La riforma pensionistica cilena: un modello a cui puntare

Per la stesura di questo articolo ringraziamo Domenico Campeglia, che ha fornito il suo utilissimo pamphlet, presto pubblicato dall’Istituto Liberale, sulla storia ed i risultati della riforma del sistema pensionistico cileno.

La campagna dell’Istituto Liberale sul tema delle pensioni ha portato alla luce i molti problemi del sistema pensionistico del nostro Paese.
Abbiamo visto come esso sia il meno sostenibile al mondo, in che modo le riforme attuate nel corso della storia abbiano portato più danni che benefici e soprattutto di come stiamo ancora pagando i tanti errori commessi nel passato (come ad esempio le Baby Pensioni che pesano ancora sui conti dello Stato per oltre 7,5 Mld di € ogni anno).

LA RIFORMA PENSIONISTICA PIÑERA

Ma quale potrebbe essere una soluzione per il futuro?
Per rispondere a questa domanda, possiamo prendere in considerazione un caso molto interessante: quello del Cile e della riforma di José Piñera.
Nel maggio del 1981 la riforma Piñera sostituì il modello a ripartizione esistente allora in Cile (lo stesso presente in Italia) con quello a capitalizzazione, operando al tempo stesso una forte privatizzazione e liberalizzazione del sistema dei fondi pensione, per consentire ai lavoratori di trovare un piano “ad hoc” per le loro esigenze.

Secondo le parole dello stesso Piñera, “quella riforma ha dato un contributo decisivo allo sviluppo impetuoso di quel Paese latinoamericano. Da quando la previdenza è stata liberalizzata, i tassi di rendimento reali dei conti di risparmio pensionistico sono stati mediamente oltre il 10 per cento, ben al di sopra del tasso d’inflazione”.

LE INEFFICIENZE DEL SISTEMA ITALIANO

Ben diverso è il nostro attuale sistema, dove sappiamo che i contributi INPS versati ogni mese non vengono messi da parte per poi restituirceli in futuro dopo essere stati messi a rendimento, ma sono utilizzati immediatamente per pagare le pensioni attuali; di fatto, rendendo il nostro sistema pensionistico una sorta di schema Ponzi sostenuto dallo Stato e i contributi una sorta di “tassa” aggiuntiva sui lavoratori. 

Il modello italiano venne immaginato nell’aspettativa che nel corso del tempo l’aumento demografico e la crescita economica avrebbero garantito la possibilità di pagare le pensioni di ognuno, giunto il momento di ritirarsi dal mondo del lavoro. Peccato che con una popolazione in decrescita demografica e un’economia che arranca in ogni settore da decenni, questo sistema sia una vera e propria bomba ad orologeria. 

I RISULTATI DEL SISTEMA CILENO

Tornando al caso cileno, lo stesso Piñera affermò che: “Sul piano etico, un sistema collettivistico toglie agli individui la libertà di organizzare la propria vita: e va quindi rigettato. Per giunta, il tasso di rendimento di un sistema a capitalizzazione è destinato a essere ben superiore di un sistema previdenziale redistributivo e statalizzato”. 

La bontà di questo sistema è dimostrata empiricamente: stando infatti ai dati pubblicati da Mercer, il Cile attualmente è il paese con il sistema pensionistico migliore d’America, alla pari con il Canada, ed eccelle in termini di adeguatezza e sostenibilità. 

Non è, in ogni caso, un sistema totalmente privatizzato: per le fasce più povere della popolazione esiste una pensione minima garantita dallo Stato e finanziata con la fiscalità generale, che copre tutti i lavoratori che abbiano contribuito almeno per 20 anni ad un fondo individuale; per coloro che non lo hanno fatto è possibile richiedere una pensione di assistenza minima (più bassa della precedente). In altre parole, nessuno viene lasciato solo.

Un sistema del genere può certamente spaventare, perché se un fondo fallisce perde tutti i soldi dei lavoratori, lasciandoli senza risorse. Ma anche in casi del genere esistono un paio di rimedi a coprire i casi peggiori. Il primo è la stipulazione di un’assicurazione da parte del lavoratore, che gli consenta di venire rimborsato qualora il fondo a cui ha affidato i propri risparmi dovesse fallire; il secondo rimedio consiste più semplicemente nel scegliere la vecchia regola di diversificare l’investimento, decidendo di suddividere i contributi pensionistici versati su più di un fondo.

Il modello a capitalizzazione cileno permette inoltre ai lavoratori il cosiddetto “Opt out”, ovvero la possibilità di abbandonare in qualsiasi momento il fondo scelto inizialmente, senza alcuna coercizione (ovvero il contrario di quanto avviene in italia, dove i lavoratori sono tutti obbligati a versare i loro contributi nelle casse dell’INPS, senza possibilità di tirarsi indietro o di affidarsi a un fondo pensionistico diverso).

Cambiare l’attuale sistema pensionistico è possibile, ed esiste già un’alternativa più giusta, sostenibile e libera: si tratta solo di convincere più persone possibili a richiederla.

 

Articolo a cura di:

Andrea Melcarne

Gianmaria Dinaro

Francesco Chevallard

Intervista a Drew Pavlou

Ciao Drew, per iniziare vorrei che raccontassi la tua storia ai nostri lettori, perché non penso che tutti la conoscano.

Studio Filosofia, Storia e Letteratura inglese all’Università del Queensland (UQ) a Brisbane, Australia. La mia storia è iniziata l’anno scorso quando ho organizzato una manifestazione on-campus in supporto di Hong Kong. In quell’occasione io e gli altri manifestanti siamo stati circondati e attaccati da sostenitori del PCC.

Siamo stati sbattuti a terra e picchiati: io sono stato colpito alla testa e alla schiena più volte da uomini con il volto coperto. Queste persone venute ad attaccarci non erano studenti e per celare le loro identità indossavano maschere e occhiali da sole. Avevano con loro zaini con cambi di abiti e comunicavano tra di loro attraverso ricetrasmittenti da orecchio.

Per questo sospettiamo che sia stato tutto stato organizzato dal consolato cinese a Brisbane, il quale il giorno dopo ha fatto uscire un comunicato in cui lodava il “comportamento patriottico” dei nostri assalitori, di fatto sponsorizzando gli attacchi violenti di cui siamo stati fatti oggetto.

Chi erano questi aggressori?

La UQ ha effettuato un’investigazione di 6 mesi e non sono mai stati in grado di identificare queste persone come studenti. Tutto sembra indicare che non lo fossero. Il giorno della protesta, quando gli studenti cinesi ci hanno circondati e stavano minacciando di attaccarci, la polizia è intervenuta e ha convocato me ed un rappresentante degli studenti cinesi a negoziare per uscire da quella situazione in modo pacifico.

Il leader degli studenti cinesi disse “Ci sono persone dalla mia parte che non sono studenti e a meno che non ti scusi con la nazione cinese per aver offeso noi e la Cina non posso proteggerti da loro”. Implicitamente ha ammesso che nella folla ci fossero estranei, non studenti, cinesi che ci avrebbero violentemente assaliti se non mi fossi scusato pubblicamente. La UQ in 6 mesi non è stata in grado di identificarli.

