Davvero la sanità italiana è la quarta migliore al mondo?

La sanità PUBBLICA italiana è la quarta migliore al mondo. Scacco matto neoliberisti!

Se avete mai discusso di sanità avrete sicuramente letto un commento del genere. Ma è vero?

Effettivamente esiste una classifica di efficienza stilata da Bloomberg che afferma che la nostra sia la quarta sanità più efficiente del mondo.

Ma si basa su un criterio fallace. Infatti è un semplice rapporto tra l’aspettativa di vita e i costi sanitari. Ma l’aspettativa di vita varia in base a numerosi fattori, dall’alimentazione alla genetica, e l’Italia gioca in casa: Sardi e lombardi, curiosamente anche quelli ticinesi, sono tra le popolazioni più longeve d’Europa.

Bisognerebbe trovare una classifica basata su criteri sanitari, come l’accessibilità, l’informazione, i risultati effettivi, la prevenzione e la capillarità dei servizi offerti. Ah, già, esiste, è l’Euro Health Consumer Index, nella sua versione più recente del 2018.

E l’Italia perde improvvisamente il suo primato: Si posiziona ventesima, appena dietro la Spagna e prima della Slovenia, e mostra una scarsa capillarità e accessibilità.

Le prime dieci posizioni sono occupate da Stati che adottano il cosiddetto sistema Bismarck o un sistema universale e poi, undicesima, c’è la Francia, che usa un sistema intermedio tra i due.

È chiaro che da questi dati non si possa decretare un sistema migliore. Ciò dipende da vari fattori, primo tra tutti l’efficienza nell’uso del denaro dei contribuenti, una cosa affermata nei paesi scandinavi ma completamente estranea all’amministrazione italiana che vede la sanità più come un poltronificio.

Ma nel momento in cui la sanità italiana in Europa è percepita al livello di quella della Serbia, che è comunque uno Stato in crescita, dovremmo interrogarci su come possiamo migliorare. Perché, sia chiaro, in Italia abbiamo tante eccellenze, specialmente in Lombardia, ed è vero che ci sono persone che vengono dall’altro capo del mondo a curarsi a Milano.

Ma se a dover intraprendere certi viaggi della speranza sono anche cittadini italiani (perché i loro ospedali locali sono in condizioni disperate) è evidente come la sanità italiana non funzioni. E la soluzione proposta nel referendum costituzionale del 2016, ossia centralizzare tutto, è una non-soluzione, poiché è la mala-amministrazione a rendere certi ospedali problematici; raramente un’amministrazione centralizzata non eccezionale è maggiormente performante in tal senso rispetto un’amministrazione locale. Soprattutto in Lombardia.

Non a caso i sistemi sanitari scandinavi citati precedentemente agiscono a livello fortemente decentrato.

C’è euroscetticismo ed euroscetticismo

Non può esistere né deve esiste un’unica posizione liberale in materia di integrazione europea. La ragione è semplice: in base al restante bagaglio culturale si svilupperà, partendo da un’ideologia liberale, l’opinione sull’Europa.

Alcune categorie liberali hanno una posizione caratteristica sull’argomento: i liberal-popolari sono di solito europeisti, i liberali per la democrazia diretta euroscettici e gli indipendentisti liberali sono federalisti europei.

A tal proposito ci tengo a sottolineare come esistano valide ragioni per essere liberali e contrari all’Unione europea. Potremmo parlare del fatto che l’UE agisca come mercato unico e non come libero mercato, dello spiccato protezionismo della PAC o del fatto che, essendo governata dagli Stati, alla fine si comporta come un semplice delegato degli interessi che, nel 1900, hanno permesso al collettivismo di prevalere.

Di solito chi ha queste opinioni sostiene, appunto, un’Europa diversa, aperta al libero mercato e dove il potere sia ad un livello più basso, statale o regionale, per permettere un diffuso ricorso alla democrazia diretta.

Si può certamente obiettare come questi obiettivi siano raggiungibili anche all’interno dell’Unione, però è anche certamente più facile convincere un Paese che l’unione intera.

Tuttavia questo euroscetticismo, in Italia, esiste solo in alcuni ambienti libertari e, come frangia estremamente minoritaria, in alcuni partiti conservatori.

Il resto degli euroscettici lo sono, semplicemente, per il motivo sbagliato, ossia per un progetto sovranista e protezionista.

Il sovranismo, in Italia, è quell’ideologia per cui la politica economica va acclamata a furor di popolo e quando chi presta i soldi ne chiede conto o chiede a un’agenzia privata di farsi fare un rating si urla al complotto e alla speculazione. Si tratta di una delle tante ideologie che condividono il problema del socialismo, ossia che prima o poi i soldi altrui finiscono.

Sia chiaro, non ho nulla contro del sano conservatorismo fiscale in stile Kurz, che ha come obiettivo ridurre la dipendenza dello Stato da prestiti raggiungendo il pareggio di bilancio, ma il sovranismo italiano semplicemente vorrebbe fare debito per attuare politiche socialiste e keynesiane e quando l’Europa fa notare che non è una buona idea, invece di prendersela con la realtà, se la prendono con Bruxelles.

