Scuola libertaria, e dopo il voucher?

Ho pubblicato articoli sul tema istruzione dal mio punto di vista liberale classico, e mi è sempre dispiaciuto non potervi offrire anche la visione dei libertari. Fortunatamente ora, grazie a Mises.org, posso proporvi la traduzione di un articolo libertario del 2000 a cura di William Anderson sul lasciare l’istruzione al mercato. Pur non condividendone totalmente i contenuti l’ho trovata una lettura interessante che vi lascio volentieri.

I voucher scuola sono un punto caldo dell’attuale campagna elettorale e mettono contro democratici e repubblicani, con i primi che sostengono che danneggerebbero la scuola pubblica e i secondi che credono siano necessari per migliorare l’istruzione, specie per i più poveri. Come normale nel nostro panorama politico, sbagliano entrambi i lati.

I contrari ai voucher cadono quasi sempre in due categorie: i primi temono che siano una minaccia allo status quo della pubblica istruzione, visto che sempre più genitori iscriverebbero i propri figli nelle scuole private avendo i fondi per farlo, i secondi vedono invece nei voucher un cavallo di Troia che permetterebbe al governo di regolare le scuole private.

Essendo convinto che le scuole pubbliche siano viziate ogni oltre possibile sistemazione, per me è benvenuto ogni cambiamento che possa favorire la fine di questo mostro che danneggia le nostre libertà mentre svuota i nostri portafogli. Quindi, se credessi che i voucher fossero effettivamente capaci di danneggiare l’establishment delle scuole pubbliche, li sosterrei nonostante i miei timori.

In ogni caso, chi vede i voucher come un cavallo di Troia ha ragione, ma si perde un punto importante: i voucher non sono altro che una forma di “socialismo di mercato”. Vogliono giocare al mercato usando hardware socialista, una cosa che però in URSS ha mostrato di non funzionare e che quindi fallirebbe anche qui.

Il primo campione dei voucher fu Milton Friedman che li propose nel suo libro del 1962 “Capitalismo e Libertà” come maniera per migliorare l’istruzione per i giovani. Li ha poi riproposti nel suo “Liberi di Scegliere”, un best-seller, divenuto poi una serie di successo sulla televisione pubblica americana. I voucher, argomentava, creerebbero un mercato competititvo in un settore oggi dominato dal governo.

Le sue critiche della scuola pubblica sono fondamentalmente accurate. Le scuole pubbliche sono un monopolio intrusivo e ingombrante, come tutti i monopoli statali, e dunque falliscono quando si tratta di istruire bambini e ragazzi. Contro il monopolio Friedman e altri, soprattutto vari editorialisti neoconservatori del Wall Street Journal, propongono il già citato modello a voucher. A detta loro permettere ad ogni famiglia di usare il voucher per pagare la retta di una scuola privata darebbe ai figli l’opportunità di frequentare una scuola di qualità al posto di una decadente scuola pubblica.

L’idea sembra essere meritoria a prima vista, ma in verità ha vari problemi. Prima di tutto, come fatto notare da molti critici conservatori e libertari, i voucher – essendo finanziati dalle tasse – permetterebbero allo Stato di regolare le scuole private nella stessa maniera in cui regola gli istituti che, già oggi, ricevono sussidi statali. Dunque, il settore potrebbe trovarsi paralizzato e schiacciato molto presto dal governo. 

Ma passiamo alla seconda obiezione: l’obiettivo del voucher è quello di “creare un mercato” dove tale mercato non esiste. Purtroppo, come fatto notare molte volte da Murray Rothbard e da Ludwig von Mises, un mercato è impossibile senza veri diritti di proprietà. I voucher sono finanziati dallo Stato, coi soldi dei contribuenti. Non sono più privati di un’autostrada o del Ponte di Brooklyn.

Il problema della proprietà privata è importante: senza tali diritti il programma a voucher opererebbe a volontà degli enti statali, che potrebbero cambiarne i termini a loro piacimento. Un governo potrebbe dare un voucher senza farsi troppe domande, quello dopo potrebbe chiedere “responsabilità” o abolire direttamente il programma, se così chiedesse il sindacato dei docenti.

In sostanza, a differenza dell’apparato attuale, dove il governo fa pagare delle tasse per l’istruzione ma lascia comunque liberi di utilizzare quanto risparmiato per un’istruzione privata (d’altronde, miei soldi = mia proprietà), in un sistema del genere sarebbe lo Stato a pagare. Uno Stato che potrebbe limitarne l’uso su pressione di gruppi di interesse che non sono certamente interessati ai diritti delle famiglie.

