L’Unione Europea secondo David Hume

La crisi economica innestata dal dilagare del coronavirus ha riportato al centro dell’attenzione il ruolo dell’Unione Europea e gli strumenti di cui questo organismo può disporre per venire in aiuto agli Stati in difficoltà.

Si è proposto di usare i fondi del Mes oppure emettere titoli di debito condiviso dagli stati membri, i famosi eurobond tanto cari a Tremonti. Queste misure, ben lontane dal dare una risposta seria ed efficace nel lungo termine, sono da considerarsi delle vere e proprie cessioni di sovranità verso Bruxelles: il Mes implica una cessione esplicita, alla luce del sole, mentre gli eurobond farebbero entrare dal retro una futura armonizzazione fiscale e un ministro delle finanze unico per l’Eurozona. Ha riassunto bene la contraddizione dei sovranisti-pro eurobond un tweet del professor Riccardo Puglisi, economista che insegna all’Università di Pavia:

“Quindi qualcuno non ha ancora capito che per avere i cosiddetti eurobond devi avere un bilancio federale europeo, cioè spese e imposte decise a livello federale?”

Da un punto di vista liberale, date queste premesse, è necessario chiedersi: è giusto implementare questo processo? Quanto è funzionale, nel processo verso l’autodeterminazione dell’individuo, una cessione di sovranità da un organismo minore a uno di maggiore entità come è l’Ue?

Se guardiamo alla storia europea, alla nascita della cultura occidentale e allo sviluppo del commercio possiamo vedere come questa grande “fertilità” dal punto di vista economico e culturale sia stata possibile grazie a un sistema fortemente decentralizzato.

David Hume, interrogandosi sulla nascita delle arti e delle scienze, affermava che

“Niente è più favorevole al sorgere della civiltà e della cultura dell’esistenza di un certo numero di Stati vicini e indipendenti, legati da rapporti commerciali e politici.”

Sembrerebbe quindi escludere l’evoluzione del processo di integrazione europea dal percorso di sviluppo e crescita dell’Occidente. Hume naturalmente non faceva riferimenti al concetto moderno di entità sovranazionale come oggi noi intendiamo l’Unione Europea: parlava di Stati più o meno grandi, ma ci sembra necessario citare il pensiero del grande filosofo scozzese perché per troppo tempo abbiamo visto un’euroscetticismo chiuso, illiberale e senza cultura. L’opportunità per costruire una critica seria e argomentata all’Unione Europea e a una maggiore integrazione tra gli stati membri esiste realmente, e andrebbe colta per non veder scadere il dibattito politico nel banale “euro sì – euro no”.

I vantaggi di Stati di minore estensione sono molti secondo Hume: in un grande Stato l’autorità potrà facilmente utilizzare la coercizione sui singoli individui per commettere ingiustizie, mentre nelle piccole comunità sarà disincentivata a farlo perché dovrà agire sotto gli occhi di tutti. Questa visione tra l’altro verrà ripresa da Hayek, che affermerà come negli Stati più estesi la coercizione sarà sempre maggiore perché maggiore sarà il potere nelle mani di chi governa. Hume afferma che

“le divisioni in piccoli stati favoriscono la cultura, perché arrestano i progressi dell’autorità e del potere.”

Secondo Hume la forza dell’Europa a livello culturale ed economico sta proprio nella sua frammentazione, così come la frammentazione politica permise alla Grecia di diventare un faro di civiltà per l’Occidente. Il decentramento e la competizione hanno accompagnato la storia europea, e non è appiattendo le nostre differenze che troveremo la strada per crescere. Anche Margaret Thatcher riprenderà questa tradizione affermando che

“Se l’Europa ci affascina, come ha spesso affascinato me, è proprio per i suoi contrasti e le sue contraddizioni, non per la sua coerenza e continuità.”

Vale inoltre la pena, per avvicinarci ai giorni nostri, di citare Daniel Hannan, eurodeputato conservatore e uno dei maggiori volti della campagna per il Leave al referendum sulla Brexit. Nel suo libro “What Next”, in cui traccia una futura Global Britain fuori dall’Ue Hannan fa notare come la Brexit non debba essere un punto di arrivo, ma un punto di partenza: “la sfida ora è devolvere il potere al livello più basso praticabile, fino ad arrivare al singolo cittadino”. Non un sovranismo fine a sé stesso, che da un punto di vista liberale sarebbe inaccettabile, ma un percorso verso le libertà individuali.

Un liberale dovrebbe valutare con grande attenzione queste tematiche: l’accentramento di poteri permette una coercizione sempre maggiore, e l’armonizzazione fiscale in Europa non porterà certamente ad un abbassamento delle imposte.

