Perché non possiamo essere comunisti (nè socialisti)

Pochi giorni fa è ricorso l’anniversario della nascita di Karl Marx, un evento che è stato ampiamente celebrato in tutto il mondo occidentale, con citazioni, nuovi saggi, film e approfondimenti di vario genere. Al di là dell’aspetto ironicamente consumistico che hanno assunto molte di queste iniziative, l’occasione è stata utile per mostrare quanto il comunismo eserciti tuttora un fascino notevole e attiri proseliti e sostenitori. Sembra quasi che i fallimenti delle esperienze del socialismo reale siano stati dimenticati ed è impossibile non esserne preoccupati.

Personalmente, comprendo benissimo il fascino del marxismo. Cresciuto in una tradizione politica e culturale di sinistra, il comunismo e il socialismo sono stati per anni un mio punto di riferimento ideale pur avendone una conoscenza, in fondo, piuttosto superficiale. A 14 o 15 anni già sapevo che il socialismo reale si era rivelato un fallimento costoso e sanguinoso, ma non riuscivo a confutarne i principi: come si può ritenere sbagliata un’ideologia che vuole mettere fine all’ingiustizia che si osserva tutti i giorni nella società? Che spiega di mirare a un mondo diverso, dove nessuno soffra il freddo o la fame e dove l’aspettativa e la speranza di una vita migliore non siano condizionate dal Paese e dal ceto sociale in cui si nasce?

Sono arrivato per gradi a capire cosa c’era che non funzionava. Tanto per cominciare, lo studio della storia mi insegnava che l’umanità non aveva mai vissuto lunghi periodi di pace e benessere, sotto qualunque tipo di regime; e che gli episodi più feroci di ingiustizia o di violenza non erano per forza legati a dinamiche economiche, ma anche a divisioni etniche, politiche, religiose, ecc. Guardando poi alla storia del Novecento, la brutalità dello stalinismo o del maoismo rendevano evidente che l’ingiustizia in quei regimi non era stato affatto eliminata, anzi! Ed anche i Paesi socialisti meno violenti avevano una lunga storia di corruzione e di repressione della libertà. Se il marxismo funzionava, perché i regimi socialisti erano teatro di violenze e prevaricazioni? Ci si sarebbe aspettato che eliminando le disuguaglianze economiche la società sarebbe stata più giusta e libera, ma non sembrava che così fosse.

Ci doveva quindi essere, alla base dell’ingiustizia, qualcosa che andava oltre le differenze economiche. E l’osservazione della realtà intorno a me (anche solo la scuola e le sue dinamiche) ha fornito l’ultimo tassello: l’ingiustizia deriva dalla disparità di potere. Basta concedere una goccia di autorità a un individuo per generare oppressione e violenza, fisica o verbale che sia. Le disuguaglianze economiche o sociali possono contribuire, ma non sono il cuore del problema.

Marx non era uno sciocco e comprendeva il dilemma che ponevano gerarchia e potere; secondo la sua dottrina, dopo una fase iniziale di dittatura del proletariato l’umanità sarebbe passata allo stadio finale di società comunista, dove non ci sarebbero state più classi sociali né disparità economiche e di potere, e dove sarebbero state cancellate tutte le forme di ingiustizia.

Ci sono un paio di cose che non tornano in tutto ciò: punto primo, perché una tale società non è mai esistita? E poi, perché mai si dovrebbe passare da una dittatura per raggiungere questo felice stadio? Alla prima domanda, Marx rispondeva parlando delle sovrastrutture ideologiche, create dalla classe dominante, che dividevano o assopivano gli individui (“la religione oppio dei popoli”, come da famosa citazione). Alla seconda, con la necessità di eliminare appunto tale classe dominante e tutti i suoi ideologi e difensori, per livellare la società e cancellare ogni sovrastruttura.

Il problema è che le due risposte sono in realtà in contraddizione fra loro: la prima presuppone che gli uomini siano essenzialmente buoni e pronti a vivere in perfetta armonia ed uguaglianza; la seconda insegna che una parte degli uomini è assolutamente malvagia e decisa ad opprimere i propri simili. Se la prima risposta fosse vera, come potrebbero esistere disuguaglianze e ingiustizia? Perché la società umana non vive già in perfetta pace e fratellanza? Se fosse vera la seconda, come si concilia con la prima? E, più pragmaticamente, come si impedisce a questa minoranza di “malvagi” di sfruttare il resto dell’umanità?

Per rispettare le premesse logiche del marxismo, l’umanità deve essere composta di una massa di uomini buoni ma stupidi e di una minoranza di uomini intelligenti, alcuni cattivi e altri buoni. Solo in questo modo si può spiegare l’oppressione delle classi popolari e le possibilità di successo di una rivoluzione comunista. Il marxismo propone una visione estremamente elitista del mondo, ed incompatibile con la democrazia (o con l’anarchia).

