La libertà personale secondo M.N. Rothbard (For a New Liberty, analisi 2^ parte)

In questa seconda parte dell’articolo su M.N. Rothbard, e nelle seguenti, tratteremo della seconda parte di “For a New Liberty”. Cominciamo dalla visione sulla libertà personale.

Libertà Personale:

In questa sezione del manifesto libertario, Rothbard prende tutti quei diritti, dalla libertà di parola al possesso delle armi, che possono essere collocate sotto il nome di libertà personali. Innanzitutto, il pensatore newyorkese prende in esame le “libertà civili” (diritto di parola, stampa, espressione) facendo notare il carattere assoluto che deve essere loro conferito. Ogni libertario deve sostenere strenuamente la libertà di parola e tutti i suoi derivati.

Inoltre, cosa molto importante, Rothbard fa notare come queste libertà siano inestricabilmente legate con i diritti di proprietà: esse derivano dalla proprietà privata (ad esempio: possibilità di stampare), ma allo stesso tempo devono rispettare la proprietà (egli cita come esempio della violazione della proprietà altrui con la parola la situazione in cui qualcuno urli “al fuoco!”, all’interno di un cinema, senza che vi sia realmente un incendio creando una perdita al proprietario del cinema).

Un caso molto particolare è quello del ricattatore o del diffamatore in a cui Rothbard giunge ad una conclusione molto particolare. Secondo lui, un blackmailer non può essere considerato un invasore di diritti altrui: egli esercita il suo diritto alla parola o calunniando o minacciando il rilascio di informazioni intime e non interferisce coi diritti di nessuno. Infatti, non si può dire che una persona abbia un “diritto di proprietà” sulla propria reputazione, essa è una funzione soggettiva dei sentimenti degli altri. Calunniare e ricattare è immorale, ma, per Rothbard, moralità e legalità sono due categorie diverse.

Altro punto su cui le libertà civili si intersecano con i diritti di proprietà sono le manifestazioni in luoghi pubblici. Secondo Rothbard, il problema di quali manifestazioni sono da autorizzare e quali da bandire è un problema che lo Stato non potrà mai risolvere senza danneggiare qualcuno e avvantaggiare qualcun altro. Infatti, essendo le strade pubbliche, tutti possono fare richiesta per manifestare, anche gruppi “estremisti” di qualsiasi tipo, poiché essendo contribuenti ne avrebbero diritto. Ma, se le strade fossero private sarebbero i proprietari a decidere chi potrebbe usufruirne e chi no, evitando conflitti tra contribuenti.

La posizione libertaria in merito alla legislazione sessuale e la pornografia è molto chiara e semplice. Infatti, poiché si tratta di interrelazioni tra adulti consenzienti e la donna o l’uomo possiedono il loro corpo, lo Stato non può proibire degli atti solo perché immorali, i cosiddetti “crimini senza vittime”, né mettere fuori legge tali comportamenti solo perché potrebbero essere dannosi e pericolosi. Agli occhi di un libertario la prostituzione è una vendita volontaria di lavoro. Inoltre, così facendo, lo Stato legifera su una delle sfere più private dell’uomo, impedendogli di comportarsi come vuole nel rispetto dei diritti altrui. Essere favorevoli alla prostituzione non significa volerla diffondere né essere favorevoli alla prostituzione in sé. Significa solo riconoscere che è una attività lecita e che come tale non può essere impedita per questioni morali.

Un altro caso particolare è quello dell’aborto. Rothbard lo risolve in maniera molto cruda ma coerente con la sua impostazione di base. Infatti, il problema cruciale è se l’aborto deve essere considerato un omicidio. Prescindendo da tutte le considerazioni mediche su quando inizi la vita e da quelle religiose, Rothbard mostra che se consideriamo un feto come avente tutti i diritti di un qualsiasi essere umano, tra cui il diritto di non essere ucciso, allora dobbiamo trovare una risposta alla seguente domanda: quale essere umano ha il diritto di rimanere, non invitato come parassita indesiderato all’interno del corpo di un altro essere umano? Per Rothbard ogni donna può decidere in quale momento quando disfarsi di quello che è un “parassita” indesiderato dal suo corpo.

Per quanto riguarda le droghe Rothbard è molto chiaro: il proibizionismo non ha funzionato nella pratica e nella teoria non è ammissibile. Infatti, lo Stato non può negare a nessuno di assumere quali sostanze preferisce solo perché fanno male o possono portare a compiere atti criminosi nei confronti di altri individui. Oltretutto si sta negando la libertà di un individuo di fare ciò che vuole del proprio corpo. Lo Stato proibisce l’utilizzo delle droghe “per il nostro bene” e per il bene degli altri; ma, se il ragionamento è questo, allora dovremmo poter ammettere anche l’incarceramento preventivo di tutte le persone potenzialmente aggressive e violente e dovremmo altresì proibire tutte le sostanze e i comportamenti rischiosi (ad esempio sostanze come il burro e il gelato) poiché potrebbero far male. La costatazione finale di Rothbard è che alla fin fine, se il ragionamento è questo, sarebbe meglio «mettere la gente in gabbie, in modo che possa ricevere la giusta quantità di luce solare, una dieta corretta, scarpe comode, e così via».

Infine, il classico argomento libertario è quello sulle armi e Rothbard non si esime dal dire la sua. Innanzitutto, poiché ogni persona possiede il suo corpo e le sue proprietà allora ha anche il diritto di difenderla come meglio crede. Però, lo Stato ha eroso continuamente questa prerogativa, non solo negando l’utilizzo di armi da fuoco come armi da difesa, ma anche impedendo di avere con sé coltelli o altri oggetti da difesa. Secondo il pensatore newyorkese, ciò impedisce alle potenziali vittime di disporre di un loro diritto e di essere alla mercé dei potenziali aggressori. Inoltre, poiché nessun oggetto fisico è di per sé aggressivo e qualsiasi oggetto può essere usato per aggredire qualcuno «non è più logico proibire l’acquisto di pistole di quanto lo è proibire il possesso di coltelli, mazze, spilloni e pietre».

(continua nella parte 3 che uscirà nei prossimi giorni)

Conoscere Einaudi: Rappresentanze di interessi e Parlamento (1919)

Questo articolo di Luigi Einaudi fu pubblicato da parte del Corriere della Sera il 29 novembre 1919.

In questo articolo, il presidente della Repubblica denuncia la tendenza italiana di far decidere su alcune tematiche che appartengono alla politica solo coloro che lui denomina gli “interessati”, ossia coloro che hanno particolarmente a cuore, come i socialisti per disciplinare sul lavoro, come gli industriali sulle tariffe doganali. Questo è un grave problema per l’Italia, come sostiene lo stesso autore.

Dare alle rappresentanze professionali una funzione deliberativa è voler mettere gli interessi particolari al posto di quelli generali, è compiere opera per lo più sopraffattrice ed egoistica. Gli “interessi” debbono esser ascoltati e consultati. Ma qui finisce la loro sfera di azione.

Questo perché secondo Einaudi è opportuno distinguere i competenti dell’azione politica dai competenti dei singoli rami, poiché non coincidono.

I “competenti” dell’azione politica non sono e non debbono essere i “competenti” nei singoli rami di industrie o di commercio o di lavoro o di professione. Da qui inizia un elenco con tre critiche nei confronti delle rappresentanze di interessi presenti in Parlamento.

Essi non rappresentano normalmente neppure la generalità degli interessi presenti.

Come si può affermare che la confederazione generale dell’industria, che le camere di commercio, che il segretariato agricolo nazionale siano le vere, genuine rappresentanze di tutti gli interessi industriali, commerciali ed agricoli d’Italia? Non lo sono neppure per burla. Questi corpi rappresentano quei gruppi, rispettabilissimi sì, ma pochi, che avevano appunto un forte interesse da far valere e da patrocinare. Chi ci dice che altri non vi sia che abbia un interesse contrario; che coloro i quali hanno interessi diversi si siano accorti di ciò che si sta combinando ai loro danni da parte di coloro che dicono di rappresentarli?