Da David Hume a Friedrich von Hayek è stata riconosciuta l’importanza del libero scambio per una maggiore e diffusa prosperità, e questo avviene nelle condizioni di un mercato libero, non in un mercato unico. Ai tempi del virus, forse, tornare a riflettere sull’opportunità di istituzioni con immenso potere come la Bce e l’Unione Europea in generale sarebbe davvero necessario, così come capire che, molte volte, sulla strada per l’unità a lasciarci le penne è la libertà.

Perché si vive meglio negli Stati piccoli?

Dei dieci Paesi europei economicamente più liberi ben nove sono classificabili come Stati piccoli, per territorio o popolazione. L’unica eccezione è il Regno Unito. Lo stesso per le libertà civili: nove su dieci sono Stati piccoli, l’unica eccezione è il Portogallo. Per il PIL pro capite? Nove sono Stati piccoli, la Germania è l’unica eccezione. Sanità? Tutti e dieci Stati piccoli. Felicità? Ancora nove con l’eccezione dello UK. Inoltre, quasi nessuna di queste classifiche tende a classificare microstati come il Liechtenstein, che sappiamo avere un’economia molto libera.

Per quale ragione gli Stati piccoli primeggiano? Tanti direbbero – ti consiglio di leggere l’articolo linkato! – “perché sono paradisi fiscali che rubano agli stati sociali europei”, ignorando il fatto che spesso gli Stati che primeggiano sono quelli scandinavi: piccoli in popolazione – e a volte la popolazione nel determinare la “grandezza” in senso socioeconomico conta più della superficie – ma con forti Welfare State.

Le ragioni si possono desumere conoscendo il liberalismo. Già nell’Ottocento Alexis de Tocqueville faceva notare:

Nulla è più contrario dei grandi stati al benessere generale e alla libertà individuale […], se non vi fossero che i piccoli Stati e non i grandi, l’umanità sarebbe senza dubbio più libera e felice.

Alexis de Tocqueville

Sicuramente era un bastian contrario della sua epoca: un francese – cittadino del Paese che ha dato i natali allo Stato nazionale – che nell’epoca in cui si anelava l’unità d’Italia e di Germania criticava i grandi Stati. Ma la storia gli ha dato ragione.

Quali sono, in pratica, le motivazioni che rendono i piccoli Stati migliori di quelli grandi? Vediamolo assieme.

Meno autarchia e più libero commercio

I piccoli Stati tendono ad avere meno risorse sul proprio territorio rispetto a quelli grandi per ovvie ragioni. Quindi possono dipendere meno da sé stessi e devono per forza puntare sul commercio internazionale.

I grandi Stati, invece, possono in larga parte usare proprie risorse. Se ciò ad una prima analisi può sembrare una cosa positiva, in realtà non lo è: porta gli Stati a favorire il proprio anche quando è economicamente sconveniente, come nell’esempio dei minatori e della Thatcher.

La ragione è banale: a livello politico è impopolare far estinguere settori solo perché economicamente sconvenienti. Più uno Stato è grande più avrà settori da proteggere e quindi rallenterà la propria economia.

Più uno Stato è piccolo, invece, più questo Stato dipenderà dal libero commercio con Paesi lontani e vicini e dal mantenere buoni rapporti con loro. Questo Paese sarà più legato alle leggi del mercato e sarà in grado di creare più ricchezza in tal modo. Infatti secondo il Global Enabling Trade Report, in Europa, dei dieci Paesi più liberoscambisti otto sono piccoli.

Concorrenza (fiscale) più semplice

Secondo la narrazione mainstream la concorrenza fiscale è un male da limitare ma in realtà è un bene da incentivare. La ragione per cui negli ambienti europeisti di sinistra la si critica è che avvantaggia gli Stati efficienti, che sono praticamente sempre quelli piccoli. Voler risolvere i problemi dei grandi Stati vietando a quelli piccoli di funzionare bene è come avere una perdita in cucina e smettere di mangiare invece che ripararla: non ha alcun senso. Bisognerebbe invece chiedersi “perché il piccolo funziona?” e trarne lezioni anche per i grandi, come suggerisce il buon Giovanni Adamo II del Liechtenstein.

Se le unità statali sono piccole è più facile accedere a questa concorrenza. Basta spostarsi di pochi chilometri per avere condizioni fiscali più adatte alle proprie esigenze. Con Stati grandi ciò è molto più difficile, quindi hanno un minore incentivo a mettersi al servizio dei contribuenti e delle aziende e a efficientarsi in modo da avere un livello di servizi adeguato alla tassazione.

