Socialisti contro ricchi: la fobia del benessere

Le imprevedibili virtù dell’ignoranza

Le fila dei socialisti democratici statunitensi (liberal*, democratic socialists, social justice warriors, etc.) traboccano di personaggi tanto interessanti quanto ridicoli: Bernie Sanders, il multimilionario buon samaritano che predica l’uguaglianza e la redistribuzione dalla sua terza casa di proprietà da $600,000 [1]. La senatrice Elizabeth Warren, che per ottenere qualcosa dalla vita ha dovuto fingere di essere una nativa americana per poi essere pubblicamente svergognata dal recente test del DNA [2], e infine l’astro nascente dei guerrieri della giustizia sociale: Alexandria Ocasio-Cortez!

Questa giovane donna rappresenta la versione americana dei mali che da tempo affliggono il nostro paese: l’analfabetismo economico, l’idea “uno vale uno”, la totale assenza di vergogna o pudore nell’affermare incorrettezze, la fascinazione dell’ignoranza.

Ma come ha fatto una cameriera del Bronx – che nonostante una laurea in Relazioni internazionali accusa Israele di occupare militarmente la Palestina – non in grado di distinguere le tre funzioni dello Stato, a diventare la figura di riferimento della Sinistra radical-liberal* statunitense?

La ricetta economico-politica della Ocasio-Cortez è estremamente semplice quanto pericolosa: [3]

  • Assistenza sanitaria gratuita per tutti
  • Educazione gratuita per tutti
  • Reintroduzione del Glass-Steagal Act
  • Diritti delle donne e delle minoranze
  • Salario minimo di 15 $/h aggiustato al tasso di inflazione
  • Lotta al cambiamento climatico (il ridicolo Green New Deal)
  • Lotta alle armi
  • Abolizione dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement)
  • Ritiro delle truppe dal Medio Oriente

Come al solito un bel programma, pieno di proposte che vanno al cuore degli elettori, al punto che sorprende non trovare l’abolizione della fame nel mondo, la fine di tutte le guerre, e unicorni-arcobaleno per tutti.

Tuttavia, nonostante la varietà di ideali, questo progetto rimane drammaticamente povero in contenuti, povero in dati, e dal costo economico spropositato. La domanda è semplice: chi pagherà i 33 TRILIONI di dollari che Medicare For All – da solo – potrebbe costare solo nei primi dieci anni? [4]

Ovviamente i più ricchi, il Top 1%, che negli ultimi trent’anni avrebbe mangiato in testa al povero lavoratore americano. La proposta della Ocasio-Cortez è quindi naturale: introdurre una nuova aliquota fiscale marginale del 70% sulla parte di reddito eccedente i 10 milioni di dollari, che metterà finalmente fine ai tempi d’oro in cui l’1% più ricco pagava molto meno del restante 99%.

O forse no.

No. Perché tutti i dati economici mostrano in realtà esattamente l’opposto.

 

Cosa dicono i dati?

I dati dell’IRS (Internal Revenue System, l’Agenzia delle Entrate statunitense) mostrano come nel 2014 i 400 maggiori contribuenti americani per reddito (i Top 400) abbiano versato quasi 30 miliardi di dollari in tasse, il 2.13% del totale delle tasse federali per il 2014, con una media di 75 milioni di dollari a testa, coprendo di fatto DA SOLI il budget annuale della NASA e dell’EPA (Ente Protezione Ambientale). [5][6]

Osservando il grafico inoltre, si può notare come questa percentuale sia più che raddoppiata negli anni, passando dall’1.04% del 1992, al 2.13% del 2014, aumentando nonostante il taglio delle tasse sui redditi più alti, operato da George W. Bush nel 2003; in quegli stessi anni (2003-2007) il contributo dei Top 400 crebbe considerevolmente piuttosto che diminuire.

Un altro dato estremamente interessante è quello secondo il quale, sempre secondo l’IRS, negli ultimi anni, nonostante il livello di tassazione sui redditi più alti sia progressivamente diminuito dal 1945 ad oggi, il contributo totale del Top 1% sia vertiginosamente aumentato fino a superare definitivamente quello del Bottom 90%. In poche parole, l’1% della popolazione americana paga più tasse del 90% dell’intera popolazione messa insieme. E si noti sempre come il tax-cut di Bush nel 2003 non abbia minimamente fatto diminuire il contributo dell’1% più ricco, ma al contrario l’abbia incrementato. [7]

Al giorno d’oggi l’1% più ricco paga il 40% del totale delle tasse sul reddito. Ma il dato diventa ancora più significativo se consideriamo quello che in America viene definito il Top 5%, il secondo gruppo dei più “privilegiati”: la classe media-alta. Questi due gruppi combinati, il Top 1% e il Top 5%, contribuiscono da soli per il 60% del totale delle tasse versate allo Stato americano. [8]

E sempre i dati dell’IRS ci mostrano come i redditi più alti non solo contribuiscono in modo straordinario alle entrate, ma pagano anche molto di più in percentuale rispetto ai redditi più bassi. Al punto che il 50% dei contribuenti versa il 97.3% delle tasse. [8]

La progressività del sistema fiscale americano è rimasta invariata negli ultimi 30 anni (quando non è addirittura aumentata) nonostante la progressiva diminuzione delle aliquote sui redditi più alti, e anzi, come abbiamo visto, il contributo del Top 1% è aumentato significativamente fino ad arrivare al 40% del totale delle tasse versate in un anno. E solo nel 2006 le politiche fiscali statunitensi hanno redistribuito circa 1.4 trilioni di dollari dal 40% più ricco al 60% più povero, mentre le diseguaglianze nella distribuzione del reddito si sono stabilizzate. [8] [9]

Inoltre, per comprendere la completa follia della proposta della Ocasio-Cortez di un’aliquota marginale al 70% sulla parte di reddito eccedente i 10 milioni di dollari l’anno basta analizzare le prospettive di gettito fiscale aggiuntivo che questa potrebbe generare.