Non rappresentano certamente gli interessi futuri, che è compito principalissimo essenziale dello stato difendere contro gli interessi presenti. Riferendosi alle richieste, da parte degli industriali potenti, di avere maggiore protezionismo, penalizzando le nuove ed emergenti industrie che sono il futuro del Paese. Il compito dell’Uomo di Stato, secondo Einaudi, è quello di eliminare gradualmente qualsiasi aiuto nei confronti dei potenti e di aiutare provvisoriamente coloro che stanno emergendo.

Non difendono l’interesse generale.

Non da oggi, non da quando è cominciata la guerra, ma da ben prima gli economisti insegnarono che potevasi dare protezione ad industrie essenziali per la difesa militare dello stato. Anche a ciò sono disadatte le rappresentanze degli interessi. Oggi queste chiedono protezioni per le industrie-chiavi, per le industrie che furono essenziali durante la guerra passata: siderurgiche, chimiche, ecc. Se si ascolta il loro voto, noi difenderemo industrie che hanno guadagnato moltissimo, che, se fossero state bene amministrate, avrebbero dovuto in molti casi ridurre a valore zero i loro impianti e trovarsi ora agguerritissime contro la concorrenza estera. Invece, col pretesto delle industrie essenziali per la guerra, si vogliono mantenere i prezzi ad un livello tale da remunerare gli impianti al valore bellico, come se non fossero stati o non avessero dovuto essere ammortizzati. Vi è una grande probabilità che in tal modo si proteggano industrie diverse da quelle che saranno essenziali nella futura guerra. Io non so quali possano essere queste future industrie chiavi; ma nego nel modo più assoluto la validità della indicazione fatta dai rappresentanti delle industrie che hanno maggior voce nei loro consessi sedicenti rappresentativi.

In sostanza, quelli che vengono definiti come competenti interessati, in realtà sono coloro che tendono a consolidare quegli interessi forti e antichi. Viene escluso il nuovo. Da badare che in questo articolo Luigi Einaudi parla di Industria e dei vari settori – d’altronde siamo nel 1918, l’Italia è in guerra e siamo in un contesto storico molto diverso da quello attuale, però credo che questo articolo sia molto attuale se facciamo caso a chi si è occupato del lavoro, dell’economia, dell’Industria ecc. in questi decenni. Mi sentirei di dire, e scusate se non siete d’accordo, che questo problema delle Rappresentanze di Interessi sia ancora palesemente presente. D’altronde, oltre ad essere un paese collettivista, statalista e socialista, l’Italia è anche uno Stato nettamente sindacalista, nel senso che è soffocata dai vari interessi dei Sindacati che riescono a prendere il potere, direttamente con il voto o indirettamente con le pressioni politiche.

Si consultino dunque gli interessati, tutti gli interessati. […] Prima di concedere ad un privato industriale di tassare gli altri industriali ed i consumatori in genere a proprio beneficio sicuro ed a beneficio preteso della collettività, bisogna far conoscere pubblicamente le ragioni del privilegio. Chiedesi soltanto di non brancolare nel buio e di non essere messi dinnanzi al fatto compiuto ed irrevocabile.

Il Fronte dell’Uomo Qualunque: un liberalismo dimenticato

Dedichiamo questo articolo al Fronte Dell’Uomo Qualunque, movimento e, successivamente, un partito politico italiano sorto attorno all’omonimo giornale (L’Uomo qualunque) fondato a Roma nel 1944 dal commediografo e giornalista Guglielmo Giannini. Perché? Perché ritengo che egli abbia lasciato – almeno per noi liberali – un’eredità culturale importante. Un’eredità, probabilmente, considerata troppo povera. In questo articolo proverò a mettere l’accento su tantissimi contenuti liberali liberisti presenti nei saggi politici del commediografo italiano.
Siamo nel periodo 1943-44, l’Italia Fascista è in grave declino e Mussolini si rifugia al Nord con lo Stato Fantoccio della Repubblica Sociale, dopo l’esperienza di Salerno e con la successiva liberazione di Roma si tenta lentamente di creare un Governo e i partigiani e gli americani tentano di liberale il territorio dal dominio nazifascista. In tutto questo caos istituzionale arriva nelle edicole di Roma, mercoledì 27 dicembre 1944, il primo numero della testata giornalistica denominata «L’Uomo Qualunque». Il fondatore era Guglielmo Giannini (1891-1960), giornalista, scrittore e regista italiano. Il primo elemento che colpisce in modo particolare è il simbolo della testata.
Una delle coppie di mani appartiene alla tassazione, l’altra alla statizzazione che schiacchia una persona. Chi è questa persona? Vi rispondo con le stesse parole di Guglielmo Giannini.
Il borghese, il lavoratore onesto che lascia le sue ultime monete, schiacciato sotto il torchio
Lo scopo di Giannini era quello di dare voce alle opinioni dell’uomo della strada, contrario al regime dei partiti e ad ogni forma di statalizzazione. Fin da subito la posizione è chiarissima: abbasso tutti. Si considera antifascista e anticomunista e porta avanti una linea editoriale pungente e satirica. Il fenomeno avviato da Guglielmo Giannii fu erroneamente associato all’etichetta di Qualunquismo, che vuol dire “atteggiamento, morale e politico, polemico nei confronti dei partiti politici tradizionali in nome di una gestione tecnocratica e non ideologica del potere, assunto dai promotori e sostenitori del movimento qualunquista” (fonte Treccani).
In realtà dietro questa etichetta, il pensiero politico di Giannini e del Fronte dell’Uomo Qualunque, era molto più profondo e articolato. Proprio per questo ho deciso di parlare degli aspetti liberali che, a mio parere, sono stati poco analizzati e discussi nel corso della storia.
Il principio ispiratore è la libertà.
nella formula con cui fu enunciata dai Fondatori delle Nazioni Unite, Franklin Delano Roosevelt, Winston Churchill, Libertà di parola — Libertà di Religione — Libertà dal bisogno — Libertà dalla paura
Nello specifico, era un convinto sostenitore dello Stato Minimo. Non era d’accordo con il motto statalista mussoliniano “tutto nello Stato niente contro, al di fuori o al di sopra dello Stato”, ma era favorevole allo Stato Minimo (o Stato Amministrativo). La citazione dello storico Dino Cofrancesco (1942) penso sia la più adatta per descrivere l’idea di Stato di Giannini.
Uno Stato che si tiene lontano dal farsi attore sociale
Nel saggio di teoria politica scritto da Giannini, La Folla, insiste molto sulla questione del rapporto tra il cittadino e il governo statale, facendo vari esempi, dalla visione dello stato come «una scrivania alla quale sta seduto un impiegato che con un campanello può chiamare un poliziotto», all’idea di Stato al servizio del cittadino e non paternalista, all’opposizione allo «Stato scocciatore». Il suo obiettivo è quello contrastare la presenza dello stato nella vita sociale italiana, in quanto l’unica cosa di cui ha bisogno il cittadino qualunque (o l’uomo qualunque) è quello di essere amministrato. Di conseguenza, egli nonostante sia opportuno contrastare il comunismo e sia il capitalismo della grande industria, il suo programma politico era incentrato su un liberismo economico individuale.
Il tiranno c’è sempre, la rottura di coglioni c’è sempre; e sia l’uno che l’altra si valgono dello Stato e della forza oppressiva dello Stato per fare il proprio comodo e i propri interessi
Lui si ispirava all’idea libertaria di Henry Thoreau (1817-1862), filosofo e scrittore americano, nel quale nella sua opera Disobbedienza Civile, esprime la sua contrarietà nei confronti del governo invadente.
Il governo migliore è quello che governa di meno
A tal proposito, Giannini era favorevole ad un certo turnover della classe politica.
Vogliamo invece mettere i governanti nell’impossibilità di far male, o quanto meno, nelle condizioni di fare il minor male. […] Nessuno dovrebbe occupare una carica per più di due volte di seguito, nessuno dovrebbe essere presidente della Repubblica per più di due anni consecutivi, nessuno dovrebbe essere Capo del Governo per più di un anno, nessuno dovrebbe essere eletto deputato per più di due volte senza intervallo e via discorrendo.
Inoltre, lo Stato pretende di comportarsi come se fosse un privato cittadino, quindi pretende di fare commercio. Proprio le tasse vengono adottate per fare il “mestiere altrui” di imprenditore, per coprire le perdite economiche. Come dice anche lo stesso Giannini.
Lo Stato considera il Paese come una miniera da sfruttare i suoi abitanti come un gregge da tosare, scuoiare, squartare, cucinare, mangiare.
Quindi insisteva nel fare propaganda contro lo Stato Azienda, promosso dai comunisti, in particolare con Nikita Krusciov nel 1956.
la Ford e la Fiat, la Montecatini e la Standard saranno lo Stato, miei datori di lavoro e maestri, direttori di coscienza e confessori. Se un amministratore delegato s’incapriccerà di una donna di casa mia dovrò dargliela o finire in galera. È questa la perfezione che mi si promette con lo Stato Azienda che assorbe ogni iniziativa privata? Se è questa sono Contro questo Stato e ritengo più civile e progredita l’Età della Pietra, con tutti i suoi disagi compensati però dalla sua impagabile libertà.
Dal rifiuto al modello teorico di organizzazione statale proposto dai comunisti, Giannini è favorevole ad affidare l’economia nazionale nella sua totalità, ai privati.
Angelo Imbriani, autore del testo Vento del Sud : moderati, reazionari, qualunquisti, 1943-1948 (1996), spiega che l’idea di Stato di Giannini era:
un modello organizzativo dello stato estremamente suggestivo per il ceto medio dell’impiego e delle professioni, perché basato sulla valorizzazione delle competenze individuali e capace quindi di restituire a queste fasce sociali quel ruolo che esse temono di poter perdere o immaginano di aver già in parte perduto.
La visione di Stato di Giannini prevedeva il matrimonio tra Politica e Tecnica, in quanto dividerli vorrebbe dire:
vuol dire soltanto favorire la peste del politicantismo puro, astratto, metafisico, inutile e anzi dannoso; vuol dire Mussolini. ministro della guerra, Togliatti ministro della giustizia, Scoccimarro ministro delle Finanze, e quindi Mussolini, Togliatti, Scoccimarro alla perpetua ricerca di tecnici che attuino la loro politica (pericoloso doppione) con il risultato che o la tecnica si debba mettere al servizio della politica contorcendosi ai suoi voleri, o la politica debba cedere il posto alla tecnica snaturandosi fino al
proprio annullamento.
Guglielmo Giannini e il Fronte dell’Uomo Qualunque non aveva un rapporto buonissimo con il Partito Liberale Italiano. I contrasti con Benedetto Croce erano evidenti e difficili da risolvere. Il problema era soprattutto organizzativo e di comunicazione, in quanto Croce era per una politica di élite e Giannini era per una politica di massa. Lo stile populista di Giannini non era particolarmente ben visto, dunque, dagli ambienti liberali del Partito Liberale Italiano.
Il successo del Fronte dell’Uomo Qualunque fu tanto breve tanto quanto intenso. Ritengo per l’Italia che sia stata una grande occasione liberale mancata. Forse con un pizzico di lungimiranza, adottare una linea politica liberale di massa, probabilmente avrebbe evitato il declino del Partito Liberale Italiano che, a mio parere, si è sempre “intestardito” (e tuttora insiste) con la politica dei pochi o di élite.
Sarà bellissimo un domani raccontare e diffondere le opere di Guglielmo Giannini..