Ma concorrenza non vuol dire averla solo sulle tasse. Piccole unità territoriali – statali o sottostatali decentrate – possono concorrere anche nel tipo e nella quantità di servizi che forniscono. Si tratta del concetto espresso nel libro “Lo Stato nel Terzo Millennio” del già citato Principe del Liechtenstein e che provo a spiegare meglio qui.

Più decentramento

Una spiegazione sul sistema svizzero fatta dalle autorità svizzere

Sembra assurdo pensare che gli Stati piccoli decentrino di più di quelli grandi, in fin dei conti a trarre beneficio dal decentramento dovrebbe essere il grande, non il piccolo.

Eppure, dati alla mano, spesso sono i Paesi piccoli a decentrare meglio. Pensate al federalismo svizzero o al decentramento comunale del Liechtenstein. Oppure, come non citare il fatto che nei Paesi scandinavi il welfare sia, in larga parte, in mano a entità locali (quando non è in mano a privati come alcune scuole in Svezia)?

Sulla ragione sono giunto ad una teoria: gli Stati grandi hanno molte situazioni socioeconomiche sul proprio territorio e molte di esse hanno problemi. Viene spontanea la creazione di un “nazionalismo sociale” che chiede che “non esistano cittadini di serie A e di serie B” e propone un marcato intervento dello Stato, quasi sempre fallimentare, negli affari locali per “dare a tutti gli stessi servizi”.

Gli Stati piccoli tendono ad essere per loro natura più uniformi e quindi possono mettere l’efficienza prima di questa forma di nazionalismo sociale, dunque decentrando e avendo, alla fine, servizi migliori e una struttura più funzionale.

Democrazia migliore

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Landesgemeinde, un’antica forma di democrazia diretta ancora praticata in parte della Svizzera. Fonte Wikimedia Commons

Nove delle dieci democrazie migliori d’Europa sono piccoli Stati secondo il Democracy Index. Non è chiaramente un fatto a sé: se come abbiamo già mostrato in questi Paesi lo Stato è leggero e decentrato è abbastanza ovvio che la qualità della democrazia sarà maggiore rispetto ai Paesi dove lo Stato deve affrontare mille questioni e vince chi urla di più inventandosi la crisi del momento.

Comunque, in generale, gli Stati piccoli hanno una democrazia migliore anche per le proprie dimensioni: è più semplice che i rappresentanti siano vicini al cittadino – come ad esempio accade in Svizzera – e l’esercizio della democrazia diretta non ha i costi proibitivi che ha nei Paesi grandi.

Molti direbbero che la democrazia diretta è meglio non averla, ma così non è: sono i nostri Stati elefantiaci e mastodontici a non avere una struttura adatta ad essa. Nei due Paesi europei dove c’è la democrazia diretta ha prodotto ottimi risultati e ha responsabilizzato i cittadini nell’uso dei propri soldi.

Unioni migliori

Quando ho osato criticare l’Unione europea è arrivato uno stuolo di nazionalisti che avevano barattato il loro tricolore con una bandiera a dodici stelle a lamentarsi animatamente – in un comportamento che una persona, che per di più non condivideva il contenuto originale, ha saggiamente definito “grillismo europeista” – perché, per loro, dire che ci sono Stati che possono stare bene senza Bruxelles è una brutta bestemmia.

Un giorno scriverò un articolo sulle critiche all’attuale integrazione europea da un punto di vista liberale, ma proviamo un attimo a immaginare un’Europa composta da piccoli Stati.

Per gli Stati piccoli è parecchio difficile avere una forza militare degna di tal nome. Sarebbe quasi spontanea un’unione ai fini militari di questi Stati, come già spiegavo nell’articolo linkato nell’introduzione.

Anche a livello diplomatico gli Stati piccoli, con le dovute eccezioni, tendono a pesare poco. Un’unione sarebbe spontanea anche qui e, tra l’altro, Stati piccoli tendono a favorire la stabilità per poter commerciare liberamente rispetto a interessi partigiani.

Anche un mercato comune di beni, persone, capitali e servizi, con il limitato governo che esso richiede, verrebbe spontaneo: infatti Stati piccoli possono affidarsi molto meno ad una “autarchia interna”, anche per quanto riguarda i lavoratori, come mostrato nei punti precedenti.

Fin qui basta. Non c’è bisogno di accentrare la democrazia – cosa che rende i politici meno responsabili – né di limitarsi la concorrenza come provano a fare gli Stati oggi usando l’UE come un mezzo per dire agli altri dove comperare, arrivando agli assurdi della Francia e dell’Italia che sostengono posizioni diplomatiche diverse in Libia ma guai a loro se commerciano con Paesi diversi.

