Intervista a Carlo Lottieri

Per il blog dell’Istituto Liberale abbiamo il piacere d’intervistare Carlo Lottieri, professore universitario, autore di diversi saggi legati alle tematiche liberali, libertarie e federaliste, cofondatore dell’Istituto Bruno Leoni.

A partire dalla sua opera “Credere nello Stato?” lei ha sempre espresso una profonda sfiducia nei confronti dello Stato moderno. Più volte e da più parti è stata decretata la morte di questo istituto storico, che però sembra ostinatamente voler sopravvivere ai tempi e addirittura tenta di riaffermarsi tramite i sovranismi. Che evoluzione prevede da questo punto di vista?

Penso che ci potremmo trovare presto al termine di tale vicenda tragica, che ha segnato in profondità la vita di tante popolazioni. Dopo avere generato guerre e povertà per secoli, lo Stato potrebbe collassare da un momento all’altro, come avvenne ai regimi comunisti dell’Europa centro-orientale, lasciando il posto a istituzioni di altra natura, più compatibili con un ordine sociale basato sulla libertà.

Nel corso degli ultimi secoli la sovranità di matrice monarchica (e post-medievale) ha trionfato soprattutto grazie all’ incontro tra il potere e le masse, tra il dominio nelle mani di pochi e la vasta opera di coinvolgimento “partecipativo” destinata a mobilitare il popolo.

Il recente ritorno in scena del nazionalismo – si pensi alla costante esibizione delle bandiere nazionali e alla ripetuta esaltazione della mitologia collettiva – punta proprio a rafforzare il dominio di alcuni uomini (i governanti) su tutti gli altri (i governati).

La difficoltà cruciale con cui ora gli Stati devono fare i conti, però, sta nel fatto che sono sull’orlo del fallimento. In qualche caso, come in quello italiano, essi sarebbero già stati spazzati via senza il sostegno di quanti temono le possibili conseguenza di questo collasso: basti pensare alle politiche monetarie della BCE.

Al di là della nostra specifica situazione, insomma, gli Stati si sorreggono vicendevolmente e questo conferisce una qualche stabilità all’ordine internazionale, che dopo Westfalia si basa appunto su di loro.

Se quindi è sicuramente ingenuo pensare che lo Stato sia già finito e sconfitto, soprattutto in considerazione del fatto che gli apparati pubblici dispongono ancora di larga parte delle nostre risorse e libertà, è pur vero che i fallimenti a catena causati da spesa pubblica, assistenzialismo, grandi opere, fiscalità da rapina e controllo sociale possono da un momento all’altro preludere al crollo delle istituzioni presenti.

Che giudizio dà lei al processo di unificazione europea ed alle prospettive future dell’Unione? Non crede che l’UE rischi di diventare sempre più simile ad uno Stato sovranazionale retto da una burocrazia tecnocratica autoreferenziale, ancor più distante dalle realtà locali?

L’Unione è stata fatta dagli Stati a loro immagine e somiglianza. Con il processo di unificazione europea, la logica intimamente autoritaria dei poteri sovrani si ritrova quindi proiettata a livello continentale, anche perché molti comprendono come gli Stati siano inadeguati a far fronte alle sfide del presente e immaginano che si possa risolvere tale problema con una sorta di super-Stato continentale.

In realtà, dovremmo capire che – fatta salva l’importanza della libertà degli scambi economici (mai del tutto acquisita) e dei movimenti delle persone – un accresciuto ruolo dei poteri comunitari può solo moltiplicare le tensioni interne alla UE.

Per evidenti ragioni, una scelta politica gradita a un’area può essere in contrasto con le aspirazioni, gli interessi e le preferenze di un’altra. Il risultato è che se l’Europa delle libertà e dei commerci può favorire l’integrazione delle diverse società, l’Europa di Bruxelles e della politica tende a moltiplicare gli odi, i risentimenti, le tensioni.

L’ultima crisi del Covid-19 ha visto una risposta da parte delle pubbliche autorità a colpi di decreti ministeriali e ordinanze locali che hanno fortemente limitato le libertà dei cittadini, spesso scavalcando addirittura i limiti costituzionali. Ci siamo resi conto di come sia semplice aggredire le nostre libertà, di come siamo in balìa del decisore pubblico. Cosa può fare da argine ad una deriva legislativa di questo tipo?

Da varie settimane ripeto che durante l’emergenza del Covid-19 abbiamo perso le nostre libertà solo perché, nei fatti, ci erano già state sottratte prima. In sostanza, Giuseppe Conte ha potuto assumere la decisione di confinarci in casa e bloccare le nostre relazioni personali e lavorative perché, nei fatti, da molto tempo il diritto era già stato trasformato nella semplice decisione di quanti dispongono della facoltà di decidere.

Si può discutere in merito alla mancanza di stile di un politico che non ha nemmeno inteso predisporre un decreto legge (che avrebbe dovuto discutere con i membri del governo, sottoporre all’esame del Presidente e poi portare in aula), ma il cuore della questione è altrove. Se un tempo il diritto era qualcosa di esistente nella realtà e da scoprire, poi è diventato qualcosa da fare e che qualcuno, di tutta evidenza, può costruire a sua discrezione.