Come fatto presente sempre da Rothbard e Mises, senza diritti di proprietà, il calcolo economico è una simpatica commedia degli errori. Ciò porterebbe a tre probabili scenari:

  1. La nuova domanda nel settore delle scuole private porterebbe ad un aumento delle rette, impedendo comunque a molte famiglie di mandare i figli nella scuola preferita e con politici che possono usare gli eventi per parlare di speculazione e proporre nuove regolamentazioni, spesso non necessarie e non sagge
  2. La nuova domanda porterebbe a varie start-up dell’istruzione: alcune assolutamente legittime, altre losche, i cui crimini porterebbero i politici a colpire duro sul settore privato, anche quello legittimo
  3. L’oligopolio: come mostrato da vari economisti le aziende già presenti sul mercato sono in grado di prendere in mano rapidamente il processo regolatorio, lasciando fuori i piccoli concorrenti. 

L’ultimo scenario è molto probabile in caso di adozione massiccia dei voucher: in principio scuole pubbliche e sindacati resisterebbero all’introduzione, ma prima o poi si renderebbero conto che i flussi di danaro permettono loro di avere più potere sulle operazioni delle scuole private.

Così, sorgerebbero alleanze tra questi ultimi e le scuole private più importanti, che non desiderano competere con piccole istituzioni, portando a regolamentazioni in grado di danneggiarle o portarle al fallimento.

In altre parole, il voucher sembra un’ottima idea ed è proposto in buona fede da chi vuole davvero mettere in discussione il monopolio statale sull’istruzione, ma i programmi a voucher hanno troppi problemi intrinseci. Non creano vere condizioni di mercato perché non sono proprietà privata. Esattamente come il socialismo di mercato di Lange sono misure a metà che, alla fine, metterebbero in trappola le scuole private più di quanto lo siano oggi.

Istruzione in Calabria: un caso per la concorrenza

La Calabria potrebbe essere il paradiso di chi vuole eliminare la concorrenza in materia di istruzione: secondo i dati del MIUR sono l’1%, poco più di tremila, gli studenti calabresi che frequentano una scuola non statale e gli istituti paritari sono solo 72, paragonati ai 1537 plessi pubblici. Per paragone, in Lombardia la percentuale di studenti presso le scuole paritarie è circa del 10%.

Senza la “scuola dei preti” a togliere risorse alla “scuola di tutti” dovremmo presumere che la scuola calabrese sia un’eccellenza. E invece no.

L’istruzione in Calabria versa in uno stato che definire pietoso è quasi un complimento.

La conoscenza della lingua italiana declina durante la carriera scolastica: in sostanza paghiamo l’istruzione calabrese perché gli alunni disimparino l’italiano, visto che partono, in terza elementare, al pari con i coetanei lombardi e, perdendo punti, arrivano in quinta superiore come ultimi in classifica.

Matematica? Non ne parliamo: ultimi a partire e ultimi ad arrivare, tant’è che, statisticamente, un perito del Centro-Nord ne sa di più in matematica rispetto a un diplomato scientifico della Calabria.

Magari l’istruzione si rifà sulla lingua inglese, e invece no: la Calabria parte penultima, dietro alla Sardegna, e arriva penultima, questa volta dietro alla Sicilia.

Monopolio, la parola magica

In Calabria, ma anche in altre regioni meridionali, la scuola paritaria rappresenta un limitato attore di mercato, spesso confinato al livello della scuola primaria.

E, al contempo, queste regioni sono spesso piagate da altri problemi sociali come la disoccupazione, cosa che rende obiettivamente difficile, per i più, mandare i figli in una scuola paritaria se ritenessero inadatta l’istruzione pubblica.

Ergo la scuola pubblica è, in pratica, fornitore in esclusiva del servizio istruzione in queste determinate regioni. E, come ogni monopolista, non ha alcuna necessità di curarsi della qualità: gli alunni arriveranno anche se la qualità cala drasticamente, idem i finanziamenti.

In sostanza, non avendo i genitori un’alternativa, l’istruzione resta libera di cadere in picchiata in termini di qualità.

Cosa dovremmo fare?

Immaginate se ogni famiglia calabrese avesse una cifra annuale vincolata per l’istruzione del proprio figlio. Potrebbe certamente spenderla presso una scuola pubblica, ma se fosse insoddisfatta della qualità potrebbe, molto semplicemente, spostare il proprio figlio verso un’altra istituzione scolastica. Se la qualità dell’istruzione pubblica è quella che mostrano i test INVALSI, molto probabilmente vi sarebbero esodi di massa verso scuole più serie e l’istruzione pubblica avrebbe solo due alternative: migliorare o fallire.

Ora smettete di immaginare, infatti questa soluzione esiste ma purtroppo non in Italia e si chiama voucher scuola. Giovanni Adamo II, nel suo saggio “lo Stato nel Terzo Millennio”, definisce questi voucher “una questione di uguaglianza, poiché permettono di frequentare buone scuole senza considerazione per lo stato economico della famiglia”.

E così è: se un sistema del genere chiaramente porterebbe a benefici anche dove la scuola pubblica tendenzialmente funziona, ad esempio riducendo i costi e introducendo nuove metodologie didattiche più vicine alle necessità degli alunni, nei territori più periferici ed economicamente dissestati la libertà di scelta nella scuola è una questione di sopravvivenza perché solo una buona istruzione (quella monopolistica pubblica non lo è) può permettere di avviare tutti quei meccanismi che consentono alle persone di uscire dalle situazioni di disagio economico, alle quali spesso si legano situazioni di disagio sociale.