Essendo il libero scambio per gli Stati piccoli un bene questa Unione cercherebbe trattati vantaggiosi per tutti ma non avrebbe nulla da contestare se uno degli Stati commerciasse liberamente con altri Paesi ancora, finché coerente con la linea diplomatica comune.

Ecco, io preferirei mille volte un’unione come quella descritta rispetto all’UE che, nei fatti, per favorire alcuni Stati membri è molto unita dove potrebbe non esserlo e disunita dove un’unione sarebbe benefica per tutti.

Fonti e documenti utili

Si può essere euroscettici senza essere sovranisti?

Quando pensiamo agli euroscettici, solitamente ci vengono in mente loschi figuri che propongono di uscire dall’Unione per poter tornare ad una valuta sovrana da stampare come i soldi del Monopoli o che parlano di quanto sia cattiva l’Europa a imporci cose brutte come il pareggio di bilancio, il divieto degli aiuti di Stato e la concorrenza.

Qualcuno va delirando e addirittura cita Margaret Thatcher, la stessa Margaret Thatcher che era contraria all’euro per l’Italia perché, parole sue, ha “un’economia inefficiente”.

Verrebbe da dire che un liberale non può che essere europeista, ma non è vero. In questo articolo vedremo come essere euroscettici e sostenere idee liberali non sia affatto in contrasto e ipotizzeremo come e perché un governo liberale possa uscire dall’Unione.

Personalmente, sia chiaro, non ho pregiudizi sull’integrazione europea e difficilmente farei campagna attiva per l’uscita, specie valutando quale sarebbe l’alternativa in Italia. Tuttavia sono fortemente sfiduciato dal progetto europeo formato da Stati. Alla fine l’UE è un club di Stati: loro decidono, loro comandano e danno un contentino democratico col Parlamento europeo.

Se poi certi Stati – *coff* Spagna *coff* – sono disposti ad uccidere pur di non perdere la sovranità, state sicuri che non accetteranno supinamente un progetto che un giorno può svegliarsi e dire “Sai Madrid, domani la Catalogna vota per l’indipendenza e se non lo permetti ti commissariamo”.

L’unica Europa federata che a mio parere potrebbe funzionare veramente come vorrebbero gli europeisti duri e puri è quella dei 1000 Liechtenstein, per citare Hoppe.

Perché uscire?

Torniamo a noi. Per quale motivo un governo liberale potrebbe voler uscire dall’Unione? Le possibili ragioni sono varie.

La prima è commerciare più liberamente. Se è vero che l’Unione europea ha raggiunto grandi obiettivi nel libero commercio, soprattutto quello interno, è anche vero che spesso, grazie all’influenza degli stati centralisti dell’Europa occidentale, tale progresso resta bloccato quando il libero commercio può “danneggiare” l’economia di uno di questi Stati, si pensi a tutte le scuse che la Francia ha inventato per provare a bloccare l’accordo col Mercosur, avverso agli agricoltori francesi.

Grosso modo gli Stati dell’Associazione Europea del Libero Scambio, oggi Svizzera, Liechtenstein, Norvegia e Islanda, commerciano come l’UE oltre che con essa. Ma nulla vieta a questi Paesi di avere più trattati di libero commercio rispetto all’Unione europea. Tant’è che, per esempio, l’equivalente EFTA del CETA è entrato in vigore nel 2009, mentre il CETA nel 2017, e tra l’altro in via provvisoria.

Un’altra possibile motivazione è quella di voler liberalizzare l’agricoltura, come fatto ad esempio in Nuova Zelanda. Nell’Unione europea l’agricoltura è fortemente regolata e uno Stato non può semplicemente dire “da oggi liberalizzo”. I Paesi EFTA invece possono fare quello che vogliono, l’agricoltura è esplicitamente esclusa dai trattati.

Se si vuole una nazione con un modello liberale sulle armi, tra l’altro, uscire dall’Unione è praticamente obbligatorio. Bruxelles odia le armi, c’è poco da fare, e se con gli Stati esterni può fare pressioni come minacciare ripercussioni su Schengen, com’è successo per esempio con la Svizzera, con gli Stati membri può agire molto più incisivamente.

Se un governo liberale volesse un “secondo emendamento” starebbe in pratica dicendo “vogliamo uscire dall’Unione europea”, c’è poco da dire.

Ma si potrebbe voler uscire dall’Unione anche per un mero fatto politico: commerciare e scambiare merci, persone e servizi liberamente con uno Stato non vuol dire per forza volerci stare assieme politicamente. Uno Stato può apprezzare i prodotti ungheresi o i servizi spagnoli e voler fare bonifici a commissioni nazionali verso la Polonia ma non voler aver nulla a che fare con le politiche di dubbia qualità democratica dei due Stati in questione.