L’unico modo, in una visione simile, di evitare che i “malvagi” opprimano i buoni è tenere i primi sempre sotto controllo. La società dovrà dunque essere dominata da una élite di uomini intelligenti e buoni, che soli possono proteggere la massa dai malvagi e garantire che la loro stessa stupidità non li danneggi: non vi potrà essere libertà, né uguaglianza di potere; ma, come abbiamo visto, in questo caso non potrà esservi neanche giustizia. E infatti i socialismi reali sono sempre state dittature, oppressive e corrotte come tutte le dittature.

Marx è stato un ottimo storico, ed un critico acuto del sistema capitalistico. Ma la sua visione politica è piena di contraddizioni e fallacie logiche e pone le basi per ingiustizia e oppressione; ed è per questo che deve essere rigettata interamente, anche a sinistra.

Obiezione ai “genderfluid”, ossia chi non si considera né uomo né donna

Non mi si creda cattivo o insensibile, ma non capisco davvero per nulla il grande problema che i “liberals” hanno sollevato in America sul “Gender assuming”. Per chi non lo sapesse, alcune persone rifiutano di definirsi “uomo” o “donna” perché, a loro avviso, si tratta di categorie create dalla società, che ci classifica in generi per, secondo le teorie più radicali di alcuni, controllarci meglio. E dunque rifiutano di dichiarare il loro genere perché non vi si sentono rappresentati a pieno.

Ed io mi scervello e mi concentro ma continuo a non cogliere un passaggio logico che credo tuttavia fondamentale: per non riconoscersi in delle categorie bisogna per prima cosa riconoscere quelle categorie. Saperle definire e poi, eventualmente, rifiutarle. E i motivi per cui questa massa di apolidi sessuali rifiutano di definirsi altro che “persone” è che, a quanto dicono, i caratteri che definiscono i due generi non hanno nulla a che vedere con chi sono.

In breve, nella società un uomo si definisce socialmente perché è di atteggiamento più patriarcale, o fisicamente più forte. Magari è più appassionato di sport che di moda. E una donna è considerata più femminile se si mostra vicina alla sua funzione di procreatrice. Questo infastidisce molto i cosiddetti “genderfluid” che si trovano spesso ad essere “gender-assumed”. Ossia chi li incontra presume una loro appartenenza ad un genere perché riconosce in loro i caratteri sessuali secondari come capelli lunghi, trucco o atteggiamento. La critica ha senso, in chiave liberale, perché se un ragazza vuole avere i capelli corti o vestirsi con vestiti generalmente indossati da uomini, è libera di farlo.

Però la chiusura a riccio nei confronti del genere mi lascia un po’ confuso. Siccome la società mi definisce uomo perché ho atteggiamenti considerati maschili (e magari sbaglia), io rifiuto la definizione di uomo, come di donna, e me ne astraggo. Qual è però il problema? Il problema è che i generi servono. Hanno una funzione identificatrice e anche medica. Sarebbe assurdo se io andassi dal ginecologo ed a una sua obiezione lo accusassi di “gender-assuming”. Perché sono differenze biologiche che non si possono eliminare. Se anche ci si considererà un giorno tutti null’altro che persone, le donne continueranno a partorire bambini e noi a soffrire di un calcio tra le gambe più di quanto non ne soffrirebbe una donna.

Per cui, a mio modesto avviso, il rifiuto delle categorie sociali può anche andare bene, ma non deve eliminare i generi. Semmai eliminare i pregiudizi legati ad essi. Per cui non riesco a capire perchè un uomo “genderfluid” non può considerarsi uomo poiché biologicamente appartenente a questa inconfutabile categoria, e rifiutare dall’altra parte chi ha da obiettare sulla sua maschilità perché il suo modo di comportarsi non corrisponde con la generale idea di uomo.

La mia opinione è che se si vuole operare una vera e propria rivoluzione di genere per portare ad un’uguaglianza tra soggetti, si deve essere consapevoli, orgogliosi e magari anche contenti del genere in cui si è nati. E poi rifiutare i tratti che ci consegnano ad una categoria o ad un’altra. Ma senza abbandonarle o rifiutarle, quasi fossero un insulto o una mancanza di rispetto.

Altrimenti si incorre in due effetti collaterali: il primo, perdere credibilità proponendo una cosa assurda come una società senza distinzioni di genere. Consuetudine che in America ha portato quelli che, in teoria, si sarebbero dovuti convincere di una battaglia, anche giusta, a ridicolizzare un movimento per alcune posizioni inconcepibili, come quest’ultima. E in secondo luogo il fare il gioco di chi riconosce solo ad un genere alcune prerogative, astraendosi e non considerandosi nulla, perché qualcuno sbaglia i termini. Lasciando chi si considera uomo ad essere circondato da una massa di stereotipi dell’essere ”mascolino”. Viceversa con le donne.

