Paradossi del socialismo sovietico: falsa prosperità e vera povertà

L’Unione Sovietica, nel corso della sua storia, ha affrontato diversi nemici, dal Terzo Reich agli Stati Uniti. Tuttavia, alla fine il socialismo sovietico è stato abbattuto dall’unico nemico che nessuna ideologia potrà mai sconfiggere: la realtà. Nella sua guerra contro la realtà, il socialismo sovietico ha dato origine a diversi paradossi. Questo articolo si concentrerà su 3 dei più grandi fra questi paradossi.

Portafogli pieni, scaffali vuoti

Bisogna ammetterlo: se si considera come ricchezza la quantità di denaro a disposizione di un individuo, allora il cittadino sovietico medio era innegabilmente ricco. Grazie al regime socialista, che manteneva bassi i prezzi dei beni di consumo, e a continui aumenti di stipendio, i cittadini sovietici avevano molto denaro fra le mani[1].

C’è solo un problema: la ricchezza non è data da quanto denaro un individuo possiede, bensì da cosa l’individuo può comprare con quel denaro. Quindi, se i portafogli sono pieni ma gli scaffali sono vuoti, si arriva al paradosso di milionari che vivono in povertà, circondati da denaro contante che non potranno mai spendere.

Questa situazione paradossale era dovuta alla combinazione fra prezzi artificialmente bassi e salari artificialmente elevati (artificialmente perché stabiliti a tavolino dai pianificatori centrali del PCUS, quindi non derivanti dal naturale incontro fra domanda ed offerta, come avviene in un’economia di libero mercato).

In poche parole i cittadini sovietici, grazie alla loro disponibilità di denaro ed al basso prezzo dei beni di consumo, erano portati a consumare più di quanto producessero, e questo portava alla scarsità di beni[2].

Come spiega Ludwig von Mises ne “Il calcolo economico negli Stati socialisti”, poiché in un regime socialista è lo Stato a possedere tutti i mezzi di produzione ed a ridistribuire le risorse, non è possibile stabilire il prezzo reale di beni e servizi, dato che i prezzi derivano da milioni d’interazioni economiche fra milioni d’individui, le quali però sono assenti in un’economia pianificata, dove solo lo Stato compra e vende beni e servizi.

Quindi, tornando al discorso di prima, il prezzo artificialmente basso, stabilito dai burocrati del PCUS, di un bene o di un servizio non rispecchiava la sua reale disponibilità. Il consumo eccessivo di beni e servizi, poi, generava scarsità.

Da qui la famosa immagine delle file per i negozi: i primi della fila erano fortunati, perché potevano comprare tutto quello che volevano, di conseguenza però non restava niente per gli altri. I cittadini sovietici, che non erano stupidi, sapevano bene quale fosse il vero valore del loro denaro, che con un’ironia un po’ cinica definivano come “soldi del Monopoly”[3].

L’Holodomor: un successo del Piano Quinquennale

Fatta eccezione per i tankies, fortunatamente oggi nessuno nega più l’Holodomor, la “morte per fame” di milioni di Ucraini fra il 1932 ed il 1933. Tuttavia, forse non tutti sanno quanto le politiche economiche sovietiche siano state responsabili per questa tragedia.

Innanzitutto bisogna fare alcune premesse. Come già accennato, all’interno dell’Unione Sovietica il denaro aveva ben poco valore, soprattutto a causa dell’eccessiva quantità di rubli in circolazione (l’iperinflazione è stata un fenomeno ricorrente nella storia dell’URSS). Di conseguenza, anche i Paesi stranieri si rifiutavano di accettare rubli nei loro commerci con l’Unione Sovietica, esattamente come oggi nessuno accetta la valuta nordcoreana per commerciare.

Pertanto, così come oggi Kim Jong-un ha bisogno di accumulare valuta estera per comprare materie prime e macchinari a fini bellici, allo stesso modo Josef Stalin negli anni Trenta aveva bisogno di valuta estera per acquistare i mezzi necessari ad espandere il suo potere in Europa ed in Asia. Per accumulare valuta estera, quindi, Stalin fece delle esportazioni una priorità[4].

Dato che all’epoca il Paese era ancora poco industrializzato, le esportazioni sovietiche consistevano principalmente in materie prime, soprattutto prodotti agricoli, ed è qui che ci si ricollega all’Holodomor.

All’inizio degli anni Trenta, a causa delle perdite dovute alla collettivizzazione forzata dei terreni agricoli, all’eliminazione dei kulaki e ad una siccità che colpì l’URSS nel 1931, la produzione agricola, soprattutto quella del grano, calò drasticamente[5]. A questo punto, sarebbe stato ancora possibile scongiurare la carestia, se non fosse stato per una quarta sciagura: il PCUS.