Esempi pratici

Nelle periferie di varie città degli Stati Uniti, zone spesso soggette a fenomeni di degrado urbano che portano alla formazione di gang, le scuole pubbliche si erano trasformate, alla fine, in parcheggia-bambini: si stava dentro qualche ora, si imparava poco e basta.

Sono nate poi le charter school. Queste scuole sono privatamente amministrate ma finanziate dall’istruzione pubblica, solitamente meno di quanto si pagherebbe per un alunno nel sistema pubblico. Ma i numeri sono limitati, quindi si organizzano delle vere e proprie crudeli lotterie per decidere chi potrà avere un’istruzione buona e capace di tirarlo fuori dalla povertà e dal degrado e chi, invece, resterà nelle scadenti scuole pubbliche.

A volere ciò sono coloro che, si suppone, dovrebbero proteggere gli alunni: i docenti. Infatti i loro sindacati sono fermamente contrari a ipotesi del genere, perché sanno che non garantirebbero tutti i loro privilegi.
E non è un’americanata: anche in Italia i sindacati dei docenti sono agguerriti contro ogni ipotesi liberale in materia di istruzione, nonostante nel dibattito mainstream esse siano veramente ridotte e prevedano, al massimo, un contributo parziale alla retta delle scuole paritarie.

Un esempio, invece, da un Paese non problematico lo abbiamo in Svezia: nel 1993, al grido di “l’istruzione è troppo importante perché sia gestita come monopolio” vennero introdotte le scuole libere, ossia delle scuole che, finanziate dai comuni al pari delle scuole pubbliche, erano gestite da privati. Risultato?

La qualità dell’istruzione pubblica è aumentata. In fin dei conti la scuola pubblica, per conservare i propri alunni, ha dovuto competere con le scuole libere. E, come per ogni servizio, la concorrenza fa bene, riduce i prezzi (ma, essendo sussidiata, non è il caso) ma soprattutto aumenta la qualità.

In Italia, soprattutto per le zone più problematiche del Paese, abbiamo bisogno di un sistema che permetta la libertà di scelta. “Il valore della scuola pubblica” non esiste, il futuro di tanti ragazzi oggi oppressi da un sistema scolastico mal funzionante sì. E senza una sostanziale riforma non sarà un futuro roseo.

Cile: davvero l’istruzione va a rotoli?

In questi giorni di proteste cilene alcuni media di sinistra citano tra le cause l’istruzione cilena, che sarebbe non solo tra le peggiori al mondo, ma anche tra le più costose.

Per chi non lo sapesse il Cile ha introdotto durante la dittatura di Pinochet un modello a voucher universale. Ciò ha causato uno spopolamento delle scuole pubbliche, rese poi quasi tutte municipali, che accolgono solo il 40% degli alunni. Questo è il motivo per cui, se cercate informazioni su Internet, troverete titoli acchiappaclic come “la riforma che ha distrutto l’istruzione cilena”: si riferiscono a quella pubblica e basta. Ma sarebbe come titolare un articolo sul predominio della medicina occidentale in Africa sugli sciamani con “la riforma che ha distrutto la sanità africana”.

Circa 10 anni fa il governo si è reso conto che i risultati non dipendono solo dalla bontà della scuola ma anche da situazioni sociali ed essendo il Cile, come praticamente tutti i paesi del Sud America, un Paese con forti disuguaglianze economiche, ha dunque deciso di introdurre misure economiche e sociali a vantaggio degli studenti più deboli, portando sia vantaggi, come un effettivo aumento della presenza di studenti a rischio nelle scuole migliori, ma anche svantaggi, come l’uscita di alcune scuole dal programma.

Ma davvero questa istruzione è così brutta come viene descritta? Vediamolo con una cosa che tendenzialmente triggera molto chi sostiene le tesi di cui sopra, portandoli a ahah react indiscriminate: i dati. Infatti esistono dati sia sulla qualità che sul costo dell’istruzione. Vediamoli insieme.

L’economia dell’istruzione cilena

Per prima cosa conviene farsi una domanda: a quale economia europea possiamo paragonare il Cile? I nostri lucidissimi esperti di Sud America mi suggeriscono la Croazia.

Parlando di scuole e non di università il Cile spende poco meno del 3,5% del proprio PIL nel settore, un dato di poco inferiore alla media OECD e a quella italiana ma superiore, ad esempio, rispetto alla Spagna.

Annualmente uno studente cileno costa allo Stato circa 4000$ adeguati al potere d’acquisto, meno della media OECD ma circa la metà dell’Italia, che spende circa 9000$ l’anno ad alunno ma, scandalosamente, vede i privati offrire il medesimo servizio al prezzo cileno.

