I socialisti del sesso: gli Incel

Una lotta di classe da combattere, una casta privilegiata da abbattere, dei mezzi di (ri)produzione da ridistribuire. No, non si tratta dei socialisti stavolta, bensì di una loro incarnazione più moderna, più vicina quindi ai grandi problemi della vita nell’Occidente di oggi: gli Incel.

Molti senz’altro troveranno eccessivo, o addirittura offensivo, accostare Marx, “Il Capitale” e l’Internazionale ai misogini più odiati del web. Tuttavia, se si considerano le idee dietro alla rabbia degli Incel, i punti di contatto con il socialismo appaiono evidenti.

La visione del mondo degli Incel, come quella dei socialisti, si basa sulla constatazione che, al mondo, non vi è una vera uguaglianza fra gli individui. Mentre i secondi però si focalizzano sull’aspetto economico (c’è chi è ricco e chi non lo è), i primi si concentrano sulle relazioni sociali e affettive (c’è chi ha successo con le donne e chi no).

Entrambi, quindi, concepiscono la società come il campo di battaglia di una lotta di classe fra una casta privilegiata (per i socialisti sono i capitalisti, per gli Incel sono i “Chad”, persone che hanno successo galante) ed un gruppo socialmente subordinato (i proletari nel primo caso, gli Incel stessi nel secondo).

In un’ottica marxista, gli Incel considerano le donne come semplici mezzi di (ri)produzione, di cui i Chad possiedono il monopolio. Per raggiungere una vera uguaglianza, questo monopolio dev’essere spezzato, con la coercizione se necessario.

Relativamente a questo punto, come già per i socialisti, è possibile distinguere due scuole di pensiero all’interno del mondo Incel, una di “destra” ed una di “sinistra”, entrambe unite dall’odio e dal disprezzo per l’Occidente moderno.

Secondo gli Incel di “destra”, le loro sofferenze sono dovute al declino morale dell’Occidente, che ha abbandonato l’ordine naturale e la famiglia tradizionale in favore della promiscuità (emancipazione femminile).

Essi quindi propongono, per risollevare le sorti della società, di adottare la soluzione già implementata con così tanto successo dai Talebani in Afghanistan. Considerando le 72 vergini che allietano il loro paradiso, le ragioni dietro alla simpatia di questi Incel per l’Islam radicale diventano assai più chiare.

Secondo gli Incel di “sinistra”, invece, quello ad una vita sessuale attiva è un diritto umano, esattamente come quello al lavoro o all’assistenza sanitaria. Di conseguenza lo Stato, che deve assicurare tutti questi diritti, deve fornire una “partner di cittadinanza” a tutti gli uomini che ne hanno bisogno.

Solo uno Stato freddo e senza cuore, ragionano, uno Stato asservito al mondo della finanza ed al neoliberismo potrebbe ignorare il diritto dei suoi cittadini ad un coito regolare.

Studiare il pensiero degli Incel è interessante in quanto esso presenta, esasperate ai limiti del ridicolo, le stesse fallacie logiche dell’ideologia socialista. Viene quindi da chiedersi: se il rigetto delle loro idee è così immediato per la stragrande maggioranza delle persone, perché lo stesso non vale per le idee socialiste?

Tutti, di sicuro, sono d’accordo che non ha senso odiare qualcuno solo perché nato con un viso attraente. Molti, invece, sono d’accordo che nascere nell’agiatezza sia un valido motivo di disprezzo.

Se quel qualcuno, grazie alla propria bellezza, riuscisse a conquistare una donna attraente, non dovrebbe essere poi costretto a condividere la propria partner con i meno fortunati, su questo non c’è dubbio. D’altro canto, molti sono convinti che le persone di successo debbano essere costrette a condividere i loro beni, con la violenza se necessario.

Tutti riconoscono che uno Stato che interviene nella vita sessuale dei suoi cittadini, anche se allo scopo di eliminare le disuguaglianze, sia una minaccia per la libertà. Eppure, molti vogliono uno Stato che segua i suoi cittadini dalla culla alla tomba, uno Stato che abbia il potere di soddisfare tutti i loro bisogni, ma anche di controllare le loro vite.

Quindi, seppur misogini e ben poco affabili, possiamo ringraziare gli Incel per questo: semplicemente esistendo, essi mostrano il vero volto del socialismo, spogliato di tutte le belle immagini (uguaglianza, solidarietà, progresso) con le quali generazioni di politicanti hanno cercato di renderlo più attraente per le masse.

Ambientalismo e socialismo: una storia d’amore

“Gli ambientalisti sono come i cocomeri: verdi all’esterno, rossi all’interno”, dice il vecchio adagio. Questa piccola metafora contiene in sé un’importante verità. Quando, dopo il crollo del blocco sovietico, l’ideologia marxista perse gran parte della sua credibilità, i suoi seguaci si ritrovarono privi di un ideale da seguire. Molti di essi, quindi, abbandonarono la bandiera rossa in favore della bandiera verde.

Non è un caso, infatti, che i partiti Verdi come li conosciamo oggi siano nati tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Allo stesso modo, non è un caso che i Socialisti Democratici negli Stati Uniti abbiano fatto del “Green New Deal” un loro cavallo di battaglia.

Mentre si avvicinano le elezioni del 2020, sono sempre più numerosi i progressisti pronti a dare il loro endorsement a questo programma ambizioso, che già nel nome riprende lo spirito del fallimentare “New Deal” implementato da FDR negli anni Trenta.

Salvaguardare l’ambiente è un nobile obiettivo, condivisibile da tutti al di là del credo politico. Tuttavia, esistono alcuni punti di contatto fra ambientalismo e socialismo che possono essere sfruttati a scopo politico. In questo senso si può parlare di “ecosocialismo”.