Clive Hamilton, un esperto di influenza del PCC in Australia, crede che questi fossero operativi del Ministero della Sicurezza di Stato, sostanzialmente servizi segreti cinesi, distaccati al consolato cinese. Non erano studenti, si sono coperti per evitare di essere riconosciuti, erano violenti e ben organizzati.

Qual è stata la reazione dell’università a questa vicenda?

La UQ invece che sostenerci ha preso le parti degli studenti cinesi e ha cercato di fermare le nostre proteste. Hanno cominciato a minacciare la mia immatricolazione a luglio 2019 dopo quella prima protesta. Dapprima hanno provato ad intimidirmi attraverso i canali ufficiali, portandomi davanti alla commissione disciplinare diverse volte. La UQ, invece che proteggere noi e la nostra libertà di parola, si è schierata con il consolato cinese.

Questo perché il consolato ha un’enorme influenza sull’università. La UQ, infatti, fa affidamento sulla Cina per il 20% delle sue entrate. Un governo totalitario come quello cinese potrebbe in qualsiasi momento decidere di non permettere più ai suoi studenti di frequentare un campus dove ci sono manifestazioni pro Hong Kong, mandando così in bancarotta la UQ da un giorno all’altro.

Pertanto se il console generale della Cina Xu Jie, che tra l’altro è un professore onorario dell’UQ, dice al vice-cancelliere di fare qualcosa, lui lo fa, perché sa che devono proteggere gli interessi del governo cinese, se vogliono evitare la bancarotta. Questo è il motivo per cui ci hanno repressi dopo che siamo stati violentemente attaccati.

Mi sono quindi candidato al senato accademico dell’UQ: volevo ottenere un posto al tavolo delle decisioni e far sentire la nostra voce sul problema. Noi non vogliamo che la nostra università abbia simili legami con un governo tirannico che perseguita i cittadini di Hong Kong, cinesi, tibetani e Uiguri violandone i diritti umani.

Negli anni ’70 e ’80 gli studenti dell’UQ hanno lottato contro l’apartheid e il governo sudafricano: volevano che l’UQ non mantenesse relazioni economiche con quel governo. Credo che lo stesso principio valga oggi. Il regime cinese esercita politiche di apartheid in Xinjiang, che in mandarino vuol dire “nuovi territori”: è un termine colonialista. Questi territori non sono “nuovi” per gli Uiguri musulmani, questa è la loro terra.

Ma per la Cina sono “nuovi territori” da colonizzare, e vi hanno impiantato un regime di apartheid dove gli Uiguri musulmani sono cittadini di seconda classe nella loro stessa terra. Hanno creato campi di concentramento dove hanno rinchiuso 1,5 milioni di Uiguri.

Quindi mi sono candidato al senato accademico e sono stato eletto nonostante l’università abbia cercato di fermarmi. Hanno “reclutato” un candidato che portasse avanti una campagna filo-cinese e pro-PCC su WeChat redatta in mandarino in cui diceva “Votate me per fermare le proteste pro Hong Kong di Drew Pavlou”.

Ancora non si chi abbia scritto quel messaggio, perché il candidato non parlava nemmeno mandarino. Quando ho comunque vinto hanno cercato di negarmi il seggio a cui ero stato democraticamente eletto dagli studenti per far sentire la loro voce, ma non ce l’hanno fatta.

Pensavo che sarebbe finita con me eletto al senato ed il loro fallimento nel tentativo di negarmi il seggio, ma l’UQ ha deciso di peggiorare la situazione. Mi hanno inviato un dossier di 186 pagine scritto dai loro avvocati. Hanno esaminato i miei profili social privati per mesi per trovare post da interpretare nel più malizioso dei modi possibili, hanno montato accuse contro di me dicendo che alcuni studenti mi avevano segnalato per bullismo.

Alla fine si è scoperto che gli studenti nominati dall’università non si erano mai lamentati di me nemmeno una volta, o non volevano far parte di quella segnalazione, o non sapevano nemmeno come il loro nome fosse finito in quelle segnalazioni che a loro (degli studenti) detta erano state create dall’università.

Hanno speso centinaia di milioni di dollari per questo caso, hanno assunto due studi legali internazionali, Clayton Utx e Minter Allison, che hanno gestito l’accusa contro di me per conto dell’università al consiglio disciplinare. Hanno sostanzialmente obbligato il consiglio disciplinare ad espellermi sostenendo che stavo danneggiando la reputazione dell’università con le proteste in favore di Hong Kong.

Il consiglio è formato da membri a tempo pieno stipendiati dall’UQ, quindi se gli avvocati dell’università dicono “dovete espellere questo studente” loro lo faranno. Hanno probabilmente speso mezzo milione di dollari per questo caso cercando di distruggermi. Sono addirittura andati in televisione a dipingermi come un bullo.

Se il sistema giudiziario del tuo Paese trattasse così ogni criminale, sareste ormai la nazione più sicura della Terra. È incredibile.

Lo so! Questo è il punto! La posizione dell’UQ era: “dobbiamo espellere Drew per rendere il campus un posto sicuro”. Questa non è solo diffamazione, è proprio una bugia: hanno speso 500.000 dollari per assumere due studi legali che montassero un caso contro di me. Tutto questo per espellermi così che non potessi più minacciare i legami economici dell’università con la Cina che valgono centinaia di milioni di dollari.

Loro sanno che il governo cinese mi vuole fuori, perché ha rilasciato dei comunicati ufficiali nei media in cui mi accusano di razzismo e di essere anti-cinese, i media di Stato mi hanno attaccato perché non sopportano che difenda Hong Kong. È probabile che abbiano detto “vogliamo questo studente fuori, occupatevene” e l’UQ ha eseguito.

Se l’UQ volesse spendere 500.000 dollari per investigare ogni caso di bullismo basandosi sulla Carta degli Studenti con cui giudicano gli studenti, beh, è scritta in termini così poveri che con tutte quelle risorse troverebbero qualcosa per espellerlo. Hanno speso mezzo milione di dollari e non hanno potuto trovare nulla perché non c’è nulla da trovare. È una caccia alle streghe.

Ci sono 55,000 studenti all’UQ, è un’università enorme. Se siamo razionali, la Carta degli Studenti viene violata migliaia di volte ogni giorno. Se hai 55,000 studenti nel campus la gente si insulta, litiga, copia agli esami. La Carta viene violata ogni minuto probabilmente, ma non spendono 500,000 dollari per indagare uno studente qualsiasi, bersagliano quello studente che è critico della loro relazione miliardaria con il governo cinese.

Il vice-cancelliere è molto vicino al governo cinese. Per molti anni è stato nel board di Hanban, l’organizzazione che gestisce gli Istituti Confucio in tutto il mondo. Di recente è anche stato invitato a Shanghai per ricevere il premio “individuo più incredibile dell’anno” dal vicepremier cinese che gli ha messo una medaglia al collo per i suoi sforzi nel promuovere gli Istituti Confucio in tutto il mondo, cioè nel promuovere l’influenza del governo cinese in tutto il mondo.

