La battaglia non è destra contro sinistra. È statalismo contro individualismo

(Traduzione dell’articolo The Battle Isn’t Right vs. Left. It’s Statism vs. Individualism di Daniel J. Mitchell su FEE.org)

Ho già scritto di come comunismo e nazismo abbiano molto in comune. Entrambi subordinano l’individuo allo stato, entrambi conferiscono allo stato la facoltà di intervenire nell’economia, ed entrambi hanno massacrato milioni di persone.

La battaglia non è destra contro sinistra. È statalismo contro individualismo .

Diamo un’occhiata ad alcuni scritti su questo tema.

Iniziamo con un articolo di Bradley Birzer, pubblicato da Intellectual Takeout. Teme che il totalitarismo a sinistra stia tornando in auge.

Nel 1936 avevi tre scelte: nazionalsocialismo, socialismo internazionale, o dignità. Nel 2018 ci troviamo in circostanze simili. Perché sta accadendo di nuovo? In primo luogo, noi studiosi non siamo riusciti a convincere il pubblico di quanto dannose fossero e restino tutte le forme di comunismo. Quasi tutti gli storici sottovalutano il fatto più importante del Novecento: che i governi hanno assassinato più di 200 milioni di innocenti, il più grande massacro nella storia del mondo. Il terrore regnava tanto nei campi di concentramento quanto nei gulag.

In secondo luogo, un’intera generazione è cresciuta senza conoscere cose come i gulag sovietici o persino il muro di Berlino. La maggior parte dei giovani difensori del comunismo accetta la più antica linea di propaganda della sinistra: che il vero comunismo non è mai stato applicato.

Il fascismo e il comunismo sono due facce della stessa medaglia.

Che i nazionalsocialisti abbracciassero il socialismo è comprovato. Nazionalizzarono l’industria, molto vitale in Germania, anche se con l’intimidazione piuttosto che con la legge. Nei suoi diari personali, Joseph Goebbels scrisse alla fine del 1925: «Sarebbe meglio per noi porre fine alla nostra esistenza sotto il bolscevismo piuttosto che sopportare la schiavitù sotto il capitalismo». Solo pochi mesi dopo, aggiunse «penso che sia terribile che noi e i comunisti ci stiamo picchiando a vicenda».

Qualunque siano le ragioni per la rivalità tra i due partiti, affermava Goebbels, le due forze dovrebbero allearsi e vincere. I fascisti italiani avevano legami ancora più stretti con i marxisti, con Mussolini che aveva iniziato la sua carriera come pubblicista e scrittore marxista. Alcuni fascisti italiani avevano un passato nel Comintern.

Richard Mason fa osservazioni simili in un pezzo che ha scritto per la Foundation for Economic Education.

È superfluo scrivere un articolo per parlare dei milioni di morti che si sono verificati per mano dei regimi comunisti; come l’Olocausto, i gulag dell’Unione Sovietica e i campi di sterminio della Cambogia sono ampiamente noti. Eppure i giornalisti nel Regno Unito sostengono apertamente e con orgoglio il comunismo. Vengono erette statue a Karl Marx. Ai fascisti non è permesso uscirsene con «quello non era vero fascismo». Lo stesso non vale per il comunismo. Poiché Karl Marx non ha mai attuato il comunismo in prima persona, i leader degli Stati comunisti hanno sempre quella carta per cavarsi fuori dai guai.

Tutte le carestie, le tragedie o le crisi che un regime comunista si trova ad affrontare vengono sempre imputate a un’errata applicazione dell’infallibile tabella di marcia di Marx. Puoi anche separare l’ideologia comunista dalla sua applicazione, ma fino a che punto puoi ignorare gli orribili precedenti che il comunismo ha creato? La storia del comunismo è sporca di sangue quanto quella del nazismo; anzi, molto di più. È tempo di trattarla di conseguenza.

Sheldon Richman va più a fondo:

Il fascismo è un socialismo con una facciata capitalista. La parola deriva da fasces, il simbolo romano del collettivismo e del potere: un fascio di verghe legato con un’ascia sporgente. Laddove il socialismo cercava il controllo totalitario dei processi economici di una società attraverso la gestione diretta dei mezzi di produzione da parte dello Stato, il fascismo cercava quel controllo indirettamente, attraverso l’autorità su proprietari solo formalmente privati. Laddove il socialismo ha abolito del tutto i rapporti di mercato, il fascismo ha lasciato l’apparenza dei rapporti di mercato, pianificando tutte le attività economiche. Laddove il socialismo aveva abolito il denaro e i prezzi, il fascismo controllava il sistema monetario e stabiliva politicamente tutti i prezzi e i salari.

Spiega l’enorme differenza tra fascismo e capitalismo:

L’iniziativa economica privata fu abolita. I ministeri, e non più i consumatori, decidevano cosa produrre e a quali condizioni. Il fascismo va distinto dall’interventismo, o economia mista. L’interventismo cerca di guidare il processo di mercato, non di eliminarlo, come fece il fascismo. Nel fascismo, lo Stato, attraverso le corporazioni, controllava tutti gli aspetti della produzione, del commercio, della finanza e dell’agricoltura.

I consigli di pianificazione stabilivano cosa produrre, le quantità, i prezzi, i salari, le condizioni di lavoro e le dimensioni delle imprese. Occorreva una licenza per tutto; nessuna attività economica poteva essere intrapresa senza il permesso del governo. I redditi “in eccesso” dovevano essere consegnati allo Stato sotto forma di tasse o “prestiti”. Poiché la politica del governo mirava all’autarchia, o all’autosufficienza nazionale, il protezionismo era necessario: le importazioni erano vietate o strettamente controllate. 

Non si tratta di teorie nuove. Ecco cosa scrisse Ludwig von Mises su questo argomento negli anni ’40 del secolo scorso.

I marxisti sono ricorsi al polilogismo perché non potevano confutare con metodi logici le teorie sviluppate dall’economia “borghese”, o le conclusioni tratte da queste teorie che dimostravano l’impraticabilità del socialismo. Non potendo dimostrare razionalmente la fondatezza delle proprie idee o la non fondatezza delle idee dei loro avversari, hanno messo in discussione la logica. I nazionalisti tedeschi hanno dovuto affrontare esattamente lo stesso problema dei marxisti.

Anche loro non potevano né dimostrare la correttezza delle proprie affermazioni né confutare le teorie dell’economia e della prasseologia. Così si rifugiarono sotto il tetto del polilogismo, preparato per loro dai marxisti. Naturalmente, hanno la loro versione di polilogismo. Né il polilogismo marxista né quello nazista andarono oltre la dichiarazione che la struttura logica della mente è diversa nelle varie classi o razze. Il polilogismo non è una filosofia o una teoria epistemologica. È l’atteggiamento di fanatici dalla mentalità ristretta.

E questi fanatici sono mossi dall’odio. I nazisti odiano le persone di razza e religione diversa, mentre i marxisti odiano le persone di reddito e classe diversa.

Il Daily Caller riporta la storia di una studentessa che si è arrabbiata molto dopo aver appreso che il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori era… sì, socialista.

La social justice warrior e laureata in storia Shelby Shoup è stata arrestata per aver lanciato latte al cioccolato a un compagno di studi e candidato repubblicano gridando «i nazisti non erano socialisti». È stata accusata di aggressione.

Dato che stiamo facendo umorismo, colgo l’occasione per condividere questo pezzo satirico dei mitici autori di Babylon Bee.

Giovedì, in una conferenza stampa, il leader del partito nazista americano Emmett Scoggins ha dichiarato davanti ai giornalisti che il suo partito non sta cercando di instaurare un nazismo completo, ma un sistema molto migliore chiamato “nazismo democratico”. Scoggins è stato interrogato sull’uso della parola “democratico” e su come il nazismo democratico fosse diverso dal semplice nazismo. «La differenza principale è che aggiungiamo la parola ‘democratico’ perché alla gente piace molto di più rispetto al semplice ‘nazismo’», ha risposto Scoggins. La conferenza si è conclusa con un lungo discorso di Scoggins su come il “vero” nazismo non sia mai stato applicato.

Concludo il mio articolo usando un triangolo per catalogare le varie ideologie.

Qualche osservazione in proposito:

  • Potremmo aggiungere una linea proprio sopra l’autoritarismo, il collettivismo e il socialismo, e dire che le ideologie al di sopra della linea sono democratiche, quelle al di sotto sono dittatoriali.
  • Data la differenza tra la definizione tecnica di socialismo (proprietà del governo, pianificazione centralizzata, controllo dei prezzi) e la definizione di uso comune (molta ridistribuzione), forse dovrei usare “stato sociale” piuttosto che “socialismo democratico”. Ma il risultato è comunque pessimo, comunque lo si chiami.

Mi piace pensare che non ci siano persone civili disposte a tollerare l’ideologia nazista. Ma temo che non si possa dire lo stesso del comunismo. Il capo della Commissione europea ha recentemente tenuto un discorso in Germania per il 200° compleanno di Marx. Aziende come Mercedes-Benz glorificano gli assassini razzisti nella loro pubblicità (parte del culto della morte del Che ), e persino le orchestre usano simboli comunisti.