Conoscere Adam Smith: La Ricchezza delle Nazioni (Libro Primo-1^ parte)

In questo articolo parleremo della prima parte del Libro Primo dell’Opera La Ricchezza delle Nazioni (1776) scritto da Adam Smith (1723-1790), filosofo ed economista scozzese, padre dell’economia politica ed il fondatore della prima vera “scuola economica”, quella classica.

Il titolo è “Cause che migliorano la capacità produttiva del lavoro e ordine secondo il quale il suo prodotto si distribuisce naturalmente tra le diverse classi sociali“.

Capitolo I – La Divisione del Lavoro

La divisione del lavoro è la grande causa della sua maggiore produttività. Essi è facilmente comprensibile se consideriamo un esempio particolare, come quello della fabbricazione degli spilli.
Come stesso racconta Adam Smith:

“Un operaio non addestrato in questa attività, né abituato all’uso delle sue macchine, potrebbe forse a malapena, impegnandosi al massimo, fare uno spillo al giorno, e certamente non potrebbe farne venti. Ma nel modo in cui ora viene svolta, non soltanto questa attività è un lavoro specializzato, ma è divisa in molti rami, la maggior parte dei quali parimenti specializzati. Un uomo svolge il filo metallico, un altro lo drizza, un terzo lo taglia, un quarto lo appuntisce, un quinto lo arrota nella parte destinata alla capocchia; […] La fabbricazione di uno spillo è così divisa in circa diciotto distinte operazioni, che in talune fabbriche sono eseguite da mani distinte, sebbene in altre lo stesso uomo ne esegua talvolta due o tre.”

L’effetto è analogo in tutte le attività anche nelle divisione delle occupazioni. La divisione del lavoro provoca un grande incremento della quantità. Perché? Per tre circostanze: la maggior destrezza dell’operaio che incrementa necessariamente la quantità di lavoro che esso può eseguire;  il risparmio del tempo che comunemente viene perso nel passare da una specie di lavoro all’altra; l’impiego di macchine inventate da operai, da costruttori di macchine e filosofi.
Da qui deriva l’opulenza generale di una società ben governata, presso la quale anche l’abito del lavorante a giornata è il prodotto di un gran numero di operai.

Capitolo II – Il principio che determina la divisione del lavoro

La divisione del lavoro deriva dalla propensione della natura umana a scambiare. Solo nell’uomo esiste questa propensione, poi ché è incoraggiata dall’egoismo, come testimonia la celebre frase:

“Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale”

Tutto ciò porta alla divisione del lavoro, determinando così differenze di talento più rilevanti delle differenze naturali, rendendoli utili.

Capitolo III – La divisione del lavoro è limitata all’estensione del mercato

La divisione del lavoro è limitata dalla capacità di scambio. Alcune attività possono essere svolte soltanto nelle città. Il trasporto per via d’acqua espande il mercato, come testimoniano i primi progressi che si sono verificati sulle coste o lungo i fiumi navigabili, come fra gli antichi popoli sulle coste del Mediterraneo.
I progressi si sono verificati in Egitto, Bengala (tra il Bangladesh e India) e Cina; mentre l’Africa, la Tartaria (Russia) e la Siberia come pure la Baviera, l’Austria e l’Ungheria sono arretrate.