Secondo un recente studio della Tax Foundation, un’aliquota marginale del 70% applicata ai redditi oltre i 10 milioni di dollari l’anno porterebbe infatti nelle casse dello Stato americano 291 miliardi di dollari nel periodo 2019-2028 a fronte di una spesa di 32.6 trilioni nello stesso periodo solo per la prima delle promesse elettorali, Medicare For All, l’assistenza sanitaria gratuita e universale. [10]

A peggiorare questa abissale disproporzione tra gettito aggiuntivo e nuova spesa, si consideri che i risultati di questa politica fiscale potrebbero essere decisamente inferiori, dal momento che un simile aumento esponenziale dell’aliquota massima potrebbe scoraggiare i contribuenti a dichiarare o realizzare livelli di reddito superiori ai 10 milioni di dollari l’anno.

 

La parola ai fatti, non alle buone intenzioni

In conclusione, nessun sistema fiscale è perfetto, ma la storia degli ultimi decenni di quello statunitense è la storia di una semplice ricetta economica che ha funzionato: più bassa è la pressione fiscale, più tasse vengono pagate (dai più ricchi in primis), più l’economia cresce. Infatti, una pressione fiscale accettabile non solo non scoraggia il contribuente, costringendolo a limitare le sue prospettive di crescita per evitare il passaggio all’aliquota successiva, ma permette una maggiore immissione di liquidità nell’economia reale sotto forma di spesa e investimenti, gli unici due fattori in grado di supportare un crescita solida nel lungo periodo.

Le politiche e le proposte della sinistra liberal americana sono dettate da una precisa agenda fondata sull’invidia sociale, l’odio di classe, e la finta giustizia sociale, condite dalla più assoluta ignoranza economica e dal rifiuto dei dati empirici.

Questa agenda mira alla distruzione della più florida economia mondiale e dell’unica nazione fondata su una promessa di Libertà: è infatti evidente che la dittatura economica a cui mirano i Democratic Socialists sia solo l’anticamera della dittatura morale dello Stato etico e del politicamente corretto, a cui segue necessariamente la morte del diritto di parola e della libertà espressione.

 

 

 

 

 

*con il termine statunitense liberal si indica una corrente politica che in Europa verrebbe definita “socialista”. Il termine liberal non ha alcuna affinità con il Liberismo economico, il Liberalismo classico, o il Libertarismo americano.

FONTI:

[1] https://www.washingtonexaminer.com/bernie-sanders-slams-billionaires-gets-reminded-he-owns-3-houses

[2] https://www.foxnews.com/politics/warren-expressing-concern-about-releasing-dna-analysis-on-native-american-heritage-report-says

[3] https://ocasio2018.com/issues

[4] https://www.bloomberg.com/news/articles/2018-07-30/study-medicare-for-all-bill-estimated-at-32-6-trillion

[5] https://www.cato.org/blog/taxes-tippy-tippy-top?fbclid=IwAR1SWwcNuR-7aHT_kIb8FcHV7RzUUmYOsN99l_Cnvo-zFgI7dXI82vzWFTI

[6] https://www.irs.gov/statistics/soi-tax-stats-top-400-individual-income-tax-returns-with-the-largest-adjusted-gross-incomes

[7] https://taxfoundation.org/top-1-percent-pays-more-taxes-bottom-90-percent/

[8] https://taxfoundation.org/summary-latest-federal-income-tax-data-2016-update/

[9] https://taxfoundation.org/official-statistics-inequality-top-1-and-redistribution/

[10] https://taxfoundation.org/70-percent-tax-analysis/

 

N.B. tutti i dati della Tax Foundation sono dati ricavati dal sito dell’IRS, consultabili attraverso i link riportati in fondo agli articoli in citazione.

L’assistenzialismo sta uccidendo l’Italia

Il Fascismo e gli anni sessanta. Cosa accomuna il Fascismo con gli anni sessanta? L’intervento statale. Durante il Fascismo, vi era la convinzione che lo Stato dovesse mettere in cammino il paese, attraverso le politiche keynesiane. Uno dei principi fondanti del keynesismo è che lo Stato debba creare debito, emettendo moneta nella società che si impegnerà per rimetterla in circolo attraverso lo scambio di beni e servizi.

L’Italia, ai tempi del fascismo, era un paese povero e, per certi aspetti, in macerie, soprattutto per colpa della Prima Grande guerra. Non era l’Italia degli anni sessanta, sicuramente. L’Italia era un paese, economicamente parlando, in grande salute. Veniva dal suo primo boom economico, con un benessere che cresceva in quasi tutto il territorio nazionale, ma se ai tempi del fascismo, c’era la convinzione che dovesse esserci una mano statale che fosse in grado di alzare economicamente l’Italia e gli italiani, negli anni sessanta c’era la convinzione che dovesse esserci una mano statale che fosse in grado di governare, di coordinare, di distribuire la ricchezza.

Se ai tempi del fascismo, la ricchezza era inesistente, negli anni sessanta la ricchezza era tanta, ma secondo i favorevoli all’intervento statale quella ricchezza era maldistribuita.

Tra il fascismo e gli anni sessanta, manca una parte fondamentale. Il periodo 1947-1962 fu un periodo straordinario di crescita economica per l’Italia e gli italiani: mai il nostro Paese fu in grado di raggiungere un livello tale di crescita economica.

Ma che cosa conta sottolineare di questa fase della storia? Conta sottolineare che l’Italia, soprattutto grazie alle politiche adottate da Luigi Einaudi, primo presidente della Repubblica italiana, nel suo unico anno come Ministro delle Finanze nel 1947, riuscì a salvare la Lira e a favorire i risparmi e gli investimenti.

Come disse lo stesso Sergio Ricossa, il Boom Economico italiano fu un processo spontaneo favorito da politiche di non interventismo statale, quelle stesse politiche che favoriscono la libera iniziativa degli individui che, senza alcun ostacolo o retrizione, sono messi nella condizione di avere un capitale e di sfruttarlo per i propri sogni, progetti, ambizioni.