Quante altre vittime dovranno esserci prima che le persone si rendano conto che il comunismo, come il nazismo, è il male assoluto?

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Lettura consigliata: Il libero mercato e i suoi nemici, L. von Mises

No, Fidel Castro non ha migliorato sanità e istruzione a Cuba

In un’intervista di 60 minuti sulla CBS, il senatore Bernie Sanders ha recentemente elogiato i successi di Cuba comunista.

Un’intervistatrice gli ha chiesto dei suoi commenti del 1985 in cui affermava che i cubani sostenevano il dittatore comunista Fidel Castro perché «aveva educato i loro figli, aveva dato loro assistenza sanitaria, aveva completamente trasformato la società». In risposta, Sanders ha difeso quei commenti affermando che «quando Fidel Castro è entrato in carica, sai cosa ha fatto? Ha avviato un massiccio programma di alfabetizzazione».

Ma Castro non ha dato l’alfabetizzazione ai cubani. Cuba aveva uno dei più alti tassi di alfabetizzazione in America Latina già nel 1950, quasi un decennio prima che Castro assumesse il potere, secondo i dati delle Nazioni Unite (statistiche dell’UNESCO). Nel 2016, il fact-checker del Washington Post Glenn Kessler ha smentito la affermazione di un politico secondo cui il regno di Castro avesse significativamente migliorato l’assistenza sanitaria e l’istruzione a Cuba.

Nel frattempo, i paesi latino-americani che erano largamente analfabeti nel 1950, come il Perù, il Brasile, El Salvador e la Repubblica Dominicana, sono largamente alfabetizzati oggi, chiudendo gran parte del divario con Cuba. El Salvador aveva un tasso di alfabetizzazione inferiore al 40 percento nel 1950, ma oggi ha un tasso del 88 percento. Il Brasile e il Perù avevano un tasso di alfabetizzazione inferiore al 50 percento nel 1950, ma oggi il Perù ha un tasso del 94,5 percento e il Brasile un tasso del 92,6 percento. Il tasso della Repubblica Dominicana è passato da poco più del 40 percento al 91,8 percento. Mentre Cuba ha fatto significativi progressi nella riduzione dell’analfabetismo nei primi anni del potere di Castro, il suo sistema educativo è rimasto stagnante da allora, anche se gran parte dell’America Latina è migliorata.

Contrariamente alla affermazione di Sanders secondo cui Castro «ha dato» assistenza sanitaria ai cubani, questi già avevano accesso all’assistenza sanitaria prima che lui prendesse il potere. I medici fornivano spesso assistenza sanitaria gratuita a chi non poteva permettersela. Come ha osservato Glenn Kessler del Washington Post:

Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria e l’istruzione, Cuba era già tra i primi della lista prima della rivoluzione. Il basso tasso di mortalità infantile di Cuba è spesso elogiato, ma già nel 1953-1958 era al primo posto nella regione, secondo i dati raccolti da Carmelo Mesa-Lago, esperto di Cuba e professore emerito all’Università di Pittsburgh.

Cuba guidava praticamente tutti i paesi dell’America Latina per quanto riguarda l’aspettativa di vita nel 1959, prima che i comunisti di Castro prendessero il potere. Ma nel 2012, subito dopo che Castro si è dimesso come leader del Partito Comunista, i cileni e i costaricani vivevano leggermente più a lungo dei cubani. Nel 1960, gli cileni avevano una aspettativa di vita di sette anni inferiore a quella dei cubani, e i costaricani vivevano in media più di due anni meno dei cubani. Nel 1960, i messicani vivevano sette anni meno dei cubani; nel 2012, il divario si era ridotto a soli due anni.

(Oggi, l’aspettativa di vita è praticamente la stessa a Cuba come nel più prospero Cile e Costa Rica – se si accettano le statistiche ufficiali ottimistiche diffuse dal governo comunista di Cuba, cosa che molti non fanno. A Cuba è stato accusata credibilmente di nascondere le morti infantili e di esagerare le aspettative di vita dei suoi cittadini. Se queste accuse sono vere, i cubani muoiono prima dei cileni o dei costaricani).

Cuba ha fatto meno progressi in termini di assistenza sanitaria e aspettativa di vita rispetto alla maggior parte dell’America Latina negli ultimi anni, a causa del suo decrepito sistema sanitario. «Gli ospedali della capitale dell’isola stanno letteralmente crollando». A volte, i pazienti «devono portare tutto con loro, perché l’ospedale non fornisce nulla. Cuscini, lenzuola, medicina: tutto».

Come ha osservato Glenn Kessler del Washington Post:

I giornalisti hanno anche documentato che gli ospedali cubani sono poco attrezzati. Una serie del 2004 sull’assistenza sanitaria a Cuba pubblicata dal National Post del Canada ha affermato che le farmacie hanno pochissimo in scorta e gli antibiotici sono disponibili solo sul mercato nero. «Uno dei miti che i canadesi hanno su Cuba è che le sue persone possano essere povere e vivere sotto un governo repressivo, ma hanno accesso a strutture sanitarie e scolastiche di qualità», ha affermato il Post. «È un ritratto incoraggiato dal governo, ma la realtà è radicalmente diversa».

Sotto il comunismo, Cuba è anche indietro su misure generali di sviluppo umano. Come ha osservato l’economista progressista Brad DeLong:

Cuba nel 1957 era un paese sviluppato. Cuba nel 1957 aveva una mortalità infantile inferiore a quella della Francia, del Belgio, della Germania Ovest, di Israele, del Giappone, dell’Austria, dell’Italia, della Spagna e del Portogallo. Cuba nel 1957 aveva medici e infermieri: come molti medici e infermieri per abitante come i Paesi Bassi, e di più di Gran Bretagna o Finlandia. Cuba nel 1957 aveva come molti veicoli per abitante come l’Uruguay, l’Italia o il Portogallo. Cuba nel 1957 aveva 45 TV per 1000 abitanti, il quinto più alto al mondo… Oggi? Oggi le Nazioni Unite collocano l’IDU di Cuba [Indicatori di Sviluppo Umano] nella stessa categoria del Messico. (E Carmelo Mesa-Lago pensa che i calcoli delle Nazioni Unite siano gravemente difettosi: che i pari IDU di Cuba oggi sono posti come la Cina, la Tunisia, l’Iran e il Sud Africa.) Quindi non capisco i sinistri che parlano dei successi della Rivoluzione Cubana: «per avere una migliore assistenza sanitaria, alloggi, istruzione».

Come nota Michael Giere, Cuba era prospera prima che i comunisti di Castro prendessero il potere:

Un rapporto dell’ONU (UNESCO) del 1957 ha notato che l’economia cubana includeva una proporzione maggiore di lavoratori sindacalizzati rispetto agli Stati Uniti. Il rapporto afferma anche che i salari medi per una giornata lavorativa erano più alti a Cuba rispetto a «Belgio, Danimarca, Francia e Germania». La PBS ha spiegato in un riassunto del 2004 che

«L’Avana (prima di Castro) era una città brillante e dinamica. Cuba era al quinto posto nell’emisfero in termini di reddito pro capite, al terzo posto per l’aspettativa di vita, al secondo posto per la proprietà pro capite di automobili e telefoni, al primo posto per il numero di televisori per abitante. Il tasso di alfabetizzazione, il 76%, era il quarto più alto in America Latina. Cuba era al undicesimo posto nel mondo per il numero di medici per abitante. Molte cliniche e ospedali privati offrivano servizi ai poveri. La distribuzione del reddito a Cuba era confrontabile con quella di altre società latinoamericane. Una classe media prospera prometteva prosperità e mobilità sociale».

Ma dopo che Castro ha preso il potere, la prosperità è finita:

La distruzione di Castro di Cuba non può essere esagerata. Ha saccheggiato, assassinato e distrutto la nazione dalle fondamenta. Un solo fatto spiega tutto; una volta i cubani godevano di uno dei più alti consumi di proteine in America, eppure nel 1962 Castro dovette introdurre le tessere di razionamento (carne, 60 grammi al giorno), poiché il consumo di cibo per persona è crollato a livelli mai visti dall’800.

La fame si diffuse a tal punto che nel 1992 un medico svedese in visita a Cuba, Hans Rosling, dovette avvertire il dittatore della diffusa carenza di proteine tra i cubani. Circa 40.000 cubani avevano accusato «offuscamenti della vista e forte intorpidimento delle gambe». Rosling indagò su invito dell’ambasciata cubana in Svezia e con l’approvazione dello stesso Castro. Rosling si recò nel cuore dell’epidemia, nella provincia occidentale di Pinar del Río. Si scoprì che le persone colpite dal disturbo soffrivano tutte di carenza di proteine. Il governo stava razionando la carne e gli adulti avevano sacrificato la loro parte per nutrire bambini, donne incinte e anziani. Il dottor Rosling ne parlò a Fidel Castro.

Durante questo periodo di fame diffusa, Bernie Sanders diffondeva il mito che la fame a Cuba fosse inesistente. Nel 1989, pubblicò un articolo di giornale in cui affermava che la Cuba di Fidel Castro «non soffre fame, istruisce tutti i suoi figli e fornisce assistenza sanitaria gratuita e di alta qualità».

