Sanità Pubblica. Troppo costosa, poco efficiente

Per ogni cittadino la sanità pubblica costa circa 2300€, per una famiglia composta da tre persone costa circa 6900€ e per una famiglia composta da cinque persone costa circa 11500€.
Per ogni cittadino la sanità privata costa circa 666€, per una famiglia composta da tre persone costa circa 2000€ e per una famiglia composta da cinque persone costa circa 3300€.

Questi sono i costi enormi della sanità pubblica e privata per ciascun cittadino. Cifre molto alti se consideriamo che viviamo con un sistema sanitario pubblico e universale. Non solo, ma la spesa sanitaria è la seconda voce della spesa dello stato, dietro solo all’assistenzialismo e alla pensione.

Possiamo considerarci soddisfatti da questa sanità?
Facciamo un piccolo elenco
– Anarchia sulla gestione assunzioni e corruzione
– Attesa infinita liste d’attesa per una visita
– Impossibilità nel garantire il servizio sanitario nazionale

Il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) è organizzato e governato da un governo centrale, dai 20 governi regionali e dallele Aziende sanitarie locali (Asl). Uno dei principi fondanti del SSN è garantire gratuitamente un servizio di assistenza, soccorso e cure per tutti i cittadini del territorio nazionale. Tutto bello, tutto affascinante, peccato però che per far funzionare la sanità pubblica servono tre requisiti fondamentali:
– obbligare i medici al servizio pubblico a discapito di quello privato (come avviene nelle regioni particolarmente socialiste, come l’Emilia Romagna);
– più soldi pubblici;
– che non tutti vadano a curarsi.

Fateci caso, ma la sanità pubblica soffre particolarmente proprio quando si tratta di cure di basso rilievo (tempi lunghi d’attesa) e totale disorganizzazione (vedi pronto soccorso). Nei casi più gravi, la qualità migliora e il servizio è più veloce, ma questo dipende da regione a regione.
Insomma, per far funzionare la sanità pubblica bisogna evitare di fare i controlli di routine e bisogna sperare di non ritrovarci con una grave malattia o un brutto infortunio.

Cosa fare? Io non sono per il classico sistema americano, ma ritengo che l’Italia abbia bisogno di un sistema sanitario nuovo e che sostituisca quello vecchio, cercando di garantire il diritto di salute per tutti.

Prima Soluzione: Riformare il ruolo dello Stato

Lo Stato non è più in grado di gestire il servizio sanitario e la politiche del “servizio convenzionato ASL” presente nei studi clinici privati non bastano più. Riformare il ruolo dello Stato vuol dire istituire l’Autorità Indipendente del Privato Sociale. Il privato sociale è un’azienda autonoma, garantita pubblicamente e controllata nelle sue risorse e nei suoi esiti sociali secondo criteri stabiliti come bene comune nel momento pubblico universalistico. Tutte le aziende sanitarie private potranno ricostituirsi come società di privato sociale e, godendo di una tassazione particolarmente bassa, dovranno rispettare alcuni parametri di qualità. Ciascun cittadino potrà decidere, ogni anno, quale debba essere la sua organizzazione di privato sociale adatta per le sue esigenze.

Seconda Soluzione: Buono Salute per i più bisognosi

Se è fondamentale l’aspetto del ruolo dello Stato, non meno importante è la questione che riguarda il cittadino, specie se in difficoltà economiche. Questo perché bisogna garantire il servizio anche per coloro che non si possono permettere di curarsi. Pertanto, serve il Buono Salute, un ticket da sfruttare solo per visite, assicurazioni ed eventuali abbonamenti sanitari. Con il Buono Salute, lo Stato risparmierà moltissimi miliardi di euro. Perché? Secondo l’ISTAT, nel 2016 erano circa 4 milioni e mezzo gli italiani i poverissimi. Ebbene, proviamo ad immaginare un Buono Salute del valore di 2500€ annui: costerebbe allo Stato (e ai cittadini) solo 11 miliardi di euro, contro i 117 miliardi di euro spesi dalla sanità pubblica.

Terza Soluzione: Valorizzare il Welfare Aziendale

Fondamentale sarà anche lo smantellamento dell’attuale welfare state che contribuisce ad appesantire i cittadini che pagano le tasse. Una terza soluzione necessaria è quella di far scegliere agli imprenditori, insieme ai suoi lavoratori, quale welfare privato aziendale scegliere. Questo tipo di soluzione permetterebbe di ottimizzare i costi per l’azienda e per il lavoratore grazie ad un servizio sanitario che riguardano aspetti frequenti come le cure odontoiatriche; supporto in caso di patologie croniche; check up e prevenzione generale; servizi per la maternità; assistenza infermieristica domiciliare.

1945-1955: Quando Einaudi impediva le riforme socialiste

11 maggio 1955. Apparentemente una data normalissima, priva di significato. In realtà, questo fu l’ultimo giorno da Presidente della Repubblica di Luigi Einaudi (1874-1961). In questa data, morì quel poco di liberalismo che influenzava, o almeno tentava, le politiche, che tentava di influenzare i governi. Quel Liberalismo che aveva fondato l’Italia, morì. Morì naturalmente, che sia chiaro. Il problema era – come accadde anche all’indomani della morte di Cavour – l’assenza di eredi che potessero mantenere alta la bandiera del liberalismo anche dopo l’uscita di un grandissimo come Einaudi. Per usucapione, l’Italia venne prese dai cattolici e dai comunisti.

La presenza di Einaudi fu fondamentale nel decennio 1945-1955, sia prima come Governatore della Banca d’Italia, sia come ministro del Bilancio e sia dopo come presidente della Repubblica. Non si trovava nel’ambiente adatto. Era il periodo della convivenza tra liberali, cattolici e comunisti; in particolare, i comunisti chiedevano procedimenti di epurazione per chiunque, Agnelli, Valletta e Pirelli in primis; gli stessi comunisti scioperano e chiedevano a gran voce, occupando le prefetture, le dimissioni e l’allontanamento dello stesso Einaudi. Se vogliamo essere chiari e onesti, potremmo dire che Einaudi è stato protagonista attivo fino al 1948 e fino al 1955 è stato protagonista passivo. Se prima di diventare presidente della Repubblica riusciva ad adottare misure liberali, durante la presidenza, almeno in parte, riuscì ad evitare qualche misura statalista di troppo.

La situazione migliorò nel 1947. Alcide De Gasperi, (1881-1954) nel suo quarto governo, decise di scaricare i comunisti e di coinvolgere i liberali. Luigi Einaudi diventò Ministro del Bilancio e Giuseppe Grassi Ministro Grazia e Giustizia. In meno di dodici mesi, Luigi Einaudi riuscì a salvare la Lira, grazie anche a misure anti-inflazionistiche e anche alla fiducia dei risparmiatori. E’ un momento straordinario per il liberalismo: lo stesso Einaudi è il simbolo della parsimonia ed è amato dai cittadini. Il lavoro compiuto da Einaudi era sostenuto da Donato Menichella, governatore di fatto della Banca d’Italia, e da Mario Scelba, ministro dell’Interno, che ebbe il merito di mantenere l’ordine pubblico.