Il primo ed il più evidente è la profonda sfiducia verso il capitalismo. Nello specifico, gli ambientalisti (o meglio, gli ecosocialisti) mettono in discussione la capacità di adattamento del sistema. Non solo, molti di loro sono genuinamente convinti che l’abolizione della civiltà capitalista sia necessaria per scongiurare un’apocalisse sempre più vicina.

Fortunatamente, tali profezie apocalittiche sono state più volte smentite dai fatti, i quali dimostrano la resilienza del capitalismo. Un esempio su tutti: la rivoluzione verde.

Nel 1968 Paul R. Ehrlich, ambientalista e biologo statunitense, pubblicò il suo bestseller “The Population Bomb”. In quest’opera egli dipingeva un futuro drammatico (gli anni Settanta), nel quale centinaia di milioni di persone sarebbero morte per via di carestie dovute alla sovrappopolazione.

La storia, come sappiamo, non è andata così. Tra il 1950 ed il 1970, lo sviluppo di nuove tecniche agricole, finanziato dalle industrie e da enti come la Rockefeller Foundation, ha reso possibile un incremento senza precedenti della produzione alimentare (rivoluzione verde).

Simili risultati, tuttavia, sono invisibili agli occhi degli ecosocialisti. La loro sfiducia verso il capitalismo resta granitica, e li spinge verso una strada già percorsa dai loro predecessori, l’intervento statale.

Gli ecosocialisti amano la burocrazia, le regolamentazioni, la visione top-down dell’economia e della società. Nel loro mondo ideale tutto, dal numero di figli che si possono avere alla quantità di acqua per lavarsi, è deciso a tavolino in un’economia pianificata, per ridurre al minimo l’impatto ambientale.

Si potrebbe pensare che la perdita di libertà sia un prezzo accettabile per salvare l’ambiente. Il problema è il seguente: l’unico risultato certo di questa linea d’azione sarebbe l’accentramento di potere nelle mani di pochi ecosocialisti. Una volta a capo dell’economia pianificata, il loro arbitrio sarebbe totale, mentre nulle sarebbero le garanzie di successo del sistema.

A dir la verità, i risultati a livello ambientale di questo sistema sono stati tutt’altro che incoraggianti in passato, come mostra il caso del lago di Aral. Il lago di Aral è, o meglio era, un grande lago salato situato fra Kazakistan ed Uzbekistan.

In epoca sovietica, i principali immissari del lago sono stati deviati per ordine delle autorità statali al fine di soddisfare i bisogni agricoli dell’Urss. In quarant’anni, i loro piani economici hanno ridotto gran parte del lago di Aral in un deserto tossico, uno dei peggiori disastri ambientali del secolo scorso.

Quindi un’economia pianificata, come proposta dai socialisti ieri e dagli ecosocialisti oggi, non solo non è più efficace nel salvaguardare l’ambiente rispetto ad un sistema capitalista basato sul libero mercato, bensì è potenzialmente molto più pericolosa.

Questo perché il secondo sistema ha una dinamicità invidiabile, che è il segreto del suo successo. Tutti sono protagonisti attivi nel libero mercato, tutti contribuiscono con le loro azioni e le loro idee alla direzione seguita dal sistema.

Certo, il contributo di un grande imprenditore, di un Elon Musk, non sarà lo stesso di una persona comune, ma la natura del sistema impedisce anche ai più ricchi industriali di ignorare le esigenze ed i desideri dei loro consumatori. In questo senso, un boicottaggio è uno strumento più potente di una rivoluzione.

Questo non accade in un’economia pianificata. In tal caso i pianificatori, una volta ottenuto il potere assoluto facendo grandi promesse, non hanno alcun incentivo reale a mantenerle, ed in caso di fallimento non corrono alcun rischio.

Esistono solo due tipi di ecosocialisti. I primi, che sanno tutte queste cose, sono spinti solo dall’avidità e dalla sete di potere, e sono parte del problema.

I secondi, che hanno realmente a cuore la causa e che sono ingannati dai primi, sono quelli che vorrei raggiungere con questo articolo.

Dimenticate la storia che vi raccontano da sempre, quella dell’imprenditore cattivo che cospira contro la Madre Terra e del politico buono che lo sconfiggerà (dopo essere stato eletto o rieletto, naturalmente).

Invece di delegare ad un politico il potere di costringere gli altri a vivere come voi vorreste che vivano, siate individualisti. Scegliete per voi stessi di vivere una vita a basso impatto ambientale, e lasciate agli altri questa stessa libertà.

Lasciate che il libero mercato sia vostro alleato, premiate con il vostro denaro le imprese che danno ascolto alle vostre richieste, e boicottate (a titolo personale) quelle che non lo fanno. Ormai è giunta l’ora di porre fine a questa storia d’amore tossica con il socialismo, ed andare avanti senza più credere nelle sue menzogne.

 

Essere (felicemente) schiavi di se stessi

In questi giorni, si parla tanto di schiavi del lavoro, di dignità, di chiudere la domenica, di chi ha un salario troppo basso. Tutto ciò trascurando il fatto che esistono tantissime persone che decidono di essere padrone del proprio destino. Si tratta di una decisione responsabile, quella di puntare tutto su te stesso e di prendere in mano la tua vita, incurante di ciò che accade intorno a te.

Chi compie questa decisione spesso non rispetta un vero e proprio orario di lavoro, potrebbe lavorare sia in ufficio che a casa, anche solo per la programmazione del lavoro futuro. Ma prima di continuare vorrei riportare queste tre citazioni:

Sono convinto che circa la metà di quello che separa gli imprenditori di successo da quelli che non hanno successo sia la pura perseveranza. Steve Jobs

L’ingrediente critico è alzare le chiappe e metterti a fare qualcosa. È così semplice. Un sacco di gente ha delle idee, ma sono pochi quelli che decidono di fare qualcosa a riguardo subito. Non domani. Non la prossima settimana. Ma oggi. Il vero imprenditore è un uomo d’azione. Nolal Bushnell

Dietro ogni impresa di successo c’è qualcuno che ha preso una decisione coraggiosa. Peter Ferdinand Drucker

 

A coloro che parlano tanto di dignità e schiavi, siete consapevoli che tante di queste persone che hanno deciso di mettersi in proprio, sono obbligate a lavorare di giorno e pensare di notte?
Forse non sapete che tante di queste persone, che sono ancora agli inizi, si ritrovano costrette a dover far tanti sacrifici?
Questo perché l’imprenditore, il commerciante ed il libero professionista sono spesso (felicemente) schiavi di se stessi, alla ricerca di continue soddisfazioni personali, economiche e professionali.