(Traduzione di Claudio Colonna dell’articolo “No, Fidel Castro Didn’t Improve Health Care or Education in Cuba” di Hans Bader pubblicato su FEE.org)

Lettura consigliata: Smascherare il Marxismo, L. von Mises

 

I nazisti erano socialisti? La risposta nelle parole di Joseph Goebbels

Invecchiando ci si rende conto che alcune cose non cambieranno mai.

Gli appassionati di sport discuteranno sempre  del fuorigioco e di chi sia il miglior pugile di tutti i tempi (Muhammad Ali). Gli appassionati di cinema non saranno mai d’accordo su quale film del Padrino sia il migliore (il primo). E le trombe annunceranno la seconda venuta di Cristo prima che liberali e socialisti si saranno accordati sulla questione: i nazisti erano socialisti?

Quest’ultima questione mi ha sempre lasciato perplesso, lo confesso, e non solo perché la risposta è proprio nel nome: “nazionalsocialismo”. Se si leggono i discorsi e le conversazioni private dei gerarchi nazisti risulta evidente che amavano il socialismo e disprezzavano l’individualismo e il capitalismo.

Nel suo nuovo libro “Hitler’s National Socialism“, lo storico Rainer Zitelmann offre una visione a tutto tondo sulle idee che hanno plasmato uomini come Hitler e Goebbels. Sebbene sia chiaro che essi considerassero il loro socialismo come distinto dal marxismo (e su questo punto ci soffermeremo più avanti), non c’è dubbio che vedessero nel socialismo l’ideologia del futuro e disprezzassero il capitalismo e la borghesia.

Consideriamo, ad esempio, le seguenti citazioni di Joseph Goebbels, il Ministro della Propaganda del partito nazionalsocialista:

  1. “Il socialismo è l’ideologia del futuro.” – Lettera a Ernst Graf zu Reventlow, riportata in “Goebbels: A Biography
  2. “La borghesia deve cedere alla classe operaia […] Tutto ciò che sta per cadere deve essere spinto a terra. Siamo tutti soldati della rivoluzione. Vogliamo la vittoria dei lavoratori sullo sporco profitto. Questo è il socialismo.” – Citato in “Doctor Goebbels: His Life and Death
  3. “Siamo socialisti perché vediamo nel socialismo, cioè nella dipendenza di tutti i compagni gli uni dagli altri, l’unica possibilità per la conservazione della nostra genetica razziale e quindi per la riconquista della nostra libertà politica e per il ringiovanimento dello Stato tedesco”. – Citato in “Perché siamo socialisti?“, Der Angriff, 16 Luglio 1928.
  4. “Non siamo un’istituzione caritatevole, ma un partito di socialisti rivoluzionari”. Editoriale del Der Angriff, 27 maggio 1929
  5. “Il capitalismo assume forme insopportabili nel momento in cui gli interessi personali che serve sono contrari all’interesse della collettività. Esso si fonda sulle cose e non sulle persone. Il denaro è l’asse attorno al quale ruota tutto. Per il socialismo è il contrario. La visione del mondo socialista inizia con la gente e poi passa alle cose. Le cose sono asservite al popolo; il socialista mette il popolo al di sopra di tutto, e le cose sono solo mezzi per un fine”. – “Capitalismo“, Der Angriff, 15 luglio 1929
  6. “Nel 1918 il socialista tedesco aveva un solo compito: tenere le armi e difendere il socialismo tedesco” – “Capitalismo“, Der Angriff, 15 luglio 1929
  7. “Essere socialista significa lasciare che l’io serva il prossimo, sacrificare l’io per il tutto. Nel suo senso più profondo, il socialismo è altruismo.” – Note del diario, 1926
  8. “Le linee del socialismo tedesco sono nitide e il nostro cammino è chiaro. Siamo contro la borghesia politica e per un autentico nazionalismo! Siamo contro il marxismo, ma per il vero socialismo!” – “Those Damn Nazis: Why Are We Socialists?“, 1932
  9. “Siamo socialisti perché vediamo la questione sociale come una questione di necessità e di giustizia per l’esistenza stessa di uno Stato per il nostro popolo, non come una questione di pietà a buon mercato o di insulso sentimentalismo. Il lavoratore ha diritto a un tenore di vita che corrisponda a ciò che produce”. – “Those Damn Nazis: Why Are We Socialists?“, 1932
  10. “L’Inghilterra è una democrazia capitalista. La Germania è uno Stato popolar-socialista” – “Englands Schuld” (il discorso non è datato, ma probabilmente è stato pronunciato nel 1939).
  11. “Poiché siamo socialisti abbiamo sentito le più profonde benedizioni della nazione, e poiché siamo nazionalisti vogliamo promuovere la giustizia socialista in una nuova Germania” – “Die verfluchten Hakenkreuzler. Etwas zum Nachdenken“, 1932
  12. “Il peccato del pensiero liberale è stato quello di trascurare i punti di forza del socialismo nella costruzione della nazione, permettendo così alle sue energie di andare in direzioni antinazionali”. – “Die verfluchten Hakenkreuzler. Etwas zum Nachdenken“, 1932
  13. “Essere socialisti significa sottomettere l’io al tu; il socialismo è sacrificare l’individuo al tutto. Il socialismo è nel suo senso più profondo servizio”. – Citato in “Fuga dalla libertà“, Erich Fromm
  14. “Siamo un partito operaio perché vediamo nella prossima battaglia tra finanza e lavoro l’inizio e la fine della struttura del ventesimo secolo. Siamo dalla parte del lavoro e contro la finanza […] Il valore del lavoro sotto il socialismo sarà determinato dal suo valore per lo Stato, per l’intera comunità” – “Those Damn Nazis: Why Are We Socialists?“, 1932

Queste citazioni rappresentano solo un’infarinatura della concezione di Goebbels del socialismo. Si può notare che per molti versi i nazisti parlavano in modo molto simile a Karl Marx.

Frasi come “siamo un partito operaio“, “l’operaio ha diritto a un tenore di vita corrispondente a ciò che produce“, “il denaro è l’opposto del socialismo” e “siamo contro la borghesia politica” potrebbero essere facilmente estrapolate dai discorsi e dagli scritti dello stesso Marx, ma è chiaro che Goebbels disprezzava Marx e vedeva il suo modello di “nazionalsocialismo” come distinto dal marxismo.

Cosa distingue dunque il nazionalsocialismo dal marxismo? Le differenze principali sono due.

La prima è che Hitler e Goebbels fusero il loro socialismo con il nazionalismo e il razzismo tedeschi, rifiutando lo spirito internazionale del marxismo – lavoratori di tutto il mondo unitevi! – per uno più pratico che enfatizzava il movimento popolare tedesco.

Questa fu un’abile mossa da parte dei nazisti. Come ha sottolineato il premio Nobel per l’economia F. A. Hayek, essa rese il socialismo più appetibile a molti tedeschi che non erano in grado di vedere il nazismo per quello che era veramente:

“La tragedia suprema è che ancora non ci si rende conto che in Germania sono state in gran parte le persone di buona volontà che, con le loro politiche socialiste, hanno preparato la strada alle forze che rappresentano tutto ciò che detestano”, scrisse Hayek in “La via della schiavitù” (1944). “Pochi riconoscono che l’ascesa del fascismo […] non fu una reazione contro le tendenze socialiste del periodo precedente, ma un risultato necessario di quelle tendenze”.

La seconda differenza è che i nazionalsocialisti erano meno propensi a controllare direttamente i mezzi di produzione.

Nel suo libro del 1940 “German Economy“, Gustav Stolper, economista e giornalista austro-tedesco, spiegò che sebbene il nazionalsocialismo fosse anti-capitalista fin dall’inizio, era anche in diretta competizione con il marxismo dopo la Prima Guerra Mondiale. Per questo motivo, i nazionalsocialisti decisero di “corteggiare le masse” da tre diverse angolazioni.

“La prima era il principio morale, la seconda il sistema finanziario, la terza la questione della proprietà. Il principio morale era la comunità prima dell’interesse personale. La promessa finanziaria era rompere la schiavitù dagli interessi. Il programma industriale era la nazionalizzazione di tutte le grandi imprese. Accettando il principio ‘la comunità prima dell’interesse personale’, il nazionalsocialismo enfatizzava semplicemente il suo antagonismo allo spirito di una società competitiva, rappresentato presumibilmente dal capitalismo democratico […]. Ma per i nazisti questo principio significava anche la completa subordinazione dell’individuo alle esigenze dello Stato. E in questo senso il nazionalsocialismo è indiscutibilmente un sistema socialista”.

Stolper, fuggito dalla Germania agli Stati Uniti dopo l’ascesa al potere di Hitler, notò che i nazisti non avviarono mai una nazionalizzazione diffusa dell’industria, ma spiegò che questo non comportò alcuna differenza con il socialismo.

“La nazionalizzazione dell’intero apparato produttivo tedesco, sia agricolo che industriale, fu ottenuta con metodi diversi dall’espropriazione, in misura molto maggiore e su una scala incommensurabilmente più ampia di quanto gli autori del programma del partito nel 1920 probabilmente avessero mai immaginato. Infatti, non solo i grandi trust furono gradualmente ma rapidamente sottoposti al controllo statale, ma anche ogni tipo di attività economica, lasciando solo il titolo di proprietà privata”.