Il secondo problema è quello del protezionismo: nonostante l’UE sia fortemente protezionista con il mercato estero, soprattutto in materia agricola, ai protezionisti italiani non basta: vogliono più protezioni, meno mercato libero tra nazioni UE e più sussidi.

Ciò soddisfa due importanti bacini elettorali: quello degli agricoltori, ben desiderosi di non aver concorrenza e di scaricare parte dei propri costi sui contribuenti, e quello degli sciovinisti alimentari, per ciò tutto ciò che si mangia in Italia dev’essere prodotto entro i sacri confini della Patria, ignorando il fatto che l’Italia mangia più di quanto produca, e sfottono gli avventori di Starbucks per poi comperare prodotti 100% italiani che costano, senza contare i sussidi, il triplo degli omologhi prodotti.

Tutto ciò rende molto arduo un serio dibattito sull’integrazione europea, su tutto ciò che spazia tra “Patria e avtarchia” e l’Unione europea e possibili sviluppi, ad esempio con enti come l’Area Europea di Libero Scambio o lo Spazio Economico Europeo come l’Area Schengen o accordi bilaterali.

Liberalismo e leva obbligatoria

È ultimamente tornata in auge nel dibattito politico europeo la questione della coscrizione dei giovani, ed è una proposta che tocca tutto lo spettro politico: cavallo di battaglia della Lega e di AfD, implementata da Macron e proposta, seppur nella forma soft del servizio civile, dal PD italiano.

Negli ultimi decenni grandi pensatori liberali si sono opposti, spesso con successo, alla naja: Nota la campagna contro la coscrizione di Milton Friedman negli Stati Uniti, meno nota la legge Martino, firmata da un liberale di ferro, che sospese la leva obbligatoria in Italia.

Tuttavia basta guardare vicino all’Italia per notare come due degli Stati più liberali che confinano con l’Italia, Svizzera e Austria, hanno la leva obbligatoria.

Come mai?

Bisogna considerare che il liberalismo difende la libertà individuale ed economica ma riconosce l’esistenza dello Stato con limitate funzioni da implementare con una moderata tassazione, il meno coercitivamente possibile.

In un certo senso, nel momento in cui lavoriamo per pagare le tasse, stiamo di fatto lavorando non per noi ma per lo Stato, esattamente come nel caso della leva.

Chiaramente c’è la differenza che nel caso delle tasse stiamo scegliendo noi come lavorare per pagarle, mentre nel caso della leva il lavoro da fare viene imposto dallo Stato, ma il principio coercitivo alla base resta.

Quindi, in linea di massima, uno Stato liberale può avere la leva obbligatoria, se è l’unica alternativa possibile per formare le Forze Armate.

Non a caso la Svizzera e l’Austria sono Stati di piccole dimensioni neutrali, quindi non possono contare su alleati internazionali ma solo sulle proprie forze. L’esercito di milizia, in tal caso, è una scelta quasi naturale.

Ma se esiste un’alternativa lo Stato dovrebbe seguirla, com’è stato fatto oggi nella gran parte degli Stati europei.

Argomenti pro leva

Ma i sostenitori della leva portano argomenti legati alla sicurezza nazionale?

Purtroppo, no. In tal caso sarebbe semplice analizzare questi argomenti e dare una risposta secondo le idee liberali.

I sostenitori di questa misura portano solo argomenti tratti dal peggiore paternalismo di Stato:

Ci vuole la leva per educare i nostri ragazzi, ci vuole la leva per insegnare ai nostri ragazzi la generosità e il sacro amor di Patria.

Un palese tentativo, per dirla alla Thatcher, di “assegnare i propri problemi alla società”. Ma, per continuare la provocazione tory, questa società non esiste: chi parla di educare i ragazzi tramite la leva, oltre a non aver mai aperto un libro di storia, sta ammettendo il proprio fallimento come educatore e tenta di scaricare i suoi fallimenti sulla società.

La milizia di popolo, però, sarebbe un bene

Per uno Stato moderno che voglia contare a livello internazionale è necessario avere un esercito professionale e permanente. Non sarebbe sbagliato, però, aprire la possibilità di armarsi in modo organizzato e controllato ai comuni cittadini, magari in collaborazione con gli enti locali, per poter veramente permettere a chiunque di difendere la Patria, anche senza entrare nell’esercito, e al contempo migliorando le possibilità per l’Italia di resistere ad un eventuale governo dittatoriale, non a caso una delle poche ragioni sensate pro-leva che ho letto è stata che un esercito democratico ha una minore tendenza a partecipare a colpi di Stato.

Avere cittadini addestrati all’uso delle armi vuol dire ricordarsi da dove nasce l’attuale Italia, ossia dall’uso delle armi per liberarci dal nazifascismo. Non possiamo sapere cosa ci riserverà il futuro, speriamo tutti una florida democrazia liberale, ma se così non fosse dev’essere dovere dello Stato dare ai propri cittadini la possibilità di resistere ad un governo tirannico o ad un’invasione straniera.

Liechtenstein, uno Stato liberale retto da un monarca miniarchico

Lassù, sul giovane Reno, sporge dalle alture alpine il Liechtenstein. Queste sono le prime parole dell’inno di uno dei Paesi più particolari del mondo, il Liechtenstein.