Era l’Italia degli anni cinquanta, l’Italia che sognava di diventare grande liberamente. Era l’Italia che diventava capitalista spontaneamente. Ma questo non era di gradimento per tutti. Se l’Italia diventava capitalista, con molta probabilità, se qualcuno si arricchiva per le proprie intuizioni, per il proprio spirito imprenditoriale, per i propri sacrifici e per i propri meriti, c’erano anche persone che non vivevano tutto questo boom economico. C’erano persone che vivevano la povertà più assoluta.

Ma anziché dare fiducia al capitalismo e al mercato, anziché convincersi che il benessere di pochi avrebbe creato un benessere diffuso spontaneo, si erano convinti che solo la mano della Stato avrebbe aggiustato ed equilibrato le differenze di reddito.

Pertanto, si cominciò incaricando lo Stato nel garantire una Sanità che fosse accessibile gratuitamente per tutti, per evitare che chi disponeva di meno risorse economiche non potesse curarsi; desideravano uno Stato che sapesse garantire una Scuola per tutti, per evitare che chi disponeva di meno risorse economiche non potesse avere un’istruzione; desideravano uno Stato che sapesse fare l’imprenditore, che potesse subito impiegare i disoccupati, senza dover perdere tempo a cercare un lavoro.

Ma per esaudire tutti questi desideri, occorreva uno Stato con molte risorse economiche. Fra le tante cose, la principale fonte da “strozzare” economicamente erano i redditi medio-alti. Loro hanno le risorse per permettersi quasi tutto, pertanto è giusto che una parte della loro ricchezza venga destinata ai più bisognosi. Ma quel “strozzare” non bastava per soddisfare i desideri degli amanti della mano pubblica.

Se da una parte, i redditi medio-alti si ritrovavano impoveriti rispetto a prima, gli amanti della mano pubblica sostenevano che il problema non fosse lo Stato, ma che il prelievo precedentemente fu insufficiente. Occorreva un prelievo maggiore dei redditi medio alti. E prelievo maggiore fu. Ma non servì a nulla.

Per farla breve, sono passati cinque decenni dagli anni sessanta. L’Italia ha una sanità pubblica che fa acqua da tutte le parti già dalla sua nascita (fine anni settanta). L’Italia ha una scuola pubblica che fa acqua da tutte le parti già dalla sua nascita. Per colpa di quelle politiche, oggi l’Italia è costretta a mantenere economicamente dei baby pensionati, ex dipendenti pubblici, ex dipendenti di aziende statali, attuali dipendenti pubblici.

Non solo, poi ci sono quelli che avevano un reddito medio-alto. Chi aveva un reddito medio, molto probabilmente, ha disperso la propria ricchezza nelle casse statali. Chi aveva un reddito alto, è riuscito con bravuta a mantenere intatta la propria ricchezza.

Ma nel complesso, seguendo il sogno di alcuni socialisti di usare lo Stato per garantire una sanità, una scuola e una protezione economica per i più bisognosi, l’Italia dagli anni sessanta ad oggi è cresciuta economicamente, ma con il freno a mano tirato, almeno fino agli anni novanta. Ma nel duemila è cambiata la musica e nemmeno con la crescita ai minimi storici, l’Italia riesce a salire.

Ora siamo in recessione, ma ancge se l’Italia va sempre più verso la povertà totale, continuano a dominare gli amanti della mano statale.

Vogliono rincarare la dose; vogliono il reddito di cittadinanza; vogliono le assicurazioni auto decise dallo Stato; vogliono aumentare le case popolari. Vogliono continuare a derubare i redditi medio-alti per riuscire ad ottenere quel sogno mai realizzato dai socialisti, quello stesso sogno iniziato negli anni sessanta.

Continuano a dirci che il problema non è il loro progetto, ma che i soldi vengono sprecati, che i soldi vengono usati per corruzioni, che i soldi vengono usati per i vitalizi dei politici. No cari, il problema è che esistete voi, voi socialisti.

Essere (felicemente) schiavi di se stessi

In questi giorni, si parla tanto di schiavi del lavoro, di dignità, di chiudere la domenica, di chi ha un salario troppo basso. Tutto ciò trascurando il fatto che esistono tantissime persone che decidono di essere padrone del proprio destino. Si tratta di una decisione responsabile, quella di puntare tutto su te stesso e di prendere in mano la tua vita, incurante di ciò che accade intorno a te.

Chi compie questa decisione spesso non rispetta un vero e proprio orario di lavoro, potrebbe lavorare sia in ufficio che a casa, anche solo per la programmazione del lavoro futuro. Ma prima di continuare vorrei riportare queste tre citazioni:

Sono convinto che circa la metà di quello che separa gli imprenditori di successo da quelli che non hanno successo sia la pura perseveranza. Steve Jobs

L’ingrediente critico è alzare le chiappe e metterti a fare qualcosa. È così semplice. Un sacco di gente ha delle idee, ma sono pochi quelli che decidono di fare qualcosa a riguardo subito. Non domani. Non la prossima settimana. Ma oggi. Il vero imprenditore è un uomo d’azione. Nolal Bushnell

Dietro ogni impresa di successo c’è qualcuno che ha preso una decisione coraggiosa. Peter Ferdinand Drucker

 

A coloro che parlano tanto di dignità e schiavi, siete consapevoli che tante di queste persone che hanno deciso di mettersi in proprio, sono obbligate a lavorare di giorno e pensare di notte?
Forse non sapete che tante di queste persone, che sono ancora agli inizi, si ritrovano costrette a dover far tanti sacrifici?
Questo perché l’imprenditore, il commerciante ed il libero professionista sono spesso (felicemente) schiavi di se stessi, alla ricerca di continue soddisfazioni personali, economiche e professionali.

Non hai datori di lavoro, non hai un giorno prefissato per la bustapaga, devi riuscire a coniugare il tuo guadagno con le tasse da pagare e, se si è imprenditori con dipendenti, pagare gli stipendi. Come detto in precedenza, fare impresa in Italia è roba da eroi e coraggiosi, perché chi ha il capitale da investire viene spesso scoraggiato dall’altissima pressione fiscale, e dalle spese per l’iter burocratico.