Non è di certo un’istruzione ipercostosa, né per chi la frequenta né per lo Stato, ma nemmeno un’istruzione sottofinanziata, bensì è la meglio pagata del continente sudamericano.

Con questo non si nega che il sistema cileno abbia delle criticità, vi consiglio di leggere il report linkato, e infatti il nostro progetto di sistema a voucher ne tiene conto e corregge queste problematiche. Non è, tuttavia, un sistema decadente come viene descritto, e basta guardare ai dati per capirlo.

I risultati? Apprezzabili e promettenti

Certo, a livello economico regge, ma magari per colpa delle privatizzazioni la scuola fa schifo!

Solitamente per misurare la qualità di un sistema di istruzione si usa un test denominato PISA, sempre dell’OECD. Tiene conto praticamente solo di questioni didattiche e viene effettuato a studenti tra i quindici e i sedici anni. Il minimo è 5’000 studenti, eccetto per gli Stati piccoli, ma spesso gli Stati grandi fanno test su larga scala per fare comparazioni regionali. Gli studenti scelti, comunque, non prendono parte a tutte le prove, che sono di matematica, lettura e scienza.

Gli ultimi dati PISA a disposizione sono del 2015. Da questi dati vediamo una realtà semplice: l’istruzione cilena non è un’eccellenza ma è la migliore dell’America latina. Infatti i cileni non hanno risultati eccellenti e sono, per quanto riguarda la scienza e la lettura, nella parte media della classifica giungendo, però, in quella bassa in matematica.

Vediamo tuttavia un trend positivo sull’istruzione cilena: se il trend mondiale vede un calo di competenze in matematica, una stabilità sulla lettura e un calo nelle scienze il Cile è invece, con diversi indici, sempre cresciuto.

Sia chiaro: l’utilità di test come questi è contestata dal punto di vista educativo. Si tratta, tuttavia, dell’unico sistema che abbiamo per fare paragoni diretti tra istruzioni diverse.

Qualche dato dal Cile

Esattamente come in Italia abbiamo le INVALSI in Cile esiste un complesso sistema di valutazione dell’istruzione che include almeno tre livelli di prova: sulle capacità dell’alunno, sui risultati e sulla qualità dei docenti.

Vi è un corposo studio che ha delle conclusioni interessanti: la stragrande maggioranza delle diversità nell’istruzione cilena è dovuta proprio a differenze socioeconomiche, quindi lo Stato dovrebbe usare il proprio potere per favorire l’ingresso degli studenti più a rischio negli ambienti migliori. In tutto ciò, comunque, il problema della “segregazione scolastica” esiste in tutta l’America Latina ma solo due Stati, Cile e Argentina, sono riusciti a lenire il problema, come mostra questo report di EdChoiche.

Nessuno nega che vi siano studenti scontenti del sistema d’istruzione, ma quelli esistono in tutto il mondo. Raramente, infatti, gli studenti analizzano le questioni con razionalità e usando i dati a disposizione, limitandosi spesso a ripetere slogan semplicistici e populisti, chiedendo soluzioni che, economicamente parlando, non hanno senso.

La perfetta scuola per comunisti, spiegata da un liberale

Vi stupirà sapere che un liberale classico come me, quando legge i post del Fronte della Gioventù Comunista, non resta amareggiato, almeno fino ai tre quarti del post.

Infatti il FGC ha varie volte fatto notare problemi palesi dell’istruzione italiana, l’ultimo in ordine temporale quello dei problemi dell’edilizia scolastica. Giusto per capirci: c’è un crollo nelle scuole pubbliche ogni tre giorni e, aprendo un giornale a caso della provincia lombarda, il dato è confermato empiricamente: A distanza di due giorni è crollato l’intonaco in una scuola di Caravaggio, appena costruita, e in un’altra di Treviglio. E sono due paesi confinanti.

Ma ciò che mi lascia sempre l’amaro in bocca è vedere questi giovani disposti a mettersi in gioco per cambiare le cose dare la colpa a chi non c’entra nulla: il liberismo.

La scuola pubblica italiana è quanto più lontano esista dal liberalismo economico. E’ gestita dallo Stato, in un regime di quasi-monopolio: essendo l’alternativa a pagamento, nonostante si sia già pagata la propria parte con la tassazione, la concorrenza è disincentivata. E in certe regioni del Sud, più disagiate economicamente, è un monopolio totale (in Calabria solo l’1% frequenta scuole non statali, infatti è la peggiore istruzione d’Italia), senza cura per alcuna logica di costi, tant’è che spende 3000€ in più ad alunno rispetto ad un largo e generoso sistema a voucher.

Ed è da ciò, dall’essere statale, che derivano questi problemi.

Pensateci: gli studenti, per la scuola statale, sono di fatto un peso. Non apportano alcun contributo tangibile, a parte accrescere le spese di gestione.