Non hai datori di lavoro, non hai un giorno prefissato per la bustapaga, devi riuscire a coniugare il tuo guadagno con le tasse da pagare e, se si è imprenditori con dipendenti, pagare gli stipendi. Come detto in precedenza, fare impresa in Italia è roba da eroi e coraggiosi, perché chi ha il capitale da investire viene spesso scoraggiato dall’altissima pressione fiscale, e dalle spese per l’iter burocratico.

Rispetto ai nostri genitori, riscontro nei giovani un’ammirevole volontà di mettersi in gioco, di voler rischiare, di voler tentare una strada alternativa rispetto al declino italiano. Questo è di buon auspicio per tutta la nazione, in chiave futura, in quanto credo che per essere imprenditori non si debba necessariamente aprire un’azienda. Anche un operaio (o un dipendente) potrebbe essere imprenditore di se stesso.

Infatti esserlo non è soltanto una scelta, ma soprattutto un atteggiamento. In Italia ci hanno abituati a “vegetare” nella stessa azienda per 30-40 anni. In futuro sarà sempre più una rarità vedere un dipendente lavorare nella stessa azienda per tutta la vita lavorativa, proprio perché il lavoro diventerà sempre più flessibile e dinamico.

Ciò che stiamo vivendo in Italia è una fase del lavoro flessibile-statica, in quanto si cambia spesso lavoro, ma le retribuzioni sono le stesse, o persino più basse. Oggi riusciamo a raccogliere tante esperienze professionali, ma a questa esperienza non corrispondono stipendi più alti o impieghi più delicati ed importanti. Questo perché i contratti di lavoro tradizionali sono troppo carichi di tasse, sia per l’imprenditore che per il lavoratore, e sono troppo carichi di burocrazia, compresa la presenza (inutile?) dei sindacati.

Pertanto, occorre lavorare affinché il mondo del lavoro diventi flessibile e dinamico, in modo tale che anche chi ha un contratto a tempo indeterminato sia spinto a non accontentarsi del posto fisso, bensì a tentare qualcosa di nuovo, ed investirci sopra.

Adam Smith diceva che la forza lavoro è la prima proprietà privata dell’uomo, ma di questo parleremo un’altra volta.

Dall’economia alla cultura: l’evoluzione del Marxismo

Spesso da oltreoceano arrivano neologismi come “marxismo culturale”, tradotti nel nostro Paese con espressioni come “radical chic” o anche “buonisti”.
Ci si riferisce con questi epiteti a personaggi come Roberto Saviano, Laura Boldrini e, più recentemente, Domenico Lucano, il discusso sindaco di Riace.

Un elemento che però non viene mai discusso da questi esponenti culturali/politici è l’economia, stessa cosa per i loro corrispondenti d’oltreoceano: le battaglie che li vedono protagonisti sono quelle sociali, tanto da dare via al fenomeno del “social justice warrior” negli Stati Uniti e in Italia dei “buonisti del politicamente corretto”.

Ma l’espressione “marxismo culturale” è vista come invenzione delle destre populiste per giustificare il loro razzismo, sessismo ed omofobia.
Eppure, i leader socialisti scrivono di questa strategia da decenni ormai.

Per esempio, il il libro scritto dai teorici socialisti Ernesto Laclau e Chantal Mouffe del 1985 intitolato “Egemonia e strategia socialista”,
ispirato dall’articolo da loro scritto nel 1981 con il titolo “strategia socialista, e ora?”. Ma cosa scrissero in questo articolo? Per gli autori la “lotta politica socialista” era entrata in una nuova era:
la tradizionale lotta di classe e l’analisi delle contraddizioni economiche del capitalismo hanno avuto difficoltà ad affermarsi (visti anche gli orrori delle dittature comuniste).
Pertanto, la nozione di lotta di classe doveva essere modificata, includendo gruppi non classificabili in una classe economica.

Il loro desiderio era dunque di incorporare donne, minoranze etniche, omosessuali e movimenti anti-istituzionali in un movimento socialista modificando oppressi ed oppressori: non più proletari oppressi da borghesi ma donne oppresse da uomini, neri oppressi da bianchi, omosessuali oppressi da eterosessuali e così via; perché la società ora non era solo più capitalista, era anche sessista e patriarcale, oltre che razzista ed omofoba.

La sfida per Laclau e Mouffe era riunire tutte queste categorie con obiettivi differenti sotto l’egida del socialismo, sviluppando un’ideologia organica: non è un caso che il socialismo si sia allineato negli ultimi trent’anni al movimento femminista ed in esso si sia sviluppato il concetto di intersezionalità per descrivere la sovrapposizione (o “intersezione”) di diverse identità sociali e le relative possibili particolari discriminazioni, oppressioni o dominazioni.

Il nuovo obiettivo del marxismo diventa dunque, secondo questa nuova ideologia, la soppressione di tutte le relazioni di dominazione e di creare “un’uguaglianza genuina e partecipazione a tutti i livelli della società”.

Ovviamente un’uguaglianza di risultato come nella vecchia teoria socialista di Marx: “da ognuno secondo le proprie capacità, ad ognuno secondo i propri bisogni”.
Il risultato? Il virus del socialismo, implicitamente desiderato da tutte le sinistre, ha contagiato importanti battaglie sociali, snaturandole.