Il 18 aprile 1948 ci fu la storica sconfitta elettorale dei socialisti e dei comunisti.  Luigi Einaudi diventò il presidente della Repubblica, il primo eletto dal parlamento repubblicano. Da questo momento in poi, per il liberismo di Einaudi iniziò il declino. Il keynesismo americano, come dimostrato dal Progetto di Salvataggio Marshall, era dominante negli ambienti del governo De Gasperi V. Proprio Roberto Tremelloni, esponente del Partito Socialdemocratico Italiano, venne nominato ministro delegato alla presidenza del Comitato Interministeriale per la Ricostruzione, nato per gestire e per ottimizzare il Piano Marshall.

Alcide De Gasperi non era un liberale, ma nemmeno il classico statalista puro. Da denunciare, almeno da parte di noi liberali, l’istituzione del Piano Cassa del Mezzogiorno (1950). Con la Cassa del Mezzogiorno, lo stato italiano inizia con lo spreco di miliardi e miliardi di lire, ingrassando i notabili presenti nei territori meridionali. In ogni caso, l’inizio spropositato e inefficiente dello Stato inizierà proprio dopo la fine del Governo De Gasperi del 1953, ma soprattutto dopo la fine della presidenza di Einaudi del 1955. Chiuso il capitolo Einaudiano, iniziò il capitolo di Giovanni Gronchi, nuovo presidente della Repubblica. Questo nuovo capitolo è l’inizio del dominio delle politiche stataliste e socialiste, che prevede uno Stato super-interventista, dando massimo sviluppo e sfogo al Piano IRI, fregandosene di eventuali debiti. Con lui inizia il motto “Privatizzare gli utili, Socializzare le perdite“.

D’altronde, riferendosi all’Industria Pubblica, il presidente della Repubblica Gronchi ebbe il coraggio di dire:

L’industria privata non sopravvive senza profitti, l’industria pubblica sì

Più chiaro di così…

Adam Smith vs Adam Smith. Il messaggio perduto

“Tutti concordano nell’affermare che la grandezza dello stato si giudichino in base alla quantità d’argento che possiede”, così diceva Jean-Baptista Colbert, ministro della Finanza della Francia nel 1665.
Quindi per lui il denaro era ricchezza. Più soldi aveva lo Stato, più forte era lo Stato. Egli adottò la politica del Mercantilismo, cioè proteggere le aziende francesi, quindi istituì tasse sulle importazioni, sussidi alle esportazioni e burocrazia sulle imprese.

Nonostante ciò, la Francia non riusciva ad essere più ricca dell’Inghilterra.
Nel settecento, i pensatori francesi provarono a dare una risposta sul perché tutto ciò fosse possibile. In particolare i Fisiocrati, uno su tutti Francois Quesnay, ritenevano che l’economia fosse governata da leggi naturali, perciò la ricchezza non deve essere solo accumulata, ma deve anche circolare. Quindi riteneva che leggi, norme, tariffe, sussidi e provvedimenti simili tendevano solo ad ostacolare questa naturale circolazione.
La soluzione era semplice: LAISSEZ-FAIRE (Lasciare Fare).

Un piccolo slogan che diventerà presto il simbolo del Libero Mercato. Uno dei più grandi, influenzato dai Fisiocrati, fu lo scozzese Adam Smith che nel 1776 scrisse La Ricchezza Delle Nazioni.
Lui sviluppò al meglio l’idea di libero mercato attraverso la metafora della Mano Invisibile dove, attraverso un’accurata Divisione del Lavoro, ciascuno fa il proprio lavoro e guadagna per ciò che fa. Come disse lo stesso Smith: “Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse.”

Smith, inoltre, spiegò i meccanismi del libero mercato:
1. Anche nel caso il fornaio pensasse solo a se stesso, non può mettere un prezzo troppo alto
2. Perché gli altri fornai, pensando al loro interesse, potrebbero abbassare il prezzo per rubargli i clienti
3. Se fosse l’unico fornaio della città non potrebbe strafare perché altri aprirebbero un altro forno per il proprio interesse

Quindi, per Smith, è la competizione a mantenere tutti onesti, dove il mercato stesso capisce i bisogni della gente e il modo per soddisfarli.

Il libero mercato organizza ogni cosa molto meglio del miglior organizzatore. Immaginate qualcuno che pianifica i rifornimenti a Roma?

Ma ci sono anche tante altre cose non dette sullo stesso Smith. Per esempio, non era un dogmatico, cioè era consepevole che:
1. I mercati non sono perfetti
2. Non si occupavano dei servizi pubblici, come la pulizia stradale
3. I mercati non rispettano le leggi

Ed è proprio per questo che vedeva nello Stato un ruolo di arbitro, in grado di:
1. Occuparsi dei tassi d’interesse
2. Proteggere i salari dei lavoratori
3. Tenere sotto controllo l’onestà delle banche
4. Proteggere i Brevetti
5. Controllare le malattie e garantire un livello standard d’istruzione

Due punti, poco citati, del pensiero Smithiano erano
1. Lo stipendio del lavoratore
2. Le corporazioni

Per Smith, prezzi e stipendio avevano un rapporto particolare. Se uno saliva, l’altro scendeva (il suo potere d’acquisto) e viceversa.
Ma la sua risposta era: “Nessuna società può essere felice se la Maggior Parte di essa è povera”.

Questo passo è memorabile, in quanto ci permette di arrivare al vero messaggio (perduto) di Adam Smith. I capitalisti facevano il loro interesse, pagavano bassi stipendi, sfruttavano la propria forza nei confronti della politica da spingere la legge a stabilire sussidi e tariffe, limitando la concorrenza.

Il vero messaggio perduto di Adam Smith è “OCCHIO AI CAPITALISTI”, in quanto tendono a voler diventare i Padroni dell’Umanità con i Monopoli Istituzionalizzati dagli Stati, dove chi lavora non lavorerà mai sodo come se fosse sua o in una situazione di libero mercato, o le grandi Corporazioni che tendono a distruggere o inglobare chi vuole inserire in un determinato mercato.

Un meridionale contro il Parassitismo Sociale

In questo articolo parlerò di Antonio Genovesi (1713-1769), considerato uno dei principali illuministi meridionali del Settecento. Perché parlarne? Partiamo dal presupposto che stiamo parlando di un contesto storico, nel quale il liberalismo, come filosofia politica, era ancora acerbo, soprattutto dal punto di vista economico. Probabilmente era una filosofia maggiormente sviluppata sul piano delle libertà individuali.

Questa premessa era d’obbligo se consideriamo che lo stesso Genovesi, nelle sue opere, alterna idee liberiste con idee mercantiliste. In questo articolo evidenzierò gli elementi liberali più importanti.

Antonio Genovesi è nato nel salernitano ed era una persona piena di speranze, ambizioni e forza di volontà. Viveva in un contesto, come quello del Regno delle Due Sicilie, ostacolato dal connubio tra il feudalesimo radicato sul territorio e la volontà di rinnovamento dello Stato Moderno. Delle sue opere principali, consiglio la lettura dell’opera “Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile” (1766-67).