Nel suo libro del 1939 “The Vampire Economy: Doing Business Under Fascism“, Guenter Reimann giunse a una conclusione simile.

Lo storico dell’economia Richard Ebeling osserva che:

“Sebbene la maggior parte dei mezzi di produzione non fosse stata nazionalizzata, era stata comunque politicizzata e collettivizzata sotto un’intricata rete di obiettivi di pianificazione nazista, di regolamenti sui prezzi e sui salari, di regole e quote di produzione e di severi limiti e restrizioni all’azione e alle decisioni di coloro che erano rimasti, nominalmente, i proprietari delle imprese private in tutto il Paese. Ogni imprenditore tedesco sapeva che la sua condotta era prestabilita dallo Stato e collocata all’interno dei più ampi obiettivi di pianificazione del regime nazionalsocialista”.

La documentazione storica è chiara: il fascismo europeo era semplicemente una sfumatura diversa del socialismo, il che aiuta a spiegare, come ha notato Hayek, perché così tanti fascisti erano “ex” socialisti, “da Mussolini in avanti“.

Come Marx, i nazisti detestavano il capitalismo e consideravano la volontà e i diritti individuali subordinati agli interessi dello Stato. Non dovrebbe sorprendere che queste diverse sfumature di socialismo abbiano ottenuto risultati simili: povertà e miseria.

I socialisti continueranno a sostenere che il nazismo non era il “vero” socialismo, ma le parole del famigerato ministro della propaganda nazista suggeriscono il contrario.

(Traduzione dell’articolo Joseph Goebbels’ Own Words Show He Loved Socialism and Saw It as ‘the Future’, J. Miltimore, FEE.org)

Seretse Khama: il più grande statista africano del XX secolo

Chi è stato il più grande statista africano del XX secolo? Per i progressisti potrebbe essere stato Nelson Mandela, per i comunisti Robert Mugabe, per altri (sperabilmente pochi) Muammar Gaddafi o Idi Amin. Per un liberale, invece, non ci sono dubbi: questo posto d’onore spetta a Seretse Khama, presidente del Botswana dal 1966 al 1980.

Il background personale di Khama è ben diverso da quello dei leader politici africani suoi contemporanei: nato in una delle più influenti famiglie reali dell’allora Protettorato britannico del Bechuanaland, Seretse Khama raggiunse la fama mondiale rinunciando al suo trono per sposare una cittadina inglese, Ruth Williams, suscitando così lo sdegno dei segregazionisti bianchi nel confinante Sudafrica e dei nazionalisti africani nel suo Paese natale.

Tuttavia, è stata la sua carriera politica, non la vita privata, a rendere Seretse Khama una figura memorabile. Infatti, dopo l’abdicazione ed il conseguente esilio, egli tornò nel suo Paese d’origine e fondò il Partito Democratico del Botswana. Nel 1966, quando il Botswana conquistò l’indipendenza, Khama venne eletto Presidente della neonata Repubblica.

Fin qui, niente di speciale: il Botswana nel 1966 era una nazione africana come tante altre, povera ma ricca di risorse, soprattutto diamanti, rame ed uranio. Altri Stati africani sono rimasti così ancora oggi, con una casta di burocrati e militari al governo che si arricchisce con gli aiuti internazionali e lo sfruttamento delle risorse naturali, mentre i cittadini muoiono di fame. Ma Seretse Khama non era un leader come tanti altri.

A differenza della quasi totalità dei suoi colleghi contemporanei, Khama non aveva alcuna simpatia per il socialismo e per il nazionalismo africano. Egli infatti, a differenza di un Nkrumah o di un Mugabe, era convinto che, per riparare i danni del colonialismo europeo e proiettare l’Africa verso il futuro, rigettare in toto ogni aspetto della cultura occidentale, compresi quelli positivi, fosse controproducente.

Pertanto, mentre i leader politici di quasi tutte le nuove nazioni africane indipendenti scelsero come modello da imitare quello del principale nemico dell’Occidente di allora, cioè l’Unione Sovietica (modello che prevedeva un sistema politico monopartitico ed un’economia pianificata), Seretse Khama decise di basare lo sviluppo del Botswana su due capisaldi della cultura occidentale, la democrazia liberale ed il capitalismo di libero mercato.

In Ghana, il presidente a vita (e vincitore del Premio Lenin per la pace) Nkrumah fissò come obiettivo ultimo del suo governo quello di porre ogni aspetto della vita economica del Paese sotto il controllo dello Stato. Quando nel 1966 Nkrumah venne deposto, solo 4 delle 64 imprese nazionalizzate dal suo governo non erano in passivo[1].

Al contrario, il governo di Khama promosse politiche business-friendly per favorire lo sviluppo dell’imprenditoria e gli investimenti, come per esempio basse imposte sulle imprese, basse imposte sul reddito e bassi dazi sulle importazioni. Quando Khama salì al potere, la stragrande maggioranza della popolazione viveva di pastorizia ed agricoltura di sussistenza. Oggi, con un PIL pro capite di oltre 18000 dollari, il Botswana è il quinto Paese più ricco del continente africano[2] (con l’Egitto all’ottavo posto, ed il Sudafrica al settimo).

Dal punto di vista delle relazioni etniche, il Botswana di Khama è un caso più unico che raro nella storia contemporanea dell’Africa. In Sudafrica, il regime segregazionista dell’apartheid è sopravvissuto fino agli anni Novanta. Nello Zimbabwe, il governo di Mugabe ha perseguitato apertamente la minoranza bianca. Seretse Khama, invece, ha costruito una nazione in cui il merito, non le origini, determina il successo di una persona.

Per questo, sebbene molti premessero su di lui per far espellere dal Paese tutti i funzionari, i professionisti e la manodopera specializzata di origine straniera, per sostituirli con autoctoni (non importa quanto incompetenti), Khama restò fermo sulle sue posizioni: i talenti di origine non africana avrebbero conservato i loro posti, finché gli autoctoni non fossero stati sufficientemente istruiti per competere per lo stesso lavoro.

Per assicurarsi i fondi per modernizzare il Botswana, Khama non espropriò le ricchezze dei bianchi, né chiese aiuti alla comunità internazionale, bensì stabili accordi commerciali con la De Beers per lo sfruttamento delle risorse minerarie del Paese. Dalla partnership fra il suo governo e la De Beers nacque una nuova azienda, la Debswana[3].

Grazie alla propria quota dei profitti della Debswana, il governo del Botswana si assicurò un ingente afflusso di fondi nel corso degli anni. Tuttavia, al contrario di altri Paesi come il Venezuela, il Botswana non fu colpito dalla “maledizione delle risorse”.

Infatti, tutto questo denaro non venne speso solamente in programmi di welfare, per ottenere prosperità a breve termine e consensi politici, bensì venne investito soprattutto nell’istruzione (per formare una forza lavoro altamente specializzata) e nello sviluppo delle infrastrutture, così da assicurare all’economia del Paese una crescita a lungo termine.

Anche sul piano della politica estera, Khama raggiunse importanti risultati. Durante il suo governo, il Botswana si mantenne strettamente neutrale nella Guerra Fredda, senza però rinunciare ad esercitare una certa influenza politica. In particolare, Khama ebbe un ruolo fondamentale nei negoziati che sancirono la fine del regime segregazionista della Rhodesia, e fu uno dei padri della “Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale”[4].

Seretse Khama, dopo essere stato rieletto tre volte come Presidente del Botswana, morì infine di cancro nel 1980. Nei suoi quasi 15 anni di governo, il Paese divenne l’economia più rapidamente in crescita al mondo[5].

Grazie ai principi della democrazia liberale e del capitalismo di libero mercato, il Botswana di Khama diventò un’isola di prosperità in un mare di povertà, un’oasi di governo snello ed efficiente in un deserto di corruzione, una terra di opportunità senza discriminazioni in un continente devastato dalle tensioni etniche e religiose.

Quella di Seretse Khama e del suo Paese, tuttavia, non dev’essere vista solo come una gloria del passato, bensì come una strada verso il futuro. Dopo la sua morte, altri hanno costruito sul suo lavoro, ed ancora oggi il Botswana si presenta come un Paese più unico che raro in Africa.

Ma, e questa è la cosa più importante, non dev’essere per forza così per sempre. Gli africani hanno il diritto ed il dovere di chiedere per sé stessi e per i loro figli quello che Seretse Khama è riuscito a dare ai suoi concittadini.

Tuttavia, non devono farsi illusioni. Per imitare e superare i risultati raggiunti dal Botswana su scala continentale, non sarà sufficiente un solo Khama, bensì milioni di Khama. Gli africani dovranno abbandonare le false promesse del socialismo e del nazionalismo, che sono costate loro mezzo secolo di sofferenze non minori di quelle dovute al colonialismo, per ricostruirsi un futuro. Sembra un’impresa difficile, e lo sarà, ma come mostra la storia del Botswana non è solo possibile, è già successo.

[1] https://youtu.be/ZUBXW6SjuQA

[2] https://www.worldatlas.com/articles/the-richest-countries-in-africa.html

[3] http://www.brandbotswana.co.bw/about/

[4] https://www.sahistory.org.za/people/president-seretse-khama

[5] http://www.thuto.org/ubh/bw/skhama.htm

Il Sovranismo è anticapitalista?