Il regime comunista, infatti, adottò due provvedimenti che condannarono definitivamente alla morte per fame milioni di persone. In primo luogo, per mantenere ad ogni costo le quote stabilite dal Piano Quinquennale, il PCUS decise di aumentare la pressione sulle aree meno colpite dalla siccità, e d’inasprire le già severissime pene per i contadini che osavano trattenere parte del loro lavoro per sfamare le proprie famiglie[6].

In secondo luogo, Stalin decise che, a dispetto della situazione interna critica, le esportazioni di prodotti agricoli andavano incrementate: fra il 1929 ed il 1931, le esportazioni di grano sovietico passarono da 170000 tonnellate a 5200000 tonnellate, in soli due anni quindi aumentarono di 30 volte[7]. Due anni dopo, milioni di cittadini sovietici erano morti nella carestia che il regime comunista aveva reso inevitabile.

L’inefficienza è forza

Nell’Unione Sovietica, l’inefficienza non era l’eccezione nel processo produttivo, qualcosa da individuare e correggere, bensì era la norma, sancita come tale dal principio comunista del “da ognuno secondo le proprie capacità, ad ognuno secondo i propri bisogni”.

Applicando questo principio alla realtà del processo produttivo, si ottenevano due possibili risultati. Nel primo caso, durante una dato Piano Quinquennale, una certa fabbrica arrivava a raggiungere solo metà della quota produttiva prevista dal Piano. Secondo il principio precedentemente citato, pertanto, nel Piano Quinquennale successivo alla fabbrica sarebbe stato destinato il doppio delle risorse e degli operai, per raggiungere la quota[8].

Nel secondo caso invece, durante lo stesso Piano Quinquennale, un’altra fabbrica riusciva a soddisfare la quota richiesta utilizzando le risorse e la manodopera nel modo più efficiente possibile. Di conseguenza, sempre per lo stesso principio, nel Piano Quinquennale successivo alla fabbrica sarebbe stata imposta una quota più elevata, da soddisfare senza ricevere più risorse e operai[9].

Naturalmente, in queste condizioni la fabbrica efficiente avrebbe fallito nel raggiungere la prestazione richiesta, e solo allora avrebbe ottenuto aiuti per soddisfare la quota. In un simile contesto, quindi, quale dirigente sarebbe stato così sconsiderato da promuovere l’efficienza all’interno della propria fabbrica?

Apparentemente, avrebbero vinto tutti: sulla carta, il Piano Quinquennale sarebbe stato un successo, il PCUS avrebbe avuto una nuova vittoria del socialismo sovietico di cui vantarsi, ed i dirigenti delle fabbriche inefficienti si sarebbero ritrovati a gestire fabbriche più grandi.

A lungo andare, però, la realtà si sarebbe presa la propria rivincita sull’ideologia. Alla fine, le immense risorse dell’URSS sarebbero state insufficienti per compensare i danni dovuti a decenni di cattiva gestione della attività produttive da parte dei burocrati del PCUS, e così è stato.

Conclusioni

Si dice che la follia consista nel fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi. In questo senso, perciò, non è esagerato definire folli i pianificatori centrali del regime sovietico, che nel corso della storia dell’URSS hanno più volte scelto di ripetere gli stessi errori, piuttosto che ammettere l’impossibilità di plasmare il mondo ad immagine e somiglianza della loro ideologia.

Ma se loro sono stati dei folli, ancora più folli sono quelli che, a trent’anni dal fallimento dell’esperimento sovietico, non solo si rifiutano di riconoscere come responsabile di tale fallimento il socialismo sovietico stesso (dando quindi la colpa agli Stati Uniti, alla CIA, a Gorbačëv etc…), ma che propongono persino di ripeterlo come se, per l’appunto, si aspettassero risultati diversi.

[1][2][3] https://youtu.be/kPVo9w79D6w

[4][5][6][7] https://www.google.com/url?sa=t&source=web&rct=j&url=https://www.youtube.com/watch%3Fv%3DmZoUioqlZEs%26vl%3Den&ved=2ahUKEwifucHoxdvoAhXOUJoKHX2CCwgQFjAAegQIAxAB&usg=AOvVaw2mEIG3Na4vkRNdUV5NfPtF

[8][9] https://youtu.be/S3Jkqqlpibo

 

Davvero il socialismo fallisce per i boicottaggi?