L’anno scorso gli è stato riconosciuto un bonus di 200,000 dollari in parte per avere “rafforzato le relazioni tra l’UQ e la Cina”, il che vuol dire creare relazioni con ufficiali del governo cinese. Hanno interessi diretti, personali ed economici, con la Cina per cui espellermi.

Tutto questo solo per… soldi?

Sì! Perché il Cancelliere Peter Varghese e il Vicecancelliere Peter Høj non sono comunisti né sostenitori del governo cinese, non credo che aderiscano al socialismo cinese o al pensiero di Xi Jinping, non gli interessa l’ideologia di stato cinese né sostengono il governo cinese. Per loro è solo una questione di soldi. Semplicemente soldi. Triste ma vero, sono pronti a svendere ogni valore democratico per questo. Se almeno fossero segretamente comunisti li rispetterei di più.

Come si è conclusa l’intera vicenda?

Il giorno dell’udienza, dopo un’ora io e il mio consulente legale abbiamo lasciato l’udienza perché era sostanzialmente scorretta e costruita contro di me. Hanno continuato l’udienza in mia assenza e mi hanno sospeso per due anni.

Con quale motivazione?

Ah, per tutte le accuse che l’università aveva montato contro di me: bullismo e vilipendio alla reputazione dell’università. Il loro obiettivo era espellermi e hanno montato un caso per farlo. Una sospensione per due anni equivale ad un’espulsione perché non posso laurearmi, quindi ho subito presentato un appello al Senato accademico, che è il più alto organo di appello dell’Università, sto ancora aspettando la data dell’udienza.

Oggi ho denunciato per 3.5 milioni di dollari l’Università, il cancelliere e il vice-cancelliere presso la Corte Suprema per cospirazione, frode, violazione di contratto, diffamazione e molestie per tutto che mi hanno provocato con questa campagna di bullismo nei miei confronti eseguita per compiacere i loro padroni a Pechino.

Ho sporto denuncia per difendere il mio diritto e quello di tutti gli studenti australiani alla libertà di parola nei campus. Non mi importa dei soldi, quel che importa è mandare un messaggio: a queste persone importa solo dei soldi, bisogna mandargli un messaggio che dovranno ascoltare.

Com’è l’ambiente nel campus?

Abbiamo ottime relazioni con i gruppi di studenti di Hong Kong e del Tibet visto che stiamo lottando per i loro diritti. Loro ricevono molto minacce e le loro famiglie a casa (in Cina) sono minacciate. Sono tutti molto preoccupati di essere identificati e fotografati, è una situazione molto tesa nel campus e gli studenti di HK sono spesso bersagliati da sostenitori del governo cinese, il quale controlla direttamente l’associazione degli studenti cinesi dell’Università e la usa per tenere dei registri/file sugli studenti cinesi per controllarli politicamente.

Molte volte mi è capitato, camminando per il campus, che degli studenti cinesi si avvicinassero e mi dicessero “Drew apprezzo molto quello che stai facendo, so cos’è successo a piazza Tienanmen, odio anch’io il governo cinese, apprezzo la tua lotta per i diritti umani, grazie per alzare la voce, vorrei potermi unire al movimento ma non posso permettermi nemmeno di essere visto mentre ti parlo o mi faccio una foto con te”.

Il governo ha operativi che controllano la condotta degli studenti cinesi nel campus. È una situazione tremenda in cui nemmeno gli studenti cinesi nel campus hanno libertà di parola, quindi cerchiamo con tutte le nostre forze di difendere anche loro. Tutti (studenti di HK, cinesi, tibetani, uiguri) sono minacciati da agenti del governo cinese e non sono liberi di parlare nemmeno nel campus.

Noi australiani lottiamo e siamo attaccati, ma è ancora peggio per loro perché hanno famiglie a casa che il governo cinese può minacciare. Infatti il governo cinese agisce come la mafia, sa che il modo migliore per controllare le persone è attraverso le loro famiglie, è fondamentalmente una gang criminale.

Modello a capitalizzazione o a ripartizione? Come funziona un sistema pensionistico equo

La truffa del sistema pensionistico italiano

In Italia pensiamo che alla fine della nostra vita lavorativa lo Stato benevolo ci restituirà parte delle tasse che abbiamo versato (i contributi) sotto forma di pensioni… grave errore! In realtà lo Stato, che è tutto fuorché benevolo, rischia di non restituire agli italiani un bel niente, a causa del crollo demografico e della natura stessa del nostro sistema pensionistico, contributivo a ripartizione.

Siamo quindi spacciati? A noi giovani toccherà lavorare fino alla tomba? Beh una via di salvezza c’è – ma ovviamente la soluzione verrà dal mercato, non dallo Stato. Si tratta di cambiare il sistema pensionistico verso un modello a capitalizzazione: ossia un sistema dove i contributi che noi lavoratori versiamo finiscono in fondi pensione privati, che li investono e generano dei rendimenti. Questi rendimenti si sommeranno ai contributi versati, permettendo all’individuo di accrescere la propria ricchezza nel corso degli anni. 

Un’obiezione classica ai sistemi pensionistici privati è che investire in un fondo rende il futuro pensionato soggetto al rischio di non percepire la pensione, o di percepirla in una percentuale minore, qualora il fondo fallisca o effettui investimenti errati. 

Quello che quasi tutti dimenticano di spiegare è che anche la pensione erogata dallo Stato sottintende un rischio. Prendiamo il caso dell’Italia. Il nostro Paese ha conti pubblici distrutti da anni di mala gestione finanziaria ed è in profonda crisi demografica (sempre più anziani e sempre meno giovani): quante volte sono stati cambiati i requisiti per andare in pensione negli ultimi decenni? E quante volte perfino gli importi sono stati modificati? Come possiamo fidarci che un giorno restituirà ai lavoratori, soprattutto ai più giovani, quanto versato?

Il sistema a capitalizzazione permette di scegliere…

La differenza tra i due rischi corsi dal contribuente è che il singolo individuo ha molto più controllo sul successo di un investimento privato rispetto a quello che ha sugli andamenti demografici e finanziari di uno Stato. Inoltre, diversificare il proprio portafoglio, scegliendo più fondi pensione o più investimenti, è una strategia che può permettere una diminuzione sostanziale del rischio. Introdurre un sistema del genere genererebbe una responsabilizzazione dei cittadini, che dovrebbero scegliere oculatamente come investire i propri soldi e, per farlo, si impegnerebbero a migliorare la propria alfabetizzazione economica.

Stiamo parlando di dare alle persone la libertà di scegliere. Scegliere quanto, dove e come investire. Scegliere quando uscire dal mondo del lavoro. Si tratta di essere liberi di fare ciò che si ritiene più opportuno per la propria vita. Non credo che, potendo scegliere, gli italiani investirebbero in Alitalia; eppure questo è ciò che fa puntualmente il governo con le tasse dei cittadini. Perché non dovremmo essere noi a scegliere per noi stessi?

Lo statalista di turno potrebbe obiettare che in questo sistema verrebbero penalizzate le categorie a basso e bassissimo reddito. Ma è un’obiezione facilmente smontabile: per queste categorie potrebbe rimanere una pensione minima erogata dallo Stato, similmente a quanto accade ora, finanziata con le tasse dei cittadini. 

