La Svezia e l’equivoco socialdemocratico

In Italia si parla spesso dei Paesi scandinavi come modelli alternativi, esempi di successo di politiche socialdemocratiche o addirittura socialiste; e recentemente questa moda ha preso piede perfino negli Stati Uniti[1]. Alla base di questi riferimenti c’è sempre la ricerca della mitica “terza via”, che permetterebbe di superare il capitalismo senza gli eccessi e i fallimenti del comunismo[2].

La Svezia, in particolare, è il Paese a cui tutti costoro guardano. “Ecco”, si dice, “una nazione che riesce a crescere e creare benessere per tutti con politiche sociali e attente ai poveri, rifiutando il perfido neoliberismo. Questo è l’esempio che dovremmo seguire. Freghiamocene di austerità, libertà economica e tassazione, a salvarci sarà la spesa pubblica!”.

Ovviamente, la realtà è un po’ diversa: la Svezia non cresce per via della sua alta spesa pubblica, ma al contrario si può permettere quel livello di spesa perché cresce. Sembra un gioco retorico, ma non lo è: la Svezia basa la sua crescita su un modello economico liberale, non su una fantomatica “terza via”.

Gli svedesi hanno dovuto capirlo e impararlo sulla loro pelle. Negli anni ’70 e ’80 la Svezia aveva creato un esteso sistema di welfare, che ancora adesso è in piedi (seppure ridotto). Ma in quegli anni i governi socialdemocratici utilizzarono anche politiche che definiremo per comodità keynesiane, utilizzando regolarmente la spesa pubblica per spingere la propria economia.

Fu in quegli anni che la tassazione svedese crebbe fino a livelli mai raggiunti nel mondo occidentale[3], mentre lo Stato acquistava centinaia di aziende private in crisi e cercava di rilanciarle con soldi pubblici. Nel corso degli anni ’80 lo Stato svedese era arrivato a pesare per oltre il 60% sul PIL del Paese; si sarebbe mantenuto su quei livelli fino a metà anni ‘90.

E quale fu il risultato? Negli anni ‘50 e ‘60 la Svezia aveva conosciuto una rapida e sostenuta crescita economica, fino a diventare il 4° Paese occidentale più ricco, per PIL pro capite, nel 1970. Vent’anni dopo, il Paese scandinavo era invece in profonda crisi: la Svezia era cresciuta di circa la metà rispetto alla media OCSE per tutti gli anni ‘80 e il suo PIL pro capite era ormai il 14° nel mondo occidentale. Il Paese era entrato in una spirale apparentemente irreversibile di spesa pubblica e tassazione crescenti e crescita asfittica.

Quale fu la soluzione del governo Bildt (il primo non socialdemocratico dopo decenni)? Proprio quella indicata dal pensiero liberista standard: privatizzazioni, de-regolamentazioni, calo delle tasse e della spesa pubblica[4].

L’impatto iniziale fu ovviamente molto pesante per la società svedese: disoccupazione e debito pubblico salirono rapidamente, mentre la crescita restava bassa e l’inflazione non accennava a diminuire; il nuovo esecutivo non volle comunque tornare indietro, convinto della correttezza del rimedio.

E in effetti la situazione economica stava cominciando a migliorare quando nel 1994 il governo conservatore cadde e tornarono al potere i socialdemocratici. Quel che successe dopo illustra chiaramente la qualità del dibattito pubblico svedese: il fallimento delle politiche keynesiane dei precedenti decenni era ormai talmente accettato e riconosciuto che il nuovo esecutivo non pensò neanche per un istante di invertire la rotta.

Da allora, le riforme pro-mercato sono proseguite fino ad oggi, sotto governi di ogni colore, creando una delle economie più business friendly al mondo: oggi l’indice Doing Business della Banca Mondiale considera la Svezia come il 12° Paese al mondo dove è più semplice fare impresa[5].

“Miracolosamente”, in seguito a queste riforme la Svezia è tornata a crescere e ad essere il Paese ricco e prospero che già era stato. I suoi tassi di crescita sono regolarmente intorno al 2-3%, quando non più alti, la produttività del lavoro cresce più della media OCSE, disoccupazione e inflazione si mantengono basse[6].