Per qualcuno perdere un po’ di rappresentanza potrebbe essere un prezzo accettabile per non essere invischiato nei vari problemi dell’UE.

Come uscire?

Come dovrebbe un governo liberale uscire dall’Unione europea? Oggi abbiamo un solo caso di procedura di uscita dall’Unione, quello inglese, che è stato abbastanza confusionario.

La procedura della Brexit è sicuramente un caso da non imitare. A mio parere la miglior maniera di fare una secessione è quella prevista dalla Costituzione del Liechtenstein: si vota sull’argomento e poi sul trattato.

La legge italiana rende tuttavia difficile votare un referendum del genere perché richiederebbe una legge costituzionale. Farne due potrebbe essere difficoltoso, se quindi un governo avesse un mandato popolare chiaro dovrebbe fare una cosa: andare a Bruxelles e trattare fin da subito.

Le cose da ottenere sarebbero principalmente il poter rimanere nello Spazio Economico Europeo, avere la strada aperta per entrare nell’EFTA, mantenere Schengen e poter rimanere nei progetti europei interessanti e concordati. Se ci sono dei debiti è bene pagarli subito per partire da una posizione migliore.

Una volta concluso il trattato i cittadini voteranno per quel trattato in un referendum. Non voteranno un generico “restare” contro “uscire”, voteranno uno specifico trattato. Se questo trattato vince non è colpa del populismo, di Trump, di Bolsonaro o di chicchessia, semplicemente i cittadini hanno ritenuto quel trattato e le relative implicazioni più vantaggiose dell’appartenenza all’UE.

Poche cose cambierebbero nell’immediato: Gli Stati dell’EFTA – eccetto la Svizzera che non è nello Spazio Economico Europeo – sono praticamente come Stati dell’UE. Ma un governo liberale potrebbe iniziare a cercare nuovi trattati di libero scambio, ridurre l’interventismo in agricoltura, modificare la politica sulle armi o altro che onestamente non mi viene nemmeno in mente.

Se ti fosse venuta voglia, beh, pensaci bene

Magari con questo articolo ti ho convinto che uscire dall’Unione europea è una cosa positiva. Ti invito ad approfondire l’argomento anche consultando altre fonti perché da un articolo divulgativo come questo non è saggio trarre insegnamenti tali da mutare le proprie visioni politiche.

Se sei veramente convinto, beh, valuta bene come schierarti. La posizione liberale euroscettica è profondamente minoritaria.

Tipicamente gli italiani euroscettici lo sono perché credono che il libero scambio, la concorrenza e la libertà economica abbiano danneggiato l’Italia. Sostenere un partito euroscettico italiano, oggi, vuol dire negare ogni singola parola scritta in questo articolo.

Significherebbe stare con l’Italia che sussidia l’agricoltura alla follia, che si chiude su sé stessa per tutelare qualche azienda decadente (dimenticando che le proprie Regioni ricche vivono di export), con il partito unico dell’inflazione, della svalutazione e del debito.

Perché, alla fine, se condividi quello che ho scritto non sei euroscettico, sei semplicemente liberale. Credi in piccoli Stati che commerciano liberamente tra di loro, che di scambiano idee, persone e servizi senza che da ciò derivi necessariamente un’unione politica forte. Un sistema che Thomas Jefferson ben sintetizzava come “Pace, commercio, e onesta amicizia con tutte le nazioni ingarbugliando le alleanze con nessuna”

Più Europa non è (sempre) uno slogan liberale

In Italia tutti gli appartenenti alla frastagliata galassia liberale sono convintamente filo-Unione Europea e spesso invocano più Europa come soluzione ai problemi che di volta in volta si discutono.

Cosa significa più Europa?

Analizziamo in breve cosa può significare l’invocazione di più Europa. Chi utilizza questo slogan sostiene in generale che debbano aumentare le materie direttamente gestite dall’Unione Europea, che la legislazione europea debba crescere e intervenire in ambiti sempre maggiori, che le istituzioni europee debbano coordinare e talora dirigere in maniera ancora più decisa le politiche degli stati membri.

Ebbene, tutto ciò non è esattamente in linea con alcuni dei principi fondamentali del metodo liberale.

L’Unione Europea è un’istituzione sovranazionale democratica con finalità politiche, quindi un potere pubblico a tutti gli effetti, per di più caratterizzato da un assetto burocratico enorme e costoso e da una limitata possibilità di controllo “dal basso”, viste le dimensioni continentali.