…mentre il sistema a ripartizione finisce per creare inequità e distorsioni

José Pinera, economista cileno responsabile di una riforma pensionistica fondamentale per il suo Paese (e che approfondiremo in uno dei nostri prossimi articoli), definiva il sistema “pay as you go”, come quello italiano odierno, “un sistema innegabilmente regressivo, che blocca i lavoratori più poveri nella fascia inferiore dello schema piramidale, aumentando i privilegi per i lavoratori più politicamente potenti e più ricchi che si trovano più in alto”. Questo perché i lavoratori più poveri, nonostante entrino nel mondo del lavoro in età più giovane, ricevono comunque un semplice assegno minimo e non possono ambire a riceverne uno più sostanzioso. E per quanto riguarda i privilegi per i lavoratori politicamente potenti, in Italia abbiamo l’esempio perfetto: le baby pensioni, costruite per favorire i dipendenti pubblici a scapito di tutti gli altri (vedi immagine sottostante). 

Come si può considerare equo un sistema del genere?

Affermare che in un sistema pensionistico a capitalizzazione non possa esistere una rete di protezione dei più poveri è una menzogna buona solo per mantenere il consenso delle fasce di popolazione meno abbienti.

La nostra vita, il nostro lavoro e, in ultima istanza, la nostra pensione devono dipendere in massima parte dalla responsabilità individuale; dobbiamo rifiutare il paternalismo di chi crede di sapere cosa è meglio per noi, salvo poi buttare puntualmente i nostri soldi (vedi Alitalia e simili). Impegnarsi per far rendere al meglio il frutto del nostro sudore è una battaglia di civiltà, ancor prima che di libertà.

a cura di:

Leonardo Accardi;

Gianmaria Dinaro;

Tommaso Caruti;

Francesco Chevallard.

Viaggio nella storia pensionistica italiana

In questo nuovo articolo della nostra campagna sulle pensioni faremo un viaggio nello statalismo assistenziale più spinto; ossia racconteremo la storia del sistema pensionistico italiano. È una storia che deve essere raccontata: per sconfiggere il tuo nemico, devi conoscerlo.

Nel nostro primo articolo avevamo invece rapportato la spesa pubblica italiana con quella di alcuni Paesi europei, lo potete ritrovare qui.

Il primo antenato dell’odierno INPS (Istituto Nazionale di Previdenza Sociale) fu istituito addirittura nel 1898 e subì numerose modifiche fino al 1943 quando, durante il regime fascista, prese le denominazione attuale. 

Inizialmente il sistema italiano era a capitalizzazione: i lavoratori versavano in fondi pensionistici quote del loro stipendio, che venivano accantonate e investite in modo da garantire a ciascuno una pensione in linea con quanto versato nell’arco di tutta la vita lavorativa.

Nel 1969 l’ordinamento a capitalizzazione fu definitivamente abbandonato a favore di uno a ripartizione: un sistema in cui i contribuenti pagano le pensioni erogate a chi ha già smesso di lavorare – con la speranza che un giorno i futuri lavoratori pagheranno la loro. 

La riforma del 1969 (legge Brodolini) istituì la pensione sociale per i cittadini con più di 65 anni di età con reddito considerato minimo, e quella di anzianità per i cittadini con 35 anni di contribuzione che non avevano raggiunto l’età pensionabile. Inoltre, era previsto che il calcolo della pensione fosse realizzato in base alla retribuzione degli ultimi 5 anni di lavoro, di conseguenza l’assegno percepito era mediamente più cospicuo rispetto ai contributi realmente versati. Infine, venne prevista la perequazione automatica delle pensioni, cioè la rivalutazione delle pensioni sulla base dell’indice dei prezzi al consumo.

Il sistema pensionistico concepito nel 1969 era molto più soggetto a generare squilibri di bilancio, coperti sistematicamente dallo Stato, rispetto a quello a capitalizzazione e segnalava la nuova ratio con cui la classe politica italiana intendeva gestire le pensioni: statalismo assistenziale spinto e feticismo per il debito pubblico.

Il passo successivo arrivò nel 1973, che verrà ricordato come un anno maledetto per la storia del bilancio pubblico italiano. Fu l’anno in cui il governo Rumor IV inaugurò la sciagurata stagione delle baby pensioni e i politici italiani scoprirono un altro modo per essere generosi con i soldi prelevati dalle tasche altrui. Venne quindi deciso che le donne sposate con figli potessero andare in pensione con 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi, gli statali con 20 e i dipendenti locali con 25. Curiosamente la riforma arrivò giusto due giorni prima di Natale, come un bel pacchetto da scartare per tutti gli italiani; peccato fosse un pacco bomba, scoppiato in faccia a chi si impegnava per lavorare onestamente e alle nuove generazioni. Basti pensare che nel 2018 la spesa per questa voce era ancora di 7,5 miliardi € l’anno, divisa tra 400mila privilegiati.

 

Dagli anni ‘90 ai giorni nostri

 

All’inizio degli anni ‘90 era ormai chiaro che il nostro sistema pensionistico non era più sostenibile. La riforma Amato del ‘92 fu il primo tentativo per risolvere il problema, innalzando l’età pensionabile così come la contribuzione minima per la pensione di anzianità. La riforma Dini del 1995 segnò invece il passaggio (parziale) [1] a un sistema a ripartizione di tipo contributivo, dove le pensioni sono calcolate sulla base delle somme versate nel corso della vita lavorativa (ma i contributi dei lavoratori continuano a pagare le pensioni attuali e non vanno ad alimentare un fondo).

Le due riforme non furono sufficienti a raddrizzare la situazione e si dovette intervenire ancora. Nel 1997 la prima riforma Prodi innalzò ancora i requisiti di contributi maturati per avere accesso alla pensione, eliminò le baby pensioni e ridusse le differenze di trattamento tra dipendenti pubblici e privati. Nel 2004 la riforma Maroni aprì il sistema pensionistico alla previdenza complementare e integrativa (dunque a fondi privati che potevano fornire una ulteriore pensione ai lavoratori che vi accedevano), nell’ottica di tutelare le generazioni più giovani, e introdusse lo “scalone” (un aumento dell’età anagrafica per uscire dal mondo del lavoro). 

La riforma Maroni sarebbe dovuta entrare in vigore a partire dal 1 Gennaio 2008, ma non ci riuscì mai. Nel 2007 il governo di centrosinistra fece una controriforma, sotto la pressione dei sindacati, e diluì le restrizioni ai pensionamenti che sarebbero dovute derivare dalla riforma Maroni. Essa viene ricordata ironicamente come quella degli “scalini”.

 

Le riforme degli anni ‘90 e primi Duemila non furono sufficienti a risolvere l’impatto del sistema pensionistico sulle casse pubbliche, già disastrate di per sé. Quando l’Italia fu investita da una delle più gravi crisi economiche della sua storia nel 2011, il governo tecnico Monti intervenne con misure radicali.