Una cosa che si dice comunemente delle economie socialiste, specie in Africa e in Sud America, è che falliscano per colpa dei boicottaggi. Non è il sistema economico a non funzionare, ovviamente, ma è colpa degli Stati Uniti che bloccano i commerci!

Eppure in Africa ci fu uno Stato che venne boicottato per praticamente tutta la sua esistenza, la Rhodesia.

La Rhodesia non era un Paese liberale, era infatti governato in larga parte dalla minoranza bianca ed i neri erano perlopiù esclusi dalla vita politica. Il leader del paese, Ian Smith, credeva che i bianchi avessero il dovere di governare poiché fuori dalle lotte tribali che caratterizzavano la popolazione nera.

Il suo era, per chi fosse interessato, un regime meno duro rispetto a quello del Sudafrica: i neri avevano la cittadinanza, spesso il diritto di voto – seppur limitato in base all’istruzione – e lavoravano a fianco dei bianchi frequentemente. Esistevano anche scuole private dove bambini bianchi e neri andavano nelle stesse classi senza problemi, ma l’istruzione pubblica era segregata.

Dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza nel 1965 alla rinuncia alla monarchia nel 1970, fino alla fine del Paese nel 1979, fu tutto un susseguirsi di sanzioni. L’economia rhodesiana, a differenza di quelle socialiste, ha retto. Non senza conseguenze, sia chiaro: l’economia del Paese rallentò, ma non drammaticamente.

Bisogna considerare, inoltre, come gli alleati della Rhodesia non fossero superpotenze: aveva dalla propria parte Sudafrica e Portogallo. Stati che hanno sicuramente, violando le sanzioni, aiutato il Paese, ma non al livello degli alleati dei Paesi socialisti come l’URSS!

Durante il boicottaggio il PIL rhodesiano rimase quasi stabile: l’agricoltura si spostò da produzioni esportabili in Europa a produzioni consumabili in loco o esportabili in Sudafrica, certe industrie si specializzarono a tal punto da arrivare a fare concorrenza a quelle sudafricane.

Solo dal 1975 vi fu una limitata contrazione dell’economia, dovuta soprattutto all’aumento delle spese militari e ad una certa “limitazione” del liberalismo economico per poter fronteggiare meglio la guerra, con l’obiettivo idealizzato di tornare ad esso dopo la fine del conflitto.

Ma secondo gli economisti, l’economia della Rhodesia fu in grado di reggere alle sanzioni senza gravi danni solo grazie alle politiche liberiste applicate prima della dichiarazione di indipendenza, che permisero lo sviluppo di un settore industriale e agricolo malleabile e sufficiente a soddisfare le richieste nazionali.

Come vediamo dal grafico del PIL, che trovate qui sul sito della Banca Mondiale, al termine del boicottaggio, nel 1979, l’economia vide inizialmente una netta crescita. Tuttavia, poco dopo il governo di Robert Mugabe iniziò ad applicare le proprie ricette corporativiste e socialiste. Tutti gli indici economici iniziarono a calare portando anche ad effetti a lungo termine: nel 2008 il PIL dello Zimbabwe era pari a quello medio della Rhodesia indipendente.

Risultato immagini per zimbabwe dollar
Successi del socialismo di Mugabe

Le politiche di Mugabe portarono ad un’iperinflazione – ossia alle famose banconote da miliardi di dollari che non valevano niente – ma anche alla fuga di persone molto qualificate, specie quando Mugabe ordinò la confisca dei beni dei bianchi.

La differenza tra il governo di Smith e quello di Mugabe era essenzialmente una: il modello economico di Smith funzionava, quello di Mugabe no.

La Rhodesia, grazie ad un’economia solida e libera, fu in grado di reggere anche ad una comunità internazionale quasi completamente ostile. Lo Zimbabwe, con la sue politiche economiche socialiste, non ha retto nemmeno al normale corso degli eventi.

Viene da chiedersi quindi: com’è possibile che l’economia socialista sia migliore di quella capitalista, se la prima andrebbe in totale crisi e povertà per un boicottaggio che la seconda supera con qualche noiosa difficoltà?

Fonti

Debito pubblico: cosa accadrebbe se lo cancellassimo?

Il debito pubblico è un qualcosa di cui sentiamo parlare ogni giorno nei telegiornali. Si tratta di un buco nero, ed è dipinto come la causa dei problemi dell’Italia, sebbene ne sia semplicemente la diretta conseguenza.
Nel web, si trovano tanti articoli che trattano del problema debito pubblico e di come sia un peso per gli italiani.
Alcuni lo dipingono come una vera e propria truffa nei confronti dei cittadini, che fa lentamente perdere sovranità nazionale con la conseguenza di diventare sempre più schiavi delle grandi e cattive banche.
Nelle chiacchiere da bar invece, i più arditi si spingono a dire “vabbè ma se tutti gli Stati sono indebitati tra loro, perchè non cancellarlo e ripartire da zero?”