Rispetto ai nostri genitori, riscontro nei giovani un’ammirevole volontà di mettersi in gioco, di voler rischiare, di voler tentare una strada alternativa rispetto al declino italiano. Questo è di buon auspicio per tutta la nazione, in chiave futura, in quanto credo che per essere imprenditori non si debba necessariamente aprire un’azienda. Anche un operaio (o un dipendente) potrebbe essere imprenditore di se stesso.

Infatti esserlo non è soltanto una scelta, ma soprattutto un atteggiamento. In Italia ci hanno abituati a “vegetare” nella stessa azienda per 30-40 anni. In futuro sarà sempre più una rarità vedere un dipendente lavorare nella stessa azienda per tutta la vita lavorativa, proprio perché il lavoro diventerà sempre più flessibile e dinamico.

Ciò che stiamo vivendo in Italia è una fase del lavoro flessibile-statica, in quanto si cambia spesso lavoro, ma le retribuzioni sono le stesse, o persino più basse. Oggi riusciamo a raccogliere tante esperienze professionali, ma a questa esperienza non corrispondono stipendi più alti o impieghi più delicati ed importanti. Questo perché i contratti di lavoro tradizionali sono troppo carichi di tasse, sia per l’imprenditore che per il lavoratore, e sono troppo carichi di burocrazia, compresa la presenza (inutile?) dei sindacati.

Pertanto, occorre lavorare affinché il mondo del lavoro diventi flessibile e dinamico, in modo tale che anche chi ha un contratto a tempo indeterminato sia spinto a non accontentarsi del posto fisso, bensì a tentare qualcosa di nuovo, ed investirci sopra.

Adam Smith diceva che la forza lavoro è la prima proprietà privata dell’uomo, ma di questo parleremo un’altra volta.

Quando l’Ungheria era comunista

Nel 1945, centinaia di migliaia di Ungheresi entrarono in possesso di terreno coltivabile grazie alla redistribuzione delle terre. Dopo aver subito gli orrori del nazismo, i vecchi e nuovi proprietari confidavano che la propria stabilità economica non fosse più in pericolo. Tuttavia una nuova minaccia incombeva sull’Ungheria: il comunismo.

 

Nonostante la guerra fosse terminata,

i contadini dovevano continuare a pagare dei dazi molto ingenti. La popolazione ungherese doveva provvedere alle spese statali, alle provvigioni delle truppe sovietiche occupanti e alla produzione delle derrate alimentari per l’indennità di guerra. Il prodotto era dunque diviso in tre parti inique: una restava nelle mani del contadino e della sua famiglia, una veniva messa da parte per assicurare il raccolto dell’anno successivo, e la terza doveva essere ceduta ai sovietici.

Contemporaneamente alla presa del potere, i comunisti intrapresero una spietata campagna contro la borghesia Ungherese. Fra il 1948 e il 1953 triplicarono i già ingenti dazi che i contadini erano tenuti a versare. Nel 1952 cambiarono anche l’ordine della distribuzione: prima di tutto i contadini dovevano cedere la quota prevista ai sovietici, per poi mantenere una quota da parte per l’anno successivo. Solo il poco rimanente, ammesso che ce ne fosse, sarebbe rimasto a disposizione dei contadini.

Molto spesso alle famiglie non rimaneva abbastanza di che vivere. Quando alcuni coraggiosi si rifiutavano di pagare, iniziavano le intimidazioni: gli ufficiali esattori arrivavano insieme agli uomini dell’ AVH, la polizia segreta comunista ungherese, che terrorizzava l’intero borgo.

 

Qual era il folle disegno dell’Unione Sovietica?

In preparazione di una terza guerra mondiale, l’Unione Sovietica e i suoi stati satellite, compresa l’Ungheria, dovevano provvedere a enormi investimenti per favorire l’industria pesante. Ragion per cui i burocrati sottraevano ingiustamente ai borghesi gran parte dei loro averi. Inoltre iniziava a sorgere il bisogno di manodopera da sfruttare.

Il Partito non risparmiò alcuno sforzo nel distruggere lo stile di vita tradizionale della campagna e a deportare i lavoratori non in grado di provvedere alle spese imposte. In ogni caso, il sistema comunista non poteva sopportare la sopravvivenza di una comunità economica indipendente. Per protrarre il proprio dominio dittatoriale all’intera nazione, lo Stato-Partito organizzò la sistematica eliminazione della classe di proprietari terrieri Ungheresi, ancora legata ai suoi valori conservatori, ai propri costumi e alle proprie tradizioni.

 

Chi era nel mirino dello Stato-Partito?

Il bersaglio degli attacchi era il “Kulako” secondo il modello Sovietico. Il termine Kulako non ha equivalente nella lingua ungherese. Chiunque non vivesse in condizioni di povertà assoluta, in qualsiasi momento, poteva diventare un Kulako: nemico pubblico e preda dei comunisti.

Gli amministratori stilavano le liste dei Kulaki e i contadini più eminenti e di successo nel villaggio apparivano su di esse. Stava ai funzionari di partito, che puntualmente abusavano del proprio potere, decidere chi punire. I burocrati vessavano continuamente i Kulaki con tasse speciali, quote sempre maggiori, sottratte attraverso torture fisiche e psicologiche.

I comunisti assemblarono delle brigate e le addestrarono a tenere la popolazione sottomessa attraverso punizioni pubbliche, violenze e ispezioni continue. Gli agenti controllavano anche la spazzatura dei contadini, per assicurarsi che non nascondessero nulla allo stato.

I sovietici provarono a spezzare lo spirito delle persone attraverso lavoro forzato, evacuazioni improvvise e confische di proprietà ingiustificate, misero in piedi centinaia di migliaia di accuse false, migliaia di processi, che portavano sempre a prigionia prolungata e spesso ad esecuzioni. Processarono e incarcerarono quattrocentomila civili per “crimini contro la produzione comunitaria”, inoltre perseguitarono innumerevoli vittime senza un motivo giuridico. La resistenza era punita con la morte.