Se fossimo entro un ordine giuridico, infatti, ci sarebbe stato detto quello che non dovevamo fare perché lesivo dei diritti altrui. Aveva senso, ad esempio, impedirci di avvicinarsi agli altri (specie in spazi chiusi). Invece ci è stato detto quello che dovevamo fare: ci è stato imposto di restare nella nostra abitazione e spesso ci è stato imposto di non lavorare, sulla base di un’arbitraria distinzione tra attività essenziali e non essenziali che rinvia alla pretesa dei politici di conoscere – perché di questo si tratta – quale sia l’essenza dell’uomo.

Grazie all’emergenza del virus abbiamo visto meglio quello che già era avvenuto: il fatto che abbiamo soltanto le libertà che, dall’alto, ci vengono concesse dai governanti.

Di recente, insieme ad altre personalità, lei ha lanciato il progetto denominato Nuova Costituente. Ci può spiegare di cosa si tratta e quali sono i vostri obiettivi?

L’obiettivo è quello di realizzare il più ampio consenso possibile intorno all’idea di lasciarsi alle spalle la Costituzione attuale e dare vita un’assemblea dei territori, che elabori una nuova carta. Questo testo dovrebbe essere poi approvato non solo dagli italiani nel loro insieme (ciò che non avvenne nel 1948…), ma da ognuna delle comunità regionali e diventerebbe la costituzione solo dei territori che maggioritariamente l’approvano.

L’intento primo consiste nel minare la logica della sovranità. Si tratta di passare dall’imposizione autoritaria al libero contratto, dalla costrizione all’adesione. Le parole chiave del manifesto sono tre: libertà, democrazia e federalismo.

Se l’obiettivo è quello di allargare gli spazi di libertà, la strategia è quella della massima concorrenza tra territori e perché questo sia possibile si è deciso di usare la democrazia – che storicamente ha spesso agito contro le libertà dei singoli – per pretendere che tutto sia messo ai voti. Votare sui confini, nella nostra prospettiva, significa aprire la strada a un futuro di libertà crescenti.

Il federalismo e l’indipendentismo sono sempre stati temi a lei cari.  Crede che il liberalismo sia necessariamente legato a un decentramento politico e alla promozione delle autonomie locali?

La teoria liberale punta a tutelare le libertà dei singoli e sul piano degli strumenti confida molto sulla libertà di scelta e sulla concorrenza. Nel libero mercato, quando ho bisogno di acquistare un’autovettura sono assai più tutelato se non esistono ostacoli dinanzi a chi vuole produrre e commerciare questi beni.

È chiaro, di conseguenza, che soltanto entro un ordine di entità politiche indipendenti e di limitate dimensioni le imprese, gli individui e i capitali possono poter optare tra una realtà e l’altra. In un universo con tantissime giurisdizioni in competizione tra loro, ogni realtà deve dare il meglio di sé, per farsi attrattiva.

Se è sufficiente spostarsi di pochi chilometri per trovare una tassazione più modesta e servizi di qualità migliore, ne discende che i governanti sono costretti a tenere in alta considerazione le esigenze dei cittadini. Non fosse altro che per non perdere la “base imponibile”.

In fondo, mentre il costituzionalismo storico ha mostrato tutti i suoi limiti (oggi le costituzioni per lo più non proteggono i diritti, ma li conculcano), la moltiplicazione delle giurisdizioni crea un quadro istituzionale che fa emergere buone regole e comportamenti rispettosi.

Lei stesso ha definito la sua una “concezione elvetica di libertà”, riferendosi naturalmente alla Svizzera e al suo ordinamento interno. Che lezioni potrebbe trarre l’Italia da questa esperienza storica ancora oggi così viva?

Nonostante la Svizzera moderna sia nata all’indomani della costituzione del 1848, che fu fatta dopo la repressione militare di un tentativo di secessione, essa mantiene al proprio interno molti tratti dello spirito originariamente federale e pattizio. In particolare, in Svizzera vi è una forte localizzazione dei poteri e delle competenze, con il risultato che entro quel contesto il parassitismo è molto più difficile e la qualità dei servizi pubblici è molto alta.

In fondo, le comunità elvetiche hanno mantenuto una serie di tratti che erano comuni a larga parte d’Europa, dato che in passato l’organizzazione sociale era molto più localizzata e soltanto a partire dal trionfo degli Stati nazionali si è proceduto a cancellare questo vivo sentimento dell’autogoverno.

Per giunta, la realtà svizzera ci mostra come la comunità sia stata spesso originata dalla condivisione: da proprietà collettive attorno alle quali nascevano assemblee chiamate a gestire tali commons. Se si votava, insomma, non era per decidere dei diritti e dei beni altrui, ma per amministrare ciò che era comune. Questo ci aiuta pure a comprendere come tutta una serie di competenze che oggi attribuiamo allo Stato potrebbe essere assai meglio affidate a realtà private, ad associazioni, a forme di solidarietà mutualistica.

In questo senso, la Svizzera ci aiuta a capire che l’alternativa tra libertà e Stato non ha nulla a che fare con l’opposizione tra egoismo e socialità, e che anzi solo la difesa della proprietà e dell’autonomia dei soggetti sociali può permettere una vita sociale di ampio respiro.