In America si ha, in genere, un grande talento ad individuare problemi anche seri ma a trovare modi per ribellarvisi completamente anti-producenti e dannosi. Così da rendere la battaglia ridicola agli occhi di chi si dovrebbe convincere. Basti guardare come il problema delle violenze sugli afroamericani sia sfociato nel “Black lives matter” e come il problema del razzismo abbia assunto inspiegabilmente come baluardo la battaglia della “cultural appropriation”. In poche parole: se non sei nero e ti fai i dreadlocks ti stai appropriando indebitamente di aspetti di una cultura che non ti appartiene. Una battaglia ridicola che non è servita ad altro che a renderne poco dignitosa una invece importante, come quella dell’antirazzismo.

Ecco, il caso dei “genderfluid” credo possa fungere da esempio per spiegare come i liberals americani distruggono le buone battaglie che dovrebbero condurre, spinti dalla massa di seguaci sui social, pronti a fare scoppiare un caso (o un casino) ogni qual volta qualcuno dice qualche cosa anche lontanamente interpretabile come “politically uncorrect”.

Chi rifiuta di definirsi uomo o donna riconosce che i capelli lunghi sono aspetti femminili e che gli addominali sono maschili. E crede che per mantenerli, sebbene in contrasto con l’idea che si ha del suo genere, non possa rimanere uomo o donna. Per cui arriva a sostenere di non essere ciò che, suo malgrado, geneticamente è. E sostiene implicitamente che se ti consideri uomo allora non puoi avere capelli lunghi, unghie smaltate o gambe depilate.

La sostanza è questa: chi combatte contro le discriminazioni di genere e chi le fa dicono la stessa, terribile cosa. I primi per esasperazione di una protesta, i secondi per ignoranza. Ma contribuiscono entrambi allo stesso pregiudizio.

 

Alessandro Luna

Egoismo individuale e bene collettivo: la favola delle api

Qual è il segreto per costruire una società prospera? Una società in un cui la ricchezza sia capillarmente diffusa, in cui l’individuo sia libero di realizzare a pieno il proprio potenziale?

Per secoli, filosofi e scrittori hanno descritto società ideali, utopie, che in genere presentano sempre lo stesso denominatore comune: lo Stato-Leviatano e l’individuo ridotto a uomo-massa. Che si tratti della Repubblica di Platone o della Città del Sole di Campanella, ci viene proposto sempre lo stesso arcaico punto di vista: l’individuo è egoista, corrotto, e solo uno Stato potente può salvarlo da sé stesso.

Ma se invece non fosse così? Se invece fossero proprio i vizi dell’uomo, primo fra tutti l’esecrato egoismo, la chiave per costruire una società più prospera e più giusta?

Questa non è solo una mia radicata convinzione, ma anche quella di Bernard de Mandeville, autore de “La favola della api“, il cui sottotitolo è “Vizi privati e pubbliche virtù“.

In questo breve apologo, Mandeville presenta un florido alveare, palesemente ispirato all’Inghilterra dell’epoca, in cui ogni ape persegue indefessa il proprio tornaconto. La ricerca di lussi sempre più grandi domina l’alveare, stimolando così il commercio, l’industria, la produttività ed il progresso scientifico. Tutte le api si adoperano per elevare la propria condizione, e così facendo sono inconsapevolmente responsabili per il benessere generale dell’alveare.

Alla fine, tuttavia, la prosperità dell’alveare giunge al termine quando il suo “vizio”, per mezzo di Giove, viene rimpiazzato dalla “virtù”. Questa riforma dei costumi abolisce il lusso e l’egoismo, sostituendoli con la frugalità e l’onestà. Insieme al “vizio”, però, viene meno il motore stesso dietro al progresso della società: i traffici commerciali vengono abbandonati, le arti e i mestieri regrediscono, in quanto le nuovi api “virtuose” sono ora soddisfatte di quanto già posseggono, e non si industriano più a migliorare le loro condizioni di vita, paghe della propria  “virtù”.

Questo genera una grave crisi che impoverisce l’alveare, portando alla morte di gran parte della sua popolazione, mentre le api sopravvissute si ritrovano a vivere in condizioni miserevoli rispetto al passato.

Come si evince da questo apologo, Mandeville è giunto, precedendo Smith, alle stesse conclusioni dell’economista scozzese. Questo perché il suo oggetto di studio è lo stesso di Smith, vale a dire l’Inghilterra del Settecento, luogo di nascita del capitalismo, della rivoluzione industriale e del Liberalismo.

Proprio la combinazione fra questi 3 fattori ha trasformato in poco più di un secolo l’Inghilterra, da Stato ai margini dell’Europa a prima iperpotenza della storia. Ma l’Inghilterra non è un esempio isolato: in ogni tempo ed in ogni luogo, queste forze hanno cambiato il destino di intere nazioni, a prescindere dalla loro ricchezze naturali: quale altra risorsa ha un Paese come la Svizzera, se non il carattere dei suoi abitanti?