Frutto della necessità della famiglia austriaca Von Liechtenstein di avere un territorio sotto il governo diretto dell’Imperatore per partecipare alla Dieta, solo nel 1938, dopo più di 200 anni, i principi del Liechtenstein vanno a viverci.

Da una prima occhiata, pare uno Stato poco interessante per un progetto liberale: monarchia costituzionale con un forte potere del Principe regnante che può nominare giudici, sciogliere il governo e porre veto su ogni legge. Inoltre è uno Stato fortemente cattolico: la fede cattolica è ufficiale e, ad esempio, l’aborto è vietato quasi in ogni caso.

Basta tuttavia un’analisi più approfondita per convincersi dell’utilità di analizzare il caso del Principato del Liechtenstein: è uno dei Paesi con il PIL pro capite più alto al mondo; la pressione fiscale è di poco superiore al 15% e c’è un forte uso della democrazia diretta. Ma, soprattutto, c’è uno Stato leggero che lascia ai propri cittadini un’enorme libertà di scelta. Libertà solo nella propria scelta economica ma anche su questioni che in Italia sarebbero impensabili, come rovesciare la monarchia, cambiare regnante o secedere.

Abituati culturalmente a considerare la monarchia come un retaggio del passato che vuole conservare l’antichità, potremmo immaginare che il popolo del Liechtenstein abbia conquistato queste libertà in una costante lotta contro un tradizionalismo monarchico.

Ma il vero catalizzatore di queste riforme, alle volte così estreme da venir rigettate dal popolo, è stato il Principe del Liechtenstein Giovanni Adamo II. Questo, incaricato dal padre negli anni ’70 di riordinare il patrimonio di famiglia, si convinse di come per uno Stato fosse necessaria un’ampia decentralizzazione, la possibilità di cambiare Stato o di fondarne uno nuovo per le comunità locali. Ciò visto anche come incentivo allo Stato a rimanere concorrenziale e utile e, in generale, invertendo il paradigma che quindi vede lo Stato al servizio del cittadino.

Il Principe si dimostra essere fermamente contrario al protezionismo, che considera come una misura che rallenta il progresso e favorisce la povertà, ed anche al proibizionismo sulle droghe, a supporto della lotta alla malavita. Ha sottolineato come l’inventore della guerra alla droga sarebbe un buon candidato ad un ipotetico premio Nobel per la stupidità. In questo, comunque, il popolo non l’ha seguito e le droghe sono tuttora illegali nel Principato.

Pur avendo ampi poteri, non ne ha mai abusato e non ha mai usato il suo diritto di veto. Il padre lo usò solo una volta, per porre veto su una legge sulle riserve di caccia; il figlio, reggente, l’ha minacciato due volte: sull’aborto e sul potere di veto stesso.

Nel 2003, Giovanni Adamo vince un referendum che permette alla Costituzione da lui emendata di entrare in vigore e inserire questi principi nel suo Stato. Ma già da prima si impegnò per essi: nel 1993, poco dopo l’ingresso del Liechtenstein nelle Nazioni Unite, fece all’Assemblea Generale un discorso difendendo il diritto di autodeterminazione e chiedendone una reale applicazione e garanzia a livello internazionale. Gli Stati nazionali, ovviamente, hanno rigettato la proposta.

Ma l’obiettivo del principe era ben più libertario: avrebbe voluto stabilire persino il diritto di secedere dallo Stato per il singolo individuo. A impedirlo è stata semplicemente l’impossibilità di coniugare tale norma con il diritto internazionale, che difficilmente prevede la fattispecie di Stati-individuo.

Nel 2009 viene pubblicato il suo volume “Lo Stato nel Terzo Millennio” in cui, dopo un’attenta analisi storica, ipotizza un nuovo modello di Stato applicabile sia a grandi Stati come l’Italia sia agli Stati piccoli come il Principato. Un modello basato sullo Stato come impresa pacifica al servizio dell’umanità e dei propri cittadini, che decentri fortemente spese e amministrazioni e garantendo i diritti fondamentali delegando le infrastrutture alle autonomie ed ai comuni.

È chiaro come il successo del Liechtenstein sia dovuto anche al non aver dovuto affrontare spese militari e diplomatiche, essendo il tutto demandato alla vicina Confederazione Svizzera. Ma se gli Stati europei agissero in tal modo, riducendo il peso dello Stato nella vita dei cittadini, riconoscendo il loro diritto di scegliere nel libero mercato e riconoscendo decentramento e autodeterminazione delegando la difesa ad un’entità unica (magari lasciando il diritto di essere armati ai cittadini) non sarebbe già un inizio?

Chernobyl e l’incalcolabile prezzo delle menzogne

Se prima temevo il prezzo della verità, ora io mi chiedo solamente: qual è il prezzo delle menzogne?
– Valery Legasov

L’ultima produzione di HBO, ampiamente acclamata dalla critica[1] e dal pubblico, è la serie Chernobyl. In 5 tesissimi episodi, la serie televisiva espone tutti i dettagli e i retroscena della famosa tragedia nucleare sovietica in maniera ineditamente cruda, feroce, viscerale.