Ma, al contempo, queste spese non hanno bisogno di un vero controllo, non c’è un vero e proprio bilancio da rispettare. Risultato? Lo Stato ha trasformato l’istruzione pubblica in un gran poltronificio e, siccome i ragazzi non votano per praticamente tutto il proprio percorso scolastico, ai politici non interessano.

Loro puntano ai voti di chi aspetta il concorsone per entrare in ruolo.
Quando chiedete più soldi, di fatto, state facendo il loro gioco, perché così potranno assumere più persone per scopi clientelari. Non useranno mai quei soldi per voi, perché non votate.

Ma arriviamo al vostro istituto, una piccola periferia dello Stato. Questo sistema clientelare l’ha essenzialmente lasciato con pochi soldi, quindi non può fare cose come: rendere sicuro l’edificio, sistemare il riscaldamento, comperare la carta igienica o effettuare interventi ecologici. Cosa potete fare voi?

Oh, nulla, perché la scuola è pubblica e voi siete solo un numero in un database del MIUR. Non è come qualunque altro business dove, se non soddisfatti, avreste la possibilità di spostare altrove il vostro capitale.

Non siete in possesso di alcun peso contrattuale da poter usare contro una dirigenza negligente, una minaccia simile a “se non sistemi il riscaldamento vado dalla concorrenza” non avrebbe alcun effetto.

Anche perché, nascosti dietro una coltre di vittimismo, o dirigenti potranno fare poco: è Roma che ha deciso di assumere più gente del dovuto, lasciando voi e la vostra scuola in braghe di tela.

Provate a pensare ad una cosa: concorrenza nelle scuole. Scuole di enti locali, scuole sociali (potreste aprirne una anche voi!) e scuole private per profitto che competono per avervi come studenti. Lo Stato, invece di provare a fare il tuttologo fallendo miseramente paga l’istituto di vostra scelta per istruirvi e certifica, con degli esami, i vostri progressi. Questo è il sistema a voucher.

Ah, l’orribile logica del profitto! Ma chi ha un profitto dalla vostra istruzione sarebbe incentivato ad offrirvi un buon servizio, sapendo che potete cambiare istituto e che creare nuovi istituti non richiede un lungo processo. Anzi, potrebbe essere tranquillamente la società civile di un luogo ad aprire una scuola. In sostanza una riforma del genere toglierebbe allo Stato per dare a noi cittadini.

Gli istituti sarebbero incentivati non solo ad offrirvi una buona didattica, cosa che spesso l’attuale scuola statale non fa, ma anche ad offrire un ambiente positivo, sicuro, dignitoso e anche ecologico, dato che pagherebbero le bollette e una scuola coibentata spende meno di una con spifferi in ogni dove. In sostanza, un sistema che risponde a voi. Chi andrebbe mai in una scuola con risultati negativi e che cade a pezzi?

La gran parte di coloro che frequentano la scuola pubblica. Perché essa non lascia libertà di scelta e risponde ai politici. E, come già detto, a loro voi non interessate.

Quindi, ascoltate un liberale: volete un’istruzione dove siate persone e non numeri, dove non dovete aspettare mesi per un prof, dove non rischiate che vi crolli in testa mezza scuola, dove tutti, dal figlio dell’operaio a quello del dirigente di banca abbiano le medesime opportunità? Bene, la voglio anche io.

Ma lo Stato non ce la darà mai. Solo un sistema dove noi, non un burocrate, scegliamo può darcelo. Un cambiamento reale arriverà solo in questo modo.

Qualcuno vorrà credere nella favoletta che l’istruzione in Italia sia schiava del neoliberismo, dei tagli per colpa delle private e che sia necessario più Stato per cambiare le cose. Ebbene, costoro sono liberissimi di coltivare questa opinione; ma abbiano almeno la decenza di non scendere in piazza a chiedere proprio ciò che ha rovinato l’istruzione italiana, almeno per rispetto di chi ha vissuto sulla propria pelle i disagi di essere un numero in una scuola che non si cura degli interessi dei suoi studenti.

Professore, perché dovresti volere il voucher scuola

Il voucher scuola, ossia il modello che prevede scuole in competizione, pagate su base individuale con un buono statale, sembra come fumo negli occhi per i sindacati dei professori, che parlano di più scuola pubblica, più Stato e meno mercato e di no imperativi a qualsiasi ipotesi di regionalizzazione o privatizzazione dell’istruzione.

Eppure, da un punto di vista individuale, i professori avrebbero grandi benefici da un modello del genere. Probabilmente chi insegna, ormai abituato all’attuale sistema, nemmeno arriva a immaginare un’alternativa, e se la immagina crede che sia una totale distruzione della professione di docente.

Ma così non è, e in questo articolo mostreremo come il sistema a voucher sia benefico, oltre che per gli alunni, anche per gli insegnanti.

Più dignità

Sarebbe stato troppo semplice iniziare con discorsi economici individuali. Iniziamo parlando di dignità.