Qualcuno sostiene che il Sovranismo sia un pensiero politico nuovo, innovativo, che crea una rottura con il passato. Essi sostengono, altresì, che il Sovranismo sia l’espressione di un nuovo pensiero popolare che non ha alcun legame storico-ideologico con il pensiero statalista, quello socialista o quello comunista.

Io penso, invece, che il pensiero sovranista ha più di un legame con il pensiero nazionalsocialista, noto attualmente – per comodità, direi – come Destra Sociale. Un legame che li lega non solo politicamente, ma anche culturalmente.

Partiamo dal presupposto che il Sovranismo è insurrezione popolare. Si tratta di una reazione del popolo contro una presunta élite. Storicamente il pensiero nazionalsocialista, come nel Sovranismo, è un movimento di giustizia sociale contro un nemico chiaro. Nello specifico si parla di comunitarismo.

Un comunitarismo inteso come vivere attraverso l’identità, la propria provenienza, le proprie origini. Un comune agire per un comune obiettivo, un comune agire per comuni usanze. Il collettivismo sovranista è facilmente intendibile, pertanto, come un reazionismo verso un presunto degrado di valori provocato da vari nemici, come la tecnocrazia.

Il Sovranismo ha dunque, nelle sue corde, una forte componente di giustizia sociale. Non è nemmeno questa una novità rispetto al passato. Non solo dagli ambienti marxisti, ma anche dagli ambienti nazionalisti italiani. Storicamente, nella cultura di destra sociale, è sempre esistita una forte esigenza di giustizia sociale. Una giustizia sociale che, eliminando i difetti del marxismo e del liberalismo, tende a rafforzare tutti.

Non è una sorpresa che tanti esponenti sovranisti siano ancora a favore di una visione corporativista dello Stato e dell’economia. Uno Stato che tende sia a limare la presunta “avidità” del capitalista che a soddisfare le esigenze del lavoratore sfruttato. Quindi, una giustizia sociale che tende a rafforzare tutti.

Ovviamente, anche in questo caso la giustizia sociale è traducibile con una riduzione concreta delle libertà individuali. Si parla, piuttosto, di una libertà impostata e ipotetica, in quanto, secondo il Sovranista, ponendo un equilibrio tra liberalismo e comunismo, non ci dovrebbero essere motivi di disarmonia.

Insomma, il Sovranismo parte da una reazione, una reazione per soddisfare una giustizia sociale, una giustizia sociale attuabile con la riduzione delle libertà individuali. Ma fino a qui, siamo sulla teoria.

Come è traducibile nella pratica il pensiero sovranista?

Sostanzialmente, in uno schema sovranista, il capitalismo è il mezzo per arricchire Stato e proletari. Esattamente, il capitalista è l’attore da sfruttare. Non deve arricchirsi alle spalle di nessuno, non può prendere libera iniziativa, ma deve limitarsi a rispettare le esigenze di Stato. Per essere chiari, nel sovranismo, il mercato non può mancare.

Però è inevitabile che ci sia il Mercato, il quale quindi viene “indirizzato” per soddisfare i bisogni dello Stato. Quindi, un mercato strozzato dalle esigenze statali. Allo stesso tempo, lo Stato rafforza la componente proletaria, rendendo l’azienda da privata a Istituto Sindacalista, in cui il titolare dell’impresa, per decidere su qualcosa di sua proprietà, deve rivolgersi ai lavoratori.

Per concludere, il sovranismo ha un tasso molto alto di nazionalismo nelle sue corde culturali. Un nazionalismo di vecchio stampo, aggiungerei. Vecchio stampo perchè si tende a isolare mentalmente l’Italia e ad immaginare il mondo come il campo di battaglia della guerra di tutti contro tutti. Ovviamente, anche su tematiche interne, il sovranismo ha una forte propensione alla protezione del Made in Italy, tenendo persino in considerazione la possibilità di dazi o misure fortemente penalizzanti verso le aziende estere.

Venezuela, il “paradiso” dei socialisti sudamericani, dove tutti sono milionari (e poveri).

Con questo articolo analizzeremo in dettaglio come si è sviluppata la massiva inflazione che colpisce oggi il Venezuela.

Nel 2019, questo paese è l’incontrastato campione mondiale dell’inflazione, con un fantasmagorico 10,000,000%, secondo le ultime stime del FMI.

Per dare un ordine di magnitudine, ad oggi (Ottobre 2019), per comprare 1 Dollaro, i Venezuelani devono spendere la bellezza di 19.709 Bolivar Soberano (VES). Questo vuol dire che 1 Milione di VES equivalgono a soli USD 50,73.

La domanda è, come siamo arrivati fino a questo punto?

La storia dell’inflazione del Venezuela, in fin dei conti, è la storia del Venezuela degli ultimi anni, il risultato naturale dell’implementazione del cosiddetto “Socialismo del XXI Secolo”, tanto caro a Hugo Chavez ed a molti altri leader della sinistra latino-americana, tornato recentemente in auge, grazie anche alle rivolte in Cile ed in altri paesi latino-americani.

Per questo motivo, l’articolo sarà diviso in tre parti.

Nella prima parte parleremo delle cause alla base di questo fenomeno, le quali sono da ricercare nell’orribile gestione economica e nell’aumento massivo di spesa pubblica perpetrato durante l’epoca delle “vacche grasse” del governo Chavez, il quale riuscì a finanziare ogni delirio populista grazie al prezzo incredibilmente alto del petrolio.

Nella seconda parte poi, analizzeremo come la situazione è sfuggita completamente di mano dal 2013 in poi. La forte caduta del prezzo del petrolio, lasciò il paese con uno spaventoso deficit fiscale e commerciale, che il governo di Maduro decise (purtroppo) di finanziare in larga misura con emissione monetaria e riduzione di stock di dollari della Banca Centrale del Venezuela.

Nell’ultima parte poi, tratteremo a livello quantitativo l’andamento del Bolivar e dell’inflazione in Venezuela.

I parte: L’epoca delle “vacche grasse

Abbiamo chiamato questo come il periodo delle “vacche grasse”, a causa dell’esorbitante aumento del prezzo del petrolio che caratterizzò gli anni dal 2003 al 2013. Questo fu il vero motore che permise di finanziare le prime fasi del socialismo Venezuelano.

Per rendere l’idea, nel 2003 il prezzo del Crude Oil WTI si aggirava intorno ai $31 al barile, mentre nel 2008, anno in cui il prezzo del petrolio raggiunse l’apice, questo triplicò raggiungendo i $100 al barile. Tutto ciò ebbe ovviamente un tremendo impatto nelle possibilità di finanziamento del governo Venezuelano, dato che il petrolio rappresentava circa il 40% delle entrate del governo ed oltre il 90% delle esportazioni del Venezuela.

Si potrebbe parlare a lungo di questo periodo. Tuttavia crediamo che le cause principali dell’attuale crisi, e della conseguente inflazione, siano da attribuire principalmente all‘aumento esorbitante della spesa pubblica, attraverso il cosiddetto “Sistema Nacional de Misiones”, all’orribile gestione finanziaria di PDVSA, la compagnia petrolifera nazionale del Venezuela, ed alle nazionalizzazioni intraprese dal governo di Hugo Chavez, le quali distrussero in maniera drammatica il settore privato Venezuelano.

Il “Sistema Nacional de Misiones

Durante questo periodo Chavez cominciò un’enorme espansione della spesa pubblica, che passò dal 28% del PIL al 40% nel 2013. L’aumento principale della spesa avvenne attraverso una serie di programmi sociali pubblici chiamati “Sistema Nacional de Misiones”. Creati per “beneficiare” le classi più povere del Venezuela e tuttora in vigore, questi abbracciano un vasto numero di aree, tra cui educazione, sanità, abitazioni pubbliche, lavoro, alimentazione etc.

All’inizio, come talvolta accade con questo tipo di programmi pubblici, ci fu un significativo miglioramento delle condizione di vita delle classi più povere del Venezuela. Per rendere l’idea, dal 1999 al 2006, la povertà passò da circa il 50% al 30% e la povertà estrema calò dal 21% al circa 10%. Si ebbero miglioramenti significativi anche in altre aree come alimentazione, educazione etc.

Insieme a questi risultati positivi, però, ci furono anche tutta una serie di scandali legati al “Sistema Nacional de Misiones”, tra cui episodi di corruzione, inefficienza, mala gestione e addirittura casi di vere e proprie violazioni dei diritti umani. Uno dei più interessanti e drammatici, è quello legato all’ambito sanitario, il cui programma denominato “Mission Barrio Adentro” fu implementato, così come altre misiones, anche grazie all’aiuto di professionisti cubani inviati in massa dal regime di Fidel Castro. Si stima infatti che Cuba, abbia inviato oltre 44.800 concittadini, di cui oltre la metà medici, per servire come veri e propri schiavi nelle misiones, in parte come mezzo di pagamento per il debito pubblico contratto dal governo Cubano. Il governo Venezuelano, inoltre, paga per gran parte di questi professionisti tra $1500 ai $4000 al mese, ma il governo Cubano trattiene quasi tutto il loro stipendio, pagando i suoi concittadini intorno ai $100 al mese. La ONG “Solidaridad sin fronteras” descrive questo fenomeno come:

Uno dei più grandi traffici di esseri umani mai perpetrati da uno stato nazionale.

