primeggiata da persone come Gronchi e Fanfani che sostenevano – rispettivamente – che “l’industria pubblica può sopravvivere senza profitti” e che “se qualcuno ha un problema, lo Stato glielo deve risolvere”. In particolare, vennero dati molti meriti allo Schema Vanoni che puntava alla piena occupazione, alla creazione di nuovi posti di lavoro. Peccato però che il limite dello stesso schema fosse quello di preoccuparsi che la manodopera fosse abbondante dimenticando – però – che è il capitale favorisce l’occupazione. Pertanto si è preso dei meriti quasi per caso.

In realtà, il vero merito fu di Luigi Einaudi, grazie alla sua azione di stabilizzazione monetaria che attuò dall’estate 1947, salvando l’Italia e gli italiani da un’inflazione che avrebbe provocato dei seri problemi all’economia. Ottenendo questo risultato non provocò direttamente il miracolo economico, ma fu il punto di partenza per qualcosa di spontaneo e straordinario come quello accaduto alla fine degli anni cinquanta e inizio sessanta.

Peccato però che ingredienti come intervento statale in economia per controllare, con il sostegno sindacale e dei consigli di gestione, l’iniziativa privata (pianificazione); nazionalizzazioni; riforma agraria – tutte misure realizzate dal 1955 fino agli anni settanta – non solo resero la Lira sempre più debole, non solo la spesa pubblica sempre più alta, non solo meno ricchezza privata, ma anche un’Italia sempre più povera e mediocre. Ma come insegna, lo stesso Einaudi, se punti sulla spesa pubblica e alla stabilità della moneta, metti in condizione la tua nazione di poter puntare al meglio e alla crescita.

Libertà individuale. Quanto viene sottovalutata?

“L’indipendenza individuale è il primo bisogno dei moderni (…) la vera libertà moderna. La libertà politica che ne è garante, è perciò indispensabile. Ma chiedere ai popoli di oggi di sacrificare come facevano quelli di una volta, la totalità della libertà individuale alla libertà politica è il mezzo più sicuro per staccarli dalla prima, per poi, raggiunto questo risultato, privarli anche dell’altra.”

Così affermava un grande promotore del pensiero liberale, Henri-B. Constant de Rebecque, in una sua celebre conferenza a Parigi. Constant, in questo suo breve pensiero, concentra tutta la sua attenzione su una questione che forse, oggi, si dà per scontata o ancor più, si tende a sottovalutare; la libertà individuale.

L’uomo “moderno”, può infatti definirsi tale, proprio perché titolare di una serie di diritti individuali che gli “antichi” certamente non vantavano.

Per diritto individuale si intende una insieme di prerogative, “innate” ma garantite anche costituzionalmente, di cui nessuno, astrattamente, potrebbe o dovrebbe essere privato. Il presupposto indispensabile per poter godere di queste prerogative risiede nel concetto di indipendenza, sinonimo a sua volta di auotodeterminazione.

Può definirsi moderno l’individuo italiano?

Considerando che attualmente, vige una visione secondo cui lo Stato, e non l’individuo, debba essere al centro della libertà politica, la risposta non può che essere negativa.

Legittimando lo Stato alla totale disciplina dei diritti individuali non si fa che aumentare il suo potere di regolamentazione e dunque, di “disposizione” degli stessi, lasciando all’individuo un esiguo margine di libertà.
Lo Stato si fa, così, garante delle masse ma nemico del singolo.

Constant, riaffermava ancora,

Il dispotismo statale non ha alcun diritto su ciò che è individuale, che non dovrebbe essere sottomesso al potere sociale”

Un chiaro esempio di quanto detto si raffronta nella questione dei diritti individuali concernenti la c.d. comunità LGBT, soggetta alla continua “demonizzazione” di una determinata espressione sessuale umana, considerata non su base volontaria e individualista ma su base collettivista.

Ancora una volta, collegandoci alle normativa sulle unioni civili, centro di molteplici discussioni e probabili rivisitazioni, le masse, e dunque lo Stato che se ne fa rappresentate, tendono ad imporre un dettame sociale dato per unico su una libertà individuale, limitando di fatto il potere del singolo sul proprio io e sulla propria vita privata. Si viola, cioè, l’essenza dell’intimità umana.