Cosa ci insegna questa storia? Che non esistono ricette speciali o magiche per far crescere un Paese; tutto quello che serve è non soffocarlo di tasse e regole e lasciare libertà di azione agli individui. Questa è la rivoluzione culturale che la Svezia effettuò trent’anni fa – e che noi ci auguriamo anche per il nostro Paese.

 

[1] https://www.huffingtonpost.com/bernie-sanders/what-can-we-learn-from-denmark; https://www.bloomberg.com/news/articles/2019-01-06/ocasio-cortez

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Terza_via

[3] http://www.reforminstitutet.se/wp/wp-content/uploads/2014/03/Twentyfiveyearsofreform140301.pdf

[4] http://www.reforminstitutet.se/wp/wp-content/uploads/2014/03/Twentyfiveyearsofreform140301.pdf

[5] http://www.doingbusiness.org/en/rankings

[6] Dati ricavati da archivi World Bank

“Il debito pubblico non è importante, in fondo siamo noi i nostri stessi debitori” – Perché Krugman e Keynes si sbagliano

I debiti, alla fine, vanno ripagati

Quando i dirigenti d’affari giapponesi hanno messo in discussione la politica del loro governo di sfrenato uso del debito pubblico come strumento risolutore, il premio Nobel Paul Krugman ha immediatamente scritto un articolo sul New York Times intitolato “La saggezza economica – o la sua mancanza – dei dirigenti d’impresa”. Krugman sostiene essenzialmente che il governo può spendere, spendere e spendere. Può continuare ad accumulare debito senza mai preoccuparsi di ripagarlo perché lo dobbiamo a noi stessi. Accenna anche che chiunque non riesca a comprendere questa semplice nozione non è sicuramente del suo livello intellettuale.

Le conclusioni tratte dall’economista fanno sorgere almeno due domande: il debito pubblico è davvero diverso da quello privato? E siamo davvero noi i nostri stessi debitori? A queste domande le risposte, usando lungimiranza ed onestà, sono: non nel lungo periodo e no, ben diverse da quelle prospettate da Krugman.

Analizziamo la prima risposta, in cui sosteniamo che in un’ottica di lungo periodo il debito pubblico sia uguale a quello privato e che, come tale, vada ripagato: nonostante lo Stato abbia il monopolio della forza e possa rifiutarsi di pagare il debito, i creditori hanno memoria e, delusi dall’impossibilità di vedersi ripagati, non erogheranno più credito a tale scopo, costringendo i governi ad aumentare le tasse o la quantità di moneta per mantenere il livello di spesa pubblica. In entrambi i casi i cittadini perderebbero potere d’acquisto, per la minore disponibilità individuale di risorse (tasse) o per un aumento smodato del livello dei prezzi (inflazione). Basti notare gli esempi di Grecia e Argentina e l’attuale crisi inflattiva del Venezuela.

La seconda risposta è una protesta contro la disonestà dell’asserzione: “siamo noi i nostri stessi debitori”. Ovviamente viene esclusa la realtà, che non tutti i creditori sono cittadini della nazione e che non tutti i cittadini della nazione erogano credito. Nel caso di investitori stranieri assistiamo a ciò che è accaduto in Grecia (ossia il debito è stato riscosso con la forza, costringendo il paese a vendere moltissimi beni pubblici ad imprese straniere), mentre nel secondo caso si omette che la maggior parte degli investitori appartiene a ceti medio-alti, di fatto la necessità di ripagare alti debiti tramite tasse costituisce una redistribuzione di ricchezza dai ceti più poveri a quelli più ricchi. Di fatto la spesa pubblica, nata per appianare le disuguaglianze, finisce per accentuarle.

Infine, una considerazione sul capitale: l’individuo genera capitale tramite tentativi e scoperta imprenditoriale, processi che richiedono tempo e mostrano che il valore non è infinito e non è generabile tramite alcun strumento governativo. L’imprenditore è il responsabile per l’accumulo e la creazione di capitale, quindi di valore. Quando questo processo viene distorto con interferenze governative, il meccanismo si interrompe ed è inevitabile che il processo di crescita e benessere si interrompa con esso, e le generazioni successive ne soffriranno.

Per questi motivi il debito pubblico non è, come distopicamente sostenuto da Krugman, diverso da quello privato e l’ipotesi collettivistica del debito è tanto errata e pericolosa come i collettivismi che hanno portato l’umanità ad indicibili sofferenze.