 

Il risultato? Disastroso.

Non è sorprendente che nel negli anni 50′ trecentomila lavoratori abbandonarono la propria terra, fuggendo nell’Europa liberale. I contadini rimasti persero la volontà di continuare a lavorare, dato che creando profitto avrebbero rischiato la propria vita. La situazione portò ad una drammatica scarsità di viveri. Il partito reintrodusse il razionamento del cibo e condannò i “sabotatori”.

 

Sabotatori?

Dato che il sistema socialista attribuiva ogni fallimento al sabotaggio di un nemico sconosciuto, era necessario trovare un capro espiatorio. I comunisti attribuirono la carenza di cibo ad alcuni dirigenti ungheresi di spicco. Furono tutti giustiziati. Vennero introdotti nuovi fantasiosi modi per punire i contadini: il reato di “Sabotaggio della trebbiatura” portava alla pena di morte. I comunisti punivano il macello di animali non autorizzato dall’autorità con imprigionamenti prolungati.

Come se non bastasse, il partito applicò il “Sistema d’Avanguardia dell’Agricoltura Sovietica” in tutta Ungheria: un modello terribilmente inefficiente. I comunisti svilupparono in Ungheria un piano di agricoltura direttamente orchestrato dal partito. I privati contadini erano costretti a coltivare secondo le direttive dei gerarchi, spesso controproducenti e inattuabili. Un tentativo notoriamente goffo fu la produzione forzata di cotone e riso, allora virtualmente non coltivabili in Ungheria.

Alla fine ogni resistenza della borghesia fu spezzata, e le ultime fattorie private vennero sottratte e collettivizzate.

 

La giustizia Ungherese, su modello Sovietico,

si liberò della presunzione di innocenza garantita dallo stato liberale, con il risultato che i carnefici potevano utilizzare accuse false contro le vittime. Le confessioni ottenute sotto tortura erano sufficienti. Le testimonianze parlano di pestaggi che spesso portavano alla morte. Era usanza colpire la vittima con un randello, per rompere denti e costole, per poi costringerlo a ingerire fino ad un chilogrammo di sale grosso. Non stava all’accusatore provare la colpevolezza dell’accusato, ma l’imputato doveva provare la propria innocenza, cosa ovviamente resa impossibile dalle circostanze.

La legge non proteggeva il cittadino, era anzi un’arma dello stato per colpirlo. Dieci anni dopo la fine della guerra, i comunisti continuavano ad uccidere e a rendere un inferno la vita di chiunque avesse a che fare con loro.

 

Socialismo significa schiavitù.
-Lord Acton

Miracolo economico anni ’60? Merito di Einaudi

L’anno scorso (si riferisce al 1959, aggiunta mia) il Daily Mail cominciò a lodare l’Italia parlando di “miracolo economico”. Quest’anno il “Financial Times” dà l’Oscar delle monete alla lira. Grazie a Fellini siamo diventati per il mondo intero il paese della Dolce Vita. Finirà che ci monteremo la testa. Anzi: si monteranno la testa i nostri politici, così pronti a convincersi che la ricchezza privata si produce perché essi possano metterci le mani sopra.

Il Miracolo Economico non è stato miracoloso, ma spontaneo. Non ha seguito lo Schema Vanoni, lo ha travolto.

Così Sergio Ricossa racconta e commenta il miracolo economico italiano degli anni cinquanta-sessanta. Nel titolo, se lo avete notato, ho scritto “grazie Einaudi”. Perché proprio Luigi Einaudi se lui è stato solo il governatore della Banca d’Italia e il Ministro delle Finanze fino al 1948, oltre ad essere stato presidente della repubblica fino al 1955? Perché durante il brevissimo periodo da ministro (con la collaborazione di Donato Menichella, successore di Einaudi al ruolo di governatore della Banca d’Italia), Luigi Einaudi riuscì a salvare la Lira, adottando misure parsimoniose sia per quanto riguarda la spesa pubblica e sia per i cittadini, adottando misure anti-inflazionistiche.

I liberisti, guidati da Einaudi, riuscirono a bloccare l’offensiva socialcomunista che avevano un progetto finalizzato a produrre un livello di gettito elevato, utili per il risanamento dei conti pubblici e per porre le basi per una pianificazione economica, in stile Unione Sovietica. Questa pianificazione economica, esattamente, consisteva nell’affidare una parte importante della gestione della ricostruzione alla mano dello Stato per inserire il nostro paese all’interno di un tipo di sistema economico nel quale lo stato potesse esercitare una forma di intervento e controllo piuttosto incisiva.

La strada per la ripresa, secondo il PCI, era quella dell’imposta, attraverso una redistribuzione di ricchezza fra le classi più ricche e le classi più povere e più colpite dalla guerra. Per non parlare, inoltre, dell’idea di istituire una tassazione straordinaria a varie forme di liquidità e titoli di Stato che, solo dal pensiero, provocò talmente terrore alle persone che immediatamente andarono a ritirare i propri depositi bancari e postali.

Einaudi e i liberali erano fortemente contrari e volevano puntare a manovre politiche che riuscissero a tenere buoni i cittadini tenendo a bada l’inflazione e senza penalizzare chi era già stato penalizzato in precedenza (scusate il gioco di parole). Si puntava ad affrontare i problemi in cui si trovavano le finanze statali in gran parte con ordinari strumenti di politica economica e fiscale, e alle difficili condizioni economiche del sistema con strumenti tipici di una politica economica liberale: diminuzione della spesa pubblica, incentivazione del risparmio, libertà di iniziativa privata, aumento del reddito prodotto dalle imprese, innescando così il circolo virtuoso di maggior produzione, maggiori risorse risparmiate, maggiore accumulazione di capitali, maggiori investimenti, maggiore ricchezza, prestiti pubblici, assoluto divieto di emissione di nuova moneta e pressione fiscale non eccessiva.