Nell’opera affronta il rapporto opulenza privata rispetto alla società, sostenendo che gli eccessi non erano un bene per la società. Lui era per un lusso moderato, poiché era non solo importante per il singolo cittadino, ma anche utile per la società stessa.

Con questo Genovesi entra sul dibattito dell’eguaglianza affrontato da Rousseau. Per il meridionale, l’idea dell’eguaglianza era una strada utopistica perché l’uguaglianza non è un processo naturale. Infatti Genovesi si poneva due domande: gli uomini ne sono più felici? E la seconda; lo Stato ne diviene più grande e ricco?

Dalle parole di Genovesi emerge l’intenzione di distinguere l’uguaglianza dalla povertà. Quindi se il primo è utopia, il secondo era più facile da percorrere. Pertanto, lo Stato aveva il compito di correggere le situazioni più gravi e vistose.

Altro aspetto interessante, se consideriamo quel contesto storico e quello attuale, era l’intenzione del meridionale di combattere il Parassitismo Sociale. Perché? Perché Genovesi partiva dal presupposto che il compito principale dell’uomo fosse quello di lavorare per sé, per la propria famiglia e per l’utile comune. Proprio perché era favorevole ad un diffuso medio benessere, il lavoro era la strada per raggiungere tale obiettivo. Per questo motivo, i “privilegi irrazionali” presenti nel territorio e gli abusi feudali erano anacronistici e paralizzavano l’economia. Spettava allo Stato preoccuparsi di rimuovere questi ostacoli e di combattere qualsiasi forma di parassitismo per permettere all’agricoltura, all’industria e al commercio di operare nelle migliori condizioni possibili. Il feudalesimo non era il solo ostacolo dell’economia, ma anche il Clero che, con le sue vaste proprietà immobiliari, con gli ordini religiosi che favorivano il parassitismo e il suo potere giurisdizionale, contribuivano a paralizzare l’economia nel suo complesso.

Per concludere, aggiungo che quando si vuole mettere in discussione un sistema “rognoso e tosto” come quello italiano o come quello meridionale, la prima caratteristica fondamentale è l’ottimismo. Chi pensa che non ci sia alcuna speranza convive con un Pessimismo Cronico, ma chi pensa che ci sia un’alternativa alla realtà in cui viviamo, vuol dire essere ottimisti, proprio come Antonio Genovesi.

Concludo con una citazione, di Winston Churchill.

“L’ottimista vede opportunità in ogni pericolo, il pessimista vede pericolo in ogni opportunità.”

 

Conoscere Einaudi: Rappresentanze di interessi e Parlamento (1919)

Questo articolo di Luigi Einaudi fu pubblicato da parte del Corriere della Sera il 29 novembre 1919.

In questo articolo, il presidente della Repubblica denuncia la tendenza italiana di far decidere su alcune tematiche che appartengono alla politica solo coloro che lui denomina gli “interessati”, ossia coloro che hanno particolarmente a cuore, come i socialisti per disciplinare sul lavoro, come gli industriali sulle tariffe doganali. Questo è un grave problema per l’Italia, come sostiene lo stesso autore.

Dare alle rappresentanze professionali una funzione deliberativa è voler mettere gli interessi particolari al posto di quelli generali, è compiere opera per lo più sopraffattrice ed egoistica. Gli “interessi” debbono esser ascoltati e consultati. Ma qui finisce la loro sfera di azione.

Questo perché secondo Einaudi è opportuno distinguere i competenti dell’azione politica dai competenti dei singoli rami, poiché non coincidono.

I “competenti” dell’azione politica non sono e non debbono essere i “competenti” nei singoli rami di industrie o di commercio o di lavoro o di professione. Da qui inizia un elenco con tre critiche nei confronti delle rappresentanze di interessi presenti in Parlamento.

Essi non rappresentano normalmente neppure la generalità degli interessi presenti.

Come si può affermare che la confederazione generale dell’industria, che le camere di commercio, che il segretariato agricolo nazionale siano le vere, genuine rappresentanze di tutti gli interessi industriali, commerciali ed agricoli d’Italia? Non lo sono neppure per burla. Questi corpi rappresentano quei gruppi, rispettabilissimi sì, ma pochi, che avevano appunto un forte interesse da far valere e da patrocinare. Chi ci dice che altri non vi sia che abbia un interesse contrario; che coloro i quali hanno interessi diversi si siano accorti di ciò che si sta combinando ai loro danni da parte di coloro che dicono di rappresentarli?

Non rappresentano certamente gli interessi futuri, che è compito principalissimo essenziale dello stato difendere contro gli interessi presenti. Riferendosi alle richieste, da parte degli industriali potenti, di avere maggiore protezionismo, penalizzando le nuove ed emergenti industrie che sono il futuro del Paese. Il compito dell’Uomo di Stato, secondo Einaudi, è quello di eliminare gradualmente qualsiasi aiuto nei confronti dei potenti e di aiutare provvisoriamente coloro che stanno emergendo.

Non difendono l’interesse generale.

Non da oggi, non da quando è cominciata la guerra, ma da ben prima gli economisti insegnarono che potevasi dare protezione ad industrie essenziali per la difesa militare dello stato. Anche a ciò sono disadatte le rappresentanze degli interessi. Oggi queste chiedono protezioni per le industrie-chiavi, per le industrie che furono essenziali durante la guerra passata: siderurgiche, chimiche, ecc. Se si ascolta il loro voto, noi difenderemo industrie che hanno guadagnato moltissimo, che, se fossero state bene amministrate, avrebbero dovuto in molti casi ridurre a valore zero i loro impianti e trovarsi ora agguerritissime contro la concorrenza estera. Invece, col pretesto delle industrie essenziali per la guerra, si vogliono mantenere i prezzi ad un livello tale da remunerare gli impianti al valore bellico, come se non fossero stati o non avessero dovuto essere ammortizzati. Vi è una grande probabilità che in tal modo si proteggano industrie diverse da quelle che saranno essenziali nella futura guerra. Io non so quali possano essere queste future industrie chiavi; ma nego nel modo più assoluto la validità della indicazione fatta dai rappresentanti delle industrie che hanno maggior voce nei loro consessi sedicenti rappresentativi.

In sostanza, quelli che vengono definiti come competenti interessati, in realtà sono coloro che tendono a consolidare quegli interessi forti e antichi. Viene escluso il nuovo. Da badare che in questo articolo Luigi Einaudi parla di Industria e dei vari settori – d’altronde siamo nel 1918, l’Italia è in guerra e siamo in un contesto storico molto diverso da quello attuale, però credo che questo articolo sia molto attuale se facciamo caso a chi si è occupato del lavoro, dell’economia, dell’Industria ecc. in questi decenni. Mi sentirei di dire, e scusate se non siete d’accordo, che questo problema delle Rappresentanze di Interessi sia ancora palesemente presente. D’altronde, oltre ad essere un paese collettivista, statalista e socialista, l’Italia è anche uno Stato nettamente sindacalista, nel senso che è soffocata dai vari interessi dei Sindacati che riescono a prendere il potere, direttamente con il voto o indirettamente con le pressioni politiche.