Una critica liberale

Chiedere più Europa è a mio parere un obiettivo discutibile che sovente si scontra con due principi fondamentali del Liberalismo: la limitazione del potere e la negazione del “punto di vista privilegiato”.

Il principio di limitazione del potere

Riguardo al primo punto, dire acriticamente più Europa equivale a dire più potere pubblico, più intervento pubblico dell’Europa sugli Stati (quindi indirettamente sui cittadini) o direttamente sugli individui. Sia ben chiaro, io non nego che questo sia necessario in qualche settore, anzi sono pronto anche a mettere la firma nero su bianco dove sarebbe necessario questo maggiore intervento.  Per esempio io ritengo che su Difesa, Politica Estera e Immigrazione la sovranità dovrebbe essere attribuita all’Unione Europea in maniera sostanziale.

Ma attenzione a dire più Europa sempre e comunque, perché ogni potere pubblico, anche e a maggior ragione quello europeo, deve essere limitato e controllato, altrimenti, per la legge di gravità del potere, diventa ipertrofico e liberticida.

Cosa succederebbe se creassimo una Unione Europea con grandi poteri in ogni campo e poi alle prossime lezioni europee vincessero forze nazionaliste e illiberali? Avremmo consegnato uno strumento potentissimo nelle loro mani.

Non cadiamo nel rischio di miticizzare l’Unione europea come fanno molti partiti dell’area liberal e socialista. Quando sento frasi del tipo “La nostra stella polare è l’Europa”, mi viene in mente il famoso “sol del avvenir” di Sovietica memoria e questo è solo un esempio della visione dogmatica e teleologica che circonda l’Unione Europea. Insomma, bisogna stare alla larga dall’ideologia secondo la quale ad ogni costo bisogna aumentarne le funzioni e i campi di intervento.

La negazione del “punto di vista privilegiato” sul mondo.

E qui mi ricollego al secondo punto: per tutte le forze Euro-fanatiche l’Unione Europea è diventata il nuovo “punto di vista privilegiato” sul mondo. Un punto di vista elevato, illuminato, infallibile che quindi non si discute ma che al contrario va recepito. Quante volte abbiamo sentito la frase “va recepita la direttiva europea n° 123”. Ormai ci siamo abituati e lo accettiamo acriticamente, come farebbe un funzionario sovietico con una direttiva proveniente “dall’alto”.

Invece un liberale ha il dovere di dubitare, ma soprattutto di rifiutare ogni pretesa di infallibilità e di possedere una conoscenza superiore, privilegiata sulla realtà. Non a caso Bruxelles è popolata da una tecnocrazia autoreferenziale e convinta della propria superiorità intellettuale.

L’UE sta diventando il nuovo “legislatore onnisciente” che tutto conosce, tutto decide e tutto risolve. E invece non è così, un liberale deve rifiutare con forza tale paradigma.

Una Unione “forte ma poco affaccendata”.

Una federazione “leggera” di stati europei serve, serve tantissimo, ce lo richiedono le sfide della modernità e della globalizzazione, ma bisogna evitare di beatificare l’UE ad ogni costo. Io lo dico forte e chiaro, W l’Europa, W l’Euro, abbasso i nazionalismi! Però il super-stato europeo burocratizzato, tecnocratico e illimitato questo no, non lo possiamo proprio accettare! Vogliamo una Europa che sia, come direbbe Roepke, “forte ma poco affaccendata”.

C’è euroscetticismo ed euroscetticismo

Non può esistere né deve esiste un’unica posizione liberale in materia di integrazione europea. La ragione è semplice: in base al restante bagaglio culturale si svilupperà, partendo da un’ideologia liberale, l’opinione sull’Europa.

Alcune categorie liberali hanno una posizione caratteristica sull’argomento: i liberal-popolari sono di solito europeisti, i liberali per la democrazia diretta euroscettici e gli indipendentisti liberali sono federalisti europei.

A tal proposito ci tengo a sottolineare come esistano valide ragioni per essere liberali e contrari all’Unione europea. Potremmo parlare del fatto che l’UE agisca come mercato unico e non come libero mercato, dello spiccato protezionismo della PAC o del fatto che, essendo governata dagli Stati, alla fine si comporta come un semplice delegato degli interessi che, nel 1900, hanno permesso al collettivismo di prevalere.

Di solito chi ha queste opinioni sostiene, appunto, un’Europa diversa, aperta al libero mercato e dove il potere sia ad un livello più basso, statale o regionale, per permettere un diffuso ricorso alla democrazia diretta.

Si può certamente obiettare come questi obiettivi siano raggiungibili anche all’interno dell’Unione, però è anche certamente più facile convincere un Paese che l’unione intera.