Parliamo un secondo di costi standard, in sostanza quanto costa istruire uno studente nel modo in cui lo si fa nella scuola italiana. In una scuola paritaria tale costo è solitamente di poco inferiore ai 5000€, mentre nelle scuole pubbliche è di poco più di 8000€.

Eppure la scuola pubblica, nonostante abbia di più in termini economici rispetto al privato deve contare non solo sui contributi volontari dei propri alunni ma, spesso, sulla carità di aziende private come i supermercati.

Tutto ciò non è dignitoso. Né per l’istituzione in sé né per chi vi insegna all’interno. La domanda è: come si arriva alle migliori pratiche nel settore in modo da spendere meno e usare meglio?

In fin dei conti la scuola privata può offrire un servizio identico a quello della pubblica spendendo meno. Come mai?

Perché, anche quando non profit, hanno un bilancio e devono ragionare come un’impresa. La scuola pubblica non lo fa e quando si inizia a non seguire la miglior pratica dal punto di vista economico spesso si tende a non farlo anche negli altri campi. Così, negli anni, siamo arrivati al paradosso di una scuola pubblica che deve puntare sui voucher dell’Esselunga per poter accedere a dotazioni tecnologiche.

In un sistema a voucher il costo standard stesso sarebbe il voucher. Le scuole avrebbero più responsabilità economica e dovrebbero iniziare ad adottare le migliori pratiche che andrebbero, alla fine, a favorire chi nella scuola insegna e chi la frequenta.

Basta incubo graduatorie

Le graduatorie scolastiche sono un incubo. Non scherzo, sono così complesse che ricordano una matrioshka: graduatorie nazionali che costituiscono in parte graduatorie d’istituto che servirebbero a coprire le supplenze, che però restano scoperte rendendo necessario l’istituto della messa a disposizione.

Le graduatorie, oltre a non funzionare, portano i docenti ad assurde manovre per salire di posto: la già citata messa a disposizione, che servirebbe per sopperire a qualche supplenza non programmata è divenuta un vero e proprio business, con siti e aziende che si occupano di spedire le richieste dei docenti alle scuole di tutta Italia, ovviamente dietro compenso.

Ancor peggio, alcune scuole paritarie con pochi scrupoli sottopagano i docenti, arrivando addirittura a pagare loro solamente i contributi pensionistici. Tutto ciò per permettere a questi docenti di ottenere posti in questa graduatoria.

Ma il meccanismo della graduatoria è profondamente ingiusto ed obbliga i docenti ad una vera e propria prostituzione professionale per salire in questa mitologica lista.

In un sistema a voucher tutto ciò non accadrebbe. Essendo ogni scuola libera nelle assunzioni non esisterebbe una lista dove si pesca chi insegna ma, come per ogni altro lavoro, ci sarebbero colloqui, prove e libertà di scelta anche per il docente, che potrebbe scegliere dove candidarsi e, poi, scegliere in quale scuola effettivamente insegnare, con una competizione anche su stipendi, orari e autonoma d’insegnamento.

Cattedra? Meglio il tempo indeterminato

La cattedra, alias il ruolo, obiettivo di ogni docente. In un sistema a voucher non sarebbe più un cammino fisso e determinato ma un cammino individuale, che riflette le qualità individuali del docente.

Una scuola, infatti, ha beneficio nell’avere un buon docente, sia in termini di fama diretta – un buon professore può presentare ad eventi e open days – sia indiretta, ossia nel miglioramento dei risultati.

Immaginate di essere a capo di una scuola e di trovarvi davanti un giovane docente molto talentuoso. Vi rendete conto che può fare carriera e che può portare beneficio averlo nella scuola.

Cosa fate? Beh, un contratto a tempo indeterminato! Non ha senso aspettare se c’è il concreto rischio che ti soffino il docente.

Nella scuola pubblica invece la rapidità di carriera dipende poco dalla competenza quanto da meri numeri ottenuti in un concorso. Una cosa che può andar bene nell’esercito, forse, ma non dovrebbe essere lo standard nell’istruzione.

Certificazione migliore

Avrete sentito, qualche volta, in TV proteste in materia di abilitazione. In sostanza lo Stato, per dare il ruolo, chiede delle abilitazioni, che tuttavia cambiano ogni tanto. Quindi, chi ha i vecchi criteri e accede a un nuovo concorso rischia di venirne escluso, da qui le proteste.

Se le scuole fossero libere le certificazioni conterebbero, ma fino a un certo punto. Chiaramente le scuole tenderebbero ad assumere persone con buone credenziali, ma non sarebbero le uniche cose a contare. Quindi un buon docente non dovrebbe preoccuparsi di un pezzo di carta che diviene improvvisamente carta straccia a causa di un aggiornamento di normativa, quanto di restare effettivamente aggiornato per restare appetibile per le scuole.

Nuovi orizzonti: Aprire una scuola

Un docente, oggi, non ha molte opzioni oltre al lavoro dipendente. Può dare ripetizioni, certo, ma c’è chi preferisce insegnare in classe. Ebbene, in un sistema a voucher nulla vieta di aprire una scuola.

