Il posto pubblico non deve essere un posto “a vita”

Qualche giorno fa in Sicilia si è verificato uno scontro verbale tra politica e vescovi sulle retribuzioni dei funzionari della pubblica amministrazione della Regione Sicilia. A quanto pare, sarebbero molto più alte rispetto a quelle dei dipendenti pubblici degli Stati Uniti d’America. Questo “scontro” mi ha permesso di fare una riflessione sulla situazione dei dipendenti pubblici, non solo siciliani, ma direi di tutta Italia.

La sensazione è che i dipendenti pubblici vivono in una situazione di “paradiso consapevole ma giustificato”. Cosa vuol dire? Mi riferisco al fatto che, non tanto le forze dell’ordine, piuttosto i dipendenti della pubblica amministrazione e delle aziende statali, in quanto godono di generosi privilegi, hanno il posto a vita (il famigerato Posto Fisso), ma proprio perché tanti ex-politici vivono sulle spalle dello Stato (vedi vitalizi o nomine nei consigli d’amministrazione), si giustificano con il fatto che loro ricevono meno di quello che dovrebbero.

In tutta questa storia, buona parte delle colpe è dei sindacati che sono riusciti nel rafforzare la posizione dei dipendenti pubblici, favorendo lo sport nazionale dell’assenteismo. Infatti, licenziare è una pratica molto complessa.
Ma le colpe sono anche della cultura del welfare in Italia. Nel corso dei decenni, i governanti – nazionali o locali – hanno usato il posto da dipendente pubblico per due motivi. Il primo come “mancia elettorale“, quindi per premiare chi ti permetteva di vincere le elezioni. Il secondo come “rimedio alla disoccupazione”. Questo secondo aspetto non è da sottovalutare se consideriamo che lo Stato è il principale datore di lavoro proprio nelle regioni maggiormente in difficoltà.

Riepilogando, il rapporto governanti-dipendenti della pubblica amministrazione si basa su un reciproco “ricatto”, poiché il primo deve coccolare il secondo per evitare ripercussioni elettorali, perciò quest’ultimo si permette il “lusso” di poter fare tutto quello che vuole.

Chi ci rimette? Ci rimettono i cittadini che pagano le (altissime) tasse per ricevere uno scarso servizio da chi lavora nella pubblica amministrazione. Infatti, il dipendente pubblico non ha alcun incentivo a lavorare bene, se in ogni caso non ha il rischio di perdere il lavoro e riceverà un lauto compenso. E ci rimette anche quel dipendente pubblico onesto che si vergogna dei suoi colleghi.

Come rimediare a questa situazione? Partendo dal presupposto che molte aziende statali dovrebbero essere vendute, bisogna riformare la figura del funzionario nella pubblica amministrazione.

La mia proposta sarebbe quella, con il servizio civile nazionale, di dare la possibilità ai neolaureati in ambiti amministrativi di poter iniziare a fare esperienza sul campo per almeno 3 anni. Licenziare le figure lavorative poco utili e, per chi viene confermato, i contratti dovranno essere a tempo determinato di 3 anni con la possibilità di rinnovo automatico, per favorire il turnover. La retribuzione del dipendente pubblico avrà una parte fissa e una parte a provvigione sulla base delle pratiche gestite. Per qualsiasi pratica avviata dal cittadino, sarà designato un funzionario responsabile che dovrà occuparsi della conclusione della pratica, in modo soddisfacente e in tempi brevi.

Questo perché ritengo che la pubblica amministrazione non debba creare problemi per il cittadino e che il dipendente pubblico debba essere a sua completa disposizione. Non sarebbe malvagio dare l’opportunità di integrare la crescita professionale dei giovani con la possibilità di lavorare a servizio dei cittadini.

Perché essere contrari al Salario Minimo?

Leggendo le varie proposte per la campagna elettorale, vorrei analizzare quella di Salvini sul Salario Minimo.
Che cos’è il Salario Minimo? Il Salario Minimo sarebbe una soglia di retribuzione sotto la quale l’imprenditore non può scendere. Per esempio se il Salario Minimo fosse di 1000€, allora all’imprenditore non è permesso pagare uno stipendio inferiore ai 1000€.

Sembra una proposta positiva, ma è in realtà pare sia l’ennesima proposta socialista che non fa bene al lavoro e ai lavoratori.