La libertà politica, in poche parole, nel contesto sopracitato, e in generale nel più ampio contesto italiano, non tutela più quella individuale ma la sacrifica e la assorbe piegandola a proprio piacimento.

Ma il diritto individuale non può per sua stessa natura discendere da una decisione autoritaria e, il più delle volte, anche arbitraria, non può essere alla mercé della maggioranza, della quale bisogna certo tenere conto ma senza assurde assolutizzazioni.

L’uomo moderno deve, in conclusione, riappropriarsi della propria “modernità” ossia, della propria indipendenza e ciò può farlo solo ponendo il diritto all’individualità come perno principale su cui basare il sostrato sociale, perché così facendo, non solo non si annienta il singolo ma si preserva anche l’idea stessa di collettività, rielaborata, appunto, come insieme di singoli differenti tra loro e non semplicemente come insieme omogeneo e standardizzato.

La libertà, dunque, di scegliere per sé piuttosto che quella di scegliere per gli altri.

La libertà di essere “io” tra gli “altri” piuttosto che la libertà di essere “io, come gli altri.”

 

Anna Faiola

La libertà personale secondo M.N. Rothbard (For a New Liberty, analisi 2^ parte)

In questa seconda parte dell’articolo su M.N. Rothbard, e nelle seguenti, tratteremo della seconda parte di “For a New Liberty”. Cominciamo dalla visione sulla libertà personale.

Libertà Personale:

In questa sezione del manifesto libertario, Rothbard prende tutti quei diritti, dalla libertà di parola al possesso delle armi, che possono essere collocate sotto il nome di libertà personali. Innanzitutto, il pensatore newyorkese prende in esame le “libertà civili” (diritto di parola, stampa, espressione) facendo notare il carattere assoluto che deve essere loro conferito. Ogni libertario deve sostenere strenuamente la libertà di parola e tutti i suoi derivati.

Inoltre, cosa molto importante, Rothbard fa notare come queste libertà siano inestricabilmente legate con i diritti di proprietà: esse derivano dalla proprietà privata (ad esempio: possibilità di stampare), ma allo stesso tempo devono rispettare la proprietà (egli cita come esempio della violazione della proprietà altrui con la parola la situazione in cui qualcuno urli “al fuoco!”, all’interno di un cinema, senza che vi sia realmente un incendio creando una perdita al proprietario del cinema).

Un caso molto particolare è quello del ricattatore o del diffamatore in a cui Rothbard giunge ad una conclusione molto particolare. Secondo lui, un blackmailer non può essere considerato un invasore di diritti altrui: egli esercita il suo diritto alla parola o calunniando o minacciando il rilascio di informazioni intime e non interferisce coi diritti di nessuno. Infatti, non si può dire che una persona abbia un “diritto di proprietà” sulla propria reputazione, essa è una funzione soggettiva dei sentimenti degli altri. Calunniare e ricattare è immorale, ma, per Rothbard, moralità e legalità sono due categorie diverse.

Altro punto su cui le libertà civili si intersecano con i diritti di proprietà sono le manifestazioni in luoghi pubblici. Secondo Rothbard, il problema di quali manifestazioni sono da autorizzare e quali da bandire è un problema che lo Stato non potrà mai risolvere senza danneggiare qualcuno e avvantaggiare qualcun altro. Infatti, essendo le strade pubbliche, tutti possono fare richiesta per manifestare, anche gruppi “estremisti” di qualsiasi tipo, poiché essendo contribuenti ne avrebbero diritto. Ma, se le strade fossero private sarebbero i proprietari a decidere chi potrebbe usufruirne e chi no, evitando conflitti tra contribuenti.