Il decreto Salva Italia venne immaginato per mettere in sicurezza la finanza pubblica e, ovviamente, non poteva mancare la parte dedicata alle pensioni, la famigerata riforma Fornero. Le idee di fondo erano l’equità intergenerazionale ed intragenerazionale, la maggiore flessibilità nell’accesso ai trattamenti pensionistici e l’adeguamento dei requisiti di accesso alla speranza di vita. Venne definitivamente abbandonato il sistema retributivo, rimasto in vigore per alcune categorie nonostante la riforma Dini, ed applicato il sistema contributivo per tutti i lavoratori. Data la bassa età reale di pensionamento (circa 61 anni per gli uomini, contro i 65 teorici), sono stati innalzati ulteriormente i requisiti d’accesso, 66 anni per gli uomini (dipendenti ed autonomi) e per le lavoratrici del pubblico impiego; a 62 anni per le lavoratrici dipendenti del settore privato; a 63 anni e 6 mesi per le autonome e la parasubordinate. 

Infine, la legge di bilancio del 2019, l’unica varata dall’allora governo Lega-M5S, conteneva anche una misura che impattava il sistema pensionistico: Quota 100. Essa prevede la possibilità di uscita anticipata dal mondo del lavoro per tutti coloro che vantano almeno 38 anni di contributi con un’età anagrafica minima di 62 anni. Quota 100 non è però una riforma strutturale; è stata infatti concepita come una deroga per gli anni 2019, 2020 e 2021, da confermare ogni anno.

Quello che manca nella deprimente storia delle pensioni italiane, è evidente, sono libertà e sicurezza. Ancora adesso i lavoratori italiani non versano i propri contributi in un fondo a loro scelta che li farà crescere e fruttare (e gli permetterà di godersi una serena vecchiaia); quei soldi finiscono a pagare le pensioni attuali. Certo, lo Stato promette che un giorno fornirà anche a noi una pensione (pagata da qualcun altro) ma che certezza ne abbiamo? Tutte le riforme degli ultimi 30 anni provano che quando un governo ha bisogno di soldi non si fa scrupoli a rinnegare le promesse fatte in precedenza.

In un mondo liberale nessun cittadino potrebbe essere obbligato a mantenere con le proprie tasse intere categorie favorite dallo Stato (come i dipendenti pubblici), ma dovrebbe invece avere il diritto di scegliere a quale fondo (pubblico o privato) versare i propri soldi, in modo da programmare a suo piacimento l’uscita dal mondo del lavoro. Questo è il mondo che immaginiamo, un mondo di libertà e opportunità.

 

 

Articolo ideato, scritto e curato da:

Francesco Chevallard

Leonardo Accardi

Alessandro Pala

Mattia Maccarone

 

 

Note

[1] In particolare, si passò a un criterio misto in cui l’assegno percepito era in parte legato alla retribuzione ed in parte legato ai contributi versati durante la vita lavorativa, e ad un criterio puramente contributivo per chi doveva ancora iniziare a lavorare.

Fonti

https://tesi.luiss.it/7708/1/paolillo-francesca-tesi-2014.pdf

http://www.fondapol.org/wp-content/uploads/2019/07/135-RETRAITES-ITALIE_VO_2019-07-11_w.pdf

https://www.inps.it/nuovoportaleinps/default.aspx?itemdir=52198

https://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/previdenza/focus-on/Previdenza-obbligatoria/Pagine/Evoluzione-del-sistema-previdenziale.aspx

http://www.covip.it/wp-content/uploads/evoluzionedelsistemapensionistico.pdf

http://www.covip.it/wp-content/uploads/EvoluzioneSistema.pdf

http://www.treccani.it/enciclopedia/sistema-pensionistico-a-capitalizzazione_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/

https://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/previdenza/focus-on/Previdenza-obbligatoria/Pagine/Il-passaggio-dal-sistema-retributivo-a-quello-contributivo.aspx

https://tuttoprevidenza.it/wp-content/uploads/2016/10/CriptCompleto-Una-piccola-storia-della-previdenza-italiana.pdf

https://www.ilsole24ore.com/art/il-macigno-baby-pensioni-75-miliardi-costano-piu-quota-100-AEJcFAUG

https://st.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2013-12-26/pensioni-compie-40-anni-decreto-che-fece-nascere-babypensioni-e-che-ci-costa-ancora-oggi-04percento-pil-184329.shtml?uuid=AB9cLEm

https://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/pensioni/la-riforma-amato.htm

https://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/pensioni/la-riforma-dini.htm

https://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/pensioni/la-riforma-maroni.htm

https://pagellapolitica.it/dichiarazioni/7973/fu-maroni-ad-agganciare-eta-pensionabile-e-aspettativa-di-vita

https://www.repubblica.it/economia/2016/04/13/news/pensioni_scheda-136973152/

https://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/pensioni/la-riforma-fornero.htm

OCSE (Pensions at a Glance 2011, https://www.oecd-ilibrary.org/docserver/pension_glance-2011-en.pdf?expires=1589191905&id=id&accname=guest&checksum=BD5629BC8909B455207AF6A32DA776A4)

https://www.pmi.it/tag/quota-100

Il sistema pensionistico italiano: storia di assistenzialismo e statalismo

L’Italia annovera, tra i tanti servizi dello Stato inefficienti, quello pensionistico. Il sistema previdenziale italiano è un sistema vecchio e assistenzialistico; e le risorse spese per finanziarlo sono troppo grandi rispetto alla resa, se comparato a quello di altri Paesi. Come andremo a vedere più avanti in questa campagna, dietro al nostro sistema previdenziale è celata una storia di politiche economiche inutili volte a favorire determinate categorie, allo stesso tempo danneggiando il bilancio statale, incrementando il debito pubblico ed espropriando i risparmi degli italiani. 

In questo primo articolo della nostra serie di approfondimenti sul sistema pensionistico metteremo a confronto la struttura previdenziale italiana con quella di altri Paesi in Europa e nel mondo, evidenziando le principali differenze. I Paesi scelti sono Olanda, Svizzera, Svezia e Germania, tutte nazioni sviluppate e appartenenti al mondo occidentale, e con una struttura demografica simile alla nostra (seppure con una popolazione leggermente più giovane).

UNA COMPARAZIONE DEI COSTI (IN %) RISPETTO AL PIL:

Come è facile notare comparando i dati dell’OCSE, c’è una grossa differenza in merito alla percentuale di spesa pensionistica pubblica  sul PIL di questi Paesi. 

Nel grafico qui sopra si nota subito come nel 2015 lo Stato che spendeva nettamente di più fosse l’Italia, con un rapporto tra Spesa pensionistica pubblica e PIL pari al 16,2%, il doppio rispetto alla media OCSE. Un Paese ricco e considerato “socialdemocratico” come la Svezia spendeva appena il 7,2%, meno della metà di quanto fosse destinato al sistema pensionistico in Italia.

Una cifra oltretutto cresciuta moltissimo negli ultimi decenni, con un +100% circa rispetto al 1980, come si nota dal grafico sottostante. Un incremento casuale? O legato al naturale invecchiamento della popolazione? Non esattamente. Guardando al nostro pool di comparazione, vediamo che il trend di incremento dal 1980 è molto contenuto; Svezia e Svizzera hanno aumentato di meno del 20% la propria spesa, mentre Germania e Olanda spendono addirittura meno adesso rispetto ad allora. Dati in linea, tra l’altro, anche con la media OCSE, per cui risulta un incremento della spesa media dal 5,67% del 1980 che passa all’8,02% nel 2015 (risultando in un +40% circa, rispetto al +100% per l’Italia, nel medesimo periodo). 