Tuttavia questo euroscetticismo, in Italia, esiste solo in alcuni ambienti libertari e, come frangia estremamente minoritaria, in alcuni partiti conservatori.

Il resto degli euroscettici lo sono, semplicemente, per il motivo sbagliato, ossia per un progetto sovranista e protezionista.

Il sovranismo, in Italia, è quell’ideologia per cui la politica economica va acclamata a furor di popolo e quando chi presta i soldi ne chiede conto o chiede a un’agenzia privata di farsi fare un rating si urla al complotto e alla speculazione. Si tratta di una delle tante ideologie che condividono il problema del socialismo, ossia che prima o poi i soldi altrui finiscono.

Sia chiaro, non ho nulla contro del sano conservatorismo fiscale in stile Kurz, che ha come obiettivo ridurre la dipendenza dello Stato da prestiti raggiungendo il pareggio di bilancio, ma il sovranismo italiano semplicemente vorrebbe fare debito per attuare politiche socialiste e keynesiane e quando l’Europa fa notare che non è una buona idea, invece di prendersela con la realtà, se la prendono con Bruxelles.

Il secondo problema è quello del protezionismo: nonostante l’UE sia fortemente protezionista con il mercato estero, soprattutto in materia agricola, ai protezionisti italiani non basta: vogliono più protezioni, meno mercato libero tra nazioni UE e più sussidi.

Ciò soddisfa due importanti bacini elettorali: quello degli agricoltori, ben desiderosi di non aver concorrenza e di scaricare parte dei propri costi sui contribuenti, e quello degli sciovinisti alimentari, per ciò tutto ciò che si mangia in Italia dev’essere prodotto entro i sacri confini della Patria, ignorando il fatto che l’Italia mangia più di quanto produca, e sfottono gli avventori di Starbucks per poi comperare prodotti 100% italiani che costano, senza contare i sussidi, il triplo degli omologhi prodotti.

Tutto ciò rende molto arduo un serio dibattito sull’integrazione europea, su tutto ciò che spazia tra “Patria e avtarchia” e l’Unione europea e possibili sviluppi, ad esempio con enti come l’Area Europea di Libero Scambio o lo Spazio Economico Europeo come l’Area Schengen o accordi bilaterali.

La solidarietà continua ad impoverire il terzo mondo

Durante la sua visita ufficiale in Tunisia lo scorso Ottobre, il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani ha proposto di attivare un “piano Marshall” per l’Africa. Rievocando il piano di sussidi che gli Stati Uniti concessero ai Paesi dell’Europa occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale, Tajani ha stimato il costo di un analogo piano per l’Africa a 40 miliardi di €.

L’obiettivo di questi investimenti sarà la costruzione di nuove infrastrutture, il supporto alle piccole e medie imprese (SME in inglese), l’incoraggiamento all’imprenditoria giovanile e all’occupazione, nelle nazioni del continente africano.

Inoltre, Tajani ha sottolineato come senza una soluzione a questi problemi “migliaia, e in futuro saranno milioni, di persone potrebbero lasciare il proprio Paese.”

Nondimeno, il fine del libero mercato non giustifica i mezzi del trasferimento di risorse da parte del governo. La mia natia Spagna, che ha il secondo tasso di disoccupazione più alto fra i 28 Paesi della UE, lo prova.

Fra le regioni europee con maggior disoccupazione e minor PIL, ce ne sono due spagnole: Estremadura e Andalusia. Ma nonostante i sussidi del governo nazionale e regionale per “promuovere la creazione di nuove imprese”, la Spagna pone più ostacoli a fare impresa di tutti gli altri Paesi OCSE, secondo il Fondo Monetario Internazionale.

L’Africa è ancora il continente più povero al mondo. Il suo PIL pro capite è di quasi 8.500 $ inferiore alla media mondiale. Ma ci sono segnali di speranza: le carestie sono quasi scomparse al di fuori delle zone di guerra; l’aspettativa di vita è cresciuta dai 50,3 anni del 2000 ai 50,9 del 2015. Tutto questo progresso si è verificato grazie a riforme economiche pro-mercato.

Secondo la Heritage Foundation, lo score complessivo in libertà economica dell’Africa sub-Sahariana è pari al 55%, quasi 3 punti più alto che al principio del secolo. La libertà di commercio, in particolare, è cresciuta di 18 punti; il carico fiscale sembra essere in diminuzione.

Eppure, nessun Paese africano si posiziona fra le 20 economie più libere al mondo. Lo Stato di diritto latita e la repressione del dissenso prevale troppo spesso.