Si consultino dunque gli interessati, tutti gli interessati. […] Prima di concedere ad un privato industriale di tassare gli altri industriali ed i consumatori in genere a proprio beneficio sicuro ed a beneficio preteso della collettività, bisogna far conoscere pubblicamente le ragioni del privilegio. Chiedesi soltanto di non brancolare nel buio e di non essere messi dinnanzi al fatto compiuto ed irrevocabile.

Il Fronte dell’Uomo Qualunque: un liberalismo dimenticato

Dedichiamo questo articolo al Fronte Dell’Uomo Qualunque, movimento e, successivamente, un partito politico italiano sorto attorno all’omonimo giornale (L’Uomo qualunque) fondato a Roma nel 1944 dal commediografo e giornalista Guglielmo Giannini. Perché? Perché ritengo che egli abbia lasciato – almeno per noi liberali – un’eredità culturale importante. Un’eredità, probabilmente, considerata troppo povera. In questo articolo proverò a mettere l’accento su tantissimi contenuti liberali liberisti presenti nei saggi politici del commediografo italiano.
Siamo nel periodo 1943-44, l’Italia Fascista è in grave declino e Mussolini si rifugia al Nord con lo Stato Fantoccio della Repubblica Sociale, dopo l’esperienza di Salerno e con la successiva liberazione di Roma si tenta lentamente di creare un Governo e i partigiani e gli americani tentano di liberale il territorio dal dominio nazifascista. In tutto questo caos istituzionale arriva nelle edicole di Roma, mercoledì 27 dicembre 1944, il primo numero della testata giornalistica denominata «L’Uomo Qualunque». Il fondatore era Guglielmo Giannini (1891-1960), giornalista, scrittore e regista italiano. Il primo elemento che colpisce in modo particolare è il simbolo della testata.
Una delle coppie di mani appartiene alla tassazione, l’altra alla statizzazione che schiacchia una persona. Chi è questa persona? Vi rispondo con le stesse parole di Guglielmo Giannini.
Il borghese, il lavoratore onesto che lascia le sue ultime monete, schiacciato sotto il torchio
Lo scopo di Giannini era quello di dare voce alle opinioni dell’uomo della strada, contrario al regime dei partiti e ad ogni forma di statalizzazione. Fin da subito la posizione è chiarissima: abbasso tutti. Si considera antifascista e anticomunista e porta avanti una linea editoriale pungente e satirica. Il fenomeno avviato da Guglielmo Giannii fu erroneamente associato all’etichetta di Qualunquismo, che vuol dire “atteggiamento, morale e politico, polemico nei confronti dei partiti politici tradizionali in nome di una gestione tecnocratica e non ideologica del potere, assunto dai promotori e sostenitori del movimento qualunquista” (fonte Treccani).
In realtà dietro questa etichetta, il pensiero politico di Giannini e del Fronte dell’Uomo Qualunque, era molto più profondo e articolato. Proprio per questo ho deciso di parlare degli aspetti liberali che, a mio parere, sono stati poco analizzati e discussi nel corso della storia.
Il principio ispiratore è la libertà.
nella formula con cui fu enunciata dai Fondatori delle Nazioni Unite, Franklin Delano Roosevelt, Winston Churchill, Libertà di parola — Libertà di Religione — Libertà dal bisogno — Libertà dalla paura
Nello specifico, era un convinto sostenitore dello Stato Minimo. Non era d’accordo con il motto statalista mussoliniano “tutto nello Stato niente contro, al di fuori o al di sopra dello Stato”, ma era favorevole allo Stato Minimo (o Stato Amministrativo). La citazione dello storico Dino Cofrancesco (1942) penso sia la più adatta per descrivere l’idea di Stato di Giannini.
Uno Stato che si tiene lontano dal farsi attore sociale
Nel saggio di teoria politica scritto da Giannini, La Folla, insiste molto sulla questione del rapporto tra il cittadino e il governo statale, facendo vari esempi, dalla visione dello stato come «una scrivania alla quale sta seduto un impiegato che con un campanello può chiamare un poliziotto», all’idea di Stato al servizio del cittadino e non paternalista, all’opposizione allo «Stato scocciatore». Il suo obiettivo è quello contrastare la presenza dello stato nella vita sociale italiana, in quanto l’unica cosa di cui ha bisogno il cittadino qualunque (o l’uomo qualunque) è quello di essere amministrato. Di conseguenza, egli nonostante sia opportuno contrastare il comunismo e sia il capitalismo della grande industria, il suo programma politico era incentrato su un liberismo economico individuale.
Il tiranno c’è sempre, la rottura di coglioni c’è sempre; e sia l’uno che l’altra si valgono dello Stato e della forza oppressiva dello Stato per fare il proprio comodo e i propri interessi
Lui si ispirava all’idea libertaria di Henry Thoreau (1817-1862), filosofo e scrittore americano, nel quale nella sua opera Disobbedienza Civile, esprime la sua contrarietà nei confronti del governo invadente.
Il governo migliore è quello che governa di meno
A tal proposito, Giannini era favorevole ad un certo turnover della classe politica.
Vogliamo invece mettere i governanti nell’impossibilità di far male, o quanto meno, nelle condizioni di fare il minor male. […] Nessuno dovrebbe occupare una carica per più di due volte di seguito, nessuno dovrebbe essere presidente della Repubblica per più di due anni consecutivi, nessuno dovrebbe essere Capo del Governo per più di un anno, nessuno dovrebbe essere eletto deputato per più di due volte senza intervallo e via discorrendo.
Inoltre, lo Stato pretende di comportarsi come se fosse un privato cittadino, quindi pretende di fare commercio. Proprio le tasse vengono adottate per fare il “mestiere altrui” di imprenditore, per coprire le perdite economiche. Come dice anche lo stesso Giannini.
Lo Stato considera il Paese come una miniera da sfruttare i suoi abitanti come un gregge da tosare, scuoiare, squartare, cucinare, mangiare.
Quindi insisteva nel fare propaganda contro lo Stato Azienda, promosso dai comunisti, in particolare con Nikita Krusciov nel 1956.
la Ford e la Fiat, la Montecatini e la Standard saranno lo Stato, miei datori di lavoro e maestri, direttori di coscienza e confessori. Se un amministratore delegato s’incapriccerà di una donna di casa mia dovrò dargliela o finire in galera. È questa la perfezione che mi si promette con lo Stato Azienda che assorbe ogni iniziativa privata? Se è questa sono Contro questo Stato e ritengo più civile e progredita l’Età della Pietra, con tutti i suoi disagi compensati però dalla sua impagabile libertà.
Dal rifiuto al modello teorico di organizzazione statale proposto dai comunisti, Giannini è favorevole ad affidare l’economia nazionale nella sua totalità, ai privati.
Angelo Imbriani, autore del testo Vento del Sud : moderati, reazionari, qualunquisti, 1943-1948 (1996), spiega che l’idea di Stato di Giannini era:
un modello organizzativo dello stato estremamente suggestivo per il ceto medio dell’impiego e delle professioni, perché basato sulla valorizzazione delle competenze individuali e capace quindi di restituire a queste fasce sociali quel ruolo che esse temono di poter perdere o immaginano di aver già in parte perduto.
La visione di Stato di Giannini prevedeva il matrimonio tra Politica e Tecnica, in quanto dividerli vorrebbe dire:
vuol dire soltanto favorire la peste del politicantismo puro, astratto, metafisico, inutile e anzi dannoso; vuol dire Mussolini. ministro della guerra, Togliatti ministro della giustizia, Scoccimarro ministro delle Finanze, e quindi Mussolini, Togliatti, Scoccimarro alla perpetua ricerca di tecnici che attuino la loro politica (pericoloso doppione) con il risultato che o la tecnica si debba mettere al servizio della politica contorcendosi ai suoi voleri, o la politica debba cedere il posto alla tecnica snaturandosi fino al
proprio annullamento.
Guglielmo Giannini e il Fronte dell’Uomo Qualunque non aveva un rapporto buonissimo con il Partito Liberale Italiano. I contrasti con Benedetto Croce erano evidenti e difficili da risolvere. Il problema era soprattutto organizzativo e di comunicazione, in quanto Croce era per una politica di élite e Giannini era per una politica di massa. Lo stile populista di Giannini non era particolarmente ben visto, dunque, dagli ambienti liberali del Partito Liberale Italiano.
Il successo del Fronte dell’Uomo Qualunque fu tanto breve tanto quanto intenso. Ritengo per l’Italia che sia stata una grande occasione liberale mancata. Forse con un pizzico di lungimiranza, adottare una linea politica liberale di massa, probabilmente avrebbe evitato il declino del Partito Liberale Italiano che, a mio parere, si è sempre “intestardito” (e tuttora insiste) con la politica dei pochi o di élite.
Sarà bellissimo un domani raccontare e diffondere le opere di Guglielmo Giannini..