La particolarità che contraddistingue questi paesi è l’adozione di sistemi pensionistici discretamente simili tra di loro, basati su una maggiore libertà di scelta da parte dei cittadini e con un sistema di fondi pensionistici privati molto sviluppato. 

UNA COMPARAZIONE VISTA DAGLI ESPERTI:

Per un’analisi più approfondita sul tema della spesa per le pensioni ci vengono incontro i dati del Melbourne Mercer Global Pension Index. L’indice è elaborato da un gruppo di ricerca australiano e ha come obiettivo quello di evidenziare fattori come la sostenibilità (prendendo in considerazione la crescita economica, la copertura pensionistica, la demografia, il debito nazionale e altro ancora), l’adeguatezza (benefici, risparmi, copertura fiscale, assets di crescita) e l’integrità (costi di operazione, protezione, comunicazione, regolamentazione). Una volta presi in analisi questi fattori viene stilata una “classifica” dei migliori sistemi pensionistici, assegnando ai vari stati una valutazione da A (massimo) ad E (minimo) in base all’index value che essi raggiungono. 

Rispetto agli Stati da noi presi in considerazione, il sistema migliore risulta essere quello Olandese, che raggiunge il punteggio di 81 e la valutazione “A”. Seguono i sistemi Svedese, Svizzero e Tedesco, con punteggi rispettivi di 72,3, 66,7 e 66,1, e una fascia di valutazione “B”. Nella fascia di valutazione “C+” troviamo il Regno Unito, con un punteggio di 64,4. L’Italia si trova molto più in basso e con un punteggio di 52,2 prende una C. 

Secondo Mercer il sistema previdenziale italiano è scadente soprattutto nell’ambito della sostenibilità, registrando il valore più basso in assoluto nell’indice, 19; la ragione è che si tratta di un sistema quasi unicamente pubblico e dove non c’è corrispondenza fra quanto versato da ogni cittadino e la sua pensione. I lavoratori italiani non versano i loro contributi in un fondo (pubblico o privato) che restituirà in seguito i loro soldi, ma pagano le pensioni attualmente elargite dall’INPS. Di conseguenza, quando finiranno di lavorare dovranno sperare che il bilancio pubblico sia in condizioni tali da permettersi di versare loro delle pensioni adeguate; il che, dato l’andamento dell’economia italiana e la scarsa crescita demografica nel nostro Paese, è sempre meno probabile. 

CONCLUSIONI

Il Mercer Index ci aiuta a capire quali Paesi hanno un sistema previdenziale più o meno efficiente e ci mostra come i Paesi più virtuosi sono quelli che si basano non solo sul settore pubblico, ma anche su quello privato. La presenza di un settore privato è fondamentale per aumentare le possibilità di scelta del cittadino e rendere più equo un sistema previdenziale. 

I sistemi pubblici obbligano i cittadini a lavorare fino a una data prestabilita dalle autorità e decidono dall’alto quale sarà la cifra ricevuta da ogni pensionato, spesso con criteri arbitrari – questa analoga attitudine ha favorito l’esistenza di accordi previdenziali particolarmente sfavorevoli od in certi casi più favorevoli di quanto il sistema stesso potesse permettersi, quali le baby pensioni italiane di cui parleremo in un prossimo articolo di questa serie.

Un sistema privato permette ai lavoratori di decidere in autonomia quanto versare per la propria pensione futura e quale sarà il momento più adatto per smettere di lavorare, garantendo loro più libertà di scelta ed un maggiore benessere. 

 

Articolo ideato, scritto e curato da:

Francesco Chevallard

Andrea Melcarne

Alessandro Pala

Mattia Maccarone

Libere città private: il futuro del liberalismo

Con il supporto di Atlas Network, CapX sta pubblicando una nuova serie di testi sul tema dell’illiberalismo in Europa, guardando alle differenti minacce alle economie liberali e alle società in tutto il continente, dal populismo, al protezionismo, alla corruzione.

Con la rapida globalizzazione che è iniziata dopo il crollo del blocco sovietico, gran parte del mondo è diventata ricca velocemente. La parziale liberalizzazione di Cina e India ha sollevato più persone dalla povertà di qualsiasi altro evento nella storia. Nonostante la fede nel socialismo sia scemata, la maggior parte dei regimi era contraria a una liberalizzazione completa, pertanto un’economia ibrida divenne sempre più diffusa. L’impresa privata sarebbe anche tollerata infatti, ma non senza un considerevole intervento e una stretta regolamentazione da parte dello stato. Diversi gradi di corporativismo, impresa diretta e regolata dallo stato, hanno iniziato a dominare lo scenario globale.

Il lato negativo di queste economie ibride, presto battezzate come “neoliberali”, è stata l’inevitabile collusione tra impresa e stato, che aggrava l’ineguaglianza e porta alla corruzione. Ci si deve sempre però chiedere: “qual è il ritorno?”. Ovviamente, sono miliardi che risultano dalla povertà.

Ma a proposito dei supposti lati negativi?

“Il neoliberalismo non è in alcun modo la soluzione al problema” scrive Nancy Fraser, una studiosa della New School. “La sorta di cambiamento di cui si ha bisogno può venire solo da altrove, da un progetto che è estremamente anti-neoliberale, se non anti-capitalista”.

Eppure questo “cambiamento” che può solo nascere da un certo grado di intervento autoritario è esattamente ciò che ha messo il “neo” in neoliberalismo. I denigratori del liberalismo preferirebbero l’autoritarismo ad assicurare la povertà, piuttosto che la prosperità che deriva dal liberalismo distribuita inegualmente. Ciononostante, la maggior parte dei problemi che persistono con la liberalizzazione dei paesi in via di sviluppo, persistono nella misura in cui il fardello della regolamentazione continua a vessare il loro sistema economico, proprio come accadrebbe in qualsiasi paese anche economicamente più avanzato. Alex Tabarrok e Shruti Rajagopalan si riferiscono a questo come esempio dello “stato spasmodico“.

L’alternativa, sostengono, è un più alto livello di liberalizzazione; perché negli stati spasmodici, la limitata capacità dei regolatori dello stato significa che i classici problemi della ricerca del favore siano amplificati. I pubblici ufficiali vedono l’opportunità di prendere tangenti; il pubblico velocizza le cose pagandoli. La figura dell’imprenditore esperto è in grado di capire come gestire un sistema inadeguato, che gli permette di guadagnare un vantaggio sui concorrenti.

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L’interventismo statale genera clientelismo.

Ecco perché alcuni liberali stanno spingendo contro le cariche. Il filosofo Jason Brennan scrive:
“Vi lamentate, forse nel giusto, che le compagnie sono semplicemente troppo grandi. Beh, sì, vi abbiamo detto che sarebbe accaduto. Quando crei codici tributari complicati, difficili regimi regolatori e ardue regole per le licenze, queste restrizioni selezionano naturalmente le corporazioni più grandi. Vi abbiamo detto che sarebbe accaduto. Ovviamente queste sempre più vaste compagnie poi colgono queste regole, codici e regolazioni a svantaggio dei propri concorrenti e sfruttano tutti noi. Vi abbiamo detto che sarebbe accaduto.