Capitolo IV – Origine e uso della moneta

Una volta affermata la divisione del lavoro, ognuno vive di scambio. Le difficoltà del baratto hanno portato alla scelta di una merce come moneta, rispetto al passato in cui venivano adottate come strumento di commercio merci come il bestiame, sale, conchiglie, merluzzo, tabacco, zucchero, cuoio e chiodi. Infine furono preferiti i metalli perché durevoli e divisibili. Ferro, rame, oro e argento, furono dapprima usati in barre non impresse e in  seguito marcati perché portassero impressa la quantità e finezza del metallo; prima fu introdotta la marcatura per certificare la finezza, e in seguito la coniazione per certificare il peso. Inizialmente la denominazione delle moneta ne esprimeva il peso.
Adam smith indagò sulle regole che determinano il valore di scambio. Con valore si può intendere sia l’utilità di qualche particolare oggetto, detto valore d’uso e sia il potere di acquistare altri beni che il possesso di questo oggetto conferisce, detto valore di scambio. Il filosofo scozzese si pose tre quesiti.
In che cosa consiste il prezzo reale delle merci?
Quali sono le diverse parti di questo prezzo?
Perché talvolta il prezzo di mercato differisce da questo prezzo?
Le risposte saranno nei prossimi tre capitoli.

Capitolo V – Prezzo reale e nominale delle merci, ossia loro prezzo in termini di lavoro e di moneta

“Ogni uomo è ricco o povero nella misura in cui è in grado di concedersi i mezzi di sussistenza e di comodo e i piaceri della vita. Ma una volta volta affermatasi la divisione del lavoro, con il proprio lavoro si può ottenere soltanto una parte piccolissima di questi. La parte di gran lunga maggiore deve essere tratta dal lavoro degli altri, e quindi uno è ricco o povero secondo la quantità di lavoro di cui può disporre o che è in grado di acquistare”

Il lavoro è da considerare la misura reale del valore di scambio, in quanto è il primo prezzo pagato per ogni cosa. La ricchezza  è il potere di acquistare lavoro. Ma il valore non è generalmente stimato in base al lavoro in se perché il lavoro è difficile da misurare; le merci sono più frequentemente scambiate con altre merci, specialmente con moneta, che è perciò più frequentemente usata nella stima del valore. Ma il valore dell’oro e dell’argento varia; talvolta costano più e talaltra meno lavoro, nonostante il lavoratori lavori ugualmente e si sacrifica ugualmente.
Ma sebbene uguali quantità di lavoro siano sempre uguali per il lavoratore, il datore di lavoro considera il lavoro di valore variabile. Quindi possiamo dire che il lavoro, come le merci, ha un prezzo reale e un prezzo nominale.

“Il suo prezzo reale si riferisce alla quantità di mezzi di sussistenza e di comodo che vengono cedute per esso; il prezzo nominale si riferisce alla quantità di moneta. Il lavoratore è ricco o povero, bene o mal remunerato, in proporzione al prezzo reale non al prezzo nominale del suo lavoro”

La distinzione fra reale e nominale è talvolta utile nella pratica, poiché la quantità di metallo nei conii tende a diminuire, e lo stesso discorso vale per il valore dell’oro e dell’argento.
Dal 1586 le rendite inglesi stipulate in moneta si sono ridotte a un quarto, le rendite in Scozia e in Francia la perdita è spesso maggiore. Le rendite in grano sono più stabili di quelle in moneta, ma sono soggette a variazioni annuali molto maggiori. Per cui il lavoro è l’unica misura universale.
Ma nelle situazioni o transazioni ordinarie la moneta è sufficiente, essendo una misura assolutamente esatta nello stesso tempo e luogo, è da considerare la sola cosa nelle transazioni fra luoghi distanti. Non c’è quindi da meravigliarsi se al prezzo nominale è stata data data maggiore attenzione. Sono stati coniati parecchi metalli, ma solo uno viene usato come base e questo è generalmente quello usato per primo in commercio, come i romani usarono il rame, e le nazioni europee moderne l’argento. Originariamente il metallo base era l’unica moneta legale, più tardi il rapporto fra il valore dei due metalli viene dichiarato per legge ed entrambi sono moneta legale e la distinzione fra di essi diventa irrilevante, tranne quando il rapporto stabilito viene cambiato.
Rimanendo un rapporto fisso, il valore del metallo più prezioso regola il valore di tutto il sistema monetario, come in Gran Bretagna, dove la riforma della moneta di oro ha aumentato il valore della moneta di argento. In Inghilterra l’argento è valutato al di sotto del suo valore. L’argento dovrebbe essere valutato di più e non dovrebbe essere moneta legale per più di una ghinea. Se fosse valutato adeguatamente, il prezzo dell’argento in lingotti si ridurrebbe al di sotto di quello di zecca senza bisogno di una riforma monetaria. Un diritto di coniazione impedirebbe la fusione e scoraggerebbe la esportazione.  Le fluttuazioni del prezzo di mercato dell’oro e dell’argento sono dovute a normali cause commerciali, ma una costante differenza dal prezzo di zecca è dovuta allo stato della moneta. Il prezzo delle merci si adegua al contenuto effettivo della moneta.

Capitolo VI – Le parti componenti del prezzo delle merci

La quantità di lavoro è originariamente l’unica norma del valore. Tenendo conto di fatiche particolari, se un tipo di lavoro è più pesante di un altro, si tiene naturalmente conto di questa superiore fatica; e il prodotto di un’ora di lavoro dell’uno può frequentemente scambiarsi per quello di due ore di lavoro dell’altro. O se un tipo di lavoro richiede un grado non comune di destrezza e ingegno, la considerazione che gli uomini hanno di queste capacità darà naturalmente al loro prodotto un valore superiore a quello che sarebbe dovuto al tempo impiegato in esso.
L’intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore, ma quando si parla di capitale, si deve dare qualcosa per i profitti dell’imprenditore e il valore del prodotto si compone di salari e profitti. Quindi, i profitti non sono soltanto salari per il lavoro di ispezione e direzione, poiché il lavoratore divide il prodotto col suo datore e il lavoro non basta più a determinare il valore.
Nel caso in cui la terra diventa completamente proprietà privata, la rendita costituisce una terza componente del prezzo della maggior parte delle merci. Il valore di tutte e tre le parti è misurata dalla quantità di lavoro.
In una società progredita tutte queste tre parti sono generalmente presenti, per esempio nel prezzo del grano, della farina di frumento o di altri cereali. Nelle merci che richiedono molta lavorazione, la rendita è in minor proporzione e il prezzo di alcune merci è costituito soltanto da due una delle tre parti componenti.
Ma il prezzo di tutte le merci è costituito per lo meno da una componente e il prezzo di tutto il prodotto annuale si risolve in salari, profitti e rendita, che sono le sole specie originarie di reddito. Quando queste tre differenti specie di reddito appartengono a persone differenti, è facile distinguerle; ma quando esse appartengono alla stessa persona sono talvolta confuse l’una con l’altra, almeno nel linguaggio corrente. Per esempio, la rendita di un coltivatore diretto viene chiamato “profitto”, il salario di un comune agricoltore viene chiamato “profitto” , il salario di un manifatturiere indipendente viene chiamato “profitto”, mentre la rendita e il profitto di un orticoltore che coltiva la sua terra sono considerati guadagni del lavoro.
Una gran parte del prodotto annuale va agli inattivi e la proporzione fra questa parte e il totale regola l’aumento o la diminuzione del prodotto.

Capitolo VII – Prezzo naturale e prezzo di mercato delle merci

In ogni società o luogo vi è un saggio ordinario dei salari, del profitto e della rendita. Questi saggi ordinari possono essere chiamati Saggi Naturali dei salari, del profitto e della rendita nel tempo e luogo. Quando il prezzo di una merce è sufficiente a pagare la rendita della terra, i salari del lavoro e i profitti del capitale, la merce viene venduta al suo prezzo naturale, ossia per ciò che costa realmente. Ma poiché nessuno continuerà a vendere senza profitto, il prezzo effettivo al quale comunemente si vende una merce è detto prezzo di mercato che è regolato dalla quantità portata al mercato e dalla domanda effettiva.
Quando la quantità portata sul mercato è inferiore alla domanda effettiva, il prezzo di mercato supera il prezzo naturale; quando supera la domanda effettiva il prezzo di mercato scende al di sotto del prezzo naturale. La quantità di ogni merce immessa nel mercato si adegua naturalmente alla domanda effettiva; quando essa supera questa domanda, alcune delle parti che compongono il prezzo sono inferiori al loro saggio naturale, quando è inferiore, alcune parti che compongono il prezzo superano il loro saggio naturale.