Oggi risponderemo a questa grande domanda.
Cos’è il debito pubblico? Se lo cancellassimo, cosa accadrebbe?

First of all, faremo un discorso preliminare.
Non possiamo parlare di debito, senza sapere prima cos’è un mezzo fondamentale con cui ogni giorno abbiamo a che fare, qualcosa di prezioso, che ci può rendere poveri o ricchi.
Si tratta della moneta.

Cos’è la moneta?

La moneta è un mezzo che facilita gli scambi.
Essa ci consente di raggiungere i nostri fini, permettendo in cambio di essa di avere delle cose che vogliamo, ed ha tre funzioni:

1) E’ un mezzo di pagamento, quindi in cambio di essa acquistiamo beni o servizi.
2) E’ un’unità di conto, cioè ci serve per misurare il valore di un qualcosa.
3) E’ una riserva di valore, cioè conserva il suo valore nel tempo, o almeno dovrebbe.

La moneta non è una risorsa, non serve per produrre direttamente beni e servizi. Singolarmente non vale nulla.
Se domani convenisse utilizzare le mucche per facilitare gli scambi, utilizzeremmo quelle. Infatti il baratto è stato sostituito dalla moneta perchè rende gli scambi più efficienti, più veloci.
Nella storia ci sono stati tanti tipi di moneta, ma attualmente la moneta imposta dal nostro sistema è quella definita “legale” o a “corso forzoso”, la cosiddetta Fiat money (no, non sta per l’azienda di auto).
Questa moneta non è coperta da nessun materiale fisico e limitato che può darle valore, come l’oro in passato. Semplicemente coloro che hanno il potere politico per farlo, cioè le banche centrali, possono regolarne la quantità nel sistema in base alle preferenze (o meglio, convenienze) del momento.

Quindi chi o cosa dà valore a questa moneta?

Di base, il valore della moneta è dato dalla fiducia che il mercato (cioè l’insieme di tutti gli individui e le istituzioni, da zio Tonino a Unicredit) ripone nei confronti delle entità che la emettono, cioè le suddette le banche centrali.
Se questa fiducia dovesse crollare un giorno, quella 5 euro che abbiamo in tasca varrebbe esattamente per il pezzetto di carta che è, cioè niente.
Questa possibile perdita di valore della moneta entra in contrasto critico con una delle funzioni della moneta, cioè la riserva di valore, che viene sistematicamente messa in pericolo da una certa azione:

La svalutazione della moneta

Dipinta da diversi pseudo-economisti di certi partiti politici come la panacèa di ogni male, come la motivazione del benessere italiano negli anni ’80, nonostante di fatto ci si stesse mangiando il proprio capitale, questo è un processo nel quale c’è un aumento del livello dei prezzi perchè si aumenta la quantità di moneta in modo indiscriminato (per diventare più competitivi nei confronti delle altre valute ed esportare di più, per dare modo allo Stato di finanziarsi) portando alla riduzione dei salari reali.
Quindi prendi e prendevi 1000 euro al mese, ma se prima compravi due pagnotte, ora ne puoi comprare una.
Una riduzione molto violenta di questi salari reali porterebbe ad un rifiuto totale di quella moneta da parte degli abitanti (e quindi, del mercato) in cambio di altri mezzi di pagamento, sancendo la fine di quella precisa valuta.
Questo fenomeno però, meriterà una trattazione a parte.

Ora scaviamo un po’ più a fondo, e spieghiamo cos’è questo fenomenale mostro dal nome debito pubblico.

Cos’è il debito pubblico?

Il debito pubblico è l’insieme dei debiti che lo Stato deve nei confronti del mercato(ripetiamo, da zio Tonino a Unicredit), e che un giorno promette di ripagare.
Lo Stato fa debito per un motivo molto semplice: un tempo per acquistare soldati e armi, oggi per costruire infrastrutture, dare una sanità pubblica (che quindi non è gratis) o dare un posto di lavoro a zio Tonino, ma quando non ha soldi a sufficienza per permettersi queste spese, per evitare di tassare ulteriormente i cittadini, chiede questi soldi in prestito.


Mettendo in garanzia il PIL attuale, cioè tutto quello che si è prodotto fino a quel momento, promette di trovare i soldi necessari per ripagare quel debito promettendo un maggior PIL futuro, cioè quel valore in più che si creerà da quelle spese a debito.