Non è chiaramente una cosa a costo zero, ma esistono numerosi casi in cui aprire una scuola può essere un qualcosa di utile alla comunità e di redditizio.

Steve Jobs, ad esempio, sosteneva che in un sistema a voucher sarebbero sorte scuole come sorgono start-up: egli, infatti, dovette pagare centinaia di migliaia di dollari per dare una buona istruzione alla figlia e riteneva fortemente ingiusto che ciò fosse riservato solo ai figli dei ricchi.

Sarebbe possibile, quindi, per dei professori consorziati aprire il proprio istituto sostenendo i propri metodi didattici appresi dall’esperienza, oppure per dei giovani neolaureati, ancora freschi d’apprendimento, provare ad aprire una scuola basata su ciò che ritengono le migliori pratiche nel settore.

In ogni caso, un sistema a voucher porta ad un certo decentramento dell’istruzione. Se detta così può sembrare una cosa negativa, beh, non lo è affatto. Né per gli studenti, che possono beneficiare di un’istruzione mirata – si pensi a quei quartieri che hanno sia zone benestanti sia zone povere e piagate dall’abbandono scolastico – né per i docenti, che hanno più libertà di scegliere dove, e quindi come, insegnare.

Cinque ragioni per abolire la scuola di Stato

“L’istruzione non dovrebbe seguire logiche di mercato, è un bene primario che deve restare sotto il controllo dello Stato”. Quante volte avete sentito questa frase discutendo di privatizzazioni? Beh, io tante, soprattutto perché difendo la libertà di scelta in materia di istruzione da vari anni.

Restando in tema attualità, ho sentito spesso dire che la regionalizzazione della scuola, prevista in alcune iniziali bozze dell’accordo sull’autonomia differenziata tra le Regioni del Nord che hanno fatto richiesta e lo Stato, sarebbe il primo passo verso la privatizzazione definitiva della scuola.

Mi chiedo, dove sarebbe in tutto ciò il problema? Tutti i discorsi pro scuola pubblica e statale sono basati sull’assunto che l’istruzione non sia un qualcosa di mercatizzabile e che quindi debba essere fornita dallo Stato.

Tutto ciò non è, però, semplicemente vero: Il mercato può tranquillamente occuparsi d’istruzione. In realtà già lo fa, solo che chi sceglie di affidarsi ad esso, nella gran parte dei casi, paga due volte: Per l’istruzione statale e per la propria.

Soprattutto, introdurre la concorrenza nell’istruzione non può che avere effetti positivi. In questo articolo vedremo cinque aspetti positivi e, anche, gli aspetti negativi.

Costi minori

Quanto costa istruire uno scolaro, in Italia? Ai genitori, direttamente, poco, ma allo Stato tanto: più di 8’000€ l’anno. Ovviamente finanziati con le imposte generali.

Allora, come mai la scuola privata normale è in grado di fare la medesima cosa con, al massimo, 5’000€? Magari, nel mentre, ottenendo pure un profitto.

Se decidessimo di introdurre un voucher scuola da 5’000€, che è una cifra alta e in linea di massima riducibile, risparmieremmo 23 miliardi ogni anno. Questo è, per capirci, quanto serve ad evitare l’aumento IVA nel 2020.

Starebbe poi alla classe politica decidere come usare quei 23 miliardi: se reinvestirli nella scuola, ridurci il debito o usarli per ridurre le tasse, ma sta di fatto che sprecare 23 miliardi ogni anno non è socialismo, non è attenzione alla giustizia sociale: è semplicemente stupido.

Più libertà di scelta e qualità

La concorrenza, solitamente, crea qualità. Nel caso della scuola la concorrenza può riguardare il metodo didattico, la comunicazione, le risorse, gli orari, il sostegno personale e tanto altro. In un sistema del genere si deve offrire un’istruzione a misura di individuo per ottenere i soldi del voucher.

Esiste quindi una concorrenza che porta l’individuo – lo studente – a beneficiare di una libertà di scelta maggiore: nuovi metodi didattici, orari, disposizione dell’orario didattico, focus su alcune o altre materie, immersione linguistica, scuole comunitarie e tanto altro, cose che persino non possiamo immaginare, visto che in un sistema del genere potenzialmente chiunque può aprire una scuola e provare ad attirare alunni con metodi che ritiene migliori e sarà il mercato, non un burocrate a Roma, a premiarlo.

Un pubblico migliore

Di per sè avere scuole appartenenti ad enti pubblici non è affatto un male, a patto che siano istituite da enti vicini ai cittadini come i comuni o simili. Solo in tal modo, infatti, il cittadino potrà rendersi conto di ciò che sta accadendo e decidere se, ad esempio, vuole assumere più personale o aumentare i sussidi oltre al voucher scuola. Soprattutto, la concorrenza tra comuni renderà la scuola migliore, visto che il pagamento, essendo ad alunno, permette l’accesso anche ad allievi esterni al comune che per una qualche ragione preferiscano istruirsi in tale comune.