La posizione libertaria in merito alla legislazione sessuale e la pornografia è molto chiara e semplice. Infatti, poiché si tratta di interrelazioni tra adulti consenzienti e la donna o l’uomo possiedono il loro corpo, lo Stato non può proibire degli atti solo perché immorali, i cosiddetti “crimini senza vittime”, né mettere fuori legge tali comportamenti solo perché potrebbero essere dannosi e pericolosi. Agli occhi di un libertario la prostituzione è una vendita volontaria di lavoro. Inoltre, così facendo, lo Stato legifera su una delle sfere più private dell’uomo, impedendogli di comportarsi come vuole nel rispetto dei diritti altrui. Essere favorevoli alla prostituzione non significa volerla diffondere né essere favorevoli alla prostituzione in sé. Significa solo riconoscere che è una attività lecita e che come tale non può essere impedita per questioni morali.

Un altro caso particolare è quello dell’aborto. Rothbard lo risolve in maniera molto cruda ma coerente con la sua impostazione di base. Infatti, il problema cruciale è se l’aborto deve essere considerato un omicidio. Prescindendo da tutte le considerazioni mediche su quando inizi la vita e da quelle religiose, Rothbard mostra che se consideriamo un feto come avente tutti i diritti di un qualsiasi essere umano, tra cui il diritto di non essere ucciso, allora dobbiamo trovare una risposta alla seguente domanda: quale essere umano ha il diritto di rimanere, non invitato come parassita indesiderato all’interno del corpo di un altro essere umano? Per Rothbard ogni donna può decidere in quale momento quando disfarsi di quello che è un “parassita” indesiderato dal suo corpo.

Per quanto riguarda le droghe Rothbard è molto chiaro: il proibizionismo non ha funzionato nella pratica e nella teoria non è ammissibile. Infatti, lo Stato non può negare a nessuno di assumere quali sostanze preferisce solo perché fanno male o possono portare a compiere atti criminosi nei confronti di altri individui. Oltretutto si sta negando la libertà di un individuo di fare ciò che vuole del proprio corpo. Lo Stato proibisce l’utilizzo delle droghe “per il nostro bene” e per il bene degli altri; ma, se il ragionamento è questo, allora dovremmo poter ammettere anche l’incarceramento preventivo di tutte le persone potenzialmente aggressive e violente e dovremmo altresì proibire tutte le sostanze e i comportamenti rischiosi (ad esempio sostanze come il burro e il gelato) poiché potrebbero far male. La costatazione finale di Rothbard è che alla fin fine, se il ragionamento è questo, sarebbe meglio «mettere la gente in gabbie, in modo che possa ricevere la giusta quantità di luce solare, una dieta corretta, scarpe comode, e così via».

Infine, il classico argomento libertario è quello sulle armi e Rothbard non si esime dal dire la sua. Innanzitutto, poiché ogni persona possiede il suo corpo e le sue proprietà allora ha anche il diritto di difenderla come meglio crede. Però, lo Stato ha eroso continuamente questa prerogativa, non solo negando l’utilizzo di armi da fuoco come armi da difesa, ma anche impedendo di avere con sé coltelli o altri oggetti da difesa. Secondo il pensatore newyorkese, ciò impedisce alle potenziali vittime di disporre di un loro diritto e di essere alla mercé dei potenziali aggressori. Inoltre, poiché nessun oggetto fisico è di per sé aggressivo e qualsiasi oggetto può essere usato per aggredire qualcuno «non è più logico proibire l’acquisto di pistole di quanto lo è proibire il possesso di coltelli, mazze, spilloni e pietre».

(continua nella parte 3 che uscirà nei prossimi giorni)