Ma affinché tutto questo avvenga, è necessario un catalizzatore, qualcosa che dia agli individui la forza di andare avanti, incuranti delle sconfitte, senza mai perdere di vista l’obbiettivo finale: quel catalizzatore è, secondo me, una sana dose di egoismo. Non esiste a mio parere religione o ideologia politica in grado di fornire una motivazione più grande dell’amore per sé stessi connaturato in ognuno di noi.

Anzi, non è un caso che dietro a molti dei crimini più orrendi mai compiuti in nome di un credo religioso o politico vi sia un’intenzione altruistica: i nazisti di ieri, così come i jihadisti di oggi, sono mossi dalla certezza di contribuire alla creazione di un mondo migliore, e per questo fine altruistico sono pronti a sacrificare tutto, in primis il loro ego. Il problema è, per dirla con Asimov, che mentre il bene individuale è facilmente osservabile e misurabile, quello collettivo o dell’intera umanità comprende semplicemente troppe variabili, che neanche il cervello positronico di un robot può risolvere, figurarsi quello di un semplice essere umano.

Per questo, penso che l’unico modo per fare il bene sia quello di partire dal livello più basso possibile, non dall’umanità intera, non da una nazione, bensì dalla più piccola e bistrattata delle minoranze, l’individuo, facendoci guidare dal nostro ego verso l’ autorealizzazione.

Gli orfani del Comunismo strizzano l’occhio all’Islam radicale

Mi resta da capire per quale motivo si debba mettere sul banco degli imputati un paese che fino a prova contraria è una dichiarata democrazia, posta nel nostro caro Occidente democratico e obbligata, di volta in volta, a rispondere delle proprie azioni di fronte ai trattati e alle convenzioni internazionali. Mi sto riferendo agli Stati Uniti d’America.

Non per pregiudizi, o forse anche per essi, ma io tenderei in data odierna ad inquisire maggiormente la Repubblica Islamica dell’Iran, il cui nome, senza l’aggiunta di ulteriori particolari, fa alternativamente pisciare addosso dalle risate e crepare di paura. Basta conoscerne un minimo la storia, consci quindi di come il popolo iraniano abbia, decenni or sono, salutato l’ayatollah Komeini che ritornava dall’esilio manco fosse un eroe: si trattava semplicemente di una guida spirituale suprema col potere di contare e di intervenire con maggior incisività rispetto alle autorità politiche. Alcuni esponenti politici nostrani dovrebbero rabbrividire di fronte ad una realtà simile, e invece preferiscono prostrarsi ai loro piedi col capo coperto. Questione di trasformismo.

Pare, a detta del premier israeliano Netanyahu, che la repubblica degli ayatollah ci abbia presi per i fondelli quando ci raccontava che stava rispettando l’accordo sul nucleare tanto voluto da Obama: in realtà, ne stavano continuando la produzione come meglio credeva. Obama, in quanto nobel per la pace, ha siglato un accordo mai rispettato dalla controparte e scatenato la così detta Primavera Araba, mentre Trump, in quanto uomo bianco brutto e cattivo, ha messo al suo posto a suon di minacce quel pupazzo vivente di Kim Jong Un e adesso si appresta a fare la medesima cosa con Rouhani e le rozzissime guardie della rivoluzione.

Eppure, anche nel caso del leader nord coreano, le domande che l’intellighenzia occidentale si poneva riguardavano tutte la condotta di Trump e la sua aggressività. Niente da dire, però, su un pazzoide che effettuava test nucleari nel Pacifico facendo tremare mezzo mondo. Sembra quasi che la bontà, dai nostri dirimpettai, non la si debba mai pretendere, mentre su noi stessi tranciamo giudizi duri e intransigenti. Capisco il pretendere sempre il meglio da sé stessi, ma a fronte di un parlamento iraniano che brucia in mondo visione la bandiera degli Stati Uniti in segno di odio e sdegno, non comprendo perché si debba reagire misurando ogni singola parola che esce dalla bocca di Donald Trump.

Il dubbio, che in realtà è una certezza, è che non sia più una questione di giusto e di sbagliato, di strategia politica e di astuzia, bensì il solito odio verso sé stessi, verso l’Occidente capitalistico, grosso modo liberale, laicizzato, secolarizzato e dunque agli antipodi rispetto al mondo arabo-islamico. Quest’ultimo rappresenta, per coloro che amo definire “orfani del comunismo”, una nuova terra promessa, una nuova frontiera culturale, una nuova fonte di pensiero cui abbeverarsi, una inestinguibile sorgente di odio e di disprezzo verso quel mondo (il nostro) che ha trionfato sul socialismo e sul comunismo, su Marx e sui quattro rimbecilliti che ancora oggi vanno dicendo che la proprietà privata è un furto e che i mezzi di produzione non devono appartenere ai padroni.