Nel caso le cose dovessero andar male, si tasseranno maggiormente i cittadini.
Se le finanze pubbliche sono in ottime condizioni, in cambio verrà richiesto un interesse basso da pagare, perchè c’è un rischio basso d’insolvenza.
Se le finanze pubbliche sono in pessime condizioni, verrà chiesto un interesse molto alto da pagare, in quanto c’è un rischio alto d’insolvenza.

Quindi come vedete nessuna truffa, nessuna magia, è più semplice e meno affascinante di quello che si pensa.

Ma chi detiene il debito pubblico italiano?

Principali detentori del debito pubblico italiano (in miliardi di euro)

Questi sono i detentori del nostro debito pubblico, come mostra questo grafico formulato dal CEPS (Centre for European Policy Studies) costruito partendo da dati della Banca d’Italia.

Quindi abbiamo:
-100 miliardi detenuti direttamente dagli italiani. Il 4,5%.
-690 miliardi dal sistema bancario italiano. il 30%
-400 miliardi dalla Banca d’Italia. Il 18%.
-310 miliardi da compagnie di assicurazione italiane. Il 14%.
-300 miliardi da fondi d’investimento con ultimi beneficiari italiani. il 13,5%.
-450 miliardi da fondi d’investimenti esteri. il 20%.

Ora, notiamo due cose:
1) Semplicisticamente, è vero che la maggior parte del debito pubblico è detenuto da “italiani”.
2) il sistema bancario italiano, che è composto da banche estere e banche italiane presenti nel territorio nazionale, è la maggiore fonte di finanziamento del Belpaese.

Ora andiamo nel fulcro della vicenda, e sveliamo questo mistero.

Cosa accadrebbe se cancellassimo il debito pubblico?

Se domani non solo lo Stato italiano, ma tutti gli Stati del mondo si accordassero e decidessero di cancellare il debito pubblico e ripartire da zero, accadrebbe una cosa molto interessante.

Ogni agente economico, ha un bilancio. Nel bilancio abbiamo un attivo ed un passivo.
Se domani lo Stato non volesse più pagare i propri debiti, i propri cittadini, le proprie imprese, le proprie banche perderebbero i soldi che hanno investito in esso. Questo sarebbe configurabile come un passivo in bilancio, e i passivi vanno coperti.

Zio Tonino, seguendo il consiglio del consulente finanziario che gli diceva “i titoli di stato sono investimenti a zero rischio!“, perderebbe parte dei suoi risparmi, così come tutti gli altri suoi connazionali. 100 miliardi di euro in fumo.
Le società assicurative italiane, quelle alle quali vi affidate per le vostre polizze, per le vostre auto, per le vostre case e che detengono 300 miliardi di debito, coprirebbero questa passività con delle risorse improvvisate al momento.
In mancanze di esse fallirebbero. 300 miliardi di euro in fumo.

Anche le banche, con tutto il debito che detengono, rischierebbero di fallire all’istante provocando il collasso dell’intero sistema economico.
…E per questo interverrebbero le banche centrali, i prestatori di ultima istanza, che si ritroverebbero con un enorme passività in bilancio da coprire.
E qual è l’unico modo con il quale la banca centrale può coprire delle passività?

Stampando moneta.

Ma qui abbiamo un problema grande quanto una casa

La moneta richiesta per affrontare una emergenza del genere sarebbe di quantità così illimitata da portare ad una gigantesca iperinflazione dovuta al crollo totale della fiducia nei confronti della valuta. Questo porterebbe alla distruzione completa e totale del nostro sistema economico.

Uno scenario fantaeconomico, inquietante, ma che almeno porta alla luce una delle più grandi e terribili balle che si possano mai dire.
La prossima volta che trovate un sovranista o pseudo-tale che incita magari alla suddetta soluzione, tirategli uno scappellotto.

A giocar col fuoco, si rischia di farsi male.

 


Fonti e approfondimenti :

Who Holds Italian Government Debt? – CEPS, Daniel Gros (2019).
What Is The Money? – European Central Bank.
Mises On The Basics Of Money.
Lezione di tango: la svalutazione riduce i salari – Michele Boldrin, Gianluca Codagnone.

Annual Consolidated Balance Sheet Of The Eurosystem.
Piccola storia della moneta, tra miti e realtà – Alessandro Guerani, Sole 24 ore.
I malanni delle valute fiat – Alasdair Mcleod, traduzione Francesco Simonelli.
Hyperinflation, Its Causes and Effects with Examples – The Balance