Vi spiego il mio ragionamento. Il mercato del lavoro in Italia è sempre stato penalizzato dai presunti successi ottenuti dalle lotte sindacali che hanno favorito le riforme pro-lavoro, a cavallo  fra la fine degli anni sessanta ed i primi anni settanta. Stiamo parlando di riforme come lo Statuto dei lavoratori e i Contratti Collettivi. Queste riforme rafforzarono la posizione lavorativa – con una serie di “privilegi” – dei lavoratori di aziende di medio grandi dimensioni, ma con il passare del tempo diventarono sempre di più una penalizzazione per chi poi entrava nel mercato del lavoro.

Nel corso di questi decenni, sulle questioni di lavoro, i governanti hanno “insistito” su un approccio difensivista, ossia eterna diffidenza verso il datore di lavoro; perciò hanno preferito adottare delle politiche per difendere il posto di lavoro anziché favorire l’occupazione. Dunque, i datori di lavoro hanno preferito ricorrere ai contratti instabili oppure al nanismo (porsi un limite di dipendenti per non rientrare nei requisiti posti su pressione dei sindacalisti). Non per niente le imprese italiane hanno un tasso di anzianità interna molto alta (cioè da quanti anni lavorano gli stessi dipendenti) e uno scarso turnover (cioè pochi cambiamenti di dipendenti).
Non finisce qui, perché i contratti collettivi sono i principali responsabili della scarsa crescita dei salari.

Quindi, riepilogando, quando si tenta di regolamentare il mercato del lavoro, spesso e volentieri si incentiva il datore di lavoro – già abbastanza stufo di lungaggini burocratiche- a non assumere o a ricorrere a contratti instabili. Se in una nazione manca il turnover vuol dire che nessun dipendente vorrà mai cambiare lavoro in cerca di stipendi migliori e tenderà a proteggere, con le unghie e i denti, il proprio posto di lavoro. Stabilità non vuol dire “fare la muffa” nello stesso posto di lavoro, ma poter vivere il presente e programmare il futuro. Servono poche regole che sappiano disciplinare i rapporti umani, non di certo i salari. Inoltre, è arrivato il momento di abolire i contratti collettivi e di permettere ai datori di lavoro e al dipendente di contrattare su salari e durata del contratto. Non abbiate timore che non funzioni. Ci vuole un pochino di fantasia e immaginazione. Con tutte le tasse e i costi burocratici, probabilmente si rischierebbe di andare verso un basso salario non tanto diverso da quello attuale, ma con meno tasse e meno burocrazia sarà il mercato a determinare il giusto Salario.
Lasciate fare, o come si dice “Laissez-Faire”.

Il liberalismo può essere considerato un antidoto patriottico?

Il liberalismo può essere considerato un antidoto patriottico? Dipende da cosa intendiamo come patriottismo. Il patriottismo è spesso associato al nazionalismo, nonostante siano in realtà due pensieri politici molto diversi. Se un giorno dovessi spiegare che differenze ci siano tra i due pensieri, direi che il nazionalismo  è un aspetto oggettivo e il patriottismo un aspetto soggettivo.
 
Con il nazionalismo è lo Stato o il Governo che dice cosa dobbiamo fare per rendere forte l’Italia, con il patriottismo siamo noi cittadini che diamo qualcosa per rendere forte l’Italia. Facciamoci caso, i movimenti nazionalisti della storia italiana si sono sempre espressi come partiti socialisti, in quanto i cittadini si devono “sottomettere” al governo per il bene della nazione.
 
Queste politiche finivano sempre con il rafforzare qualcuno, mentre tanti finivano con l’essere indeboliti. Il socialismo rafforza chi rientra nelle grazie del Governo e dello Stato, ma indebolisce e rende poveri tutti gli altri cittadini.
 
Con il patriottismo, la situazione è molto diversa. Con il patriottismo, sono i cittadini che si rendono disponibili per il proprio Paese. Con i propri doveri, ciascun cittadino contribuisce per migliorare il proprio Paese.
 
In tutto ciò che rapporto esiste tra liberalismo e patriottismo? Se con il socialismo, non solo non siamo liberi, ma tendiamo a ricevere ingiustizie e tendiamo a diventare sempre meno civili con il prossimo, con il liberalismo, invece, nessuno è più penalizzato da tasse e tutti sono posti sullo stesso piano formale.
 