È cosa nota che le sinistre in tutta Europa stiano scomparendo come neve al sole. Il motivo è facilmente intuibile: sono fuori tempo massimo, barcollano nel buio leggendo il loro libretto rosso di Mao (love is love, l’immigrato è sempre una risorsa, redistribuiamo la ricchezza, i ricchi aumentano e i poveri anche, Berlusconi è un mafioso e Trump un mezzo stupratore) e non sono in grado di fornire risposte soddisfacenti perché il solo approccio costruttivo, realistico e mai ideologico è quello liberale.

Abbiamo i nostri autori, abbiamo i nostri testi, ma stiamo al passo coi tempi comprendendone il cambiamento perpetuo. A noi interessano i singoli individui, a loro quell’unico blocco chiamato “società”. Epperò, con la ferita che brucia perennemente, perché il socialismo nel mondo miete ancora vittime ogni giorno mentre il capitalismo produce inequivocabilmente benessere, l’islam e le sue istituzioni anti-occidentali divengono degli alleati naturali, ovvii e scontati. 

Insomma, basta che dalla Palestina, allo Yemen, all’Iran e all’Egitto la propaganda sia contro il cattivo Occidente dei visi pallidi per potersi stringere la mano in segno di fratellanza. Che poi da quelle parti i “froci” li impicchino e le donne le infibulino, poco importa: pedine sacrificabili.

Un approccio empirico e liberale alla corruzione (1 di 2)

L’Italia è un Paese dove la tradizione ed il pensiero liberali sono sempre trascurati quando non attaccati. E questa tendenza emerge ancora più fortemente quando si parla di giustizia e sistema legale. Prendiamo un tema “caldo” e di forte impatto emotivo come la corruzione: scorrendo Facebook ed i principali siti di informazione, negli ultimi tempi emerge un quadro molto cupo della situazione nel nostro Paese.

Regolarmente scoppiano nuovi scandali e la sensazione generale è che le cose stiano peggiorando col passare del tempo. Tempo fa un sondaggio di un grosso giornale mostrava come quasi metà degli italiani ritenga la corruzione più diffusa oggi che ai tempi di Tangentopoli. A questo punto, le domande da farsi sono due: ci troviamo effettivamente di fronte a un’emergenza? E soprattutto, qual è il modo migliore di affrontarla, da un punto di vista sia pratico che liberale?

Alla prima domanda è difficile rispondere: mancano dati e numeri certi sulla corruzione – può solo essere stimata – e sulla sua evoluzione nel tempo. Un’indicazione può venire tuttavia dal paragone con altri Stati. Guardando al Corruption Perception Index, elaborato da Transparency International, e prendendo in esame solo i 41 Paesi analizzati nel 1995 (anno della prima rilevazione), possiamo notare come negli ultimi vent’anni circa siamo passati dal 33° al 25° posto; e le ultime 6 rilevazioni (2012-2017) ci hanno visto costantemente guadagnare posizioni e migliorare il nostro score.

Siamo sempre molto indietro rispetto alla media dei Paesi avanzati, ma non c’è prova di un trend peggiorativo. È pur vero come, di fronte ad una situazione non ottimale, conti soprattutto la percezione dei cittadini, che sentono con forza il problema ed esigono venga affrontato e risolto. Qui arriviamo alla seconda domanda.

Di corruzione parlano tutti, continuamente. Si citano scandali, ci si indigna, si lanciano accuse agli avversari politici. Si sente discutere poco, però, di come risolvere il problema concretamente. Il dibattito su social network, televisioni e giornali, si limita, di solito, a esporre due tesi, apparentemente consequenziali: la prima sostiene che la corruzione sia un problema di moralità; la seconda che si possa risolvere con leggi più severe. Lasciando da un lato per il momento le implicazioni da un punto di vista liberale, a prima vista il discorso ha una sua logica: se i controlli non bastano ad individuare i corrotti, né le pene a spaventarli, occorre aumentare entrambi. Invece non è così, perché in realtà le due tesi sono in contraddizione.

Se infatti il problema dell’Italia fosse davvero l’immoralità diffusa “per cultura”, allora non si capisce a cosa potrebbero servire altre norme. Non si può imporre l’onestà per legge, e la storia, anche recente, ci insegna come chi voglia frodare trovi sempre il modo di farlo. Per essere ancora più chiari: se l’immoralità di un comportamento deriva da fattori culturali, è solo cambiando questi ultimi che si otterranno risultati.

Oltretutto, è ormai ben noto e provato come neanche la pena più severa, quella capitale, si sia mai dimostrata essere un deterrente efficace nella lotta al crimine. Coprire buchi normativi è sicuramente utile, ma legiferare in continuazione sugli stessi temi non può portare a risultati diversi da quelli ottenuti in passato; servirà piuttosto ad aumentare la confusione in materia.