Il Fronte dell’Uomo Qualunque: un liberalismo dimenticato

Dedichiamo questo articolo al Fronte Dell’Uomo Qualunque, movimento e, successivamente, un partito politico italiano sorto attorno all’omonimo giornale (L’Uomo qualunque) fondato a Roma nel 1944 dal commediografo e giornalista Guglielmo Giannini. Perché? Perché ritengo che egli abbia lasciato – almeno per noi liberali – un’eredità culturale importante. Un’eredità, probabilmente, considerata troppo povera. In questo articolo proverò a mettere l’accento su tantissimi contenuti liberali liberisti presenti nei saggi politici del commediografo italiano.
Siamo nel periodo 1943-44, l’Italia Fascista è in grave declino e Mussolini si rifugia al Nord con lo Stato Fantoccio della Repubblica Sociale, dopo l’esperienza di Salerno e con la successiva liberazione di Roma si tenta lentamente di creare un Governo e i partigiani e gli americani tentano di liberale il territorio dal dominio nazifascista. In tutto questo caos istituzionale arriva nelle edicole di Roma, mercoledì 27 dicembre 1944, il primo numero della testata giornalistica denominata «L’Uomo Qualunque». Il fondatore era Guglielmo Giannini (1891-1960), giornalista, scrittore e regista italiano. Il primo elemento che colpisce in modo particolare è il simbolo della testata.
Una delle coppie di mani appartiene alla tassazione, l’altra alla statizzazione che schiacchia una persona. Chi è questa persona? Vi rispondo con le stesse parole di Guglielmo Giannini.
Il borghese, il lavoratore onesto che lascia le sue ultime monete, schiacciato sotto il torchio
Lo scopo di Giannini era quello di dare voce alle opinioni dell’uomo della strada, contrario al regime dei partiti e ad ogni forma di statalizzazione. Fin da subito la posizione è chiarissima: abbasso tutti. Si considera antifascista e anticomunista e porta avanti una linea editoriale pungente e satirica. Il fenomeno avviato da Guglielmo Giannii fu erroneamente associato all’etichetta di Qualunquismo, che vuol dire “atteggiamento, morale e politico, polemico nei confronti dei partiti politici tradizionali in nome di una gestione tecnocratica e non ideologica del potere, assunto dai promotori e sostenitori del movimento qualunquista” (fonte Treccani).
In realtà dietro questa etichetta, il pensiero politico di Giannini e del Fronte dell’Uomo Qualunque, era molto più profondo e articolato. Proprio per questo ho deciso di parlare degli aspetti liberali che, a mio parere, sono stati poco analizzati e discussi nel corso della storia.
Il principio ispiratore è la libertà.
nella formula con cui fu enunciata dai Fondatori delle Nazioni Unite, Franklin Delano Roosevelt, Winston Churchill, Libertà di parola — Libertà di Religione — Libertà dal bisogno — Libertà dalla paura
Nello specifico, era un convinto sostenitore dello Stato Minimo. Non era d’accordo con il motto statalista mussoliniano “tutto nello Stato niente contro, al di fuori o al di sopra dello Stato”, ma era favorevole allo Stato Minimo (o Stato Amministrativo). La citazione dello storico Dino Cofrancesco (1942) penso sia la più adatta per descrivere l’idea di Stato di Giannini.
Uno Stato che si tiene lontano dal farsi attore sociale
Nel saggio di teoria politica scritto da Giannini, La Folla, insiste molto sulla questione del rapporto tra il cittadino e il governo statale, facendo vari esempi, dalla visione dello stato come «una scrivania alla quale sta seduto un impiegato che con un campanello può chiamare un poliziotto», all’idea di Stato al servizio del cittadino e non paternalista, all’opposizione allo «Stato scocciatore». Il suo obiettivo è quello contrastare la presenza dello stato nella vita sociale italiana, in quanto l’unica cosa di cui ha bisogno il cittadino qualunque (o l’uomo qualunque) è quello di essere amministrato. Di conseguenza, egli nonostante sia opportuno contrastare il comunismo e sia il capitalismo della grande industria, il suo programma politico era incentrato su un liberismo economico individuale.
Il tiranno c’è sempre, la rottura di coglioni c’è sempre; e sia l’uno che l’altra si valgono dello Stato e della forza oppressiva dello Stato per fare il proprio comodo e i propri interessi