Un carico fiscale più leggero avrebbe favorito maggiori risorse per la produzione di ricchezza che, una volta aumentata, avrebbe prodotto anche maggiori entrate fiscali ordinarie, contribuendo in tal modo ad una progressiva eliminazione del disavanzo di bilancio. L’obiettivo era anche la stabilizzazione della moneta che, una volta ottenuta, avrebbe permesso di rendere il settore pubblico sempre più minimo, permettendo ai privati di svolgere la parte preponderante nel processo ricostruttivo; quasi come se ci fosse una mano invisibile (come quella auspicata da Adam Smith) che avrebbe garantito l’equilibrio di mercato alle cui leggi anche lo Stato, seppure con compiti suoi propri di rimozione degli ostacoli alla libera iniziativa e di garanzia del suo libero sviluppo, avrebbe dovuto sottostare.

In quel brevissimo periodo, Einaudi non riuscì ad ottenere tutti gli suoi obiettivi (d’altronde non era nemmeno il presidente del consiglio), ma almeno evitò le forti pressioni dei socialcomunisti. Purtroppo anche la pressione e l’influenza liberale dello stesso Luigi Einaudi andò a calare con l’avvicinarsi della scadenza del suo mandato da presidente della repubblica.

In contemporanea, i governanti durante il periodo del miracolo economico italiano si presero i meriti; mi sto riferendo alla Democrazia Cristiana post-De Gasperi primeggiata da persone come Gronchi e Fanfani che sostenevano – rispettivamente – che “l’industria pubblica può sopravvivere senza profitti” e che “se qualcuno ha un problema, lo Stato glielo deve risolvere”. In particolare, vennero dati molti meriti allo Schema Vanoni che puntava alla piena occupazione, alla creazione di nuovi posti di lavoro. Peccato però che il limite dello stesso schema fosse quello di preoccuparsi che la manodopera fosse abbondante dimenticando – però – che è il capitale favorisce l’occupazione. Pertanto si è preso dei meriti quasi per caso.

In realtà, il vero merito fu di Luigi Einaudi, grazie alla sua azione di stabilizzazione monetaria che attuò dall’estate 1947, salvando l’Italia e gli italiani da un’inflazione che avrebbe provocato dei seri problemi all’economia. Ottenendo questo risultato non provocò direttamente il miracolo economico, ma fu il punto di partenza per qualcosa di spontaneo e straordinario come quello accaduto alla fine degli anni cinquanta e inizio sessanta.

Peccato però che ingredienti come intervento statale in economia per controllare, con il sostegno sindacale e dei consigli di gestione, l’iniziativa privata (pianificazione); nazionalizzazioni; riforma agraria – tutte misure realizzate dal 1955 fino agli anni settanta – non solo resero la Lira sempre più debole, non solo la spesa pubblica sempre più alta, non solo meno ricchezza privata, ma anche un’Italia sempre più povera e mediocre. Ma come insegna, lo stesso Einaudi, se punti sulla spesa pubblica e alla stabilità della moneta, metti in condizione la tua nazione di poter puntare al meglio e alla crescita.

Dazi e cannoni

Attraversando le strade di Bordeaux nel 1808, il console americano W. Lee rilevò lo stato di totale abbandono della città, e scrisse nei suoi appunti di viaggio che «Grass is growing in the streets of this city. The beautiful port is totally deserted»1 . Il commissario di polizia, in un rapporto, parlava di miseria estrema e di mancanza quasi totale di lavoro. A Livorno il numero di famiglie iscritte nel registro dei poveri aumentò da 2.512 nel 1810 a oltre 20.000 nel 18132. Le due città, seppur lontanissime, erano state colpite dalla guerra di Napoleone. Non dai suoi formidabili cannoni, ma da qualcosa di più letale, subdolo e radicale: il blocco commerciale.

Verso la fine del 1808, Napoleone aveva imposto all’Impero francese e alle repubbliche sorelle il tristemente famoso blocco continentale, un sistema di dazi e divieti nei confronti della Gran Bretagna e delle sue colonie. L’idea, in verità, fu di tre economisti fisiocratici che osservarono come la Gran Bretagna avesse gradualmente abbandonato l’agricoltura in favore dell’industria. Con il blocco continentale, la Francia bloccò tutte le esportazioni agricole dal continente verso la perfida Albione, indebolendola; nel contempo, avrebbe impedito ai manufatti britannici di avere uno sbocco commerciale nel continente, causando una crisi economica all’odiato nemico e eliminando la concorrenza per le industrie francesi.

Le cose non andarono esattamente così. Il blocco indebolì certamente l’economia inglese, ma solo in minima parte: casi di contrabbando, filtrazioni, corruzione o addirittura elusione delle regole dettate dall’Imperatore (lo stesso zar russo tentò di aggirare il blocco) furono così diffusi da permettere ugualmente il commercio. Si pensi che ad Amburgo, nel 1810, il direttore della dogana ammetteva che dalle 15 alle 20 mila persone (circa un sesto della popolazione) vivevano unicamente grazie ai proventi delle filtrazioni3, cioè di piccoli contrabbandi con le regioni confinanti.  Inoltre, gli stessi cittadini francesi furono duramente colpiti dal blocco, poiché i manufatti francesi erano molto più costosi di quelli inglesi o coloniali.

Emblematico fu il caso svizzero. Il blocco continentale eliminò la concorrenza britannica nel settore tessile, che in Svizzera conobbe una notevole espansione (1808-14). Il numero di stabilimenti aumentò a «60 nel cant. Zurigo, a 17 nel cant. San Gallo e a sette nella regione appenzellese. Imprenditori che si rifacevano al modello britannico come Johann Caspar Zellweger a Trogen o Hans Caspar Escher a Zurigo trovarono, malgrado gli ostacoli posti dai franc., nuovi sbocchi commerciali in Germania e realizzarono durante la congiuntura bellica ricavi elevati»4. Caduto Napoleone e ripristinato il libero commercio, le industrie tessili svizzere furono travolte dalla concorrenza britannica e fallirono.