Meglio puntare su più controlli allora? Neanche questa sembra una soluzione convincente. Moltiplicare i controlli significa anche moltiplicare i tempi degli iter burocratici, aumentando gli incentivi a “oliare” il meccanismo per velocizzarlo e aumentando quindi il numero di soggetti sensibili ad azioni corruttive. Inoltre, più controlli significa responsabilità più diffuse, con maggiore difficoltà nell’identificare chi decide cosa (e chi se ne debba assumere l’eventuale colpa o merito). Più in generale, i controlli servono solo se sono sostanziali e non formali, e concentrarsi su di un aumento del numero, piuttosto che sulla loro efficacia, non sembra la strada giusta.

Cosa si può fare allora? La risposta potrebbe essere allargare il nostro orizzonte a ciò che succede nel resto del mondo, cercando di capire i motivi alla base di una corruzione diffusa. Un rapido confronto tra il ranking Doing Business della Banca Mondiale ed il Corruption Perception Index, mostra come la corruzione sia direttamente proporzionale alla difficoltà di fare affari in un Paese. Una ricerca comparsa sul Journal of Business Ethics nel 2002 mostrava una forte correlazione tra sovrabbondanza regolatoria e alto tasso di corruzione.

Insomma, più si complica il sistema normativo e si moltiplicano gli ostacoli per chi vuole fare impresa, più aumenta la corruzione in un Paese. La strada per combattere il fenomeno potrebbe dunque essere tracciata: velocizzare i tempi della giustizia, rendere più rapidi gli iter burocratici, valorizzare la responsabilità individuale tra la dirigenza pubblica e migliorare l’efficienza della nostra burocrazia. Scegliendo di agire su questi fronti, si vedranno risultati positivi nel lungo periodo.

Un approccio empirico e liberale alla corruzione (2 di 2)

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Abbiamo già mostrato come maggiori controlli e pene più severe non solo non siano un efficace strumento di lotta alla corruzione, ma anzi vadano a detrimento della stessa. A supporto di questa tesi è stata mostrata la forte correlazione tra la classifica Doing Business (che misura la facilità di fare impresa in un Paese) e il Corruption Perception Index (che rileva il livello di corruzione percepita).

Prima di tutto, un paio di precisazioni. La prima: la corruzione ha molte facce. Quando si parla di essa, non si deve immaginare solo il funzionario o il politico che pilotano gli appalti a favore di amici, ma anche i “contributi” richiesti per accelerare una pratica o al contrario per eliminare un ostacolo o la concessione di sovvenzioni improprie; e si potrebbero fare molti altri esempi. Chiaramente, diversi tipi di corruzione richiedono diversi strumenti di prevenzione e repressione. La seconda precisazione, forse più importante, è che correlazione non significa causalità.

Le più autorevoli ricerche in materia di corruzione ne legano la diffusione al grado di povertà in un Paese (misurato tramite il PIL pro capite), alla scarsa istruzione della popolazione, all’inefficienza delle istituzioni politiche presenti e a fattori storico-culturali; il ruolo della sovra-regolamentazione è al più marginale, inserito nel più ampio contesto politico-istituzionale. Il punto non è sostenere che l’unica causa della corruzione sia la proliferazione di leggi e regole, ma confutare il ragionamento opposto, fallace e molto pericoloso, più controlli = meno corruzione. Sia i dati empirici sia la logica indicano che non è così ed anzi una eccessiva regolamentazione, invece di contrastare il fenomeno, lo alimenta.

Partiamo dai dati (del 2015). Della forte correlazione tra gli indici Doing Business (sviluppato dalla World Bank) e Corruption Perception (elaborato da Transparency International) si è già detto, ma allargando l’analisi ad altri indicatori si può evidenziare meglio il rapporto tra corruzione e sovra-regolamentazione:

– L’indice Business Freedom elaborato dalla Heritage Foundation misura i tempi e i costi per aprire/chiudere un’attività o richiedere una licenza; la sua correlazione con il Corruption Perception Index è molto alta, pari a 0,77;

– Il Worldwide Governance Indicator, sviluppato dalla World Bank, analizza la qualità della governance negli Stati, facendo riferimento a 6 dimensioni (a loro volta costruite aggregando dati di vari indicatori e ricerche): Voice and AccountabilityPolitical Stability and Absence of ViolenceGovernment EffectivenessRegulatory QualityRule of LawControl of Corruption. Queste dimensioni sono tutte fortemente correlate tra loro e tra le due che più ci interessano, Control of Corruption e Regulatory Quality, l’indice di correlazione è molto elevato, essendo pari a 0,83;

– La dimensione Regulatory Quality aggrega vari indicatori, tra cui quello sul peso della regolamentazione governativa (Burden of Government Regulation) elaborato dal World Economic Forum; anche questo indice più specifico presenta una correlazione statistica positiva, seppure minore (0,34), con la dimensione Control of Corruption.

I dati concreti, insomma, non confermano affatto la tesi che servano maggiori regole, anzi sembrano suggerire la tesi opposta. Come spiegarlo? Vi sono fondamentalmente due ordini di cause: i maggiori incentivi alla corruzione e la maggiore difficoltà nell’individuare le responsabilità individuali.