Lui si ispirava all’idea libertaria di Henry Thoreau (1817-1862), filosofo e scrittore americano, nel quale nella sua opera Disobbedienza Civile, esprime la sua contrarietà nei confronti del governo invadente.
Il governo migliore è quello che governa di meno
A tal proposito, Giannini era favorevole ad un certo turnover della classe politica.
Vogliamo invece mettere i governanti nell’impossibilità di far male, o quanto meno, nelle condizioni di fare il minor male. […] Nessuno dovrebbe occupare una carica per più di due volte di seguito, nessuno dovrebbe essere presidente della Repubblica per più di due anni consecutivi, nessuno dovrebbe essere Capo del Governo per più di un anno, nessuno dovrebbe essere eletto deputato per più di due volte senza intervallo e via discorrendo.
Inoltre, lo Stato pretende di comportarsi come se fosse un privato cittadino, quindi pretende di fare commercio. Proprio le tasse vengono adottate per fare il “mestiere altrui” di imprenditore, per coprire le perdite economiche. Come dice anche lo stesso Giannini.
Lo Stato considera il Paese come una miniera da sfruttare i suoi abitanti come un gregge da tosare, scuoiare, squartare, cucinare, mangiare.
Quindi insisteva nel fare propaganda contro lo Stato Azienda, promosso dai comunisti, in particolare con Nikita Krusciov nel 1956.
la Ford e la Fiat, la Montecatini e la Standard saranno lo Stato, miei datori di lavoro e maestri, direttori di coscienza e confessori. Se un amministratore delegato s’incapriccerà di una donna di casa mia dovrò dargliela o finire in galera. È questa la perfezione che mi si promette con lo Stato Azienda che assorbe ogni iniziativa privata? Se è questa sono Contro questo Stato e ritengo più civile e progredita l’Età della Pietra, con tutti i suoi disagi compensati però dalla sua impagabile libertà.
Dal rifiuto al modello teorico di organizzazione statale proposto dai comunisti, Giannini è favorevole ad affidare l’economia nazionale nella sua totalità, ai privati.
Angelo Imbriani, autore del testo Vento del Sud : moderati, reazionari, qualunquisti, 1943-1948 (1996), spiega che l’idea di Stato di Giannini era:
un modello organizzativo dello stato estremamente suggestivo per il ceto medio dell’impiego e delle professioni, perché basato sulla valorizzazione delle competenze individuali e capace quindi di restituire a queste fasce sociali quel ruolo che esse temono di poter perdere o immaginano di aver già in parte perduto.
La visione di Stato di Giannini prevedeva il matrimonio tra Politica e Tecnica, in quanto dividerli vorrebbe dire:
vuol dire soltanto favorire la peste del politicantismo puro, astratto, metafisico, inutile e anzi dannoso; vuol dire Mussolini. ministro della guerra, Togliatti ministro della giustizia, Scoccimarro ministro delle Finanze, e quindi Mussolini, Togliatti, Scoccimarro alla perpetua ricerca di tecnici che attuino la loro politica (pericoloso doppione) con il risultato che o la tecnica si debba mettere al servizio della politica contorcendosi ai suoi voleri, o la politica debba cedere il posto alla tecnica snaturandosi fino al
proprio annullamento.
Guglielmo Giannini e il Fronte dell’Uomo Qualunque non aveva un rapporto buonissimo con il Partito Liberale Italiano. I contrasti con Benedetto Croce erano evidenti e difficili da risolvere. Il problema era soprattutto organizzativo e di comunicazione, in quanto Croce era per una politica di élite e Giannini era per una politica di massa. Lo stile populista di Giannini non era particolarmente ben visto, dunque, dagli ambienti liberali del Partito Liberale Italiano.
Il successo del Fronte dell’Uomo Qualunque fu tanto breve tanto quanto intenso. Ritengo per l’Italia che sia stata una grande occasione liberale mancata. Forse con un pizzico di lungimiranza, adottare una linea politica liberale di massa, probabilmente avrebbe evitato il declino del Partito Liberale Italiano che, a mio parere, si è sempre “intestardito” (e tuttora insiste) con la politica dei pochi o di élite.
Sarà bellissimo un domani raccontare e diffondere le opere di Guglielmo Giannini..