Nel lungo periodo, riforme economiche in direzione laissez-faire sono l’unica strada per la prosperità. Allo stesso tempo, la corruzione deve essere combattuta efficientemente. Il Botswana è un modello, in questo senso: è uno dei Paesi più ricchi in Africa, il meno corrotto, e fra le 34 economie più libere del pianeta (nonché la seconda più libera nel continente).

Non esistono, invece, casi di Paesi usciti dalla miseria grazie ad aiuti umanitari e sussidi allo sviluppo. I fondi di questo tipo sono solo trasferimenti da un apparato di governo ad un altro.

La Singapore post-coloniale era ben lungi dall’essere un Paese ricco pochi decenni fa, ma è oggi un caso di studio per i sostenitori di economie aperte. Politiche orientate verso il libero mercato e l’attrazione di investimenti esteri l’hanno aiutata a crescere e prosperare.

Il Parlamento Europeo non ha alcuna competenza, né responsabilità, al di fuori della propria giurisdizione. Ma questo non significa che non possa fare nulla per migliorare la condizione economica dell’Africa.

Più nello specifico, vi sono alcune politiche Europee che stanno ponendo ostacoli allo sviluppo degli imprenditori e commercianti del Terzo Mondo. La famosa Politica Agricola Comune (PAC) rende più complicato per i Paesi in via di sviluppo esportare i propri prodotti verso la UE, perché applica una discriminazione economica particolarmente rilevante verso gli agricoltori non Europei.

Queste politiche protezioniste non hanno portato l’agricoltura a diventare una forza economica trainante per la UE. Nonostante un budget annuale di 59 miliardi di euro (utilizzato per supportare il reddito dei contadini e finanziare programmi di sviluppo rurale, che Paesi meno sviluppati non possono permettersi), l’agricoltura contribuisce a meno del 2% del PIL della UE.

Esiste un modello per il tipo di transizione che la UE dovrebbe avviare, per concedere un accesso più libero ai mercati europei da parte dell’Africa: La Nuova Zelanda, il cui settore rurale era simile a quello Europeo 3 decenni fa, ha condotto un processo di liberalizzazione economica.

C’erano diffusi timori sul rischio di vedere molte aziende agricole fallire, ma alla fine solo circa 800 dovettero chiudere. Gli agricoltori che speravano di competere cominciarono a cooperare in maniera più efficiente e innovativa sulla base di condizioni di mercato. Ad oggi, l’agricoltura contribuisce ancora per il circa 7-10% al PIL della Nuova Zelanda.

Indubbiamente, la soppressione delle misure agricole protezioniste condurrebbe a feroci proteste a Bruxelles e nelle altre capitali: gli Europei sono abituati all’interventismo statale.

Perfino gli Euroscettici mostrerebbero la propria indignazione. Nonostante tale rischio, però, i politici dovrebbero cercare di spiegare questi cambiamenti di policy in una maniera più precisa, tale che sia più efficace, tanto da far presa da un punto di vista sia morale che logico.

In una ipotetica campagna per la liberalizzazione del mercato agricolo, i politici e i sostenitori della libertà non dovrebbero focalizzarsi solo su statistiche del PIL e altri dati macroeconomici.

Dovrebbero invece sottolineare che i cittadini europei potranno comprare prodotti più economici, dato che al momento pagano i costi dei sussidi e delle regolamentazioni, e che potranno effettuare scambi commerciali con un numero più ampio di Paesi non Europei.

Ancora più importante, da un punto di vista etico così come nella vita reale, è facile comprendere come il commercio sia un modo per beneficiare sé stessi e i propri vicini: prezzi più bassi lasciano alle famiglie più risorse a disposizione per le loro altre priorità.

Allo stesso tempo, gli Africani possono cominciare a espandere i loro mercati di esportazione e avere più denaro per le loro necessità di base. Ognuno ne trae beneficio: il commercio è un modo di donare vita ad altri. Dall’altra parte, i boicottaggi commerciali sono invece un modo per eliminare i punti di vista che non vogliamo riconoscere.

I miei compatrioti Europei devono giungere a vedere la liberalizzazione del commercio come un modo di esprimere solidarietà ai lavoratori del Terzo Mondo, di risollevare la parte di Africani in miseria e di ottenere benefici per se stessi grazie a prezzi più convenienti e mercati più ampi.

Devono vedere questa decisione come giusta e morale perché “Quando l’etica è messa in primo piano, l’umanità fiorisce”. [1]

[1] Traduzione dall’inglese dell’articolo apparso di recente su Acton.org, a firma di Ángel Manuel García Carmona, cfr.: https://acton.org/publications/transatlantic/2017/11/20/marshall-plan-africa-wont-help-africans-free-trade-will