Dal 2010, ci sono state oltre 700 diserzioni di medici ed altre figure professionali Cubane. Casi simili sono stati riportati anche in altri paesi, come ad esempio in Brasile.

Aldilà di queste gravissime problematiche, il vero problema del “sistema di misiones” era ed è l’insostenibilità del loro finanziamento.

Le nazionalizzazioni e la mala gestione delle imprese statali

Un altro elemento alla base della crisi attuale, furono le nazionalizzazioni in molti settori, tra cui quello agrario e petrolifero, e l’orribile gestione finanziaria di molte imprese pubbliche, tra cui la più eclatante fu quella di PDVSA, la compagnia petrolifera nazionale del Venezuela ed una delle principali fonti di finanziamento del governo, poiché come precedentemente menzionato, il petrolio rappresenta il 90% dell’export Venezuelano e praticamente l’unica fonte di dollari per l’economia.

Al riguardo di PDVSA ci sarebbero moltissime storie da raccontare. Ci concentreremo tuttavia su 3 episodi particolarmente importanti.

Il primo di questi è lo sciopero generale del settore petrolifero del 2002. Questo sciopero scaturì come conseguenza del recente colpo di stato di Hugo Chavez, il quale aveva preso da poco il potere, ed in seguito ad un pacchetto di leggi molto polemiche approvato dalla assemblea nazionale venezuelana, chiamato “ley habilitante”. Immediatamente dopo questo evento, il governo di Chavez decise di licenziare in tronco oltre 18.000 dipendenti e di rimpiazzarli con funzionari più vicini al regime. Questo all’epoca rappresentava circa la totalità dei dipendenti della compagnia.

Il secondo episodio è legato alla nazionalizzazione di molti asset di imprese petrolifere straniere come ad esempio Exxon Mobil e ConocoPhilips, i quali passarono in mano a PDVSA nel 2007, dopo che queste compagnie si rifiutarono di formare una join venture con il governo Venezuelano. Questo risultò in una massiva fuga dal paese di compagnie petrolifere, che portarono via con se anche le loro competenze.

Il terzo e ultimo episodio poi, è stato forse il più drammatico dal punto di vista finanziario per PDVSA. Questo si tratta di una misura presa dal governo Bolivariano, chiamata “Sistema de Democratización del Empleo” (SISDEM), tradotto dallo spagnolo in sistema di democratizzazione del lavoro, la quale portò PDVSA a quadruplicare il numero di dipendenti, senza alcun tipo di giustificazione economica. Il numero di barili prodotti dalla petroliera infatti, non solo non aumentò, ma non fece altro che diminuire nel corso degli anni.

Possiamo quindi soltanto immaginare il livello di inefficienza e mala gestione raggiunti da questa compagnia, la quale riusciva a restare a galla solo ed esclusivamente grazie all’altissimo prezzo del greggio.

Oltre alla mala gestione di PDVSA, come in ogni buon governo populista di taglio socialista, il governo di Chavez iniziò tutta una serie di nazionalizzazioni. Questo tipo di misure hanno ovviamente contribuito a distruggere il già scarno tessuto industriale del Venezuela, rendendo la nazione ancora più dipendente dal petrolio e dalle importazioni di prodotti esteri.

Dal 2005 ad oggi il governo Venezuelano avrebbe nazionalizzato 1.359 compagnie attraverso espropri e confische. I dati del “Observatorio de Derechos de Propiedad del Centro de Divulgación del Conocimiento Económico para la Libertad” della ONG “Cedice” ci dicono che oggi oltre 1000 di queste imprese hanno chiuso definitivamente i battenti.

Oltre a questo negli ultimi 17 anni, il governo Venezuelano sarebbe intervenuto su oltre 60 imprese multinazionali, le quali avrebbe scatenato una vera e propria fuga di massa di questo tipo di compagnie dal paese, oltre ad una serie enorme di battaglie legali, che sarebbero costate miliardi di dollari allo stato del Venezuela. Una delle più recenti, quella con Exxon Mobil, è costata ad esempio $1.4 miliardi.

II Parte: La crisi

La crisi in Venezuela cominciò intorno al 2013. I primi sentori della crisi imminente si iniziarono ad avvertire già durante l’ultimo periodi di Chavez. In quel periodo iniziò a cadere fortemente il prezzo del petrolio, il quale si dimezzò nel 2015, raggiungendo i $49 a barile.

Come abbiamo precedentemente visto, a causa dell’implementazione del “sistema di misiones”, la spesa pubblica non aveva fatto altro che aumentare negli anni.

Inoltre, nonostante un prezzo del petrolio ancora molto alto, le entrate del governo erano diminuite notevolmente anche a causa anche della sempre minor efficienza produttiva di PDVSA.

Come vediamo di seguito, infatti, dall’inizio del governo di Chavez, il trend seguito dalla produzione di barili di petrolio è stato costantemente decrescente. Questo andamento si è poi notevolmente intensificato dopo il 2013, anche a causa delle sanzioni degli U.S.A. le quali sono iniziate ad Agosto 2017, in seguito alle ripetute violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime di Maduro.

Tutto questo, unito al consistente aumento dei costi affrontati da PDVSA, molti dei quali legati all’aumento smisurato del numero di dipendenti dopo l’implementazione del SISDEM, contribui notevolmente a diminuire la redditività della compagnia.

Un’altra cosa che contribui notevolmente a ridurre le fonti di finanziamento del governo fu anche la distruzione del settore privato, verificatasi durante il governo di Chavez. Secondo la ONG “Cedice”, dall’inizio del suo governo ci sarebbe stata una vera e propria ecatombe di aziende in Venezuela. Il numero di aziende presenti nel paese si sarebbe infatti ridotto di un 75%, e le poche aziende rimaste ad oggi sarebbero quasi tutte aziende storiche del Venezuela o aziende direttamente controllate dal governo.

Nel grafico di seguito vediamo quindi l’evoluzione del deficit pubblico in Venezuela. In blu troviamo le entrate del governo ed in grigio la spesa pubblica.

Ad oggi le cifre ufficiali del deficit pubblico Venezuelano non sono note, poiché il governo di Maduro non rilascia statistiche ufficiali al riguardo. Tuttavia, la CIA stima questo numero intorno ad un fantasmagorico 46% del PIL.

Vediamo un andamento molto simile per quanto riguarda il deficit commerciale. Il governo Venezuelano, attraverso le sue politiche, ha portato il Venezuela a non produrre praticamente più niente internamente. Praticamente tutto viene importato, creando uno spaventoso deficit commerciale, che necessita di dollari per essere finanziato.

Le cause della crisi inflazionaria Venezuelana a questo punto sono chiare, e sono legate alle necessità di finanziamento del governo, in particolare dopo l’assunzione di Maduro nel 2013.

A causa della quasi completa distruzione del settore privato, il governo Venezuelano non aveva la possibilità di aumentare le tasse. A questo punto quindi, per il governo di Maduro restavano solo 2 strade da percorrere. La prima, tagliare i programmi sociali e rischiare fortemente di perdere la base di sostegno popolare, la seconda, ricorre a forme di finanziamento alternative come debito pubblico ed emissione monetaria. Ovviamente, il governo di Maduro optò per la seconda via, erodendo sempre più velocemente il valore del Bolivar, rendendolo oggi una moneta praticamente priva di valore.

III Parte: l’evoluzione dell’inflazione in Venezuela

Dobbiamo dire che il Venezuela, così come altri paesi sudamericani, ha sempre sofferto il male dell’inflazione. L’inflazione a due digiti è sempre stata la norma da queste parti.

Tuttavia, il vero problema iperinflazionario iniziò intorno al 2014, poco dopo l’insediamento del governo di Maduro e in concomitanza con la diminuzione del prezzo del petrolio. Per rendere l’idea, l’inflazione nel 2013 si attestava intorno al 29,4%, solo 0,1% superiore rispetto all’anno precedente. Nel 2014, questa saltò a 61,5%.

Negli ultimi anni, abbiamo assistito anche ad una massiva diminuzione delle riserve di dollari della Banca Centrale Venezuelana. Come possiamo vedere nel grafico di seguito, lo stock di dollari ha un trend discendente dal 2008, periodo in cui, come abbiamo visto precedentemente, il deficit pubblico e commerciale Venezuelano cominciò ad ingrandirsi.

Di seguito, possiamo vedere la correlazione tra deficit ed emissione monetaria e riduzione delle riserve di dollari. Come possiamo vedere dal grafico, la correlazione è assolutamente cristallina. L’emissione monetaria, così come la diminuzione dello stock di dollari della Banca Centrale del Venezuela, è servita a finanziare il deficit.

Come si può vedere dal grafico, lo stock di moneta, espresso in dollari, è drammaticamente diminuito negli anni. Questo è legato al fatto che il governo, nonostante abbia continuato a stampare moneta a man salva, non ha potuto mantenere il passo dell’inflazione, lasciando l’economia in una crisi di liquidità molto grande.