La lunghezza e la complessità delle procedure burocratiche rappresentano infatti un costo ed un rischio per le imprese, che spesso sono costrette a operare “al buio” senza sapere se e quando il proprio progetto imprenditoriale avrà successo o meno; in questa situazione di incertezza sui tempi e sugli esiti, aumenta inevitabilmente la propensione a cercare di ottenere certezza sul ritorno dal proprio investimento tramite scorciatoie illegali. Questo per i corruttori. Per quanto riguarda i potenziali corrotti, la ragione è ancora più semplice: aumentando il numero di burocrati con poteri di controllo, aumenta la probabilità che qualcuno tra questi sfrutti il proprio ruolo per negoziare vantaggi privati con l’impresa o il cittadino coinvolti; ancor più se si è inseriti in un sistema che ricompensa poco il merito come l’amministrazione pubblica italiana.

Un numero eccessivo di regole e controlli rende inoltre più difficile individuare chi abbia preso una decisione. Il burocrate disonesto riesce a nascondersi alla vista molto più facilmente in mezzo a una folla di altri decisori e se poi riesce a far sanzionare una pratica illegittima da altri funzionari sarà al riparo da azioni giudiziarie.

L’Italia soffre ancora di un livello di corruzione inaccettabile per un Paese sviluppato e le solite ricette di repressione e regolamentazione non possono ottenere che risultati parziali, quando non sono controproducenti. Come si può affrontare invece il problema in un’ottica liberale? Riconoscendo che la corruzione non è una questione morale, ma bensì di costi/benefici; che più regole e restrizioni si mettono, più i cittadini e le imprese cercheranno di evaderle; e che la responsabilità individuale è fondamentale e deve essere chiaramente identificabile in ogni decisione pubblica.
Solo cambiando il nostro modo di vedere il fenomeno della corruzione, riusciremo a comprenderlo e combatterlo efficacemente.

La difesa della proprietà è sempre legittima: impariamo dagli U.S.A.

Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto”, ed è il caso di rileggerlo bene così da assimilarne il contenuto.

Ditemi quale altro esempio di libertà dovremmo avere oltre a questo: ad uno Stato nato dalla ribellione agli imperi britannico e spagnolo. Una condizione, questa, per la quale viene riconosciuto il diritto al cittadino di armarsi in difesa della propria libertà, garantendogli il diritto anche di uccidere in caso di necessità. 

Oggi le esigenze sono mutate ma i principi rimangono solidi: la libertà è un bene supremo che deve esser difeso costi quel che costi. Non esistono imperi che, colonizzando territori, sottomettono popoli interi. O meglio: non avviene certamente nel modo classico che tutti noi immaginiamo, e dell’avanzata dell’islam in Europa parleremo in un’altra occasione. La minaccia alla libertà individuale, e alle sue colonne portanti come la proprietà privata, è sempre in agguato ed è nostro dovere essere sempre vigili, accorti, pronti a reclamare uno dei pochissimi diritti di cui pretendiamo di godere: quello alla libertà.

Si dice che un cittadino abbia tra i suoi più pericolosi nemici lo Stato, il quale, in virtù del suo potere, si impone prescrivendo condotte e rendendone illecite altre. Tutto normale, vien da dire, a meno che non si sfoci nell’esagerazione e nell’eccesso di norme, classica situazione in cui troppe sfaccettature della vita dei singoli vengono regolamentate sottraendo a questi ultimi la possibilità di autodeterminarsi completamente.

Torna utile quanto enunciato dal secondo emendamento: uno Stato libero, per esser veramente tale, deve proteggersi anche da sé stesso e dall’andazzo maldestro che può intraprendere. E lo Stato siamo tutti noi, altroché vittimismo, ed è dunque nostro dovere la civile ribellione di cui parlava Henry David Thoreau nella sua Disobbedienza civile. Non possiamo delegare a qualcun altro la tutela delle nostre libertà, perché ne siamo noi e soltanto noi i titolari. 

Prima che la collettività, deve essere tutelato l’interesse dei singoli, essendo la collettività stessa formata da gruppi di persone che decidono di associarsi. È dunque più che ragionevole pretendere di poter difendere la proprietà privata dalle incursioni dei malintenzionati che affliggono le nostre città. La pretesa di obbligare i cittadini a non difendersi, e con sé stessi anche le proprie famiglie, per la supposta tutela della collettività, snocciolando le statistiche per le quali la legittima difesa finirebbe per ledere anche gli innocenti, è folle perché in virtù di certe astratte previsioni verrebbe menomata una libertà concreta.

Quest’ultima consiste nel difendere la abitazione ove ognuno di noi vive e gli affetti che tale immobile contiene, intendendo con ciò prima di tutto le persone, la famiglia, e poi i beni materiali ivi contenuti. La possibilità di essere proprietario di un immobile, ottenuto tramite una trattativa culminata in una acquisto, si svuota di significato se diviene alla mercé di chiunque voglia usufruirne abusivamente, intendendo implicitamente con ciò che la proprietà privata è un furto.