Il prezzo naturale è il prezzo medio intorno al quale gravitano i prezzi di tutte le merci. Il prezzo naturale è il prezzo medio intorno al quale gravitano i prezzi correnti. In questo modo tutta l’attività annualmente svolta per portare una merce sul mercato si adegua naturalmente alla domanda effettiva. Essa tende naturalmente sempre a portarvi quella esatta quantità che può essere sufficiente a soddisfare, e non più che a soddisfare quella domanda, ma la quantità prodotta da un dato ammontare talvolta fluttua.
Le fluttuazioni incidono più sui salari e sul profitto che sulla rendita, influenzandoli in proporzioni diverse secondo l’offerta di merci e di lavoro. Ma il prezzo di mercato può mantenersi per lungo tempo al di sopra del prezzo naturale perché non sono sufficientemente noti gli elevati profitti, o in conseguenza di servizi di fabbricazione, o in conseguenza della scarsità di particolari tipi di suolo.
Un monopolio ha lo stesso effetto di un segreto commerciale. Infatti il prezzo di monopolio è il massimo che si possa ottenere. Il prezzo naturale, o prezzo di libera concorrenza, è invece il più basso che possa darsi per un certo tempo. I privilegi delle corporazioni, fra i tanti, rientra anche il fatto che sia una sorta di monopolio allargato. Invece, raramente il prezzo di mercato si mantiene a lungo al di sotto del prezzo naturale. Questo almeno in situazione di perfetta libertà, poiché le corporazioni tendono a ridurre per un certo tempo i salari di molto al di sotto del saggio naturale. Il prezzo naturale varia al variare del saggio naturale dei salari, dei profitti e della rendita.

Perché abolirei le case popolari?

Il collettivismo moderno è un tentativo di ritorno allo stato selvaggio. Cit. Gerard Radnitzky

Se vi chiedessi di abolire le case popolari e rivenderle agli attuali inquilini di lungo periodo, voi come rispondereste? Nel Manifesto Liberale de L’Individualista Feroce ( che potrete trovare nella nostra pagina Facebook ), sul tema Welfare e Politiche Sociali, ho affrontato la questione dell’abolizione delle case popolari e la sostituzione di essi con il Buono Affitto. Una proposta forte se consideriamo che oggi, in campagna elettorale, si discute tanto delle priorità, tra chi esclama “Prima gli Italiani” (anche nelle graduatorie delle case popolari, ndr) e chi è per l’accoglienza e l’assistenzialismo universale.

Ma andiamo per ordine. La situazione delle case popolari (e delle aziende municipali che gestiscono il servizio) sono arrivate ad un livello quasi poco sostenibile. Vi invito a fare un gioco. Scrivete su Google, sul motore di ricerca, tre parole come “debiti case popolari“. Il risultato vi sorprenderà. Vi troverete una marea di fatti che raccontano uno scenario davvero angosciante. Morosità milionari, debiti colossali, rischio pignoramento, criminalità, abusivismo. L’elenco potrebbe continuare all’infinito. Per non parlare dell’influenza negativa che hanno alcuni palazzi popolari sul mercato immobiliare dei condomini privati, in quanto la presenza di abusivi e di inquilini poco raccomandabili tendono a peggiorare, non solo il condominio ma anche il quartiere. Nel frattempo ci sono una marea famiglie in difficoltà economiche che aspettano da anni nelle graduatorie.

Non è tutto negativo tutto ciò che riguarda le case popolari, poiché ci sono tante famiglie e persone pacifiche che vivono in questi alloggi da tantissimi anni. Proprio per loro che ritengo sia opportuno prendere una decisione per rimediare alla situazione davvero preoccupante delle case popolari. Iniziamo a vendere, a prezzo di mercato, gli alloggi a partire dagli attuali inquilini che godranno del Diritto di Prelazione. Sarebbe importante quantificare quanto ha pagato l’inquilino nel periodo precedente, in modo tale che chi ha vissuto maggiormente nell’immobile, possa acquistare quest’ultimo con un prezzo inferiore rispetto a quello di mercato. Per il resto, saranno venduti gli immobili al libero mercato.

Io da buon liberale, credo nella Mano Invisibile del cittadino, perciò ritengo che sia la mano del cittadino che acquista e che investe, l’unica vera strada per far rivalutare certi quartieri popolari ormai in crisi per colpa della criminalità e dell’abusivismo.
Inoltre, ritengo che chiudere le aziende che gestiscono le case popolari darebbe davvero una boccata d’aria alla Pubblica Amministrazione locale, regionale e nazionale che si appresta a dare un servizio, pagare dei stipendi a dei dipendenti in attesa di ricevere un canone di locazione che non arriverà mai, costringendo le Regioni a chiedere prestiti per “mettere una pezza”.

Visto che si dice “morto un papa se ne fa un altro”, lo stesso discorso vale anche per la situazione abitativa. La mia proposta sarebbe quella di sostituire le case popolari con il Buono Affitto. Il Buono Affitto è un sostegno economico alle famiglie con un basso reddito nel pagamento del canone di locazione. Io non credo nell’assistenzialismo, perciò ritengo che il sostegno economico non dovrà avvenire attraverso il trasferimento in denaro dallo Stato al Cittadino, bensì sotto forma di Ticket (come il Buono Pasto), utile strumento di pagamento dell’affitto. In questo modo, non ci sarà alcun rischio che la politica di welfare per le famiglie in difficoltà non diventi l’ennesimo pretesto per far abituare il cittadino a vivere, a corrente alternata, di economia “in nero” e di assistenzialismo di Stato.

Per concludere, invito tutti ad un minimo di fantasia. Sono consapevole che allo stato attuale, ci sono tanti cittadini in difficoltà, tra chi è disoccupato e chi è “aggredito” delle tasse. Infatti, proprio perché siamo un’associazione che si impegna nella divulgazione delle idee liberali, gradiremo che le principali riforme da adottare siano proprio quelle dell’abbassamento delle tasse e della riduzione delle funzioni della Pubblica Amministrazione, in quanto siamo convinti che il lavoro e la crescita economica di un Paese sia possibile solo attraverso il profitto e che quest’ultimo non venga “mangiato” da tasse e burocrazia. A tal proposito ritengo giusto concludere con una citazione di Margaret Thatcher:

I Paesi ricchi sono quelli i cui governi incoraggiano la creatività dell’uomo, perché possa riuscire a lavorare con altri nel produrre beni e servizi che la gente vuole comprare.

Il protezionismo è nemico dell’Industria [Discorso di Cavour]

Quando si fece la riforma del 1851, molti onorevoli e benemeriti industriali vennero a me per cercare di convincermi che se la riduzione [ndr: dei dazi] venisse approvata dal Parlamento, tutte le fabbriche si chiuderebbero.

E mi ricordo che uno di quei signori, che non nominerò, mi disse: ebbene, l’anno venturo ci vedrà in piazza Castello con sei o settemila operai a domandare il pane.

Io espressi un vivissimo dolore di questa eventualità, ma siccome credevo fermamente che s’ingannasse, non m’arrestai.

Si fece la tariffa. Otto mesi dopo mi annunciano quello stesso industriale, ed immaginai a tutta prima che fosse seguito da seimila operai; ma era solo.

Ei s’avanza e mi dice -scusate la parola un po’ volgare-, mi dice: io era un gran minchione, Lei aveva tutte le ragioni; fatta la riforma mi sono detto due cose: o chiudere la fabbrica o migliorarla; presi il secondo partito, andai in Inghilterra e vidi che ella aveva ragione, che noi eravamo indietro ancora di venti e più anni; mutai tutti i miei meccanismi e tutto procede bene.