Si stima che ad oggi il 95% della liquidità sia in moneta elettronica, principalmente depositi bancari, e che solo il 5% della base monetaria sia effettivamente in contanti. Questo comporta, che gran parte dei beni arrivi a costare fino a quattro volte meno se pagato in moneta fisica.

Il governo venezuelano, nel tentativo di controllare l’aumento dei prezzi, ha deciso di intraprendere un programma di limitazione di prezzi. Questo, insieme ad altri fattori, ha portato ad una scarsità generalizzata di prodotti di consumo, che già nel 2014 raggiungeva il 25% dei beni. Negli ultimi anni, questo problema si è talmente aggravato, tanto che oggi il Venezuela, il paese con la più grande riserva di petrolio del mondo, affronta addirittura una mancanza generalizzata di combustibile.

Un altro dato interessante, anche se estremamente drammatico, è quello legato all’andamento del salario minimo, il quale è diminuito in maniera incredibile, durante il governo di Maduro, proprio a causa dell’erosione del potere d’acquisto. Nel 2012, il salario minimo si aggirava intorno ai $360 al mese, ed era abbastanza in linea con altri della regione. Nel 2015 purtroppo, questo aveva già raggiunto la misera cifra di $31. Oggi, dopo l’ultimo decreto presidenziale, il salario minimo in Venezuela si attesta intorno ai $3. Questo oggigiorno equivale al prezzo di due “happy meal” a Caracas. Ovviamente ciò non ha fatto altro che far esplodere la povertà in Venezuela, la quale oggi si attesta intorno al 90%.

Il futuro del Venezuela è molto buio purtroppo. Il danno fatto prima da Chavez, e poi da Maduro è stato enorme, lasciando il paese in una crisi economica profondissima, che si è poi trasformata in una delle più grandi crisi umanitarie della regione, e mi spingerei a dire della storia moderna. Si stima infatti che ad oggi i Venezuelani che hanno lasciato il paese sono oltre 4 Milioni e l’esodo sembra non fermarsi.

In aggiunta a tutto ciò, in Venezuela si è installato ormai un vero e proprio narco-regime, che rappresenta senza ombra di dubbio, la maggior fonte di destabilizzazione per una regione, che già storicamente è stata più e più volte fortemente soggetta al populismo più selvaggio e becero. Il problema più grande inoltre, è che a causa di tutte queste problematiche che abbiamo elencato, il regime Venezuelano è ormai disperato, e possiamo solo immaginare cosa sarà capace di fare pur di mantenere il potere nei prossimi anni.

 

Fonti:

https://www.cnbc.com/2019/08/02/venezuela-inflation-at-10-million-percent-its-time-for-shock-therapy.html#targetText=Venezuela’s%20hyperinflation%20rate%20increased%20from,to%20a%20recent%20IMF%20forecast.

https://mises.org/es/wire/venezuela-tiene-hiperinflaci%C3%B3n-%C2%BFahora-qu%C3%A9

https://www.mises.org.br/article/3024/fim-da-ilusao-o-desastre-economico-da-venezuela-e-reconhecido-pelo-proprio-governo-socialista

https://www.bloomberg.com/graphics/2019-venezuela-key-events/

https://publicpolicy.wharton.upenn.edu/live/news/1696-the-legacy-of-hugo-chavez-and-a-failing-venezuela

http://harvardpolitics.com/world/the-legacy-of-hugo-chavez/

https://www.abc.es/internacional/20141112/abci-medicos-cubanos-desertores-en-masa-venezuela-201411111936.html

https://www.bbc.com/mundo/noticias-america-latina-48275780

https://uk.reuters.com/article/us-venezuela-pdvsa-idUKKBN14X0GW

https://news.culturacolectiva.com/noticias/crisis-de-venezuela/

https://elcomercio.pe/economia/mundo/venezuela-1-000-empresas-nacionalizadas-han-quebrado-noticia-547458-noticia/

https://www.bloomberg.com/news/articles/2019-03-09/what-broke-venezuela-s-economy-and-what-could-fix-it-quicktake

https://www.reuters.com/article/us-venezuela-pdvsa-military-specialrepor/special-report-oil-output-goes-awol-in-venezuela-as-soldiers-run-pdvsa-idUSKCN1OP0RZ

https://en.mercopress.com/2013/11/08/venezuela-joins-the-hyperinflation-club-54.3-in-last-twelve-months-and-climbing

http://www.laht.com/article.asp?ArticleId=774552&CategoryId=13303

https://www.nytimes.com/2014/03/01/world/americas/slum-dwellers-in-caracas-ask-what-protests.html

https://edition.cnn.com/2019/05/26/americas/gas-shortages-venezuela-intl/index.html

https://www.bloomberg.com/news/articles/2015-03-06/monthly-salary-of-20-shows-why-venezuelans-wait-in-food-lines

https://www.novinite.com/articles/196724/The+President+of+Venezuela+Raises+the+Minimum+Wage

https://www.businessinsider.co.za/venezuela-mcdonalds-happy-meal-more-than-months-minimum-salary-march-2019-5-2

https://www.economist.com/graphic-detail/2018/08/20/the-exodus-from-venezuela-threatens-to-descend-into-chaos

La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci

Perché socialismo, fascismo, comunismo e tutti gli altri statalismi, pur con le loro differenze, sono parimenti pessime idee? Cosa separa nettamente queste ideologie dal Liberalismo? Un socialista, certo, non ha esattamente gli stessi ideali ed obiettivi di un fascista, e lo stesso vale per un fascista ed un comunista.

Tutti e tre, però, condividono uno stesso principio chiave: il potere nelle mani giuste è il bene supremo, quindi anche la violenza è un bene se il suo scopo è dare potere a coloro che lo meritano.

Per il fascista, che vuole garantire il potere della sua nazione, la violenza è un legittimo strumento politico. Una nazione potente, infatti, non ha paura di combattere guerre per imporre la propria egemonia sulle altre nazioni. Allo stesso tempo, però, un forte esercito e grandi spese militari non bastano.

Una nazione potente, infatti, dev’essere anche una nazione unita e con una popolazione omogenea. Per questo, è necessario reprimere qualsiasi autonomia in favore di un governo centralizzato. Inoltre, bisogna eliminare fisicamente minoranze ed altri gruppi di potere al di fuori dell’autorità statale.

Per il comunista, che sogna la rivoluzione proletaria, la violenza è indispensabile ai fini del cambiamento. I porci capitalisti ed i loro lacchè, infatti, non metteranno mai volontariamente a disposizione dei proletari le risorse ed il potere necessari per realizzare il paradiso del lavoratore. Queste e quello, pertanto, devono essere strappati con la forza.

Ma la violenza non finirà una volta finita la rivoluzione. Una volta instaurata la dittatura del proletariato, infatti, c’è sempre il rischio che qualcuno non sia d’accordo con il nuovo corso, e che organizzi una controrivoluzione. Per questo, sono necessarie numerose purghe per estirpare il problema alla radice.

Fatta eccezione per i più radicali, i socialisti (specie quelli più vicini alla socialdemocrazia) di solito non si esprimono apertamente a favore della violenza fisica, piuttosto auspicano riforme graduali per raggiungere l’obiettivo della giustizia sociale. Ciononostante, anche i socialisti moderati sono favorevoli ad un certo tipo di violenza, più sottile ma non per questo inesistente.

Un socialista moderato certo non chiederà il sangue dei capitalisti e dei loro lacchè, ma chiederà politiche economiche redistributive. Non perseguiterà le minoranze, ma sarà a favore di leggi speciali per proteggere chi ritiene sia oppresso o discriminato, in antitesi con il principio liberale dell’isonomia (per intenderci, non esistono i diritti gay, esistono i diritti individuali).

Soprattutto, un socialista moderato sarà a favore della coercizione, e dell’accentramento del potere per creare un Leviatano statale strumento di tale coercizione. Questo perché, in quanto socialista, è convinto in buona fede che uno Stato che segue i cittadini dalla culla alla tomba sia un bene tale da giustificare la perdita di qualche libertà.

Così, anche il più mite e benevolo fra i socialisti moderati finisce, involontariamente, con l’aprire la porta ad i più radicali, ed infine ai violenti veri e propri. Se le cose stanno così per le varie forme di statalismo, qual è l’approccio liberale alla violenza?

Innanzitutto, bisogna dire che il pensiero liberale non è pacifista, cioè non cerca la pace ad ogni costo. A dispetto della bellissima citazione di Asimov che dà il titolo a questo articolo, i liberali sono pragmatici, pertanto riconoscono la necessità della violenza in determinate situazioni. Quindi, nessuna differenza con lo statalismo?

Quando gli statalisti ricorrono alla violenza, lo fanno come mezzo per acquisire più potere: il fascista combatte guerre per conquistare territori di altre nazioni, il comunista organizza una rivoluzione per sottrarre le ricchezze dei capitalisti, i socialisti fanno lo stesso ma in maniera più graduale.

I liberali, invece, sono disposti a ricorrere alla violenza per proteggere qualcosa che è l’antitesi del potere, qualcosa che tutti gli esseri umani possiedono come diritto di nascita: la libertà negativa.