Essere costantemente “aggrediti” dalle tasse vuol dire che il reddito che noi produciamo, non solo finisce alle persone che non producono reddito, ma non riceviamo lo stesso equivalente in servizi da parte dello Stato. Questo provoca malumori, inciviltà e cattiva propensione verso la solidarietà.
 
In Italia la solidarietà imposta dallo Stato ha fallito.
 
Dunque è opportuno iniziare a cambiare questo Paese, iniziando a dare più potere ai cittadini e meno allo Stato. La solidarietà e il civismo possono essere stimolati anche senza ricorrere alle tasse. La solidarietà e il civismo non si stimolano rendendoci tutti “poveri” come pretendono di fare i movimenti o partiti socialisti.
 
In sostanza, il pensiero liberale è l’unico a poter sostenere e incoraggiare le virtù dei cittadini, in modo tale che grazie ai nostri comportamenti, altruisti o egoisti che siano, l’Italia possa essere forte, non solo nel proprio quartiere, ma anche nel mondo.
 
Avere una cultura liberale vuol dire sostenere la nazione senza dover penalizzare altre persone. Si tratta di approcci diversi, in quanto secondo le culture non liberali il cittadino deve sacrificarsi per il bene di tutti. Un liberale, invece, ritiene che il successo di una nazione dipenda dall’insieme dei successi dei suoi cittadini, permettendo a loro di poter dare il meglio di sé.

Quali sono i danni dei sindacati italiani?

 

In principio ci furono le battaglie sindacali degli anni sessanta. Si raggiungessero risultati importanti come lo Statuto dei Lavoratori (1970).
Per i sindacati e gli ambienti del comunismo si trattava di un passaggio storico per l’Italia con l’emancipazione del lavoratore. In realtà, si trattava dell’inizio di una serie di diritti riconosciuti che – con il passare del tempo – iniziavano ad apparire sempre più come dei privilegi.

Molte delle aziende coinvolte erano strategiche per lo Stato (vedasi FIAT) e di medie e grandi dimensioni, perché erano quelle più in grado di mettere in crisi un Paese (con scioperi e manifestazioni) e in difficoltà i governi.
Le lotte sindacali hanno permesso di raggiungere dei risultati, sia dal punto di vista contrattuale, con il contratto a tempo indeterminato sempre più forte e con i contratti collettivi, sia dal punto di vista economico.
Grazie alle lotte sindacali i lavoratori godevano di protezioni statali di ogni genere (malattia, maternità, disoccupazione parziale o temporanea) e di pensioni molto generose. Con le lotte sindacali nasce il famoso “posto fisso” della Prima Repubblica.

Questo modello si manteneva funzionale fino a quando c’era solo il padre di famiglia che lavorava (tranne alcune aziende che assumevano anche donne). Ma con il passare del tempo, con la globalizzazione, le dislocazioni e le diverse esigenze dei cittadini (e non solo dei datori di lavoro), le aziende che rientravano nella categoria dei protetti da Stato e Sindacati iniziarono a vacillare. In parallelo, con l’aumento delle tasse e del costo della vita, non bastava più il lavoro del padre di famiglia, ma serviva anche il lavoro della madre, con tutte le conseguenze che ne determinava, come pagare l’asilo nido.
Ma i sindacati, nonostante si autoproclamavano “difensori dei lavoratori”, si sono concentrarti solo su una parte sempre più minoritaria di lavoratori, ostacolando qualsiasi tentativo di riforma e garantendo proficue pensioni ai lavoratori di queste categorie.

  • Morale della favola è che oggi sono cambiate tante cose, ma dal punto di vista del lavoro:
  • I contratti collettivi a tempo indeterminato e le varie protezioni, nate con le battaglie sindacali, risultano troppo costosi e poco funzionali;
  •  chi è stato assunto fino a metà duemila, oggi risulta un grande costo sia per il datore di lavoro e sia per tutti i cittadini (visto il grande costo tra indennità, pensione e disoccupazione);
  • i datori di lavoro tendono ad assumere con altri contratti che godono di poche protezioni, ma sono meno costosi;
  • Chi viene assunto con contratti non-protetti, è costretto a pagare tante tasse per coloro che hanno avuto o hanno attualmente un contratto protetto.