Studi mostrano come la scuola pubblica, quando messa in competizione col privato, migliori in qualità. Inoltre, cosa non da ignorare, una scuola ben gestita e di qualità può divenire una fonte di finanziamento per il comune, visto che si può stabilire come l’ente locale abbia il pieno diritto di conservare il voucher anche se spende meno di quanto esso sia.

Più speranza per le minoranze linguistiche

Da lombardofono non posso non parlare di questo aspetto: oggi in Italia quelle poche lingue regionali che hanno la benedizione di Roma non prosperano quando lo Stato interviene ma quando esso se ne sta ben lontano.

Immaginate questa situazione: un sindaco, sostenitore della diversità linguistica, decide di introdurre l’immersione linguistica (se non sapete cosa sia potete leggere questo mio articolo) nella scuola del comune. Inizialmente c’è scetticismo – tanta gente ha pregiudizi sulle lingue regionali per ragioni culturali – ma qualcuno si iscrive ai corsi immersivi.

L’immersione ha effetti positivi: gli studenti immersi hanno una maggiore competenza nella lingua straniera e i genitori dicono che, di media, si mostrano più curiosi. Le iscrizioni aumentano e anche altri comuni creano le loro sezioni immersive.

In pochi anni esistono varie scuole immersive in quella regione, il modello viene anche copiato da altre regioni e diventa più interessante anche per i privati e le istituzioni no profit, ma nel mentre, non essendo intervenuta una coercizione di Stato, continuano ad esistere scuole esclusivamente in lingua italiana per chi ne ha bisogno o le preferisce. Nel caso ve lo stesse chiedendo, un bilinguismo di massa italo-inglese sarebbe molto più arduo. Ma, in tale sistema, potrebbe esistere comunque, essendovi libertà di scelta.

Favorisce la mobilità sociale

La libertà di scelta sulla scuola favorisce la mobilità sociale per un semplice fatto: la scuola italiana, dovendo soddisfare tutti, è per forza di cose mediocre. C’è un occhio di riguardo per chi ha bisogni speciali per disturbi didattici ma nessuno per chi ha necessità particolari per altre ragioni come particolari talenti in altri campi sportivi o scientifici, ben noto è il caso di una geniale ragazza ai massimi livelli nella robotica osteggiata dalla scuola pubblica per le proprie assenze.

Capito? La “scuola di tutti”, da buon prodotto del socialismo, se sei troppo bravo prova a metterti i bastoni tra le ruote. In fin dei conti è ben noto come si impari di più in un austero liceo della città fondata dai lombardi come avamposto contro il Marchese del Monferrato che al MIT.

In un sistema di libertà di scelta ciò non accadrebbe e non accadrebbe non solo per i geni o per chi può permettersi un’istruzione privata ma anche per il figlio dell’operaio che, per una ragione o per l’altra, non si trova con la scuola pubblica.

Un ragazzo che magari oggi, solo per l’ottusità del sistema di scuola statale, andrebbe in qualche istituto regionale a imparare un lavoro pagato in modo mediocre in un sistema di libertà di scelta potrebbe scegliere, senza costi aggiuntivi, un istituto adatto a lui e cercare un’istruzione migliore.

Ma, come dice il sempre brillante Giovanni Adamo II, nel sistema di scuola pubblica il benessere dei docenti è molto più importante di quello degli alunni. Ribadisco, impedire a un giovane di avere una buona istruzione adatta a lui solo perché ha genitori non facoltosi è socialismo, è attenzione all’uguaglianza e alla giustizia sociale? No, è solo crudele.

I difetti?

Ci sono, ovviamente, dei difetti.

Ad esempio i politici non avrebbero più la possibilità di comperare voti di centinaia di migliaia di persone solo promettendo loro concorsi d’assunzione, visto che ad assumere sarebbero i privati o, al massimo, i comuni.

Inoltre sarebbe più difficile fare populismo scolastico, proponendo ad esempio nuove materie o corsi obbligatori con scopi etici o politici più che didattici.

I sindacati dei docenti perderebbero gran parte del proprio potere politico e dovrebbero ridimensionarsi per diventare assistenti dei docenti nella compilazione di documenti, nel rapporto con le istituzioni e col datore di lavoro.

I docenti migliori sarebbero premiati e incentivati a continuare nel loro lavoro visto che docenti migliori portano alunni, e quindi soldi, alle scuole mentre quelli peggiori verrebbero via via esclusi.

Soprattutto, molte più persone potrebbero accedere ad una preparazione scolastica adatta alle proprie esigenze.

Mi dite che non sono difetti ma, anzi, pregi? Sono perfettamente d’accordo con voi. Eppure per gli statalisti a oltranza sono difetti ed ha perfettamente senso buttare 23 miliardi l’anno per un’istruzione che funziona, parafrasando un motto socialista, “per i pochi, non per i molti”.