Chernobyl riesce a esplorare tutta la carica drammatica di un nemico implacabile e invisibile: le radiazioni. Questo fantasma prende vita dai resti dell’esploso reattore 4 della Centrale Nucleare Vladimir I. Lenin, la famosa Centrale di Chernobyl, rendendo la storia di tutti i personaggi un vero supplizio. Tutti sono consapevoli di essere già stati condannati a morte – alcuni moriranno nel giro di giorni, altri in qualche mese, altri ancora in pochi anni.

Non si può scappare dalle radiazioni. Il fisico nucleare Legasov afferma a un certo punto che the atom is a humbling thing (traducibile con “l’atomo è qualcosa che ci rende più umili”), appena per sentirsi ribattere dal ministro Shcherbina it’s not humbling, it’s humiliating (parafrasando, non ci rende più umili, ci umilia). Nel contesto della serie, entrambi hanno ragione: i personaggi, tutti, senza esclusioni, si sentono tanto umili quanto umiliati di fronte all’ineluttabilità della catastrofe che li circonda. Il tocco finale è la colonna sonora, interamente registrata proprio all’interno di alcune centrali nucleari, che è capace di mantenere il telespettatore in un’estasi di suspense soffocante.

Come dicevo, Chernobyl vanta numerosi meriti cinematografici e i produttori hanno avuto la singolare capacità di far sì che il pubblico riuscisse a vivere l’ampia gamma di emozioni e angustie che le vittime della cittadina sovietica di Pripyat provarono all’epoca del disastro. Ma la serie va ben oltre: se molte volte rimaniamo soffocati di fronte al peso dell’ecatombe nucleare che si sviluppa davanti ai nostri occhi, non possiamo non rimanere asfissiati in maniera analoga di fronte al peso della devastazione sociale sovietica che fa da background alle tragedie narrate. Ed è quest’ultimo la causa del primo, concetto che è bene che risulti chiaro a tutti fin dal principio.

Mi spiego meglio: il catastrofico incidente nucleare di Chernobyl, responsabile della devastazione di una ricchissima regione, tale da renderla simile ai peggiori scenari dei film post-apocalittici[2], non è la vera – o, comunque, non l’unica – tragedia raccontata dalla serie.

Il vero flagello della serie è umano, troppo umano, ed è responsabile delle terribili conseguenze che destano l’orrore del pubblico durante 5 interi episodi. Chernobyl ci offre alcuni dei migliori insight circa le conseguenze della tirannia e della menzogna.

Jordan Peterson afferma che “in a true tyranny, everyone lies about everything all the time. And that’s why it’s hell”. 

La tragedia affonda ivi le proprie radici, nella persistente e completa negazione della realtà. In un regime totalitario regna il più assoluto dei relativismi. Non esiste ciò che è giusto e ciò che è sbagliato: esiste solamente la cieca obbedienza. Obbedire è essere liberi, se mi permettete di parafrasare le parole di George Orwell. Per tale motivo, tutti mentono su tutto. Tutti hanno bisogno di mentire su tutto per tutto il tempo.

E questa negazione della realtà, nel 1986, è una bomba a orologeria pronta a esplodere.

Il fatto che l’incidente in questione sia avvenuto proprio in una centrale nucleare intitolata a Vladimir I. Lenin è una di quelle tristi ironie della storia umana che non passa inosservata a uno sguardo attento. Il sistema delle centrali nucleari era, all’epoca, il grande orgoglio sovietico. L’Unione Sovietica possedeva un numero di centrali maggiore rispetto a qualsiasi altro Paese e la complessa rete di energia nucleare rappresentava la perfezione del socialismo, della pianificazione centralizzata, dei piani quinquennali di Stalin e del sistema istituzionale votato a obbedienza, gerarchia e ordine. Era una prova del fatto che il socialismo era in grado di raggiungere anche il più avanzato livello tecnologico: era sufficiente obbligare le persone a perseguirlo.

L’esplosione del reattore 4 seppellisce questa favola lungamente decantata. Dopo la catastrofe, il mondo intero nota che “il re è nudo” (e lo è sempre stato), anche i più alti esponenti del Partito Comunista Sovietico. Lo stesso Gorbachev, nelle sue memorie, sostiene espressamente che l’incidente è stato il grande responsabile della caduta dell’URSS.

Nella serie, egli afferma “our power comes from the perception of our power”, ossia che il reale potere dell’Unione Sovietica deriva dalla percezione che si ha di tale potere. È possibile sostituire il regime sovietico con qualsiasi regime collettivista, o, più semplicemente, con qualsiasi regime che, in maggiore o minor misura, preferisce appiattire l’individuo, trasformandolo in un mero ingranaggio del sistema. Laddove gli individui sono dei semplici mezzi, e non dei fini, le tragedie sono sempre all’orizzonte.

Continuando l’analisi, l’URSS si autosostenta grazie al potere delle apparenze, della percezione, della menzogna. Sfortunatamente per i sovietici, la Verità è già di per sé un potere, un potere in grado di annichilare le apparenze.