Ed è ancor più grave che sia un organo dello Stato, quello legislativo, che legiferando in tal senso inibisce i suoi cittadini dal difendere le proprie abitazioni da ladri e malfattori garantendogli sanzioni di enorme portata. Addirittura essi passano dalla parte del torto, pur avendo subito una violenza grave, nel momento in cui si trovano obbligati da una sentenza a risarcire la famiglia del delinquente dalla cui aggressione si sono difesi. 

Siamo pieni di buontemponi che, parlando di un non meglio diritto alla casa, difendono coloro che occupano gli immobili altrui, accampando a difesa di questo abominio l’utilità sociale che deve avere tale immobile. Utilità sociale che, per definizione, non esiste e quindi può essere tirata da una parte all’altra in base alle esigenze momentanee, finendo inesorabilmente col menomare la proprietà privata di un soggetto qualunque. Da questo concetto malsano a giustificare i ladri perché magari indigenti, il passo è breve. Ed è già accaduto che qualche sociologo da serie C lo affermasse tanto per garantirsi qualche minuto di applausi in più.

Ce lo insegna la più grande democrazia del mondo che per esser liberi si deve, spesso, anche essere armati. E se qualche buonista ritiene che casa propria debba essere a disposizione di chiunque voglia depredarla o bivaccarci, non saremo certo noi a ledere questa sua libertà di scelta.

“I liberali se ne fregano dei poveri”: un mito da sfatare

La retorica collettivista e socialista, che poggia sull’unico fondamentale pilastro del “o con noi o contro di noi”, va dicendo indisturbata da quasi un secolo una delle più grandi ed ingiuste menzogne, che gli ambienti liberali hanno, dalla fine dell’800, dovuto sopportare. E cioè che chi è liberale e, a maggior ragione, liberista non ha a cuore i meno fortunati e pensa più a tutelare la libertà dei ricchi che la dignità dei poveri.

Innanzitutto va detto che la politica è, per definizione, il perseguimento della maggiore felicità e del maggior benessere di quanti più cittadini possibile. E chiunque non abbia questo come suo unico obiettivo non fa politica: fa affari. In secondo luogo, si tende a riconoscere come amico dei meno abbienti chi propone misure immediate e, concedetemi, molto facili a dirsi, per dare più soldi a chi ne ha di meno. Dimenticando che il fine ultimo delle politiche di destra è lo stesso (sulla carta per ideologia e non in tutte le applicazioni storiche). Quindi i liberali non vogliono privare i più poveri di aiuti o di assistenza e non mancano di umanità, come viene loro spesso imputato.

Ma invece credono che, perché si possano aiutare i più deboli, sia necessaria un’economia forte, capace di sopportare quelle misure assistenzialistiche che sono degne di uno stato umano. Si è già visto in molti paesi socialisti come il collettivismo porti a grande povertà. Per dirla in maniera più spicciola: è inutile avere giustizia sociale se poi da spartire c’è una mela per ogni 10 cittadini.

Si è dimostrato che uno Stato forte e arricchito dall’economia liberista ha poi le risorse necessarie per poter far fronte a quelle riforme sociali che, altrimenti, o non sarebbero possibili o farebbero crollare l’economia nazionale.

E’ grazie al mercato libero e alla forte economia guadagnata nei lunghi anni di lavoro sui mercati che Paesi come la Germania, la Francia, l’Inghilterra e l’Italia stessa possono vantare uno stato sociale forte e che, per quanto poco ce ne si accorga in patria, ci rende un esempio nel mondo. Chi dubita di questo può consultare “Where to invade next”, l’ultimo film di Michael Moore, famosissimo regista americano d’inchiesta e socialista, che in viaggio in Europa ha dimostrato tutto ciò in cui secondo lui l’Europa è anni avanti agli Stati Uniti. Perchè solo un Paese forte può provvedere ai meno fortunati. Se Bismarck non avesse avuto alle spalle, a fine ‘800, un’economia potente come quella tedesca non gli sarebbero state possibili tutte quelle riforme socialiste che beffarono l’SPD. Il primo in Italia a parlare di riforme sociali al governo fu Giolitti, liberale, che migliorò le condizioni dei lavoratori grazie all’apertura italiana ai mercati europei operata dalla destra storica e da Crispi. Tanti sono gli esempi di misure sociali supportate da un’economia in grado di farvi fronte. Ed è molto facile riconoscerle: sono quelle che durano ancora oggi.

Quindi la si smetta di credere i liberali e i liberisti insensibili, classisti, cinici e dal cuore di pietra. L’obiettivo di chi si occupa di politica è quello di avere quanta più felicità possibile tra gli uomini. Il fatto di avere strade diverse secondo cui giungervi non rende né gli uni né gli altri meno determinati per quel fine.