Pur essendo stato sconfessato in tutti i modi dalla storia, il nuovo obiettivo del Marxismo è responsabile delle divisioni in Occidente, creando politiche d’identità che mettono in contrapposizione diversi sessi e diverse razze, frammentando la società. Se vi chiedete da cosa sia scaturita questa divisione così profonda nella società (tanto da dare risalto alle destre populiste), ora avete la risposta.

Il fenomeno del marxismo culturale è quindi tutt’altro che un’invenzione: è una vera e propria strategia di rebranding del socialismo.

Quando l’Ungheria era comunista

Nel 1945, centinaia di migliaia di Ungheresi entrarono in possesso di terreno coltivabile grazie alla redistribuzione delle terre. Dopo aver subito gli orrori del nazismo, i vecchi e nuovi proprietari confidavano che la propria stabilità economica non fosse più in pericolo. Tuttavia una nuova minaccia incombeva sull’Ungheria: il comunismo.

 

Nonostante la guerra fosse terminata,

i contadini dovevano continuare a pagare dei dazi molto ingenti. La popolazione ungherese doveva provvedere alle spese statali, alle provvigioni delle truppe sovietiche occupanti e alla produzione delle derrate alimentari per l’indennità di guerra. Il prodotto era dunque diviso in tre parti inique: una restava nelle mani del contadino e della sua famiglia, una veniva messa da parte per assicurare il raccolto dell’anno successivo, e la terza doveva essere ceduta ai sovietici.

Contemporaneamente alla presa del potere, i comunisti intrapresero una spietata campagna contro la borghesia Ungherese. Fra il 1948 e il 1953 triplicarono i già ingenti dazi che i contadini erano tenuti a versare. Nel 1952 cambiarono anche l’ordine della distribuzione: prima di tutto i contadini dovevano cedere la quota prevista ai sovietici, per poi mantenere una quota da parte per l’anno successivo. Solo il poco rimanente, ammesso che ce ne fosse, sarebbe rimasto a disposizione dei contadini.

Molto spesso alle famiglie non rimaneva abbastanza di che vivere. Quando alcuni coraggiosi si rifiutavano di pagare, iniziavano le intimidazioni: gli ufficiali esattori arrivavano insieme agli uomini dell’ AVH, la polizia segreta comunista ungherese, che terrorizzava l’intero borgo.

 

Qual era il folle disegno dell’Unione Sovietica?

In preparazione di una terza guerra mondiale, l’Unione Sovietica e i suoi stati satellite, compresa l’Ungheria, dovevano provvedere a enormi investimenti per favorire l’industria pesante. Ragion per cui i burocrati sottraevano ingiustamente ai borghesi gran parte dei loro averi. Inoltre iniziava a sorgere il bisogno di manodopera da sfruttare.

Il Partito non risparmiò alcuno sforzo nel distruggere lo stile di vita tradizionale della campagna e a deportare i lavoratori non in grado di provvedere alle spese imposte. In ogni caso, il sistema comunista non poteva sopportare la sopravvivenza di una comunità economica indipendente. Per protrarre il proprio dominio dittatoriale all’intera nazione, lo Stato-Partito organizzò la sistematica eliminazione della classe di proprietari terrieri Ungheresi, ancora legata ai suoi valori conservatori, ai propri costumi e alle proprie tradizioni.

 

Chi era nel mirino dello Stato-Partito?

Il bersaglio degli attacchi era il “Kulako” secondo il modello Sovietico. Il termine Kulako non ha equivalente nella lingua ungherese. Chiunque non vivesse in condizioni di povertà assoluta, in qualsiasi momento, poteva diventare un Kulako: nemico pubblico e preda dei comunisti.

Gli amministratori stilavano le liste dei Kulaki e i contadini più eminenti e di successo nel villaggio apparivano su di esse. Stava ai funzionari di partito, che puntualmente abusavano del proprio potere, decidere chi punire. I burocrati vessavano continuamente i Kulaki con tasse speciali, quote sempre maggiori, sottratte attraverso torture fisiche e psicologiche.

I comunisti assemblarono delle brigate e le addestrarono a tenere la popolazione sottomessa attraverso punizioni pubbliche, violenze e ispezioni continue. Gli agenti controllavano anche la spazzatura dei contadini, per assicurarsi che non nascondessero nulla allo stato.

I sovietici provarono a spezzare lo spirito delle persone attraverso lavoro forzato, evacuazioni improvvise e confische di proprietà ingiustificate, misero in piedi centinaia di migliaia di accuse false, migliaia di processi, che portavano sempre a prigionia prolungata e spesso ad esecuzioni. Processarono e incarcerarono quattrocentomila civili per “crimini contro la produzione comunitaria”, inoltre perseguitarono innumerevoli vittime senza un motivo giuridico. La resistenza era punita con la morte.

 

Il risultato? Disastroso.

Non è sorprendente che nel negli anni 50′ trecentomila lavoratori abbandonarono la propria terra, fuggendo nell’Europa liberale. I contadini rimasti persero la volontà di continuare a lavorare, dato che creando profitto avrebbero rischiato la propria vita. La situazione portò ad una drammatica scarsità di viveri. Il partito reintrodusse il razionamento del cibo e condannò i “sabotatori”.

 

Sabotatori?

Dato che il sistema socialista attribuiva ogni fallimento al sabotaggio di un nemico sconosciuto, era necessario trovare un capro espiatorio. I comunisti attribuirono la carenza di cibo ad alcuni dirigenti ungheresi di spicco. Furono tutti giustiziati. Vennero introdotti nuovi fantasiosi modi per punire i contadini: il reato di “Sabotaggio della trebbiatura” portava alla pena di morte. I comunisti punivano il macello di animali non autorizzato dall’autorità con imprigionamenti prolungati.