La Verità, così come la radioattività – che lascia il pubblico senza fiato in ogni singolo minuto della serie –, è ineluttabile, trascendentale, e può essere mortale. E Chernobyl è stata in grado d’intrecciare simbolo e tragedia numerose volte nei 5 episodi. Il pubblico si sente soffocato, sì, perché le radiazioni rappresentano una minaccia troppo grande alla vita di tutti i personaggi, ma si sente anche, talvolta incoscientemente, asfissiato dal peso incontestabile della Verità, della realtà che s’impone con la forza anche con chi si rifiuta di vederla e affrontarla.

Risulta chiaro fin dall’inizio che l’incidente della centrale nucleare è il risultato di una serie di menzogne in crescendo, che finiscono per sommergere tutta la delicata attività dell’impianto in un mare d’ignoranza e decisioni irresponsabili e imprudenti. Non poteva esservi un altro finale possibile in un contesto del genere.

Gli operatori addetti alla sala di controllo mentono a loro stessi, accettando l’autorità abusiva e insignificante di Anatoly Dyatlov, per paura del potere che questi detiene all’interno del regime. I superiori di Dyatlov, a loro volta, hanno mentito più e più volte nel programma dei test della centrale, disobbedendo a tutti i protocolli e alle linee guida delle operazioni di controllo di sicurezza: il reattore 4 era stato inaugurato anni prima dell’incidente e i responsabili della centrale erano stati insigniti con tutti gli onori sovietici possibili in una cerimonia che altro non era che una pantomima, dal momento che l’ultimo test di sicurezza previsto, requisito essenziale per garantire il corretto funzionamento del reattore, non era mai stato eseguito. Tutta la ricerca e la progettazione delle centrali nucleari dell’Unione Sovietica era una grande farsa, in cui era stato possibile occultare e distruggere pagine e pagine di ricerca scientifica i cui risultati potevano risultare scomodi per il regime.

E lo stesso processo atto a individuare i colpevoli di questo disastro finisce con l’essere anch’esso una farsa,  una vera e propria montatura, che acquisisce un senso solo per gli individui coinvolti, parte integrante di un sistema schiavo della menzogna, delle apparenze, della forma e della liturgia insensata.

Se non ti piace o ti risulta scomoda la Verità contenuta nella conclusione di una ricerca scientifica in ambito fisico-nucleare, non vi è nulla di più semplice che distruggerla ed esiliare il ricercatore. È in questo modo che i sovietici affrontavano la Verità. Pensavano che fosse il metodo più facile. Ma aveva ragione Ayn Rand, quando diceva che “puoi anche ignorare la realtà, ma non puoi ignorare le conseguenze della realtà”.

Distruggere tutti i registri dei centri di ricerca nucleare in cui si fa riferimento al fatto che i reattori RMBK non sarebbero sicuri, non li rende sicuri, ma semplicemente ostacola la ricerca di metodi e protocolli atti a incrementarne la sicurezza e a ridurre rischi operazionali potenzialmente letali. Quei reattori non erano dotati di un sistema di spegnimento d’emergenza che fosse realmente efficace. E, seppur consci di ciò, gli scienziati responsabili portarono comunque avanti il progetto. Il risultato di questo climax di menzogne non poteva essere diverso da quello che poi avvenne: il reattore 4 esplose durante un test di sicurezza, creando un immenso Nuclear Wasteland.

Chernobyl è la prova che l’uomo, in fin dei conti, può scegliere se aggrapparsi alla menzogna o alla Verità, ma la sua scelta avrà necessariamente un costo, delle conseguenze. È impossibile fuggire dalle conseguenze.

Ignorare la tragedia – o mentire su di essa – è una scelta. Purtroppo però la realtà ti divorerà comunque, che tu la riconosca oppure no.

L’altra opzione è accettare la realtà, e, in tal caso, l’uomo è portato al sacrificio finale. Il sacrificio è il pesante fardello che portiamo e, se siamo in grado di sopportarlo, se lo portiamo con coscienza, possiamo affrontare a testa alta le dure conseguenze della realtà. Perseverare nella menzogna non solo coltiva tragedie, ma ci priva anche della capacità di affrontarle quando queste accadono davanti ai nostri occhi.

Questo è uno dei punti forti della serie.

Chernobyl dimostra che l’unica forma di salvarsi e salvare il prossimo è accettare la realtà. Legasov e Shcherbina interrompono il ciclo di menzogne e sono i primi ad accettare come un fatto il verificarsi dell’esplosione. Tutti gli altri personaggi prima di loro non fanno che ripetere l’insana domanda “ma come può un reattore RBMK esplodere?”, come se la supposta impossibilità teorica – o la ripetizione delle proprie convinzioni – possa essere capace di cambiare la realtà. Dyatlov non ammetteva l’esplosione del reattore, neanche dopo i reiterati rapporti dei suoi sottoposti, che entravano nella sala di comando vomitando, col viso ustionato, la pelle che si disfaceva sotto i loro occhi, la disperazione stampata sul volto. “State avendo delle allucinazioni”, concludeva Dyatlov.

Legasov, al contrario, accetta la realtà dell’esplosione del reattore fin dall’inizio. A partire da lì, con il fortunato aiuto del ministro Shcherbina, decide di sacrificarsi per impedire la trasformazione di mezza Europa in un deserto nucleare, con la consequenziale morte di decine o centinaia di milioni di persone. Il sacrificio può essere compiuto solo dopo essere entrati effettivamente in comunione con la Verità – o con la realtà. Ed è pertanto possibile solo una volta interrotto il ciclo di (auto)inganni, dopo aver percepito che non sono gli altri ad avere le allucinazioni.