Conoscere Adam Smith: La Ricchezza delle Nazioni (Libro Primo-1^ parte)

In questo articolo parleremo della prima parte del Libro Primo dell’Opera La Ricchezza delle Nazioni (1776) scritto da Adam Smith (1723-1790), filosofo ed economista scozzese, padre dell’economia politica ed il fondatore della prima vera “scuola economica”, quella classica.

Il titolo è “Cause che migliorano la capacità produttiva del lavoro e ordine secondo il quale il suo prodotto si distribuisce naturalmente tra le diverse classi sociali“.

Capitolo I – La Divisione del Lavoro

La divisione del lavoro è la grande causa della sua maggiore produttività. Essi è facilmente comprensibile se consideriamo un esempio particolare, come quello della fabbricazione degli spilli.
Come stesso racconta Adam Smith:

“Un operaio non addestrato in questa attività, né abituato all’uso delle sue macchine, potrebbe forse a malapena, impegnandosi al massimo, fare uno spillo al giorno, e certamente non potrebbe farne venti. Ma nel modo in cui ora viene svolta, non soltanto questa attività è un lavoro specializzato, ma è divisa in molti rami, la maggior parte dei quali parimenti specializzati. Un uomo svolge il filo metallico, un altro lo drizza, un terzo lo taglia, un quarto lo appuntisce, un quinto lo arrota nella parte destinata alla capocchia; […] La fabbricazione di uno spillo è così divisa in circa diciotto distinte operazioni, che in talune fabbriche sono eseguite da mani distinte, sebbene in altre lo stesso uomo ne esegua talvolta due o tre.”

L’effetto è analogo in tutte le attività anche nelle divisione delle occupazioni. La divisione del lavoro provoca un grande incremento della quantità. Perché? Per tre circostanze: la maggior destrezza dell’operaio che incrementa necessariamente la quantità di lavoro che esso può eseguire;  il risparmio del tempo che comunemente viene perso nel passare da una specie di lavoro all’altra; l’impiego di macchine inventate da operai, da costruttori di macchine e filosofi.
Da qui deriva l’opulenza generale di una società ben governata, presso la quale anche l’abito del lavorante a giornata è il prodotto di un gran numero di operai.

Capitolo II – Il principio che determina la divisione del lavoro

La divisione del lavoro deriva dalla propensione della natura umana a scambiare. Solo nell’uomo esiste questa propensione, poi ché è incoraggiata dall’egoismo, come testimonia la celebre frase:

“Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale”

Tutto ciò porta alla divisione del lavoro, determinando così differenze di talento più rilevanti delle differenze naturali, rendendoli utili.

Capitolo III – La divisione del lavoro è limitata all’estensione del mercato

La divisione del lavoro è limitata dalla capacità di scambio. Alcune attività possono essere svolte soltanto nelle città. Il trasporto per via d’acqua espande il mercato, come testimoniano i primi progressi che si sono verificati sulle coste o lungo i fiumi navigabili, come fra gli antichi popoli sulle coste del Mediterraneo.
I progressi si sono verificati in Egitto, Bengala (tra il Bangladesh e India) e Cina; mentre l’Africa, la Tartaria (Russia) e la Siberia come pure la Baviera, l’Austria e l’Ungheria sono arretrate.

Capitolo IV – Origine e uso della moneta

Una volta affermata la divisione del lavoro, ognuno vive di scambio. Le difficoltà del baratto hanno portato alla scelta di una merce come moneta, rispetto al passato in cui venivano adottate come strumento di commercio merci come il bestiame, sale, conchiglie, merluzzo, tabacco, zucchero, cuoio e chiodi. Infine furono preferiti i metalli perché durevoli e divisibili. Ferro, rame, oro e argento, furono dapprima usati in barre non impresse e in  seguito marcati perché portassero impressa la quantità e finezza del metallo; prima fu introdotta la marcatura per certificare la finezza, e in seguito la coniazione per certificare il peso. Inizialmente la denominazione delle moneta ne esprimeva il peso.
Adam smith indagò sulle regole che determinano il valore di scambio. Con valore si può intendere sia l’utilità di qualche particolare oggetto, detto valore d’uso e sia il potere di acquistare altri beni che il possesso di questo oggetto conferisce, detto valore di scambio. Il filosofo scozzese si pose tre quesiti.
In che cosa consiste il prezzo reale delle merci?
Quali sono le diverse parti di questo prezzo?
Perché talvolta il prezzo di mercato differisce da questo prezzo?
Le risposte saranno nei prossimi tre capitoli.

Capitolo V – Prezzo reale e nominale delle merci, ossia loro prezzo in termini di lavoro e di moneta

“Ogni uomo è ricco o povero nella misura in cui è in grado di concedersi i mezzi di sussistenza e di comodo e i piaceri della vita. Ma una volta volta affermatasi la divisione del lavoro, con il proprio lavoro si può ottenere soltanto una parte piccolissima di questi. La parte di gran lunga maggiore deve essere tratta dal lavoro degli altri, e quindi uno è ricco o povero secondo la quantità di lavoro di cui può disporre o che è in grado di acquistare”

Il lavoro è da considerare la misura reale del valore di scambio, in quanto è il primo prezzo pagato per ogni cosa. La ricchezza  è il potere di acquistare lavoro. Ma il valore non è generalmente stimato in base al lavoro in se perché il lavoro è difficile da misurare; le merci sono più frequentemente scambiate con altre merci, specialmente con moneta, che è perciò più frequentemente usata nella stima del valore. Ma il valore dell’oro e dell’argento varia; talvolta costano più e talaltra meno lavoro, nonostante il lavoratori lavori ugualmente e si sacrifica ugualmente.
Ma sebbene uguali quantità di lavoro siano sempre uguali per il lavoratore, il datore di lavoro considera il lavoro di valore variabile. Quindi possiamo dire che il lavoro, come le merci, ha un prezzo reale e un prezzo nominale.