Prospettive di Libertà radicali: For a new Liberty, M.N. Rothbard ( Parte 1)

 

In questo articolo vogliamo offrirvi una diversa prospettiva sulla Libertà, ovvero il  punto di vista  di Murray Newton Rothbard (qui il link alla pagina Wikipedia a lui dedicata), considerato, a ragione, il “padre” del Libertarismo contemporaneo. Rothbard è stato un economista appartenente alla Scuola Austriaca e, partendo dalle premesse metodologiche individualistiche di Mises, di cui fu allievo, dal Giusnaturalismo proprietarista di matrice lockeana e dalla tradizione dell’anarchismo filosofico americano, giunse a dare corpo a quello che è il Libertarismo contemporaneo.

Questa breve premessa introduttiva serve per esplicitare qual è l’universo del discorso all’interno del quale si situa “For a new Liberty” (disponibile in italiano grazie a Liberilibri), il “manifesto libertario”. Questo manifesto venne scritto da Rothbard con un intento sia divulgativo, per raggiungere più persone possibili e metterle in contatto con le idee libertarie, sia per creare una sorta di punto di riferimento in cui più libertari potessero riconoscersi. Ovviamente, come ogni manifesto, ha intenzioni anche pratiche: nella parte conclusiva, Rothbard cerca di delineare strategie, modalità, temi e persone verso le quali il libertarismo si deve rivolgere per giungere a compimento. Il tutto rigorosamente nel rispetto dei diritti inviolabili delle persone e senza l’uso della violenza.

“For a new Liberty” si snoda attraverso tre parti – il credo libertario, soluzioni libertarie a problemi attuali e un epilogo – il tutto preceduto da una premessa storica che cerca di inquadrare il libertarismo in una tradizione ben precisa. Infatti, il libertarismo è una prospettiva radicale sulla libertà, figlia del continente americano – il manifesto si rivolge continuamente e assiduamente ai cittadini degli USA seppure è un manifesto per tutti gli uomini –  e continuatrice della tradizione del movimento liberale classico del XVIII e XIX secolo. Coloro che sono individuati come “antenati genetici” del libertarismo sono Locke, il cui contributo giusnaturalista è il cardine del libertarismo, i Livellatori della Rivoluzione inglese, John Trenchard e Thomas Gordon autori di Cato’s Letters, opera che fu molto letta nel periodo che portò alla Rivoluzione americana, Thomas Jefferson, Thomas Paine, autore di “Common Sense”, pamphlet decisivo per l’opinione pubblica nella Rivoluzione americana, Jackson, Lysander Spooner e molti altri.

Quello che Rothbard chiama il “credo libertario” è sostanzialmente la riproposizione del Giusnaturalismo di matrice Lockeana (diritti naturali, self-ownership, diritto all’homesteading) il tutto arricchito da quello che è denominato “non-aggression principle”, anche conosciuto come “assioma di non aggressione” (abbreviato NAP); l’assioma è così riassunto da Rothbard:

«Il credo libertario si basa su un assioma centrale: nessuno può aggredire la persona o la proprietà altrui. Lo si potrebbe chiamare “assioma della non aggressione”. L”‘aggressione” viene definita come l’uso o la minaccia della violenza fisica contro la persona o la proprietà di altri. Aggressione è quindi sinonimo di invasione.»

Questo assioma, che secondo Rothbard è una verità morale che si impone alla nostra ragione, mostra l’enorme valore attribuito alla libertà individuale dai libertari. Ma in questo contesto ci troviamo davanti ad una formulazione della libertà e dei diritti di carattere negativo; la libertà è sostanzialmente l’assenza di coercizione e l’uomo non possiede tutti quei diritti che possiamo definire di “seconda generazione”: diritto alla salute, istruzione, lavoro ecc. Il libertario difenderà quelle libertà che possiamo definire “civili”: libertà di parola, di assemblea, di stampa ecc. e il diritto di contrattare liberamente, di scambiare liberamente beni. Ovviamente alla base vi sono i diritti di proprietà.

A differenza degli anarco-collettivisti, dei marxisti e di tutte le possibili declinazioni dell’ideologia comunista, così come di Hobbes, l’antropologia alla base del Libertarismo è “neutra”: essa non ritiene che l’uomo sia nella sua essenza egoista, né che sia lupo ad ogni suo simile. Il libertario si limita a constatare che gli uomini a volte si comportano in maniera altruistica, altre volte in maniera egoistica, alcune volte sono “buoni” e altre “cattivi” ed evidenzia come la raggiera di comportamenti che un uomo può assumere sono molteplici e vari, ma il discrimine fondamentale è il rispetto del NAP. Cosa ancora più importante è la differenza con i comunisti: nell’idea libertaria non è contenuta nessuna pretesa di cambiamento radicale dell’uomo. Essa è una analisi realistica e come tale non prospetta né promuove un cambiamento nello spirito o nell’essenza dell’uomo, non prospetta l’avvento di nessun “Uomo Libertario”.