In altre parole, è difficile biasimare gli effetti collaterali del neoliberalismo sul suo aspetto più liberale. Quando si mescola uno stato smodatamente regolatore con il capitalismo imprenditoriale, si ottiene il capitalismo clientelare e il corporativismo. Eppure, laddove il neoliberalismo è stato liberale, abbiamo potuto vedere traguardi nel benessere delle persone senza precedenti.

In primis c’è stata una straordinaria crescita economica mondiale, con India e Cina in testa, ma anche un incremento in altri paesi in via di sviluppo. Questo ha portato a un declino massiccio nella parte di popolazione che vive in estrema povertà, dal 35% nel 1987 a sotto il 10% nel 2015 (ultimo dato disponibile)

In secundis, l’aspettativa di vita globale sta aumentando. I parametri di vita media sono aumentati di più di 6 anni dal 1990 al 2016 sia per gli uomini che per le donne. Gli incrementi maggiori sono stati nei paesi più poveri. Adesso questo non dovrebbe essere niente di nuovo.

Deve essere detto che, per quelli che hanno perso il lavoro a causa della delocalizzazione, l’astrattismo di un miglioramento delle condizioni globali non è in grado di bilanciare il dolore acuto della dislocazione regionale. Ma anche quelle regioni del mondo che hanno faticato a competere hanno giovato di un aumento generale del proprio potere di acquisto. Aree divenute “arrugginite” che hanno diversificato la loro economia sono tornate forti: come Pittsburgh negli U.S.A. o Manchester nel Regno Unito.

Qualcuno facente parte della sinistra accademica potrebbe ribattere che i guadagni globali tra i più poveri del mondo siano una mera correlazione, o che siano primariamente una conseguenza della filantropia e degli aiuti esteri. Qualcuno addirittura suggerisce che le nazioni più ricche del mondo siano diventate tali solo grazie al colonialismo sfruttatore. Anche se la riduzione della povertà e l’aumento dell’aspettativa di vita fossero stati il risultato della filantropia e degli aiuti, questi settori esisterebbero comunque grazie alle aziende orientate verso il profitto. E, ovviamente, ci sono diversi esempi di tigri economiche che non hanno utilizzato il colonialismo per ottenere il loro successo economico, dall’Estonia post-sovietica a una qualsiasi delle Tigri asiatiche.

No, l’aumento nella crescita globale è primariamente dovuto a un incremento di produttività ottenuto dal liberalismo. Una Bibbia antecedente a Gutenberg che necessitava di 136 giorni per essere stampata può ora essere prodotta in migliaia di unità in minuti. “Il capitale è diventato produttivo perché necessitava di idee per il miglioramento“, scrive lo storico dell’economia Deirdre McCloskey, “le idee applicate da un carpentiere di provincia, da un ragazzo telegrafista o da un genio del computer di Seattle”, come direbbe Matt Ridley, sono tutte idee che fanno l’amore in un fertile suolo imprenditoriale. La produttività aumenta seguendo regole e procedimenti migliori: le regole sono le istituzioni più accoglienti verso gli imprenditori e i procedimenti sono la conoscenza che permette ai produttori di generare maggiore abbondanza con meno risorse. La domanda è ora, come tenere in moto questa crescita?

L’evoluzione del liberalismo: la nicchia

Solo trentacinque anni fa, 350.000 persone vivevano in una città costiera sul Golfo persico. Oggi, quella popolazione è lievitata a 3 milioni. Con una così sbalorditiva prosperità, Dubai ha cambiato la sua costa e ha aggiunto terra artificiale, edifici e porti. Un’immediata implicazione del successo? Fare di più

Costituire nicchie è sempre stata una delle vie più proficue per portare a una crescita economica mai concepita. I critici sostengono che l’ordinamento liberale sia stato guidato principalmente da una setta politica chiamata “Washington Consensus”. Tuttavia, risulta che molti dei cambiamenti siano stati presi da saggi competenti internamente a paesi in via di sviluppo, probabilmente meravigliati dal fantastico rendimento di economie di nicchia come Hong Kong. Quella città-stato, costruita su un’isola rocciosa, è stata lasciata a prosperare in una struttura di ottime regole gestita dal Segretario delle finanze britannico, Sir John Cowperthwaite.

“Sono arrivato a Hong Kong e ho trovato un’economia che funzionava correttamente. Perciò l’ho lasciata com’era”, ha detto prima della sua morte. Le semplici regole del governo disinteressato di Cowperthwaite al tramonto dell’Impero britannico hanno dato origine a una splendente città-stato che il mondo oggi ammira.

Da quando la piccola città irlandese di Shannon ha istituito la prima speciale zona economica (SEZ) del mondo nel 1959, altri paesi hanno seguito adattandosi. La Cina sotto Deng Xiaoping ha istituito alcune tra le più profittevoli SEZ del globo, includendo la sua prima, Shenzhen, nel 1979. Altri hanno copiato. La loro prestazione ha trainato più persone fuori dalla povertà di qualsiasi altra riforma nella storia dell’uomo.

Il lato negativo delle SEZ tradizionali, tuttavia, è che la maggior parte permettono solamente un’esenzione da tasse e dazi. Per tutti gli altri problemi maggiori, includendo la risoluzione di dispute commerciali, si necessita ancora di aver a che fare con stati agitati e a volte corrotti. (Dubai ha evitato questo problema stabilendo un sistema di risoluzione delle dispute commerciali chiamato DIFC, che sostanzialmente importa la Common Law del Regno Unito).

Con la SEZ tradizionale, non si è sullo stesso piano per vedere i tipi di sperimentazione necessari per scoprire nuove idee di governo. La maggior parte delle SEZ ha modelli che, nonostante funzionino, mantengono alcuni dei più corrosivi aspetti del neoliberalismo ibrido, la cui corruzione (ancora una volta) è stata predetta dai liberali.

Libere città private: il prossimo passo

Nell’interesse della piena divulgazione, non sono solo un appassionato difensore delle giurisdizioni speciali, sto dirigendo un’organizzazione che aiuterà a portare queste libere città private alla luce. E sì, le negoziazioni con i governi interessati sono già cominciate.

Perciò, cos’è una libera città privata? Si immagini una compagnia privata che offre gli stessi servizi di base di uno Stato, come la protezione della vita, della libertà e della proprietà all’interno di un territorio. Viene pagato una certa spesa per quei servizi. I diritti e gli obblighi sono stabiliti in un contratto con il fornitore. I conflitti sulla sua interpretazione vengono gestiti da una mediazione indipendente. Così, in quanto parte del contratto, si è sullo stesso piano del fornitore di servizi governativo. La propria posizione legale è assicurata, piuttosto che essere soggetta ai capricci della politica.