“Il suo prezzo reale si riferisce alla quantità di mezzi di sussistenza e di comodo che vengono cedute per esso; il prezzo nominale si riferisce alla quantità di moneta. Il lavoratore è ricco o povero, bene o mal remunerato, in proporzione al prezzo reale non al prezzo nominale del suo lavoro”

La distinzione fra reale e nominale è talvolta utile nella pratica, poiché la quantità di metallo nei conii tende a diminuire, e lo stesso discorso vale per il valore dell’oro e dell’argento.
Dal 1586 le rendite inglesi stipulate in moneta si sono ridotte a un quarto, le rendite in Scozia e in Francia la perdita è spesso maggiore. Le rendite in grano sono più stabili di quelle in moneta, ma sono soggette a variazioni annuali molto maggiori. Per cui il lavoro è l’unica misura universale.
Ma nelle situazioni o transazioni ordinarie la moneta è sufficiente, essendo una misura assolutamente esatta nello stesso tempo e luogo, è da considerare la sola cosa nelle transazioni fra luoghi distanti. Non c’è quindi da meravigliarsi se al prezzo nominale è stata data data maggiore attenzione. Sono stati coniati parecchi metalli, ma solo uno viene usato come base e questo è generalmente quello usato per primo in commercio, come i romani usarono il rame, e le nazioni europee moderne l’argento. Originariamente il metallo base era l’unica moneta legale, più tardi il rapporto fra il valore dei due metalli viene dichiarato per legge ed entrambi sono moneta legale e la distinzione fra di essi diventa irrilevante, tranne quando il rapporto stabilito viene cambiato.
Rimanendo un rapporto fisso, il valore del metallo più prezioso regola il valore di tutto il sistema monetario, come in Gran Bretagna, dove la riforma della moneta di oro ha aumentato il valore della moneta di argento. In Inghilterra l’argento è valutato al di sotto del suo valore. L’argento dovrebbe essere valutato di più e non dovrebbe essere moneta legale per più di una ghinea. Se fosse valutato adeguatamente, il prezzo dell’argento in lingotti si ridurrebbe al di sotto di quello di zecca senza bisogno di una riforma monetaria. Un diritto di coniazione impedirebbe la fusione e scoraggerebbe la esportazione.  Le fluttuazioni del prezzo di mercato dell’oro e dell’argento sono dovute a normali cause commerciali, ma una costante differenza dal prezzo di zecca è dovuta allo stato della moneta. Il prezzo delle merci si adegua al contenuto effettivo della moneta.

Capitolo VI – Le parti componenti del prezzo delle merci

La quantità di lavoro è originariamente l’unica norma del valore. Tenendo conto di fatiche particolari, se un tipo di lavoro è più pesante di un altro, si tiene naturalmente conto di questa superiore fatica; e il prodotto di un’ora di lavoro dell’uno può frequentemente scambiarsi per quello di due ore di lavoro dell’altro. O se un tipo di lavoro richiede un grado non comune di destrezza e ingegno, la considerazione che gli uomini hanno di queste capacità darà naturalmente al loro prodotto un valore superiore a quello che sarebbe dovuto al tempo impiegato in esso.
L’intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore, ma quando si parla di capitale, si deve dare qualcosa per i profitti dell’imprenditore e il valore del prodotto si compone di salari e profitti. Quindi, i profitti non sono soltanto salari per il lavoro di ispezione e direzione, poiché il lavoratore divide il prodotto col suo datore e il lavoro non basta più a determinare il valore.
Nel caso in cui la terra diventa completamente proprietà privata, la rendita costituisce una terza componente del prezzo della maggior parte delle merci. Il valore di tutte e tre le parti è misurata dalla quantità di lavoro.
In una società progredita tutte queste tre parti sono generalmente presenti, per esempio nel prezzo del grano, della farina di frumento o di altri cereali. Nelle merci che richiedono molta lavorazione, la rendita è in minor proporzione e il prezzo di alcune merci è costituito soltanto da due una delle tre parti componenti.
Ma il prezzo di tutte le merci è costituito per lo meno da una componente e il prezzo di tutto il prodotto annuale si risolve in salari, profitti e rendita, che sono le sole specie originarie di reddito. Quando queste tre differenti specie di reddito appartengono a persone differenti, è facile distinguerle; ma quando esse appartengono alla stessa persona sono talvolta confuse l’una con l’altra, almeno nel linguaggio corrente. Per esempio, la rendita di un coltivatore diretto viene chiamato “profitto”, il salario di un comune agricoltore viene chiamato “profitto” , il salario di un manifatturiere indipendente viene chiamato “profitto”, mentre la rendita e il profitto di un orticoltore che coltiva la sua terra sono considerati guadagni del lavoro.
Una gran parte del prodotto annuale va agli inattivi e la proporzione fra questa parte e il totale regola l’aumento o la diminuzione del prodotto.

Capitolo VII – Prezzo naturale e prezzo di mercato delle merci

In ogni società o luogo vi è un saggio ordinario dei salari, del profitto e della rendita. Questi saggi ordinari possono essere chiamati Saggi Naturali dei salari, del profitto e della rendita nel tempo e luogo. Quando il prezzo di una merce è sufficiente a pagare la rendita della terra, i salari del lavoro e i profitti del capitale, la merce viene venduta al suo prezzo naturale, ossia per ciò che costa realmente. Ma poiché nessuno continuerà a vendere senza profitto, il prezzo effettivo al quale comunemente si vende una merce è detto prezzo di mercato che è regolato dalla quantità portata al mercato e dalla domanda effettiva.
Quando la quantità portata sul mercato è inferiore alla domanda effettiva, il prezzo di mercato supera il prezzo naturale; quando supera la domanda effettiva il prezzo di mercato scende al di sotto del prezzo naturale. La quantità di ogni merce immessa nel mercato si adegua naturalmente alla domanda effettiva; quando essa supera questa domanda, alcune delle parti che compongono il prezzo sono inferiori al loro saggio naturale, quando è inferiore, alcune parti che compongono il prezzo superano il loro saggio naturale.