Per le loro posizioni, a volte i libertari sono etichettati come di destra, quando promuovo ad esempio il libero mercato, la libertà di contratto, i diritti di proprietà, e a volte come di sinistra come quando promuovo la libertà sessuale, l’aborto, libertà di stampa. Il fatto è che alla base di tutte queste prese di posizioni vi è il rispetto dei diritti di proprietà individuali, rimarcati dal NAP. Questa strenua difesa della libertà e dei diritti porta, se si vuol essere coerenti fino in fondo con i principi suesposti, ad una applicazione della legge morale a tutti, anche allo Stato, ricollegando quindi politica e morale. Per questo motivo libertario è sinonimo di anarchico.

Lo Stato è l’oggetto di critica di tutto il manifesto, l’obiettivo polemico verso cui Rothbard si scaglia continuamente: lo Stato è un ente che si basa sulla coercizione, sulla violenza, sulla minaccia, sul furto e sull’omicidio di massa. Infatti, se noi applichiamo coerentemente il NAP allora dovremmo considerare la tassazione un furto, la coscrizione obbligatoria un rapimento organizzato e la guerra un omicidio di massa.

Per Rothbard lo Stato è un prodotto storico ed umano che nel corso della storia si è imposto, apparentemente, come unica alternativa al “caos dell’anarchia dello stato di natura”, come unico ente razionale ordinatore della realtà. Ma esso non ha diritto di imporsi sulla libertà delle persone ed inoltre è anche causa di inefficienze e sprechi, per non parlar dell’incalcolabile numero di morti dovuti alle guerre condotte nel nome dell’interesse nazionale e del bene comune. La provocazione di Rothbard è questa: se un ladro vi dicesse che la rapina che sta commettendo su di voi è per il bene di molte altre persone, voi sareste portati a non ritenere ciò un furto? Non è forse così che funziona la tassazione?

Lo Stato viene paragonato ad una gang, ad un gruppo di banditi che si sono imposti su un territorio nel quale si sostentano con la rapina e l’estorsione sistematica, praticano la schiavitù (coscrizione obbligatoria) e l’omicidio di massa, ma il tutto è effettuato per il bene dei cittadini. Inoltre, Rothbard critica la propaganda, la manipolazione continua delle coscienze, perseguita grazie alle feste laiche e alle celebrazioni dell’ideale nazionale e patriottico che portano gli individui a ritenere che il potere dello Stato sia inevitabile, supremamente giusto e buono.

Ovviamente, come si può intuire dalle affermazioni precedenti, l’obiettivo del libertarismo è l’instaurarsi di una società libertaria, quindi anarchica, priva dello Stato, nella quale gli individui possano essere, finalmente, realmente liberi.

(continuerà nella Parte 2 che uscirà nei prossimi giorni)

Conoscere Thatcher: reagire al dominio socialista

Se un liberale non crede che la proprietà privata sia uno dei principali baluardi della libertà personale, farà meglio a creare un governo con i socialisti. In effetti uno dei motivi del nostro fallimento elettorale è che la gente pensa che troppi dei conservatori siano diventati dei socialisti.

Così scrisse nel suo libro autobiografico “Come sono arrivata a Downing Street” (1996) – all’indomani di una sconfitta elettorale dei primi anni settanta – , Margaret Thatcher o Maggie, Primo Ministro del Regno Unito dal 1978 al 1990, la prima donna della storia britannica, liberale liberista che rialzò una nazione collassata da Sindacalismo, Burocrazia, Tasse, Capitalismo di Stato, Assistenzialismo.