In un determinato momento della serie, l’incisivo Shcherbina dice a Legasov: “Hai già lavorato in miniera? Ti do un consiglio: di’ la verità. Questi uomini lavorano nell’oscurità. Vedono tutto”.

Gli unici qualificati per cercare di stabilizzare l’azione potenzialmente distruttiva del nucleo – che potrebbe causare un’esplosione termoelettrica in grado di far saltare in aria gli altri 3 reattori di Chernobyl – sono i minatori, incaricati di scavare un tunnel sotto il reattore per consentirne il raffreddamento prima che il nucleo incandescente sciolga le strutture circostanti raggiungendo le cisterne d’acqua. I minatori sono anche uomini che vivono nell’oscurità e che non sopportano le menzogne; si importano della vita dei propri compagni e ricercano la verità in ogni parola. Proprio per questo, sono uomini che non accettano le menzogne ufficiali delle autorità statali.

I minatori possono anche obbedire agli ordini del governo sovietico – cosa che effettivamente fanno, votandosi volontariamente al sacrificio finale –, ma solamente dopo aver saputo esattamente cosa stanno affrontando. Difatti, sono disposti a morire pur di non vendere la propria coscienza ai burocrati sovietici, nel caso in cui non mostrino loro i fatti così come stavano. Fatto sta che i minatori impediscono che la menzogna penetri nelle loro coscienze.

A causa dell’attività del nucleo di uranio, il calore durante gli scavi aumenta tanto che questi sono costretti a lavorare nudi per poterlo sopportare. Ciò non sminuisce la loro dignità, bensì la mette ancor più in evidenza agli occhi degli altri. I minatori non si vergognano di essere nudi di fronte alle autorità e al resto del mondo. In realtà, simbolicamente, i minatori sono sempre stati nudi, ancora prima di togliersi i vestiti.

La serie termina con Legasov che, in una delle più profonde conclusioni di una serie TV, sentenzia: “i nostri segreti e le nostre menzogne sono praticamente ciò che ci definisce. Quando la verità offende, noi mentiamo, ancora e ancora, fino a dimenticarci della sua esistenza… ma la verità continua a esistere. Ogni menzogna che raccontiamo genera un debito con la verità. E prima o poi questo debito va pagato.”

“Quando la verità offende, noi mentiamo”. Nonostante ciò, Chernobyl e Ayn Rand ci provano che mentire è impossibile, perché il debito (per Chernobyl) e le conseguenze (per la Rand) dovranno inevitabilmente essere pagati.

La menzogna altro non è che un modo per ritardare un’esazione inevitabile da parte della realtà, il più puntuale dei creditori.

Ogni domanda scomoda che scegliamo di non fare per quieto vivere, ogni volta che accettiamo a capo chino le più evidenti distorsioni della realtà, ogni verità che ci offende, è semplicemente un indebitamento crescente nei confronti della realtà. Sempre Peterson ci insegna che “dire la verità è trarre all’Essere la più accettabile delle realtà. La verità costruisce edifici che possono rimanere in piedi per migliaia di anni. La verità alimenta e veste i poveri, e rende le nazioni ricche e sicure. […] La verità è la più grande e inesauribile risorsa naturale. È la luce nell’oscurità. […] In Paradiso, tutti dicono la verità. È questo che lo rende il Paradiso”.

Chernobyl ci fa pensare alla nostra civiltà, che accetta sempre più che vengano corrotte le proprie istituzioni, il proprio linguaggio e i propri valori fondanti, tra cui il più grande di essi, la libertà. Ci mostra che si cede sempre maggior spazio, codardamente e convenientemente, al politicamente corretto, alle reiterate farse ideologiche e allo stretto prisma marxista per l’interpretazione della complessa e ricchissima realtà sociale. Chernobyl ci dimostra come la nostra civiltà, una volta basata nella Verità e nella ragione, sia stata ora ricostruita sulle fragili basi della menzogna e del relativismo. Ci costringe a guardarci allo specchio, e ciò che vediamo non ci piace.

In una delle ultime scene, la telecamera riprende un dipinto sulla parete di una vecchia scuola della cittadina di Pripyat, in cui è rappresentata una donna con un bambino in braccio. La parete risulta scollata e la bocca della donna, distrutta.

La serie si chiude così, con un’eloquente allerta sui costi del silenzio e della nostra distruttiva passività. La radioattività, la centrale nucleare, l’esplosione, Pripyat. Nulla avviene per caso, niente è fortuito. La Verità è il più puntuale e severo dei creditori e, a questo ritmo, il sacrificio può finire con l’essere la nostra unica via d’uscita possibile.

Il registro ufficiale russo dichiara ancora oggi che vi furono solamente 31 vittime nell’incidente di Chernobyl.

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[1] Chernobyl ha ottenuto il voto 9.6 sul sito IMDb, il che la rende la serie TV meglio valutata della storia, superando anche serie di alto livello come Breaking Bad e Game of Thrones.

[2] Secondo le stime, quell’immensa regione rimarrà inospitale per i prossimi 24.000 anni.