Alcuni anni dopo, passando nel paese dove questa fabbrica è stabilita, ebbi il piacere di vedere una fabbrica che, a parer mio, può essere annoverata fra le prime di questo paese.

Prenderò a considerare una sola industria, quella delle sete.
L’Italia meridionale produce molte sete, e sete piuttosto di qualità reputate; eppure tutta la seta greggia va a farsi lavorare altrove, parte in Lombardia e in Piemonte, parte in Francia ed Inghilterra. Quale ne è il motivo? Perché non vi sono sufficienti capitali e tendenze industriali onde creare nell’Italia meridionale degli edifizi per filare e torcere la seta.

La conseguenza del sistema protettore è di spingere i capitali e gli industriali nelle industrie protette, quella della libertà è di spingerli invece nelle industrie naturali al paese. Quindi io credo che, se la riduzione avesse per avventura per effetto di menomare in Napoli l’industria dei panni (ciò che non credo), per compenso accrescerebbe l’industria della seta.

La miglior prova, del resto, per sapere se questa riforma fu fatta opportunamente è di esaminare le conseguenze della medesima. Questa riforma fu fatta nel mese di settembre scorso, cioè nove mesi or sono. Non mi ricordo se nel primo momento eccitò qualche lagnanza, ma il fatto sta che quindici giorni dopo più nessuno ne parlò, più nessuno di questi industriali se ne rammaricò. Ora, ad un tratto, quando questa legge viene in discussione, si presentano a voi questi industriali e dicono: se voi la sancite siamo rovinati. Ma in questi nove mesi, io chiedo loro: avete voi perduto molto? Signori, sarei ben contento, per la mia fortuna, di avere una piccola porzione dei profitti che questi industriali hanno raccolti in questi pochi mesi!

Finalmente io credo che per favorire l’industria (ed in questa parte l’onorevole Sella potrà fare molto più di me), si conviene di favorire l’istruzione professionale non solo nelle alte, ma nelle basse sfere degli operai. Noi difettiamo ancora di buoni capimastri nelle nostre fabbriche; s’incontrano assai difficoltà onde procacciarsi dei meccanici ingegneri, quelli che gl’Inglesi dicono engineers, che sono meccanici un po’ distinti, e per avere questa classe di capimastri artieri è necessario che vi siano alcune scuole tecniche, dove gli operai, non quelli vestiti di panno fino, ma i veri operai che hanno un ingegno naturale acquistino quelle cognizioni che sono necessarie per diventare buoni capi d’arte, buoni capimastri.

Io credo d’aver fatto il possibile onde alcune di queste scuole fossero attivate; se il mio onorevole collega ministro dell’istruzione pubblica, coadiuvato dall’onorevole deputato Sella, può far sorgere di queste scuole in varii punti dello Stato, avrà reso all’industria un ben altro servigio che non sarebbe l’aumento dell’uno o del due per cento sui dazi protettori.

27 Maggio 1861

Prospettive di Libertà radicali: For a new Liberty, M.N. Rothbard ( Parte 1)

 

In questo articolo vogliamo offrirvi una diversa prospettiva sulla Libertà, ovvero il  punto di vista  di Murray Newton Rothbard (qui il link alla pagina Wikipedia a lui dedicata), considerato, a ragione, il “padre” del Libertarismo contemporaneo. Rothbard è stato un economista appartenente alla Scuola Austriaca e, partendo dalle premesse metodologiche individualistiche di Mises, di cui fu allievo, dal Giusnaturalismo proprietarista di matrice lockeana e dalla tradizione dell’anarchismo filosofico americano, giunse a dare corpo a quello che è il Libertarismo contemporaneo.

Questa breve premessa introduttiva serve per esplicitare qual è l’universo del discorso all’interno del quale si situa “For a new Liberty” (disponibile in italiano grazie a Liberilibri), il “manifesto libertario”. Questo manifesto venne scritto da Rothbard con un intento sia divulgativo, per raggiungere più persone possibili e metterle in contatto con le idee libertarie, sia per creare una sorta di punto di riferimento in cui più libertari potessero riconoscersi. Ovviamente, come ogni manifesto, ha intenzioni anche pratiche: nella parte conclusiva, Rothbard cerca di delineare strategie, modalità, temi e persone verso le quali il libertarismo si deve rivolgere per giungere a compimento. Il tutto rigorosamente nel rispetto dei diritti inviolabili delle persone e senza l’uso della violenza.

“For a new Liberty” si snoda attraverso tre parti – il credo libertario, soluzioni libertarie a problemi attuali e un epilogo – il tutto preceduto da una premessa storica che cerca di inquadrare il libertarismo in una tradizione ben precisa. Infatti, il libertarismo è una prospettiva radicale sulla libertà, figlia del continente americano – il manifesto si rivolge continuamente e assiduamente ai cittadini degli USA seppure è un manifesto per tutti gli uomini –  e continuatrice della tradizione del movimento liberale classico del XVIII e XIX secolo. Coloro che sono individuati come “antenati genetici” del libertarismo sono Locke, il cui contributo giusnaturalista è il cardine del libertarismo, i Livellatori della Rivoluzione inglese, John Trenchard e Thomas Gordon autori di Cato’s Letters, opera che fu molto letta nel periodo che portò alla Rivoluzione americana, Thomas Jefferson, Thomas Paine, autore di “Common Sense”, pamphlet decisivo per l’opinione pubblica nella Rivoluzione americana, Jackson, Lysander Spooner e molti altri.

Quello che Rothbard chiama il “credo libertario” è sostanzialmente la riproposizione del Giusnaturalismo di matrice Lockeana (diritti naturali, self-ownership, diritto all’homesteading) il tutto arricchito da quello che è denominato “non-aggression principle”, anche conosciuto come “assioma di non aggressione” (abbreviato NAP); l’assioma è così riassunto da Rothbard:

«Il credo libertario si basa su un assioma centrale: nessuno può aggredire la persona o la proprietà altrui. Lo si potrebbe chiamare “assioma della non aggressione”. L”‘aggressione” viene definita come l’uso o la minaccia della violenza fisica contro la persona o la proprietà di altri. Aggressione è quindi sinonimo di invasione.»

Questo assioma, che secondo Rothbard è una verità morale che si impone alla nostra ragione, mostra l’enorme valore attribuito alla libertà individuale dai libertari. Ma in questo contesto ci troviamo davanti ad una formulazione della libertà e dei diritti di carattere negativo; la libertà è sostanzialmente l’assenza di coercizione e l’uomo non possiede tutti quei diritti che possiamo definire di “seconda generazione”: diritto alla salute, istruzione, lavoro ecc. Il libertario difenderà quelle libertà che possiamo definire “civili”: libertà di parola, di assemblea, di stampa ecc. e il diritto di contrattare liberamente, di scambiare liberamente beni. Ovviamente alla base vi sono i diritti di proprietà.

A differenza degli anarco-collettivisti, dei marxisti e di tutte le possibili declinazioni dell’ideologia comunista, così come di Hobbes, l’antropologia alla base del Libertarismo è “neutra”: essa non ritiene che l’uomo sia nella sua essenza egoista, né che sia lupo ad ogni suo simile. Il libertario si limita a constatare che gli uomini a volte si comportano in maniera altruistica, altre volte in maniera egoistica, alcune volte sono “buoni” e altre “cattivi” ed evidenzia come la raggiera di comportamenti che un uomo può assumere sono molteplici e vari, ma il discrimine fondamentale è il rispetto del NAP. Cosa ancora più importante è la differenza con i comunisti: nell’idea libertaria non è contenuta nessuna pretesa di cambiamento radicale dell’uomo. Essa è una analisi realistica e come tale non prospetta né promuove un cambiamento nello spirito o nell’essenza dell’uomo, non prospetta l’avvento di nessun “Uomo Libertario”.