Come se non bastasse, il partito applicò il “Sistema d’Avanguardia dell’Agricoltura Sovietica” in tutta Ungheria: un modello terribilmente inefficiente. I comunisti svilupparono in Ungheria un piano di agricoltura direttamente orchestrato dal partito. I privati contadini erano costretti a coltivare secondo le direttive dei gerarchi, spesso controproducenti e inattuabili. Un tentativo notoriamente goffo fu la produzione forzata di cotone e riso, allora virtualmente non coltivabili in Ungheria.

Alla fine ogni resistenza della borghesia fu spezzata, e le ultime fattorie private vennero sottratte e collettivizzate.

 

La giustizia Ungherese, su modello Sovietico,

si liberò della presunzione di innocenza garantita dallo stato liberale, con il risultato che i carnefici potevano utilizzare accuse false contro le vittime. Le confessioni ottenute sotto tortura erano sufficienti. Le testimonianze parlano di pestaggi che spesso portavano alla morte. Era usanza colpire la vittima con un randello, per rompere denti e costole, per poi costringerlo a ingerire fino ad un chilogrammo di sale grosso. Non stava all’accusatore provare la colpevolezza dell’accusato, ma l’imputato doveva provare la propria innocenza, cosa ovviamente resa impossibile dalle circostanze.

La legge non proteggeva il cittadino, era anzi un’arma dello stato per colpirlo. Dieci anni dopo la fine della guerra, i comunisti continuavano ad uccidere e a rendere un inferno la vita di chiunque avesse a che fare con loro.

 

Socialismo significa schiavitù.
-Lord Acton

Capitalismo o socialismo? Guardiamo i numeri

Ignoriamo la propaganda da entrambe le parti, non serve.
Siamo nel 2018, dati sulle performance dei vari stati ce ne sono molti e possiamo sapere in che misura pratichino capitalismo o socialismo.
Guardiamo ai fatti.

L’indice che misura la libertà economica

L’Economic Freedom World index (EFW) misura il grado con cui le politiche e le istituzioni dei paesi supportano la libertà economica.
E’ diviso in 5 macro-aree di analisi.

  1. Dimensione del governo – All’aumentare delle spese, delle tasse e della dimensione delle imprese controllate dal governo, il processo decisionale del governo è sostituito alla scelta individuale e la libertà economica diminuisce.
  2. Sistema giuridico e diritti di proprietà – La protezione delle persone e delle loro proprietà ottenute legalmente è un elemento centrale sia della libertà economica sia della società civile. E’ la funzione più importante del governo.
  3. Denaro stabile – L’inflazione erode il valore di salari e dei risparmi legalmente guadagnati. Per proteggere i diritti di proprietà è essenziale che il denaro sia stabile e affidabile. Quando l’inflazione non è solo alta ma anche volatile, diventa difficile per le persone pianificare il futuro e quindi usufruire efficacemente della libertà economica.
  4. Libertà di commercio internazionale – La libertà di scambiare, comprare, vendere, stipulare contratti, e così via, è essenziale per la libertà economica. Si riduce quando la libertà di scambio non include imprese e individui in altre nazioni .
  5. Regolamentazioni – I Governi non solo utilizzano una serie di strumenti per limitare il diritto di scambio a livello internazionale, ma possono anche sviluppare regolamenti che limitano il diritto di scambiare, ottenere credito, assumere, lavorare per chi desideri o gestire liberamente la propria attività.

Adesso che abbiamo una misura della libertà economica ovvero del grado con cui uno stato attua politiche socialiste o capitaliste, possiamo metterlo in relazione agli indici che misurano il benessere.

 

I numeri

Gli stati sono divisi in quattro gruppi dal meno libero al più libero economicamente.
Il prodotto interno lordo pro capite aggiustato per potere d’acquisto è drasticamente più alto nei paesi economicamente liberi:

 

Anche la crescita del reddito è più alta.

Che dire dell’aspettativa di vita?

 

E dei diritti politici e libertà civili?

 

 

Qualcuno di voi starà pensando “Va bene, va bene, il capitalismo è efficiente, crea ricchezza, aumenta l’aspettativa di vita e assicura diritti politici e libertà civili, ma i ricchi diventano più ricchi e i poveri diventano più poveri, c’è troppa diseguaglianza”.
Legittimo. Andiamo a vedere come se la cavano i poveri.
Questo è il grafico della percentuale di reddito detenuto dal 10% di popolazione più povero:

 

Ci aspetteremmo che nei paesi capitalisti i poveri non abbiano niente perchè “privati della ricchezza dalle fasce di popolazione più alte” mentre nei paesi socialisti, dove c’è una maggiore ridistribuzione della ricchezza, i poveri detengano una percentuale di reddito maggiore.
Come si può osservare dal grafico notiamo che non c’è correlazione tra libertà economica e divario tra ricchi e poveri.
Se andiamo a vedere in che condizioni si trova questo 10% di popolazione il trend è evidente:

 

Nei paesi economicamente liberi i poveri hanno un reddito decisamente maggiore.
Questo grafico rappresenta il tasso di povertà estrema e moderata:

 

 

I poveri se la cavano decisamente meglio nei paesi capitalisti sotto ogni punto di vista e sono anche in numero decisamente minore.
Quante volte si sente dire che le tasse, le regolamentazioni e i gioverni servono per aiutarei poveri?
Quante volte si sente dire che la ridistribuzione della ricchezza è necessaria per diminuire la povertà e aiutare le classi più disagiate?
Quante volte si sente dire che il capitalismo è disumano perchè sfrutta e non aiuta i poveri?
I dati parlano chiaro. Il modo migliore per aiutare i poveri non è togliere ai ricchi ma liberalizzare l’economia.