Una vera Rivoluzione se consideriamo che riuscì a realizzare delle riforme nella nazione nella quale i socialisti laburisti inventarono il Welfare State con il loro slogan “Dalla Culla Alla Tomba”. La citazione suddetta vuole essere la dimostrazione come Maggie volesse svegliare dal torpore una forza politica, come quella dei Conservative Party, incapace di reagire al dominio ideologico dei socialisti. La mediocrità, tipica della cultura socialista, aveva contagiato i conservatori che davano l’impressione di aver perso la loro identità.

Riprendendo il suo libro autobiografico, direi che sarebbe opportuno riprendere un altro passo importante.

La causa principale del crescente allentamento della gente dai partiti politici è il troppo governo. La competizione tra i partiti nell’offrire livelli sempre più alti di benessere, aveva diffuso la convinzione che il governo fosse in grado di fare qualsiasi cosa e aveva offerto ai socialisti l’opportunità di estendere massicciamente l’intervento statale.

In questo passo, è chiaro come Maggie sia del parere che la crisi del secondo dopo-guerra e la conseguente riforma del Welfare State, aveva favorito come risultato quello di convincere tutti che la politica dovesse essere l’unica voce in capitolo sulla quotidianità (e i vari problemi) delle persone. L’idea della Thatcher è che i partiti politici erano diventati quasi come dei portatori di soluzioni ai problemi, come Lei stessa diceva.

«Abbiamo attraversato un periodo in cui troppi bambini e troppi adulti facevano ragionamenti del tipo: “Ho un problema, ci deve pensare il governo a risolverlo!”, oppure “Ho un problema e ho il diritto di farmelo risolvere dal governo”, o “Sono senza casa, il governo me ne deve dare una”. E così affibbiavano i loro problemi alla società.

Anche i conservatori erano caduti in questa sorta di trappola che lo ha portato a tanti fallimenti durante i periodi al governo. Proprio per questo motivo è opportuno ritrovare quell’identità perduta, riportando il focus sulla libertà del cittadino, sulla famiglia. Non aveva timori nel portare avanti quei valori borghesi, che nessuno fino a quel voleva toccare, proprio perché erano diventate delle parole “intoccabili” secondo le regole del “politicamente corretto” del Regno Unito del ventennio 50′-70′.

Se nei valori borghesi rientrano l’incoraggiamento della diversità e della scelta personale, l’offerta di equi incentivi e ricompense per l’abilità e l’impegno nel lavoro, la conservazione di efficaci barriere contro l’eccessivo potere dello stato e la fede nella più ampia distribuzione della proprietà individuale, allora credo che siano valori da difendere.

Perciò quando decise di candidarsi per la leadership del Conservative Party, aveva l’intenzione di esaltare l’individualismo e le potenzialità del cittadino, senza che riceva alcuna aggressione fiscale da parte dello Stato.

Sono convinta che occorra giudicare una persone per i loro meriti e non per la loro provenienza. Credo che la persona che è pronta a lavorare più sodo è quella a cui spetta il compenso maggiore, un compenso che dovrebbe restargli anche dopo le tasse. Dobbiamo appoggiare i lavori e non gli imboscati: che non è solo lecito ma lodevole voler migliorare la propria famiglia con il proprio impegno.

Mettersi in gioco contro i socialisti è possibile anche in Italia. Noi de L’Individualista Feroce riteniamo che non sia giusto nascondersi e temere il giudizio di chi, con la forza, sia maggioritario. Non solo diffondendo le idee, ma anche impegnarsi sempre di più sul campo più importante, quello politico, poiché è l’unico in cui è possibile realizzare delle riforme – forse rivoluzionarie per noi liberali, chissà – per risvegliarci dall’incubo statalista-socialista. Riforme come quelle sul ruolo dello Stato, tanto desiderata dalla stessa Maggie.

«Lo Stato deve essere un servitore, non un padrone. Non ci devono essere tentazioni paternaliste. Il paternalismo è nemico della libertà e della responsabilità. Benché si mostri sorridente e umano, è come tutti gli altri tipi di governo interventista: soffoca gli sforzi di tutti, fiacca le imprese, incoraggia la dipendenza e promuove la corruzione».