Per le loro posizioni, a volte i libertari sono etichettati come di destra, quando promuovo ad esempio il libero mercato, la libertà di contratto, i diritti di proprietà, e a volte come di sinistra come quando promuovo la libertà sessuale, l’aborto, libertà di stampa. Il fatto è che alla base di tutte queste prese di posizioni vi è il rispetto dei diritti di proprietà individuali, rimarcati dal NAP. Questa strenua difesa della libertà e dei diritti porta, se si vuol essere coerenti fino in fondo con i principi suesposti, ad una applicazione della legge morale a tutti, anche allo Stato, ricollegando quindi politica e morale. Per questo motivo libertario è sinonimo di anarchico.

Lo Stato è l’oggetto di critica di tutto il manifesto, l’obiettivo polemico verso cui Rothbard si scaglia continuamente: lo Stato è un ente che si basa sulla coercizione, sulla violenza, sulla minaccia, sul furto e sull’omicidio di massa. Infatti, se noi applichiamo coerentemente il NAP allora dovremmo considerare la tassazione un furto, la coscrizione obbligatoria un rapimento organizzato e la guerra un omicidio di massa.

Per Rothbard lo Stato è un prodotto storico ed umano che nel corso della storia si è imposto, apparentemente, come unica alternativa al “caos dell’anarchia dello stato di natura”, come unico ente razionale ordinatore della realtà. Ma esso non ha diritto di imporsi sulla libertà delle persone ed inoltre è anche causa di inefficienze e sprechi, per non parlar dell’incalcolabile numero di morti dovuti alle guerre condotte nel nome dell’interesse nazionale e del bene comune. La provocazione di Rothbard è questa: se un ladro vi dicesse che la rapina che sta commettendo su di voi è per il bene di molte altre persone, voi sareste portati a non ritenere ciò un furto? Non è forse così che funziona la tassazione?

Lo Stato viene paragonato ad una gang, ad un gruppo di banditi che si sono imposti su un territorio nel quale si sostentano con la rapina e l’estorsione sistematica, praticano la schiavitù (coscrizione obbligatoria) e l’omicidio di massa, ma il tutto è effettuato per il bene dei cittadini. Inoltre, Rothbard critica la propaganda, la manipolazione continua delle coscienze, perseguita grazie alle feste laiche e alle celebrazioni dell’ideale nazionale e patriottico che portano gli individui a ritenere che il potere dello Stato sia inevitabile, supremamente giusto e buono.

Ovviamente, come si può intuire dalle affermazioni precedenti, l’obiettivo del libertarismo è l’instaurarsi di una società libertaria, quindi anarchica, priva dello Stato, nella quale gli individui possano essere, finalmente, realmente liberi.

(continuerà nella Parte 2 che uscirà nei prossimi giorni)

È arrivato il populismo in America?

Abbiamo assistito alla rivalsa del populismo in tutto il mondo, dalla Le Pen all’austriaco Sebastian Kurz, e pare abbia contagiato anche il nuovo continente.
Trump ha sostenuto una campagna elettorale estremamente populista, dal populismo culturale a quello economico, in una linea che potremmo definire “reazionaria”.

Quando è arrivato questo populismo in America?

Nel 2012 c’è stata la sconfitta per un soffio di Mitt Romney, appartenente all’ala moderata del Partito Repubblicano, in lizza con Obama. Romney era il tipico candidato repubblicano, forse troppo tipico per riuscire a vincere.

Nel 2016 ci siamo ritrovati con questo show-man miliardario e galvanizzante, totalmente su un altro piano rispetto all’establishment conservatore o ai rivoluzionari del Tea Party. Eppure il populismo era nato già da alcuni anni. Anzi, si potrebbe dire che il populismo fosse nato prima in America che in Europa.

Gli USA si dichiarano indipendenti nel 1776, il loro primo presidente sarà il liberale classico George Washington dal 1789 al 1797. Dopo il mandato di John Adams dal 1797 al 1801, arriva Thomas Jefferson: ecco il primo vero populista della storia degli Stati Uniti d’America. (Sicuramente un populista molto, molto differente da Trump)

Esatto, proprio colui che scrisse “tutti gli uomini sono creati uguali” e che fu consultato per la stesura della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino.

Perché Jefferson era un populista?

Volente o nolente, Jefferson dava al popolo un nemico da combattere: prima Re Giorgio, poi i banchieri e gli affaristi. Era il tipico populista un po’ giustizialista che accusava i poteri forti, eppure -sebbene tutto ciò nel 2018 può sembrare estremamente stupido- è ciò che ha permesso agli States di costruire un apparato libero dalla corruzione ed una società in cui l’Individuo è al primo posto. Sempre in prima linea per combattere chiunque potesse e volesse monopolizzare il potere.

A Jefferson dobbiamo l’idea della Nazione sottomessa al Popolo, in contrasto con la linea di Adams e dei federalisti secondo i quali il potere dovesse andare agli illuminati e ai produttori di benessere.

Tutta la tradizione populista jeffersoniana ha permeato la politica statunitense per centinaia di anni, avendo sempre come focus la lotta all’aristocrazia e all’elitismo dei banchieri, dei mercanti, dei grandi proprietari terrieri per un solo scopo: permettere agli Individui di essere liberi.

Nel 1891 tale tradizione venne ereditata dal People’s Party, incentrato molto più nel ruralismo e nel migliorare il sistema economico vigente che nello sviluppo industriale, e che venne inglobato nel Partito Democratico nel 1896.

Tralasciando l’analisi di quest’ultima parentesi molto complessa, il populismo negli Stati Uniti ha sempre prodotto benefici enormi, fra cui la più elevata mobilità sociale (passaggio effettuato da un individuo da un ceto a un altro, generalmente verso l’alto) di sempre, crescita e progresso.

Perché, allora, il nuovo populismo non è ben visto? E Trump?

Negli USA il populismo ha funzionato perché è nato come una corrente di pensiero secondo la quale si mette in discussione ogni forma di potere, partendo dal dibattito per giungere a scelte razionali. Non parlava alla pancia delle persone, ma al loro cervello.

Ecco il primo motivo per cui il populismo altrove ha fallito: cavalcando gli umori della popolazione, il populismo (soprattutto di matrice marxista-hegeliana) ha fatto leva sull’invidia sociale, sulla lotta di classe e sulla redistribuzione delle risorse e/o dei mezzi di produzione.

Il nemico dei diritti e dell’Individuo, il nemico di “Noi, il popolo” non viene più affrontato con criteri di razionalità, bensì con la rabbia.

Ecco che arriva Trump: in un momento storico nel quale l’indignazione dei Social Justice Warriors raggiunge livelli vertiginosi ed il marxismo culturale permea le frange estreme dei Democratici, la risposta è l’avanzare del politically incorrect (=“una verità che i democratici trovano troppo dolorosa da riconoscere e quindi non vogliono venga espressa“, Dennis Prager) e di una nuova corrispettiva risposta: il populismo “grassroot” (di base) di Trump e Sanders.

Aldilà delle opinioni su Trump, il suo non è populismo Jeffersoniano, ma è una nuova specie che rischia di distorcere la tradizione popolare americana. La sua stessa metodologia potrebbe essere usata contro di lui, soprattutto ora che i moderati nei due principali partiti sono diventati marginali.

Dunque, torniamo alla domanda da cui siamo partiti: è arrivato il populismo in America? No. Allora, è arrivato un nuovo populismo in America? Sì.