Nello studio di Napoleone ci si sofferma spesso sul suo genio strategico, sulle sue artiglierie e sulle conquiste. Ben poco si dice riguardo il blocco continentale, un’arma che sfuggì di mano a Napoleone, impoverendo la sua stessa gente ancor prima che gli inglesi. Nel ventunesimo secolo è essenziale ricordare la lezione del blocco continentale. Per Napoleone, il protezionismo economico e i dazi furono parte integrante della guerra. Sebbene confusamente e con i già rilevati errori, Napoleone intuì come il blocco dei commerci causasse povertà, non crescita economica. Fu cieco sugli effetti interni, ma va detto che nei suoi piani il blocco doveva essere una misura temporanea, accessoria all’invasione delle isole britanniche – mai avvenuta.

I dazi doganali, nonostante ciò che vuole vendere la propaganda, funzionano oggi allo stesso modo di duecento anni fa. Aiutano un settore a crescere eliminando la concorrenza più produttiva e conveniente, ma colpiscono tutti i consumatori, indiscriminatamente. Un produttore di maglie italiano che può vendere il suo prodotto a 20 euro vedrà sicuramente male l’arrivo di un produttore cinese che può vendere lo stesso prodotto a 5 euro. I dazi hanno il compito di compensare al divario dei prezzi, così che anche il venditore cinese, dovendo pagare una tassa in più, dovrà alzare il prezzo del suo prodotto. Chi perde è il consumatore. Comprare un prodotto di 5 euro significa risparmiarne 15, da poter impiegare in altri commerci presso altri venditori che hanno diritto di restare sul mercato tanto quanto il venditore di maglie. E’ vero che il settore tessile nazionale verrebbe danneggiato – nessuno lo nega – ma è anche vero che il consumatore (soprattutto il più povero) potrebbe permettersi di comprare più prodotti con quei 20 euro che un tempo avrebbe speso per un solo bene.

Purtroppo questo è un esempio. I dazi hanno effetti ancora peggiori, nella pratica. Spesso le nazioni estere verso cui vengono innalzate barriere doganali, rispondono con le medesime contromisure. In breve tempo, anche le esportazioni verso l’estero subiscono un duro colpo, poiché anche i venditori nazionali saranno costretti a vendere le merci a prezzo più caro sui mercati stranieri – vendendo quindi di meno.

L’intero gioco si conclude in un totale impoverimento, da una parte e dell’altra. Come duecento anni fa. Perché le leggi dell’economia sono immutabili, ma la memoria è troppo corta.

 

1 “I negozianti delle città portuali in età napoleonica: Amburgo, Bordeaux e Livorno di fronte al blocco continentale, 1806 – 1813”, S. Marzagalli, p. 358, Istituto Universitario Europeo, Dipartimento di Storia e Civiltà, 16 dicembre 1993.

2 “I negozianti delle città portuali in età napoleonica: Amburgo, Bordeaux e Livorno di fronte al blocco continentale, 1806 – 1813”, S. Marzagalli, p. 359, Istituto Universitario Europeo, Dipartimento di Storia e Civiltà, 16 dicembre 1993.

3 “I negozianti delle città portuali in età napoleonica: Amburgo, Bordeaux e Livorno di fronte al blocco continentale, 1806 – 1813”, S. Marzagalli, pp. 264 e seg., Istituto Universitario Europeo, Dipartimento di Storia e Civiltà, 16 dicembre 1993.

4 “Blocco continentale”, A. Fankhauser, Dizionario Storico della Svizzera, 19 maggio 2004.

 