In sostanza, i sindacati per proteggere una categoria di lavoratori, ha indebolito gravemente il resto dei lavoratori e contribuendo allo sviluppo di lavori irregolari e temporanei. Bisogna, dunque, riformare i contratti di lavoro anche di coloro che sono stati assunti in passato, perché siamo stanchi di vedere delle persone sacrificate per colpa di coloro che sono stati assunti con le condizioni stabilite durante le lotte sindacali. Per quanto riguarda i sindacati, sono per l’abolizione e la sostituzione con mediatori civili che sappiano essere imparziali e propositivi nel far raggiungere un punto d’incontro e per il reciproco rispetto tra datore di lavoro e lavoratori.

Livigno, esempio meraviglioso di Meno Tasse

Sapevate che esiste un comune che dal 1910 gode dello status di Luogo Extradoganale? Ebbene, esiste un comune in Italia che da oltre un secolo non paga alcun euro di IVA allo Stato italiano. Questo comune si chiama Livigno, nella provincia di Sondrio, in Lombardia. Parliamo di un comune di circa seimila abitanti.

Livigno si trova nell’Alta Valtellina a 1800 mt di quota. Un comune, territorialmente parlando, che si è sempre trovato in una situazione palesemente penalizzante, considerando che era abbastanza disconnesso e lontano rispetto ai centri urbani principali, come potrebbe essere in questo caso il capoluogo Sondrio.

Parliamo di un comune che nel 1910 era privo di collegamenti stradali e di attività commerciali, sicché l’economia era prevalentemente rurale. Pertanto, la Monarchia decise di mettere in condizione Livigno di non avere il carico fiscale sulle spalle, allo scopo di poter gestire al meglio il disagio provocato dalla posizione geografica.

A Livigno non viene pagata l’IVA, non ci sono alcune accise sul carburante o sui tabacchi, idem sugli alcolici. Ebbene, parliamo di uno straordinario caso di Meno Tasse.

Pertanto, siamo molto felici nell’annunciare che Livigno sia oggi uno dei comuni più ricchi in Italia. Livigno è la perfetta dimostrazione che la non presenza fiscale dello Stato permette agli stessi abitanti di poter investire meglio, di potersi arricchire meglio, di poter vivere meglio, senza dover ricorrere ad una montagnosa pressione fiscale, o a forme di assistenzialismo come il Reddito di Cittadinanza.

In primis, se nel 1910 Livigno era un comune rurale privo di infrastrutture degne di nota, con il passare degli anni sono stati fatti dei grossi passi in avanti su questo aspetto. Giusto per fare un breve elenco:

  • Passo del Foscagno, costruito nel 1914;
  • Strada Statale 301 del Foscagno, costruita nel 1914;
  • Passo della Forcola, che collega Livigno con la Svizzera, è aperto dal 2012.

Ma la vera incisività di Livigno, quasi da imbarazzare un politico italiano qualsiasi, è dal punto di vista economico e turistico. Oggi Livigno è una delle mete più ambite nelle stagioni invernali, con una serie innumerevole di servizi per le persone, tra bar, ristoranti, gioiellerie e negozi di vario genere.

Parliamo di un comune che offre una serie di servizi adattabile a qualsiasi esigenza, dalle famiglie ai single, dalle persone più anziane ai più giovani. Un territorio estremamente capitalista in grado di offrire servizi dal relax, locali notturno per il divertimento, giochi per i bambini, all’ebbrezza di divertirsi con le motoslitte.

Chiedo scusa se sembro qualcuno che vuole pubblicizzare una meta turistica o ricoprire di meriti qualcuno in particolare, ma non posso non essere entusiasta di questa meravigliosa realtà italiana di meno Stato e più Capitalismo. Livigno è la dimostrazione che il capitalismo vero, spontaneo e volontario e privo di interferenze statali è in grado di sopperire a tutto. Siamo passati da un territorio particolarmente penalizzato, isolato e rurale, ad un territorio estremamente servito, ricco e competitivo.

Per non parlare del passo in avanti dal punto di vista del costo delle case. Nel 1910 Livigno era banalmente un territorio di contadini con case rurali. Oggi lo stesso comune ha dei meravigliosi chalet di 80-85mq che costano circa 500.000€. Alla faccia di chi attacca i paradisi fiscali, quasi fosse un peccato mortale. Ben vengano i paradisi fiscali, se i risultati sono come Livigno.