Visto che non siamo persone superficiali e “i soldi non fanno la felicità” confrontiamo anche un indice non strettamente economico.
Il World Happiness Index delle Nazioni Unite misura la felicità chiedendo alle persone di valutare la loro vita su una scala da 0 a 10 dove 0 è la peggiore vita possano avere e 10 la migliore.
Anche in questo caso il trend è evidente:

 

 

Ma parliamo di ambiente. Quante volte sentiamo dire che il capitalismo distrugge il pianeta.
Mettiamo in relazione l’EFW con l’Enviromental Performance Index (2006):

A quanto pare le economie più liberalizzate sono anche quelle che rispettano maggiormente l’ambiente.
Sia perchè sono più ricche, sia perchè la proprietà pubblica è, per sua natura, più soggetta all’abuso e al danneggiamento rispetto alla proprietà privata.

 

Conclusione

La libertà economica è vincente sotto ogni punto di vista.
E’ incredibile che a più di cent’anni dalla morte di Karl Marx si parli ancora di socialismo e che molti lo considerino un sistema economico e sociale superiore, da attuare e diffondere.

 

Fonte: www.fraserinstitute.org

 

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Perché non possiamo essere sia liberi sia uguali

Qualche tempo fa il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha detto che i valori di Libertà e Uguaglianza “sono il fondamento della nostra società ed i pilastri su cui poggia la costruzione dell’Europa“. Non starò a sindacare sullo stile del Capo dello Stato, che vuole unire in un centro d’idee tutti i valori, come si è fatto per decenni nel suo ex partito, la Democrazia Cristiana.

Non posso che iniziare citando la Dichiarazione Universale: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali [ma la frase non finisce mica qui!] in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. »

Partire da questa premessa vuol dire accettare i principi di pari opportunità, uguaglianza di fronte alla legge, giustizia nella legge, tutela dalla discriminazione.

Ecco il primo contrasto:

  • per essere uguali serve che le leggi siano diverse per ciascuno, in modo tale da appianare le differenze;
  • per essere liberi serve che le leggi siano uguali per tutti, così come in Natura così nella società.

Difatti, vediamo ogni giorno la differenziazione delle leggi a seconda della ricchezza che si possiede, del lavoro che si ha, della propria provenienza e così via, al fine di garantire la giustizia sociale. Quest’ultima, una chimera inesistente e irraggiungibile. Inutile dire che questi sono i principi che differenziano liberalismo e socialismo.

Cercare di raggiungere l’uguaglianza, e dunque di trattare gli individui in modo diseguale per far sì che tutti siano uguali, non può portare altro che alla prevaricazione di chi è diverso, dunque alla discriminazione. Come sempre, i socialisti pensano in primo luogo a cosa hai e non a chi sei, discriminando a seconda della ricchezza. Questo genere di discriminazioni le troviamo anche nel nazismo, in cui le vittime erano i diversi, gli ebrei, gli omosessuali, gli oppositori. [Ultimamente, negli States, è uscita la moda di discriminare i bianchi, etero, capitalisti… ]

Non bisogna ignorare il fatto che siano entrambe discriminazioni e, in quanto tali, pregiudizievoli, perché il confine fra le due è veramente sottile.

In una gran parte del mondo civilizzato ci sono state leggi volte ad aggiungere diritti per categorie o a punire discriminazioni nei confronti di gruppi. Leggi per consentire l’ingresso degli omosessuali nelle forze armate (davvero serviva una legge per consentire il loro ingresso?), aggravanti per le discriminazioni di carattere razziale, regolamentazioni diverse per le unioni a seconda del genere. Quando, alla fine, basterebbe ricordare che i diritti umani valgono per ogni singolo individuo senza che sia categorizzato e schedato come un prodotto su Amazon.

Come si equilibra una società basata sull’uguaglianza? E una basata sulla libertà?

  • Il primo passo per raggiungere l’uguaglianza sostanziale è la distribuzione della ricchezza, un metodo che permette di dare a ciascuno ciò che necessita e fargli fare ciò che desidera senza dover pensare se riuscirà a sbarcare il lunario;
  • Il primo passo per raggiungere la Libertà è la distribuzione del potere al fine di limitare la coercizione e i monopoli, ciò avviene già naturalmente attraverso i meccanismi di mercato che permettono di far avere a ciascuno ciò che merita e di cercare la felicità attraverso le sole proprie forze.

Sono entrambe utopie?

No, nessuna delle due è una utopia. Abbiamo potuto guardare, con ammirazione o disdegno, la realizzazione di società fondate sulle due diverse premesse. Il problema si pone sui risultati della realizzazione: le società basate sull’uguaglianza hanno appiattito i propri cittadini ad essere oggetti governati, i cui diritti sono mere concessioni, così come talvolta il cibo deve essere calato dall’alto, sempre che ci sia; le società fondate sulla libertà sono, invece, il luogo migliore in cui conquistare la felicità e il benessere tramite il merito e il talento.

In conclusione, auspicare una società basata su libertà e uguaglianza è un pensiero ossimorico, poiché la prima consente a ciascuno di trovare la felicità con le proprie forze, mentre dalla seconda deriva la schiavitù con il pretesto di una felicità collettiva.

“I liberali se ne fregano dei poveri”: un mito da sfatare

La retorica collettivista e socialista, che poggia sull’unico fondamentale pilastro del “o con noi o contro di noi”, va dicendo indisturbata da quasi un secolo una delle più grandi ed ingiuste menzogne, che gli ambienti liberali hanno, dalla fine dell’800, dovuto sopportare. E cioè che chi è liberale e, a maggior ragione, liberista non ha a cuore i meno fortunati e pensa più a tutelare la libertà dei ricchi che la dignità dei poveri.

Innanzitutto va detto che la politica è, per definizione, il perseguimento della maggiore felicità e del maggior benessere di quanti più cittadini possibile. E chiunque non abbia questo come suo unico obiettivo non fa politica: fa affari. In secondo luogo, si tende a riconoscere come amico dei meno abbienti chi propone misure immediate e, concedetemi, molto facili a dirsi, per dare più soldi a chi ne ha di meno. Dimenticando che il fine ultimo delle politiche di destra è lo stesso (sulla carta per ideologia e non in tutte le applicazioni storiche). Quindi i liberali non vogliono privare i più poveri di aiuti o di assistenza e non mancano di umanità, come viene loro spesso imputato.