Il Fronte dell’Uomo Qualunque: un liberalismo dimenticato

Dedichiamo questo articolo al Fronte Dell’Uomo Qualunque, movimento e, successivamente, un partito politico italiano sorto attorno all’omonimo giornale (L’Uomo qualunque) fondato a Roma nel 1944 dal commediografo e giornalista Guglielmo Giannini. Perché? Perché ritengo che egli abbia lasciato – almeno per noi liberali – un’eredità culturale importante. Un’eredità, probabilmente, considerata troppo povera. In questo articolo proverò a mettere l’accento su tantissimi contenuti liberali liberisti presenti nei saggi politici del commediografo italiano.
Siamo nel periodo 1943-44, l’Italia Fascista è in grave declino e Mussolini si rifugia al Nord con lo Stato Fantoccio della Repubblica Sociale, dopo l’esperienza di Salerno e con la successiva liberazione di Roma si tenta lentamente di creare un Governo e i partigiani e gli americani tentano di liberale il territorio dal dominio nazifascista. In tutto questo caos istituzionale arriva nelle edicole di Roma, mercoledì 27 dicembre 1944, il primo numero della testata giornalistica denominata «L’Uomo Qualunque». Il fondatore era Guglielmo Giannini (1891-1960), giornalista, scrittore e regista italiano. Il primo elemento che colpisce in modo particolare è il simbolo della testata.
Una delle coppie di mani appartiene alla tassazione, l’altra alla statizzazione che schiacchia una persona. Chi è questa persona? Vi rispondo con le stesse parole di Guglielmo Giannini.
Il borghese, il lavoratore onesto che lascia le sue ultime monete, schiacciato sotto il torchio
Lo scopo di Giannini era quello di dare voce alle opinioni dell’uomo della strada, contrario al regime dei partiti e ad ogni forma di statalizzazione. Fin da subito la posizione è chiarissima: abbasso tutti. Si considera antifascista e anticomunista e porta avanti una linea editoriale pungente e satirica. Il fenomeno avviato da Guglielmo Giannii fu erroneamente associato all’etichetta di Qualunquismo, che vuol dire “atteggiamento, morale e politico, polemico nei confronti dei partiti politici tradizionali in nome di una gestione tecnocratica e non ideologica del potere, assunto dai promotori e sostenitori del movimento qualunquista” (fonte Treccani).
In realtà dietro questa etichetta, il pensiero politico di Giannini e del Fronte dell’Uomo Qualunque, era molto più profondo e articolato. Proprio per questo ho deciso di parlare degli aspetti liberali che, a mio parere, sono stati poco analizzati e discussi nel corso della storia.
Il principio ispiratore è la libertà.
nella formula con cui fu enunciata dai Fondatori delle Nazioni Unite, Franklin Delano Roosevelt, Winston Churchill, Libertà di parola — Libertà di Religione — Libertà dal bisogno — Libertà dalla paura
Nello specifico, era un convinto sostenitore dello Stato Minimo. Non era d’accordo con il motto statalista mussoliniano “tutto nello Stato niente contro, al di fuori o al di sopra dello Stato”, ma era favorevole allo Stato Minimo (o Stato Amministrativo). La citazione dello storico Dino Cofrancesco (1942) penso sia la più adatta per descrivere l’idea di Stato di Giannini.
Uno Stato che si tiene lontano dal farsi attore sociale
Nel saggio di teoria politica scritto da Giannini, La Folla, insiste molto sulla questione del rapporto tra il cittadino e il governo statale, facendo vari esempi, dalla visione dello stato come «una scrivania alla quale sta seduto un impiegato che con un campanello può chiamare un poliziotto», all’idea di Stato al servizio del cittadino e non paternalista, all’opposizione allo «Stato scocciatore». Il suo obiettivo è quello contrastare la presenza dello stato nella vita sociale italiana, in quanto l’unica cosa di cui ha bisogno il cittadino qualunque (o l’uomo qualunque) è quello di essere amministrato. Di conseguenza, egli nonostante sia opportuno contrastare il comunismo e sia il capitalismo della grande industria, il suo programma politico era incentrato su un liberismo economico individuale.
Il tiranno c’è sempre, la rottura di coglioni c’è sempre; e sia l’uno che l’altra si valgono dello Stato e della forza oppressiva dello Stato per fare il proprio comodo e i propri interessi
Lui si ispirava all’idea libertaria di Henry Thoreau (1817-1862), filosofo e scrittore americano, nel quale nella sua opera Disobbedienza Civile, esprime la sua contrarietà nei confronti del governo invadente.
Il governo migliore è quello che governa di meno
A tal proposito, Giannini era favorevole ad un certo turnover della classe politica.
Vogliamo invece mettere i governanti nell’impossibilità di far male, o quanto meno, nelle condizioni di fare il minor male. […] Nessuno dovrebbe occupare una carica per più di due volte di seguito, nessuno dovrebbe essere presidente della Repubblica per più di due anni consecutivi, nessuno dovrebbe essere Capo del Governo per più di un anno, nessuno dovrebbe essere eletto deputato per più di due volte senza intervallo e via discorrendo.
Inoltre, lo Stato pretende di comportarsi come se fosse un privato cittadino, quindi pretende di fare commercio. Proprio le tasse vengono adottate per fare il “mestiere altrui” di imprenditore, per coprire le perdite economiche. Come dice anche lo stesso Giannini.
Lo Stato considera il Paese come una miniera da sfruttare i suoi abitanti come un gregge da tosare, scuoiare, squartare, cucinare, mangiare.
Quindi insisteva nel fare propaganda contro lo Stato Azienda, promosso dai comunisti, in particolare con Nikita Krusciov nel 1956.
la Ford e la Fiat, la Montecatini e la Standard saranno lo Stato, miei datori di lavoro e maestri, direttori di coscienza e confessori. Se un amministratore delegato s’incapriccerà di una donna di casa mia dovrò dargliela o finire in galera. È questa la perfezione che mi si promette con lo Stato Azienda che assorbe ogni iniziativa privata? Se è questa sono Contro questo Stato e ritengo più civile e progredita l’Età della Pietra, con tutti i suoi disagi compensati però dalla sua impagabile libertà.
Dal rifiuto al modello teorico di organizzazione statale proposto dai comunisti, Giannini è favorevole ad affidare l’economia nazionale nella sua totalità, ai privati.
Angelo Imbriani, autore del testo Vento del Sud : moderati, reazionari, qualunquisti, 1943-1948 (1996), spiega che l’idea di Stato di Giannini era:
un modello organizzativo dello stato estremamente suggestivo per il ceto medio dell’impiego e delle professioni, perché basato sulla valorizzazione delle competenze individuali e capace quindi di restituire a queste fasce sociali quel ruolo che esse temono di poter perdere o immaginano di aver già in parte perduto.
La visione di Stato di Giannini prevedeva il matrimonio tra Politica e Tecnica, in quanto dividerli vorrebbe dire:
vuol dire soltanto favorire la peste del politicantismo puro, astratto, metafisico, inutile e anzi dannoso; vuol dire Mussolini. ministro della guerra, Togliatti ministro della giustizia, Scoccimarro ministro delle Finanze, e quindi Mussolini, Togliatti, Scoccimarro alla perpetua ricerca di tecnici che attuino la loro politica (pericoloso doppione) con il risultato che o la tecnica si debba mettere al servizio della politica contorcendosi ai suoi voleri, o la politica debba cedere il posto alla tecnica snaturandosi fino al
proprio annullamento.
Guglielmo Giannini e il Fronte dell’Uomo Qualunque non aveva un rapporto buonissimo con il Partito Liberale Italiano. I contrasti con Benedetto Croce erano evidenti e difficili da risolvere. Il problema era soprattutto organizzativo e di comunicazione, in quanto Croce era per una politica di élite e Giannini era per una politica di massa. Lo stile populista di Giannini non era particolarmente ben visto, dunque, dagli ambienti liberali del Partito Liberale Italiano.
Il successo del Fronte dell’Uomo Qualunque fu tanto breve tanto quanto intenso. Ritengo per l’Italia che sia stata una grande occasione liberale mancata. Forse con un pizzico di lungimiranza, adottare una linea politica liberale di massa, probabilmente avrebbe evitato il declino del Partito Liberale Italiano che, a mio parere, si è sempre “intestardito” (e tuttora insiste) con la politica dei pochi o di élite.
Sarà bellissimo un domani raccontare e diffondere le opere di Guglielmo Giannini..