Il prezzo naturale è il prezzo medio intorno al quale gravitano i prezzi di tutte le merci. Il prezzo naturale è il prezzo medio intorno al quale gravitano i prezzi correnti. In questo modo tutta l’attività annualmente svolta per portare una merce sul mercato si adegua naturalmente alla domanda effettiva. Essa tende naturalmente sempre a portarvi quella esatta quantità che può essere sufficiente a soddisfare, e non più che a soddisfare quella domanda, ma la quantità prodotta da un dato ammontare talvolta fluttua.
Le fluttuazioni incidono più sui salari e sul profitto che sulla rendita, influenzandoli in proporzioni diverse secondo l’offerta di merci e di lavoro. Ma il prezzo di mercato può mantenersi per lungo tempo al di sopra del prezzo naturale perché non sono sufficientemente noti gli elevati profitti, o in conseguenza di servizi di fabbricazione, o in conseguenza della scarsità di particolari tipi di suolo.
Un monopolio ha lo stesso effetto di un segreto commerciale. Infatti il prezzo di monopolio è il massimo che si possa ottenere. Il prezzo naturale, o prezzo di libera concorrenza, è invece il più basso che possa darsi per un certo tempo. I privilegi delle corporazioni, fra i tanti, rientra anche il fatto che sia una sorta di monopolio allargato. Invece, raramente il prezzo di mercato si mantiene a lungo al di sotto del prezzo naturale. Questo almeno in situazione di perfetta libertà, poiché le corporazioni tendono a ridurre per un certo tempo i salari di molto al di sotto del saggio naturale. Il prezzo naturale varia al variare del saggio naturale dei salari, dei profitti e della rendita.

Perché abolirei le case popolari?

Il collettivismo moderno è un tentativo di ritorno allo stato selvaggio. Cit. Gerard Radnitzky

Se vi chiedessi di abolire le case popolari e rivenderle agli attuali inquilini di lungo periodo, voi come rispondereste? Nel Manifesto Liberale de L’Individualista Feroce ( che potrete trovare nella nostra pagina Facebook ), sul tema Welfare e Politiche Sociali, ho affrontato la questione dell’abolizione delle case popolari e la sostituzione di essi con il Buono Affitto. Una proposta forte se consideriamo che oggi, in campagna elettorale, si discute tanto delle priorità, tra chi esclama “Prima gli Italiani” (anche nelle graduatorie delle case popolari, ndr) e chi è per l’accoglienza e l’assistenzialismo universale.

Ma andiamo per ordine. La situazione delle case popolari (e delle aziende municipali che gestiscono il servizio) sono arrivate ad un livello quasi poco sostenibile. Vi invito a fare un gioco. Scrivete su Google, sul motore di ricerca, tre parole come “debiti case popolari“. Il risultato vi sorprenderà. Vi troverete una marea di fatti che raccontano uno scenario davvero angosciante. Morosità milionari, debiti colossali, rischio pignoramento, criminalità, abusivismo. L’elenco potrebbe continuare all’infinito. Per non parlare dell’influenza negativa che hanno alcuni palazzi popolari sul mercato immobiliare dei condomini privati, in quanto la presenza di abusivi e di inquilini poco raccomandabili tendono a peggiorare, non solo il condominio ma anche il quartiere. Nel frattempo ci sono una marea famiglie in difficoltà economiche che aspettano da anni nelle graduatorie.

Non è tutto negativo tutto ciò che riguarda le case popolari, poiché ci sono tante famiglie e persone pacifiche che vivono in questi alloggi da tantissimi anni. Proprio per loro che ritengo sia opportuno prendere una decisione per rimediare alla situazione davvero preoccupante delle case popolari. Iniziamo a vendere, a prezzo di mercato, gli alloggi a partire dagli attuali inquilini che godranno del Diritto di Prelazione. Sarebbe importante quantificare quanto ha pagato l’inquilino nel periodo precedente, in modo tale che chi ha vissuto maggiormente nell’immobile, possa acquistare quest’ultimo con un prezzo inferiore rispetto a quello di mercato. Per il resto, saranno venduti gli immobili al libero mercato.

Io da buon liberale, credo nella Mano Invisibile del cittadino, perciò ritengo che sia la mano del cittadino che acquista e che investe, l’unica vera strada per far rivalutare certi quartieri popolari ormai in crisi per colpa della criminalità e dell’abusivismo.
Inoltre, ritengo che chiudere le aziende che gestiscono le case popolari darebbe davvero una boccata d’aria alla Pubblica Amministrazione locale, regionale e nazionale che si appresta a dare un servizio, pagare dei stipendi a dei dipendenti in attesa di ricevere un canone di locazione che non arriverà mai, costringendo le Regioni a chiedere prestiti per “mettere una pezza”.

Visto che si dice “morto un papa se ne fa un altro”, lo stesso discorso vale anche per la situazione abitativa. La mia proposta sarebbe quella di sostituire le case popolari con il Buono Affitto. Il Buono Affitto è un sostegno economico alle famiglie con un basso reddito nel pagamento del canone di locazione. Io non credo nell’assistenzialismo, perciò ritengo che il sostegno economico non dovrà avvenire attraverso il trasferimento in denaro dallo Stato al Cittadino, bensì sotto forma di Ticket (come il Buono Pasto), utile strumento di pagamento dell’affitto. In questo modo, non ci sarà alcun rischio che la politica di welfare per le famiglie in difficoltà non diventi l’ennesimo pretesto per far abituare il cittadino a vivere, a corrente alternata, di economia “in nero” e di assistenzialismo di Stato.

Per concludere, invito tutti ad un minimo di fantasia. Sono consapevole che allo stato attuale, ci sono tanti cittadini in difficoltà, tra chi è disoccupato e chi è “aggredito” delle tasse. Infatti, proprio perché siamo un’associazione che si impegna nella divulgazione delle idee liberali, gradiremo che le principali riforme da adottare siano proprio quelle dell’abbassamento delle tasse e della riduzione delle funzioni della Pubblica Amministrazione, in quanto siamo convinti che il lavoro e la crescita economica di un Paese sia possibile solo attraverso il profitto e che quest’ultimo non venga “mangiato” da tasse e burocrazia. A tal proposito ritengo giusto concludere con una citazione di Margaret Thatcher:

I Paesi ricchi sono quelli i cui governi incoraggiano la creatività dell’uomo, perché possa riuscire a lavorare con altri nel produrre beni e servizi che la gente vuole comprare.

Conoscere Thatcher: reagire al dominio socialista

Se un liberale non crede che la proprietà privata sia uno dei principali baluardi della libertà personale, farà meglio a creare un governo con i socialisti. In effetti uno dei motivi del nostro fallimento elettorale è che la gente pensa che troppi dei conservatori siano diventati dei socialisti.

Così scrisse nel suo libro autobiografico “Come sono arrivata a Downing Street” (1996) – all’indomani di una sconfitta elettorale dei primi anni settanta – , Margaret Thatcher o Maggie, Primo Ministro del Regno Unito dal 1978 al 1990, la prima donna della storia britannica, liberale liberista che rialzò una nazione collassata da Sindacalismo, Burocrazia, Tasse, Capitalismo di Stato, Assistenzialismo.

Una vera Rivoluzione se consideriamo che riuscì a realizzare delle riforme nella nazione nella quale i socialisti laburisti inventarono il Welfare State con il loro slogan “Dalla Culla Alla Tomba”. La citazione suddetta vuole essere la dimostrazione come Maggie volesse svegliare dal torpore una forza politica, come quella dei Conservative Party, incapace di reagire al dominio ideologico dei socialisti. La mediocrità, tipica della cultura socialista, aveva contagiato i conservatori che davano l’impressione di aver perso la loro identità.