 

Prima riordina la tua camera e poi cambia il mondo

Che tipo di programma politico puoi aspettarti da qualcuno che non sa nemmeno pianificare da solo il contenuto del proprio armadio?

In una ormai famosa puntata del podcast di Joe Rogan, lo psicologo Jordan B. Peterson ha sottolineato quanto sia strano che molti giovani impegnati politicamente siano preoccupati di riorganizzare la società e il sistema economico quando non riescono nemmeno a tenere in ordine le proprie camerette. Ha detto:

I giovani di 18 anni non possono trovare soluzioni all’economia, non sanno nulla dell’economia. È una macchina complessa che va oltre la comprensione di chiunque. Sanno almeno riordinare la propria stanza? No. Beh, ci pensino. Dovrebbero pensarci, perché se non riescono nemmeno a pulire la loro stanza, chi diavolo sono loro per dare consigli al mondo?

In realtà, come dimostrarono i filosofi dell’economia Ludwig Von Mises, Friedrich Von Hayek e Leonard Read, l’economia di mercato è così spaventosamente complessa che neanche un pianificatore centrale onnisciente, perfetto e virtuoso (presumibilmente con una squadra tecnica immacolata) saprebbe pianificarla centralmente. Dunque, cosa possiamo aspettarci da qualcuno che neanche sa mettere in ordine il proprio armadio?

Eppure, molti giovani sono appassionati dall’idea di “cambiare il mondo” e sono profondamente negligenti con il loro piccolo angolo di mondo, la loro stanza. Questo approccio alla vita è una ricetta per l’angoscia e la depressione. Voler cambiare cose che non puoi cambiare porta a sentimenti di frustrazione e impotenza. Trascurare le cose che puoi cambiare, invece, porta alla stagnazione e alla crisi.

La prescrizione del Dr. Peterson per questo disturbo è la seguente:

La mia sensazione è che se vuoi cambiare il mondo, devi iniziare da te stesso e poi lavorare verso l’esterno, in questa maniera potrai sviluppare le tue competenze

Peterson continua:

Il mondo è presentato come una serie di enigmi, alcuni dei quali sei in grado di risolvere e altri che non puoi risolvere. Hai molti enigmi davanti a te che puoi risolvere, ma decidi di non farlo. Queste sono le cose che pesano sulla tua coscienza (…)

Perché la domanda è: quanto stiamo contribuendo al fatto che la nostra vita è una catastrofe esistenziale e una tragedia? Quanto contribuisce questa nostra corruzione a tutto ciò? Questa è una domanda che vale davvero la pena di porsi.

Le cose che tu decidi di non fare. Perché sei arrabbiato, sei risentito o sei pigro. Bene, consulta la tua coscienza e dille: “Beh, sai, in quel posto potrebbe esserci bisogno di un po’ di lavoro“. È come lavorare su te stesso. E così inizi pulendo la tua stanza, perché puoi. E poi le cose iniziano ad essere un po’ più chiare intorno a te. E tu stai un po’ meglio, perché ti sei esercitato. E sei anche un po’ più forte. E poi qualcos’altro si manifesta e dice: “Beh, forse puoi anche provare a riparare questo o quello“. Quindi decidi di farlo e anche questo diventa un altro piccolo risultato raggiunto…

… e poi magari imparerai abbastanza in questa maniera, che potrai risolvere i problemi della tua famiglia, e dopo averlo fatto, avrai abbastanza carattere, cosicché quando cercherai di operare nel mondo, nel tuo lavoro, o forse nelle sfere sociali più ampie, sarai una forza positiva anziché un danno.

Il messaggio di Peterson, “pulire la propria stanza”, ha colpito molti giovani ed è diventato virale. Innumerevoli ascoltatori di Peterson hanno riferito di come le loro vite siano cambiate e di come tutto sia iniziato con la pulizia delle loro stanze.

Questo è ottimo anche per “l’economia” e “il mondo”, perché il miglioramento di questi concetti astratti consiste nel miglioramento delle vite individuali che li compongono. E un tale miglioramento individuale può realmente avvenire solo attraverso la responsabilità e l’azione dell’individuo.

Il consiglio di Peterson è di iniziare con poco: basta iniziare con la tua vita e il tuo dominio di competenza. Inoltre, Peterson consiglia di iniziare poco a poco nel senso di iniziare con compiti relativamente facili. La pulizia di un angolo della tua stanza può essere uno degli elementi più facili nella tua lista di cose da fare. Ma il fatto che sia facile lo rende un ottimo punto di partenza, dato che puoi davvero farlo anche se la tua forza di volontà non è particolarmente alta.

Una volta che lo fai, il piccolo senso di realizzazione si nutre della tua efficacia e ti dà abbastanza forza di volontà per fare qualcosa di un po’ più difficile: ad esempio, pagare una fattura. Raggiungere questo step rafforza ulteriormente la tua auto-efficacia, permettendoti di compiere un’impresa ancora più grande, e così via. Se ci stai, alla fine puoi aumentare il livello di difficoltà, migliorarti e ottenere cose davvero impressionanti nella tua vita e nella tua carriera. 