Ma invece credono che, perché si possano aiutare i più deboli, sia necessaria un’economia forte, capace di sopportare quelle misure assistenzialistiche che sono degne di uno stato umano. Si è già visto in molti paesi socialisti come il collettivismo porti a grande povertà. Per dirla in maniera più spicciola: è inutile avere giustizia sociale se poi da spartire c’è una mela per ogni 10 cittadini.

Si è dimostrato che uno Stato forte e arricchito dall’economia liberista ha poi le risorse necessarie per poter far fronte a quelle riforme sociali che, altrimenti, o non sarebbero possibili o farebbero crollare l’economia nazionale.

E’ grazie al mercato libero e alla forte economia guadagnata nei lunghi anni di lavoro sui mercati che Paesi come la Germania, la Francia, l’Inghilterra e l’Italia stessa possono vantare uno stato sociale forte e che, per quanto poco ce ne si accorga in patria, ci rende un esempio nel mondo. Chi dubita di questo può consultare “Where to invade next”, l’ultimo film di Michael Moore, famosissimo regista americano d’inchiesta e socialista, che in viaggio in Europa ha dimostrato tutto ciò in cui secondo lui l’Europa è anni avanti agli Stati Uniti. Perchè solo un Paese forte può provvedere ai meno fortunati. Se Bismarck non avesse avuto alle spalle, a fine ‘800, un’economia potente come quella tedesca non gli sarebbero state possibili tutte quelle riforme socialiste che beffarono l’SPD. Il primo in Italia a parlare di riforme sociali al governo fu Giolitti, liberale, che migliorò le condizioni dei lavoratori grazie all’apertura italiana ai mercati europei operata dalla destra storica e da Crispi. Tanti sono gli esempi di misure sociali supportate da un’economia in grado di farvi fronte. Ed è molto facile riconoscerle: sono quelle che durano ancora oggi.

Quindi la si smetta di credere i liberali e i liberisti insensibili, classisti, cinici e dal cuore di pietra. L’obiettivo di chi si occupa di politica è quello di avere quanta più felicità possibile tra gli uomini. Il fatto di avere strade diverse secondo cui giungervi non rende né gli uni né gli altri meno determinati per quel fine.

1945-1955: Quando Einaudi impediva le riforme socialiste

11 maggio 1955. Apparentemente una data normalissima, priva di significato. In realtà, questo fu l’ultimo giorno da Presidente della Repubblica di Luigi Einaudi (1874-1961). In questa data, morì quel poco di liberalismo che influenzava, o almeno tentava, le politiche, che tentava di influenzare i governi. Quel Liberalismo che aveva fondato l’Italia, morì. Morì naturalmente, che sia chiaro. Il problema era – come accadde anche all’indomani della morte di Cavour – l’assenza di eredi che potessero mantenere alta la bandiera del liberalismo anche dopo l’uscita di un grandissimo come Einaudi. Per usucapione, l’Italia venne prese dai cattolici e dai comunisti.

La presenza di Einaudi fu fondamentale nel decennio 1945-1955, sia prima come Governatore della Banca d’Italia, sia come ministro del Bilancio e sia dopo come presidente della Repubblica. Non si trovava nel’ambiente adatto. Era il periodo della convivenza tra liberali, cattolici e comunisti; in particolare, i comunisti chiedevano procedimenti di epurazione per chiunque, Agnelli, Valletta e Pirelli in primis; gli stessi comunisti scioperano e chiedevano a gran voce, occupando le prefetture, le dimissioni e l’allontanamento dello stesso Einaudi. Se vogliamo essere chiari e onesti, potremmo dire che Einaudi è stato protagonista attivo fino al 1948 e fino al 1955 è stato protagonista passivo. Se prima di diventare presidente della Repubblica riusciva ad adottare misure liberali, durante la presidenza, almeno in parte, riuscì ad evitare qualche misura statalista di troppo.

La situazione migliorò nel 1947. Alcide De Gasperi, (1881-1954) nel suo quarto governo, decise di scaricare i comunisti e di coinvolgere i liberali. Luigi Einaudi diventò Ministro del Bilancio e Giuseppe Grassi Ministro Grazia e Giustizia. In meno di dodici mesi, Luigi Einaudi riuscì a salvare la Lira, grazie anche a misure anti-inflazionistiche e anche alla fiducia dei risparmiatori. E’ un momento straordinario per il liberalismo: lo stesso Einaudi è il simbolo della parsimonia ed è amato dai cittadini. Il lavoro compiuto da Einaudi era sostenuto da Donato Menichella, governatore di fatto della Banca d’Italia, e da Mario Scelba, ministro dell’Interno, che ebbe il merito di mantenere l’ordine pubblico.

Il 18 aprile 1948 ci fu la storica sconfitta elettorale dei socialisti e dei comunisti.  Luigi Einaudi diventò il presidente della Repubblica, il primo eletto dal parlamento repubblicano. Da questo momento in poi, per il liberismo di Einaudi iniziò il declino. Il keynesismo americano, come dimostrato dal Progetto di Salvataggio Marshall, era dominante negli ambienti del governo De Gasperi V. Proprio Roberto Tremelloni, esponente del Partito Socialdemocratico Italiano, venne nominato ministro delegato alla presidenza del Comitato Interministeriale per la Ricostruzione, nato per gestire e per ottimizzare il Piano Marshall.