Riprendendo il suo libro autobiografico, direi che sarebbe opportuno riprendere un altro passo importante.

La causa principale del crescente allentamento della gente dai partiti politici è il troppo governo. La competizione tra i partiti nell’offrire livelli sempre più alti di benessere, aveva diffuso la convinzione che il governo fosse in grado di fare qualsiasi cosa e aveva offerto ai socialisti l’opportunità di estendere massicciamente l’intervento statale.

In questo passo, è chiaro come Maggie sia del parere che la crisi del secondo dopo-guerra e la conseguente riforma del Welfare State, aveva favorito come risultato quello di convincere tutti che la politica dovesse essere l’unica voce in capitolo sulla quotidianità (e i vari problemi) delle persone. L’idea della Thatcher è che i partiti politici erano diventati quasi come dei portatori di soluzioni ai problemi, come Lei stessa diceva.

«Abbiamo attraversato un periodo in cui troppi bambini e troppi adulti facevano ragionamenti del tipo: “Ho un problema, ci deve pensare il governo a risolverlo!”, oppure “Ho un problema e ho il diritto di farmelo risolvere dal governo”, o “Sono senza casa, il governo me ne deve dare una”. E così affibbiavano i loro problemi alla società.

Anche i conservatori erano caduti in questa sorta di trappola che lo ha portato a tanti fallimenti durante i periodi al governo. Proprio per questo motivo è opportuno ritrovare quell’identità perduta, riportando il focus sulla libertà del cittadino, sulla famiglia. Non aveva timori nel portare avanti quei valori borghesi, che nessuno fino a quel voleva toccare, proprio perché erano diventate delle parole “intoccabili” secondo le regole del “politicamente corretto” del Regno Unito del ventennio 50′-70′.

Se nei valori borghesi rientrano l’incoraggiamento della diversità e della scelta personale, l’offerta di equi incentivi e ricompense per l’abilità e l’impegno nel lavoro, la conservazione di efficaci barriere contro l’eccessivo potere dello stato e la fede nella più ampia distribuzione della proprietà individuale, allora credo che siano valori da difendere.

Perciò quando decise di candidarsi per la leadership del Conservative Party, aveva l’intenzione di esaltare l’individualismo e le potenzialità del cittadino, senza che riceva alcuna aggressione fiscale da parte dello Stato.

Sono convinta che occorra giudicare una persone per i loro meriti e non per la loro provenienza. Credo che la persona che è pronta a lavorare più sodo è quella a cui spetta il compenso maggiore, un compenso che dovrebbe restargli anche dopo le tasse. Dobbiamo appoggiare i lavori e non gli imboscati: che non è solo lecito ma lodevole voler migliorare la propria famiglia con il proprio impegno.

Mettersi in gioco contro i socialisti è possibile anche in Italia. Noi de L’Individualista Feroce riteniamo che non sia giusto nascondersi e temere il giudizio di chi, con la forza, sia maggioritario. Non solo diffondendo le idee, ma anche impegnarsi sempre di più sul campo più importante, quello politico, poiché è l’unico in cui è possibile realizzare delle riforme – forse rivoluzionarie per noi liberali, chissà – per risvegliarci dall’incubo statalista-socialista. Riforme come quelle sul ruolo dello Stato, tanto desiderata dalla stessa Maggie.

«Lo Stato deve essere un servitore, non un padrone. Non ci devono essere tentazioni paternaliste. Il paternalismo è nemico della libertà e della responsabilità. Benché si mostri sorridente e umano, è come tutti gli altri tipi di governo interventista: soffoca gli sforzi di tutti, fiacca le imprese, incoraggia la dipendenza e promuove la corruzione».

La globalizzazione non è per tutti

I movimenti socialisti e nazionalsocialisti hanno avuto sempre una certa avversione nei confronti di quel fenomeno chiamato Globalizzazione. La globalizzazione, nel corso dei decenni, ha dimostrato di non avere mezzi termini, ma questi movimenti hanno spesso preferito la linea della lamentela e della critica. Ma loro sono così, preferiscono lamentarsi parlando di sfruttamento, concorrenza sleale, scarsa qualità, delocalizzazione, stipendi al ribasso, Made in Italy in crisi, eccetera eccetera. Ma anziché analizzare quali siano i fattori che rendono il marchio italiano così vulnerabile al libero mercato della concorrenza, si finisce con fare delle proposte come il protezionismo, proibire la delocalizzazione e sussidi.

Ma per queste persone chi sarebbero i colpevoli? Facile, il libero mercato. Quando tutto va male, la colpa è sempre del libero mercato e del liberalismo, poiché complice delle grandi aziende.
Libero mercato vuol dire Libera concorrenza, quindi per rimanere nel mercato devi essere competitivo, altrimenti crolli. Quindi Libero Mercato vuol dire avere dei vincitori e dei vinti e coloro che vengono sconfitti provano rabbia e invidia. In particolare in Italia siamo stati abituati a vivere di sussidi alle imprese, che trascurando l’aspetto cruciale della Ricerca & Innovazione, alla prova dei fatti hanno scoperto di non essere competitivi per la globalizzazione. Chi decide di investire avviando un’impresa deve essere consapevole che per sopravvivere devi vincere la concorrenza e vivere di profitti, perché è l’unico modo sano e trasparente per rimanere nel mercato.

Ci sarebbero anche altri aspetti che contribuiscono a rendere l’Italia poco competitiva nel libero mercato in Italia. Come tutti sappiamo, l’Italia è anche un paese Sindacalista, soprattutto in materia di tutele di lavoratori: quest’ultimi sono stati convinti che sia soprattutto per tutelare il loro posto di lavoro o salario, ma in realtà sono state proprio le regole degli anni settanta-ottanta che hanno reso l’Italia sempre più fragile rispetto al mercato mondiale.
Penso sinceramente che la globalizzazione sia una grande opportunità perché permette alle nazioni, non vaste geograficamente, di poter ambire a grandi profitti che possono soddisfare i commercianti e gli imprenditori italiani. Anche i lavoratori potrebbero godere di questa situazione, se non ricevessero costantemente il lavaggio del cervello dei sindacati. Perché lamentarsi se un datore di lavoro decide di delocalizzare altrove e non protestare contro le tasse che penalizzano la produzione? Perché lamentarsi se il datore di lavoro decide di trasferirsi in Paesi dove i salari sono più bassi e non protestare perché in Italia le tasse sul salario sono così alte?
Questo succede perché siamo abituati a vivere di protezioni e sussidi, perciò alla prima mancanza, chiediamo insistentemente che qualcuno imponga misure per chiudere il mercato.

Ecco perché è necessario uscire da queste logiche sindacaliste per iniziare a diffondere una cultura liberale di piena competizione. È vero, il mondo non è perfetto. Ma non dobbiamo smettere di fare economia aperta solo perché – giusto per fare qualche esempio – la Cina impone salari bassissimi. La globalizzazione è una sfida che si può vincere senza timori se un Governo tiene le tasse basse e permette ai datori di lavoro di investire meglio.