Traduzione di Alessio Cotroneo

“Tear down this wall!”, il discorso del Presidente Reagan che ha fatto la storia

Sono passati 32 anni da quel 12 giugno del 1987, quando il Presidente statunitense Ronald Reagan pronunciò a Berlino, davanti alla Porta di Brandeburgo, un discorso che fece la storia.

Dopo 24 anni il celebre “Ich bin ein Berliner” di John F. Kennedy, rivolgendosi al Segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Michail Gorbaciov, Reagan pronunciò la famosa frase:
“Mr. Gorbaciov, tear down this wall!“, tradotta in italiano: “Gorbaciov, butti giù questo muro!”.

Era la seconda visita di Reagan in cinque anni a Berlino, quel giorno si festeggiava il 750esimo anno dalla nascita della città in un momento in cui era molto alta la tensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
C’era un intenso dibattito internazionale sul posizionamento di missili statunitensi a corto raggio in Europa, e la corsa agli armamenti da parte degli Stati Uniti in quegli anni aveva raggiunto livelli da record. Davanti alla Porta di Brandeburgo c’erano circa 45mila persona ad attendere il Presidente Reagan.

Il Presidente Reagan, che arrivò la mattina di quel 12 giugno a Berlino su un aereo partito da Venezia, dove si era tenuto un vertice del G7, prese la parola subito dopo il discorso del cancelliere della Germania Ovest, Helmut Kohl.

La Porta di Brandeburgo venne scelta come luogo simbolico perché si trovava a poca distanza dal muro che divideva la città di Berlino in due. Dietro al palco vennero installate, per la sicurezza di Reagan, delle alte vetrate antiproiettile per evitare gli spari di eventuali cecchini dalla zona est della città.

Quello del 12 giugno 1987 fu un discorso molto importante, in cui il Presidente Reagan inserì espressioni come “C’è una sola Berlino”, ricordando che anche lui come molti suoi predecessori aveva “ancora una valigia a Berlino”, parole di una canzone nota di quell’epoca in Germania cantata da Marlene Dietrich.

In quegli anni Gorbaciov stava tentando di aprire il Partito comunista e l’Unione Sovietica ed era impegnato in un complicato e ambizioso programma di riforme e rinnovamento, la cosiddetta perestrojka. A un certo punto, durante il suo discorso, Reagan lo incalzò così:
“Accogliamo con favore il cambiamento e l’apertura, perché crediamo che la libertà e la sicurezza vadano di pari passo, che il progresso della libertà umana non può che rafforzare l’obiettivo della pace nel mondo. C’è solo un’ineccepibile azione che i sovietici possono fare, che farebbe progredire notevolmente la libertà e la pace. Segretario generale Gorbaciov, se davvero vuole la pace, se vuole la prosperità per l’Unione Sovietica e per l’Europa orientale, venga qui a questa porta. Gorbaciov, apra questa porta. Gorbaciov, Gorbaciov, butti giù questo muro!”


Lo staff di Reagan che il Consiglio di Sicurezza Nazionale e la CIA avevano avuto dei dubbi sulla frase “tear down this wall”, perché secondo loro avrebbe potuto generare controversie e aggravare ulteriormente i rapporti con l’Unione Sovietica. Qualcuno aveva provato a far cambiare idea a Reagan dall’autore del discorso il vice speechwriter della Casa Bianca, Peter Robinson, e il suo capo Anthony Dolan ma nessuno convinse il Presidente Reagan e la mantenne nel suo discorso.


Il discorso di Reagan, venne giudicato “provocatore” dalle autorità sovietiche, non ebbe inizialmente grande risonanza sulla stampa, soprattutto in quella americana.


Infatti il New York Times e il Washington Post, il giorno dopo il discorso di Reagan a Berlino, non misero la notizia in prima pagina. Il settimanale Time scrisse che la performance di Reagan era stata buona, anche “se non sufficiente a cancellare l’impressione che stia perdendo l’iniziativa a vantaggio del rivale sovietico.

Henry Kissinger commentò che Mosca non avrebbe mai abbattuto il Muro, nessuno pensava che questo potesse crollare. Lo stesso Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Reagan, Frank Carlucci, disse che la frase era buona, ma che non si sarebbe mai realizzata.
L’unico che parlava del crollo del Muro di Berlino era Reagan, dotato di una lungimiranza tipica di uno statista oltre il prodotto di una strategia politica.


Infatti, nel gennaio del 1989 l’allora leader tedesco orientale Erich Honecker sosteneva che il Muro sarebbe esistito anche 100 anni dopo “fino a quando le ragioni della sua esistenza non saranno venute meno”. Invece il 9 novembre di quello stesso anno, ovvero circa due anni e mezzo dopo il famoso discorso di Reagan, il portavoce del governo della Germania Orientale, Gunter Schabowski, comunicò: “Le persone che desiderano partire definitivamente si possono presentare a tutti i posti di frontiera tra Ddr e Germania federale o a Berlino ovest. A quanto mi risulta la nuova legge vale da subito, da ora”.

Il 9 Novembre 1989 cadeva il Muro di Berlino, ma esso cominciò sicuramente a sgretolarsi due anni prima, nel giorno di quel discorso tenuto dal Presidente Ronald Reagan, uno statista a cui la cultura liberale e anche il popolo europeo, devono tanto.