Meccanismo di Trasmissione della Politica Monetaria (Prospettive Keynesiane e Monetariste)

Il meccanismo di trasmissione della politica monetaria descrive i cambiamenti indotti da politiche delle banche centrali, in particolare l’impatto dei tassi di interesse nominali a breve termine su variabili reali come l’output aggregato e l’occupazione. Infatti, le banche centrali hanno un potere di cambio solo per i tassi a breve e brevissimo termine.

Con questo strumento dei tassi a breve anche conosciuti “Money Market Interest Rates,” le banche centrali cercano di influenzare le aspettative sui tassi a più lungo termine relativi ai vari punti temporali della curva dei tassi. La curva dei tassi d’interesse rappresenta un indice sulla quale vengono calcolati sia le emissioni obbligazionarie che l’erogazioni di prestiti di un determinato paese, quindi ha un impatto molto immediato sull’economia.

A secondo della efficacia del lavoro di una banca centrale, l’intera curva d’interesse si sposterà il più vicino possibile alle aspettative iniziale della banca centrale stessa. Inoltre, va considerato l’obiettivo primario delle banche centrali. Ci sono banche centrali che hanno come obiettivo primario il controllo su prezzi e inflazione (Price Stability), altre banche centrali hanno come obiettivo primario la massimizzazione dell’occupazione e del PIL (Output).  

I canali del meccanismo di trasmissione monetaria influenzano l’economia reale, in linea generale, attraverso i tassi di interesse, i tassi di cambio, i titoli azionari e dei prezzi immobiliari e i prestiti bancari.

Linee di Pensiero sulla politica monetaria 

Keynesiani

L’economia keynesiana si basa su due idee principali: (1) la domanda aggregata è più soggetta che l’offerta aggregata a possibili shock, e di conseguenza la domanda aggregata e’ la causa principale di una recessione; (2) salari e prezzi possono essere rigidi, quindi in una recessione economica, può portare ad effetti come la disoccupazione e in casi peggiori di stagnazione. I Keynesiani ritengono che i prezzi, e in particolare i salari, rispondano lentamente ai cambiamenti nella domanda e nell’offerta.

I Keynesiani non credono nel legame diretto tra l’offerta di moneta e il livello dei prezzi che emerge dalla classica teoria della quantità di moneta. Rifiutano la nozione che l’economia sia sempre vicina al livello naturale di disoccupazione.

Inoltre, i Keynesiani ritengono che la domanda di investimenti sia inelastica, soprattutto quando c’è una recessione. Quindi politiche espansionistiche monetarie potrebbero essere inefficienti. Anche i cambiamenti significativi nei tassi di interesse non modificano molto l’investimento. Ad esempio, gli investimenti fissi in impianti e macchinari non sono molto sensibili agli interessi.

Secondo i Keynesiani la politica monetaria è probabile che sia efficace solo se le persone/mercato hanno fiducia in queste politiche. L’effetto psicologico può essere molto potente. Richiede tuttavia una grande capacità nel manovrarla, e quindi da parte delle banche centrali nel creare aspettative dal mercato per far si che le politiche monetarie creano effetti positivi.

Monetaristi

I monetaristi sostengono che la domanda di denaro è stabile e non è molto sensibile ai cambiamenti del tasso d’interesse. Di conseguenza, le politiche monetarie espansive servono solo a creare un surplus di denaro che le famiglie potranno spendere rapidamente, aumentando così la domanda aggregata. Ma queste politiche monetarie hanno un effetto limitato nel breve periodo ed invece non hanno effetti di crescita di reddito nel lungo.

I monetaristi sono particolarmente contrari all’abuso di tali politiche monetarie, e le vedono come un fattore di destabilizzazione del livello dei prezzi. I monetaristi credono che persistenti inflazioni (o deflazioni) siano solo fenomeni monetari provocati da persistenti politiche monetarie espansionistiche (o restrittive).

Come mezzo per combattere periodi di inflazione o deflazione persistenti, i monetaristi sostengono a favore di una regola fissa dell’offerta di moneta. Credono che la Banche Centrali dovrebbero condurre una politica monetaria tale da mantenere il tasso di crescita dell’offerta di moneta fissa, con un aumento di offerta monetaria che è pari al tasso di crescita reale dell’economia nel tempo. Pertanto, i monetaristi ritengono che la politica monetaria dovrebbe servire a compensare gli aumenti del PIL reale senza causare né l’inflazione né la deflazione.