L’importanza delle ferrovie per lo sviluppo economico, morale e culturale dell’Italia

L’influenza delle ferrovie si estenderà su tutto l’universo. Nei paesi che hanno raggiunto un alto grado di civilizzazione imprimeranno all’industria un enorme impulso: avranno sin dall’inizio un’ottima resa economica, accelereranno la marcia in avanti della società. Ma, gli effetti morali che necessariamente ne risulteranno, ancora maggiori, a parer nostro, degli effetti materiali, saranno notevoli soprattutto per quelle nazioni che, nella marcia ascensionale dei popoli moderni, sono rimasti indietro. Per esse le ferrovie saranno più che un mezzo di arricchimento, saranno l’arma potente mediante la quale riusciranno a trionfare sulle forze frenanti che le mantengono in uno stato funesto di infanzia industriale e politica.

Le ferrovie allora si stenderanno senza interruzione dalle Alpi sino alla Sicilia e faranno scomparire gli ostacoli e le distanze che separano gli abitanti dell’Italia e che impediscono loro di formare una sola e grande nazione.

Ma, per quanto grandi siano i benefici materiali che le ferrovie sono destinate a diffondere in Italia, noi non esitiamo a dire che resteranno molto al di sotto delle conseguenze morali che produrranno.

Le sventure dell’Italia sono di vecchia data. Non cercheremo neppure di ricercarne nella storia le numerose fonti. Simile compito, per il quale non è questa la sede, sarebbe d’altronde superiore alle nostre forze. Crediamo tuttavia di poter stabilire come dato certo che la causa prima debba attribuirsi all’influenza politica che gli stranieri da secoli esercitano tra noi, e che i principali ostacoli che ci impediscono di affrancarci da questa funesta influenza sono, innanzitutto, le divisioni intestine, le rivalità, direi quasi le antipatie che animano, l’una contro l’altra, le diverse frazioni della grande famiglia italiana; e successivamente, la diffidenza esistente tra i principi nazionali e la parte più vigorosa della popolazione.

Se le ferrovie sono chiamate a ridurre questi ostacoli e forse addirittura a farli scomparire, ne consegue naturalmente che sarà questa una delle circostanze che maggiormente promuoveranno il sentimento nazionale italiano. Un sistema di comunicazioni che produrrà un continuo movimento in ogni direzione di persone e che necessariamente metterà in contatto popolazioni rimaste sino ad oggi estranee le une alle altre, contribuirà in forte misura a eliminare le meschine passioni municipali, figlie dell’ignoranza e dei pregiudizi,  già oggi attaccate dagli sforzi di tutti gli uomini illuminati dell’Italia

Più di ogni altra riforma amministrativa, la costruzione delle ferrovie contribuirà a rafforzare lo stato di reciproca fiducia tra i governi e i popoli, fondamento delle nostre speranze a venire. Dotando le nazioni, i cui destini sono loro affidati, di questi potenti strumenti di progresso, i governi dimostrano pubblicamente lo spirito di benevolenza che li anima e il senso di sicurezza che provano.

Cavour, 1846

Conoscere Thatcher: reagire al dominio socialista

Se un liberale non crede che la proprietà privata sia uno dei principali baluardi della libertà personale, farà meglio a creare un governo con i socialisti. In effetti uno dei motivi del nostro fallimento elettorale è che la gente pensa che troppi dei conservatori siano diventati dei socialisti.

Così scrisse nel suo libro autobiografico “Come sono arrivata a Downing Street” (1996) – all’indomani di una sconfitta elettorale dei primi anni settanta – , Margaret Thatcher o Maggie, Primo Ministro del Regno Unito dal 1978 al 1990, la prima donna della storia britannica, liberale liberista che rialzò una nazione collassata da Sindacalismo, Burocrazia, Tasse, Capitalismo di Stato, Assistenzialismo.

Una vera Rivoluzione se consideriamo che riuscì a realizzare delle riforme nella nazione nella quale i socialisti laburisti inventarono il Welfare State con il loro slogan “Dalla Culla Alla Tomba”. La citazione suddetta vuole essere la dimostrazione come Maggie volesse svegliare dal torpore una forza politica, come quella dei Conservative Party, incapace di reagire al dominio ideologico dei socialisti. La mediocrità, tipica della cultura socialista, aveva contagiato i conservatori che davano l’impressione di aver perso la loro identità.

Riprendendo il suo libro autobiografico, direi che sarebbe opportuno riprendere un altro passo importante.

La causa principale del crescente allentamento della gente dai partiti politici è il troppo governo. La competizione tra i partiti nell’offrire livelli sempre più alti di benessere, aveva diffuso la convinzione che il governo fosse in grado di fare qualsiasi cosa e aveva offerto ai socialisti l’opportunità di estendere massicciamente l’intervento statale.

In questo passo, è chiaro come Maggie sia del parere che la crisi del secondo dopo-guerra e la conseguente riforma del Welfare State, aveva favorito come risultato quello di convincere tutti che la politica dovesse essere l’unica voce in capitolo sulla quotidianità (e i vari problemi) delle persone. L’idea della Thatcher è che i partiti politici erano diventati quasi come dei portatori di soluzioni ai problemi, come Lei stessa diceva.

«Abbiamo attraversato un periodo in cui troppi bambini e troppi adulti facevano ragionamenti del tipo: “Ho un problema, ci deve pensare il governo a risolverlo!”, oppure “Ho un problema e ho il diritto di farmelo risolvere dal governo”, o “Sono senza casa, il governo me ne deve dare una”. E così affibbiavano i loro problemi alla società.

Anche i conservatori erano caduti in questa sorta di trappola che lo ha portato a tanti fallimenti durante i periodi al governo. Proprio per questo motivo è opportuno ritrovare quell’identità perduta, riportando il focus sulla libertà del cittadino, sulla famiglia. Non aveva timori nel portare avanti quei valori borghesi, che nessuno fino a quel voleva toccare, proprio perché erano diventate delle parole “intoccabili” secondo le regole del “politicamente corretto” del Regno Unito del ventennio 50′-70′.

Se nei valori borghesi rientrano l’incoraggiamento della diversità e della scelta personale, l’offerta di equi incentivi e ricompense per l’abilità e l’impegno nel lavoro, la conservazione di efficaci barriere contro l’eccessivo potere dello stato e la fede nella più ampia distribuzione della proprietà individuale, allora credo che siano valori da difendere.

Perciò quando decise di candidarsi per la leadership del Conservative Party, aveva l’intenzione di esaltare l’individualismo e le potenzialità del cittadino, senza che riceva alcuna aggressione fiscale da parte dello Stato.

Sono convinta che occorra giudicare una persone per i loro meriti e non per la loro provenienza. Credo che la persona che è pronta a lavorare più sodo è quella a cui spetta il compenso maggiore, un compenso che dovrebbe restargli anche dopo le tasse. Dobbiamo appoggiare i lavori e non gli imboscati: che non è solo lecito ma lodevole voler migliorare la propria famiglia con il proprio impegno.

Mettersi in gioco contro i socialisti è possibile anche in Italia. Noi de L’Individualista Feroce riteniamo che non sia giusto nascondersi e temere il giudizio di chi, con la forza, sia maggioritario. Non solo diffondendo le idee, ma anche impegnarsi sempre di più sul campo più importante, quello politico, poiché è l’unico in cui è possibile realizzare delle riforme – forse rivoluzionarie per noi liberali, chissà – per risvegliarci dall’incubo statalista-socialista. Riforme come quelle sul ruolo dello Stato, tanto desiderata dalla stessa Maggie.

«Lo Stato deve essere un servitore, non un padrone. Non ci devono essere tentazioni paternaliste. Il paternalismo è nemico della libertà e della responsabilità. Benché si mostri sorridente e umano, è come tutti gli altri tipi di governo interventista: soffoca gli sforzi di tutti, fiacca le imprese, incoraggia la dipendenza e promuove la corruzione».