Alcide De Gasperi non era un liberale, ma nemmeno il classico statalista puro. Da denunciare, almeno da parte di noi liberali, l’istituzione del Piano Cassa del Mezzogiorno (1950). Con la Cassa del Mezzogiorno, lo stato italiano inizia con lo spreco di miliardi e miliardi di lire, ingrassando i notabili presenti nei territori meridionali. In ogni caso, l’inizio spropositato e inefficiente dello Stato inizierà proprio dopo la fine del Governo De Gasperi del 1953, ma soprattutto dopo la fine della presidenza di Einaudi del 1955. Chiuso il capitolo Einaudiano, iniziò il capitolo di Giovanni Gronchi, nuovo presidente della Repubblica. Questo nuovo capitolo è l’inizio del dominio delle politiche stataliste e socialiste, che prevede uno Stato super-interventista, dando massimo sviluppo e sfogo al Piano IRI, fregandosene di eventuali debiti. Con lui inizia il motto “Privatizzare gli utili, Socializzare le perdite“.

D’altronde, riferendosi all’Industria Pubblica, il presidente della Repubblica Gronchi ebbe il coraggio di dire:

L’industria privata non sopravvive senza profitti, l’industria pubblica sì

Più chiaro di così…

Conoscere Einaudi: Rappresentanze di interessi e Parlamento (1919)

Questo articolo di Luigi Einaudi fu pubblicato da parte del Corriere della Sera il 29 novembre 1919.

In questo articolo, il presidente della Repubblica denuncia la tendenza italiana di far decidere su alcune tematiche che appartengono alla politica solo coloro che lui denomina gli “interessati”, ossia coloro che hanno particolarmente a cuore, come i socialisti per disciplinare sul lavoro, come gli industriali sulle tariffe doganali. Questo è un grave problema per l’Italia, come sostiene lo stesso autore.

Dare alle rappresentanze professionali una funzione deliberativa è voler mettere gli interessi particolari al posto di quelli generali, è compiere opera per lo più sopraffattrice ed egoistica. Gli “interessi” debbono esser ascoltati e consultati. Ma qui finisce la loro sfera di azione.

Questo perché secondo Einaudi è opportuno distinguere i competenti dell’azione politica dai competenti dei singoli rami, poiché non coincidono.

I “competenti” dell’azione politica non sono e non debbono essere i “competenti” nei singoli rami di industrie o di commercio o di lavoro o di professione. Da qui inizia un elenco con tre critiche nei confronti delle rappresentanze di interessi presenti in Parlamento.

Essi non rappresentano normalmente neppure la generalità degli interessi presenti.

Come si può affermare che la confederazione generale dell’industria, che le camere di commercio, che il segretariato agricolo nazionale siano le vere, genuine rappresentanze di tutti gli interessi industriali, commerciali ed agricoli d’Italia? Non lo sono neppure per burla. Questi corpi rappresentano quei gruppi, rispettabilissimi sì, ma pochi, che avevano appunto un forte interesse da far valere e da patrocinare. Chi ci dice che altri non vi sia che abbia un interesse contrario; che coloro i quali hanno interessi diversi si siano accorti di ciò che si sta combinando ai loro danni da parte di coloro che dicono di rappresentarli?

Non rappresentano certamente gli interessi futuri, che è compito principalissimo essenziale dello stato difendere contro gli interessi presenti. Riferendosi alle richieste, da parte degli industriali potenti, di avere maggiore protezionismo, penalizzando le nuove ed emergenti industrie che sono il futuro del Paese. Il compito dell’Uomo di Stato, secondo Einaudi, è quello di eliminare gradualmente qualsiasi aiuto nei confronti dei potenti e di aiutare provvisoriamente coloro che stanno emergendo.

Non difendono l’interesse generale.

Non da oggi, non da quando è cominciata la guerra, ma da ben prima gli economisti insegnarono che potevasi dare protezione ad industrie essenziali per la difesa militare dello stato. Anche a ciò sono disadatte le rappresentanze degli interessi. Oggi queste chiedono protezioni per le industrie-chiavi, per le industrie che furono essenziali durante la guerra passata: siderurgiche, chimiche, ecc. Se si ascolta il loro voto, noi difenderemo industrie che hanno guadagnato moltissimo, che, se fossero state bene amministrate, avrebbero dovuto in molti casi ridurre a valore zero i loro impianti e trovarsi ora agguerritissime contro la concorrenza estera. Invece, col pretesto delle industrie essenziali per la guerra, si vogliono mantenere i prezzi ad un livello tale da remunerare gli impianti al valore bellico, come se non fossero stati o non avessero dovuto essere ammortizzati. Vi è una grande probabilità che in tal modo si proteggano industrie diverse da quelle che saranno essenziali nella futura guerra. Io non so quali possano essere queste future industrie chiavi; ma nego nel modo più assoluto la validità della indicazione fatta dai rappresentanti delle industrie che hanno maggior voce nei loro consessi sedicenti rappresentativi.

In sostanza, quelli che vengono definiti come competenti interessati, in realtà sono coloro che tendono a consolidare quegli interessi forti e antichi. Viene escluso il nuovo. Da badare che in questo articolo Luigi Einaudi parla di Industria e dei vari settori – d’altronde siamo nel 1918, l’Italia è in guerra e siamo in un contesto storico molto diverso da quello attuale, però credo che questo articolo sia molto attuale se facciamo caso a chi si è occupato del lavoro, dell’economia, dell’Industria ecc. in questi decenni. Mi sentirei di dire, e scusate se non siete d’accordo, che questo problema delle Rappresentanze di Interessi sia ancora palesemente presente. D’altronde, oltre ad essere un paese collettivista, statalista e socialista, l’Italia è anche uno Stato nettamente sindacalista, nel senso che è soffocata dai vari interessi dei Sindacati che riescono a prendere il potere, direttamente con il voto o indirettamente con le pressioni politiche.

Si consultino dunque gli interessati, tutti gli interessati. […] Prima di concedere ad un privato industriale di tassare gli altri industriali ed i consumatori in genere a proprio beneficio sicuro ed a beneficio preteso della collettività, bisogna far conoscere pubblicamente le ragioni del privilegio. Chiedesi soltanto di non brancolare nel buio e di non essere messi dinnanzi al fatto compiuto ed irrevocabile.