La libertà negativa è, in poche parole, la libertà dallo Stato (contrapposta alla libertà positiva, libertà attraverso lo Stato), il quale non interferisce nella vita privata dei cittadini e garantisce il rispetto del loro diritto alla vita, alla libertà ed alla proprietà privata.

Quando lo Stato viola la libertà negativa dei cittadini questi, per dirla con i Padri Fondatori, hanno il diritto di rovesciare il governo, con le armi se necessario.

La differenza fra liberali e statalisti rispetto alla violenza, quindi, esiste, ed è vasta quanto la differenza fra i manifestanti di Hong Kong e le SS naziste. Mentre gli statalisti saranno sempre pronti a versare sangue per acquisire potere a danno dei loro nemici, il primo nemico dei liberali sarà sempre il potere stesso, i cui attacchi contro la libertà vanno respinti con tutto il vigore necessario, pena la rovina.

Perché il liberismo, all’inizio, rallenta l’economia?

È abbastanza comune come pattern delle riforme liberiste vedere un iniziale periodo di rallentamento dell’economia e di aumento della disoccupazione, salvo avere una crescita negli anni successivi, quasi sempre superiore a quanto perso nel periodo precedente.

Invece il socialismo è differente: Quasi sempre c’è un periodo di relativo benessere seguito, poi, da un periodo di depressione economica.

Come mai? Vediamolo con una storiella:

Il villaggio dei 10.000 lavoratori

Immaginiamo un villaggio con 10.000 abitanti, tutti in grado di lavorare. Nel tempo i politici, per ingraziarsi le persone, hanno iniziato un piano di assunzioni pubbliche e si è passati, nel corso degli ultimi 20 anni, da avere 100 dipendenti pubblici a 1.000. Queste persone sono felici, hanno una casa, uno stipendio ma non producono benessere: vivono grazie al benessere prodotto dai 9.000 lavoratori reali.

Arriva un politico che propone di tornare ai 100 dipendenti pubblici e vince: in un momento 900 persone si trovano senza stipendio, magari con la necessità di cambiare casa verso una più economica e diminuendo i propri consumi vivendo di risparmi: l’economia si contrae.

Tuttavia col tempo 800 dei 900 licenziati riescono a entrare nel sistema produttivo e a produrre benessere: i loro consumi riprendono e, nel mentre, tutta la comunità beneficia di ciò, tant’è che si riesce ad istituire un aiuto per chi non ha trovato il lavoro.

Perché, alla fine, il socialismo fallisce

I motivi del fallimento del socialismo sono vari e variegati, troppi per essere sintetizzati in un pezzetto di testo, ma sintetizzabili in un fatto: la crescita economica è minima e i soldi da redistribuire finiscono.

All’inizio il socialismo piace perché prende ai ricchi per dare ai poveri, ma quando finiscono i soldi dei ricchi non offre un modello di sviluppo economico coerente senza introdurre elementi capitalisti. E quindi ciò che in Occidente è un minimo sindacale per non essere considerati in totale povertà, cioè un tetto, dei vestiti e qualcosa in tavola, in molti paesi socialisti è un considerevole beneficio.

Il problema si pone, in misura minore, anche nelle forme di forte statalismo come quello italiano: c’è sì un settore privato capace di restare in piedi ma lo Stato drena centinaia di migliaia di persone dal settore produttivo pagandole coi soldi di chi produce.

La lezione da imparare

Il liberismo, riformando nettamente il ruolo dello Stato, non può non creare disagio nel primo periodo, tanto più grandi tanto più è grande il ruolo dello Stato.

Eliminare lavori sussidiati, enti, regolamentazioni, licenze toglie sicurezza a molte persone che per un periodo, quindi, consumeranno meno rallentando l’economia. E, sempre nel breve periodo, non è detto che il risparmio economico dovuto alla riduzione delle spese possa controbilanciare il tutto.

Ma sul lungo periodo ciò libera energie per i settori che veramente producono benessere e ciò porta ad una crescita economica maggiore, capace di poter coprire un moderato welfare per chi non ha competenze spendibili nel mondo del lavoro e non può apprenderle, come persone vicine alla pensione.

Il modello di sviluppo statalista, infatti, mostra spesso i propri limiti e ci obbliga spesso a fare manovre di austerità per renderlo sostenibile. Ma non sarebbe meglio fare le riforme liberiste e avere, finalmente, settori funzionanti e produttivi

Rubare ai ricchi per dare ai poveri è una buona idea?

Robin Hood, eroe Ancap che combatteva contro le tasse imposte ingiustamente dallo Stato ai cittadini, è oggi inspiegabilmente noto ai più come una sorta di protosocialista che rubava ai ricchi per dare ai poveri.

Robin Hood, tuttavia, è solo una figura semileggendaria. Al contrario, gli aspiranti Robin Hood di oggi (Sanders ed i Socialisti Democratici, Corbyn, Mélenchon) sono purtroppo assai reali, e loro sì che intendono togliere ai ricchi per dare ai poveri (o meglio, di sicuro intendono togliere ai ricchi, il resto non è altrettanto certo).

Ma al di là del dibattito storico-letterario su Robin Hood, rubare ai ricchi per dare ai poveri è una buona idea? Può essere davvero una valida soluzione ai problemi economici?

Innanzitutto, qualche numero utile, preso dalla patria stessa del turbocapitalismo neoliberista, gli Stati Uniti. Ad oggi, l’uomo più ricco d’America è Jeff Bezos, con un patrimonio pari a circa 118 miliardi di dollari. In totale, oggi negli Stati Uniti vivono 705 miliardari, per un valore totale di oltre 3000 miliardi di dollari[1]. Sembra una cifra enorme, e lo è, ma la matematica non depone a favore di Sanders e dei Socialisti Democratici.

Il cavallo di battaglia di questi ultimi è il Green New Deal, il meraviglioso piano seguendo il quale un forte governo centrale (nelle mani delle persone giuste, naturalmente) potrebbe creare un paradiso di ecosostenibilità ed uguaglianza per tutti i cittadini americani. Il costo di questo bellissimo sogno? La modica cifra di oltre 16000 miliardi di dollari[2], e più potere nelle mani dello Stato[3].

Quindi, anche conferendo allo Stato il potere per confiscare in toto la ricchezza dei miliardari in perfetta legalità, resta un disavanzo di 13000 miliardi di dollari che potrebbe essere colmato solo in 2 modi: facendo debito o confiscando altra ricchezza (ma non quella dei pianificatori del Green New Deal).

Un altro numero utile: il budget federale fissato per il 2020 è pari ad oltre 4700 miliardi di dollari[4]. Quindi, anche inviando Bezos, Gates e tutti gli altri in un gulag, il denaro raccolto non sarebbe sufficiente neanche a mandare avanti il governo federale per un anno intero.

Qui poi bisogna aprire una parentesi: in realtà, già adesso sono gli odiatissimi ricchi a mandare avanti il governo federale, e di conseguenza a sostenere i programmi di welfare tanto cari ai Socialisti Democratici.

Le entrate del governo federale, infatti, derivano principalmente dalle imposte sul reddito. Nel 2016, il 50% più ricco della popolazione ha pagato il 97% delle imposte sul reddito, mentre l’altra metà più povera della popolazione ha pagato il restante 3%. In particolare, l’1% più ricco della popolazione da solo ha pagato il 37,3% delle imposte sul reddito[5].

Un ultimo elemento di cui bisogna tener conto: quando i populisti di sinistra propongono di far pagare ai ricchi “la loro giusta parte”, con delle leggi se possibile o con la violenza se necessario, probabilmente pensano che tutti i miliardi dei loro patrimoni esistano in contanti. Naturalmente, le cose non stanno così.

Jeff Bezos, infatti, non è Zio Paperone, non possiede un enorme deposito nel quale conservare i suoi 118 miliardi di dollari sotto forma di un mare verde di banconote. Il patrimonio complessivo di Jeff Bezos (immobili, azioni di Amazon e contanti) vale 118 miliardi di dollari, ma per confiscarli sarebbe necessario confiscare tutte le sue azioni e venderle, e solo un populista di sinistra potrebbe pensare seriamente di poter vendere tutte queste azioni senza far crollare il loro valore.

Risulta chiaro, pertanto, che “rubare ai ricchi per dare ai poveri”, lungi dall’essere una valida soluzione a qualsivoglia problema economico, non è nient’altro che uno slogan utile per la propaganda in tempo di elezioni, e questo nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore delle ipotesi, una massa critica di elettori potrebbe dare ascolto a questa propaganda, con conseguenze fin troppo ben immaginabili.

[1]https://www.google.com/amp/s/amp.businessinsider.com/countries-with-the-most-billionaires-2019-5

[2]https://www.google.com/amp/s/www.nytimes.com/2019/08/22/climate/bernie-sanders-climate-change.amp.html

[3]https://fee.org/articles/the-green-new-deal-is-a-trojan-horse-for-socialism/

[4]https://www.thebalance.com/current-u-s-federal-government-spending-3305763

[5]https://www.google.com/amp/s/www.bloomberg.com/amp/news/articles/2018-10-14/top-3-of-u-s-taxpayers-paid-majority-of-income-taxes-in-2016