Perché le Libere città private a fronte di un classico modello di governo? Ci sono 6 ragioni:

  1. Certezza. L’operatore cittadino non può stabilire il contratto unilateralmente. Le chiare, stabili e comprensibili regole del gioco (risultato di un contratto stilato tra il cittadino e la città) si riducono a quello che l’economista Robert Higgs ha definito “incertezza del sistema politico“. Una tale chiarezza e stabilità rende più facile che gli investitori mandino capitali a supporto delle nascenti imprese.
  2. Ricorso. Sotto la condizione di “immunità sovrana” i cittadini hanno poco ricorso quando la polizia o le autorità abusano del loro potere. Il governo giustifica la sua autorità appellandosi a un astratto “contratto sociale“. Nuovi governi rivendicando mandati per il cambiamento, possono rendere la vita difficile alle persone ordinarie e alle aziende. La loro unica rivalsa è pregare per il cambiamento al prossimo ciclo di elezioni, se ce n’é uno. In una Libera città privata, il contratto è reale.
  3. Grandezza. Qual è la dimensione ottimale dell’ordinamento? Quanto dovrebbero essere estese demograficamente le Libere città private? Le risposte a queste domande sono dibattibili, ma quando si considera che alcune tra le società più stabili e prosperose sono piuttosto ristrette, come Hong Kong, Dubai e il Lussemburgo, c’è un grande sbilanciamento anedottico in favore di governi bottom-up e sviluppati specificatamente per il luogo.
  4. Competizione: la differenza tra un insieme di piccoli ordinamenti e uno massiccio e monolitico è che, nel primo, si ottiene il pluralismo, la sperimentazione e la competizione. In breve, se non ti piace Hong Kong puoi scegliere di cambiare rotta.
  5. Sperimentazione. Il premio Nobel laureato in economia Douglass North ricorda che “l’organizzazione che nasce rifletterà le opportunità date dalla matrice istituzionale”. A seconda delle regole, è più facile ottenere più pirateria o più produttività. Ma per trovare quella che funziona meglio è necessario provare diversi esperimenti.
  6. Responsabilità. Gli incentivi per gli operatori delle Libere città private sono radicalmente differenti dagli stati ereditari. Per prima cosa, l’operatore ha interessi economici diretti nel successo della comunità. Secondo, l’operatore può essere ritenuto responsabile per gli errori e non può nascondere la responsabilità o i costi di spostamento. Alla fine, i clienti insoddisfatti se ne andranno.

Non mi illudo che le parole “libero” e “privato” portino con sé certi stigmi. Tuttavia, quando si considera che il privato in questo contesto significa fornitura su base contrattuale sia di beni privati che locali, molti pregiudizi dovrebbero sparire.

Fattibilità

Alcuni potrebbero dire che tutto questo sia solo un desiderio. Dopotutto, perché dovrebbero voler essere coinvolti gli stati esistenti, il cui consenso è necessario? Come con le Libere città imperali nel Medioevo, c’è una sola ragione: l’interesse personale. Gli stati potrebbero anche accettare di cedere parte (non tutta) della loro sovranità su un determinato territorio se ne traessero beneficio. E ne trarrebbero.

Si guardi Hong Kong, Singapore o Monaco. Vicino a ciascuna è cresciuta una cintura di prosperità negli stati confinanti. I loro abitanti pagano le tasse negli stati confinanti. Le città-stato creano posti di lavoro anche per i pendolari dagli stati confinanti che magari rimarrebbero disoccupati. Se una Libera città privata è creata in un’area precedentemente inabitata o strutturalmente debole, allora lo stato ospite non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare.

Ci potrebbero essere circostanze in cui le Libere città private siano una soluzione credibile, come l’istituzione di zone di sicurezza o città per i rifugiati in zone di precedente guerra civile. In quei casi potrebbe essere ancora meglio affidare l’amministrazione della zona a un’entità imparziale e responsabile.

Il liberalismo sotto assedio

Sembrerebbe che oggi l’ordine liberale sia assalito dai lupi. Premature reminiscenze del ventesimo secolo, autoritari sia nazionalisti che socialisti che attaccano da tutti i lati. Ma l’evoluzione del liberalismo può bilanciare i problemi di entrambi, lasciando spazio sia alla autodeterminazione culturale che al comsmopolitismo; una robusta vita commerciale e protezione per i deboli.

Lo scrittore Zach Beauchamp difende l’ordinamento liberale abilmente a Vox:

“Appurato che le persone saranno sempre in disaccordo sulla politica, l’obiettivo principale del liberalismo è di creare un meccanismo generalmente accettabile per risolvere le dispute politiche senza l’uso di coercizione non necessaria. Dare a tutti la possibilità di esprimersi nel governo per mezzo di procedure giuste, per fare in modo che i cittadini acconsentano all’autorità dello stato anche quando non sono d’accordo con le sue decisioni”.

E questo modo di affrontare il pluralismo è sempre stato una forza dell’ordinamento liberale, finché quelle procedure giuste non sono state accantonate. Il prossimo passo dell’evoluzione liberale arriverà migliorando le procedure.

In questo modo, la privatizzazione della legge, per piccole e sperimentali giurisdizioni come le Libere città private, sarà l’ultimo passo del liberalismo. La legge verrà testata all’interno di un paesaggio idoneamente evolutivo, cosicché solo le leggi buone sopravvivano.

Alcuni direbbero che questa forma di liberalismo sarebbe utile solo a frammentare ulteriormente le società. Io rispondo che nel processo di creazione di nuove nicchie, stiamo cercando forme di governo che daranno alla luce società stabili che accolgano differenti concezioni del bene. Dopotutto, nessuna soluzione è quella corretta per tutti. Ed è precisamente per questo che il liberalismo diventa quella sovrastruttura che unisce le diverse comunità, culture e relazioni commerciali.

Nessun’altra forma di governo può pretendere ciò. Ed ecco perché nessun’altra forma trionferà nel lungo termine.

 

Traduzione a cura di Francesco Dalla Bona

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Cos’è una libera città privata?

Immaginate che un’azienda privata vi offra i servizi di base di uno Stato, ovvero la protezione della vita, della libertà e della proprietà in un territorio definito. Per questi servizi pagate un certo importo all’anno. I vostri rispettivi diritti e doveri sono stabiliti in un accordo scritto tra voi e il fornitore. Per tutto il resto, fate quello che volete. In questo modo, siete una parte contraente su un piano di parità con una posizione legale garantita, invece di essere soggetti alla volontà del governo o della maggioranza che cambia sempre. Ne diventate parte solo se vi piace l’offerta.
Analizziamo il mercato della governance: gli stati esistono, almeno in parte, perché c’è una domanda per loro. Uno Stato che funziona offre un quadro stabile di legge e ordine, che permette la coesistenza e l’interazione di un gran numero di persone. Questo è talmente attraente che la maggior parte delle persone è disposta ad accettare in cambio limitazioni significative della propria libertà personale. Probabilmente anche la maggior parte dei nordcoreani preferirebbe rimanere nel proprio Paese, piuttosto che vivere liberi ma soli come Robinson Crusoe su un’isola remota. Gli esseri umani sono animali sociali.

Tuttavia, se si potessero offrire i servizi di uno Stato ed evitare i suoi svantaggi, si potrebbe creare un prodotto migliore. Ma dopo decenni di attività politica, sono giunto alla conclusione che la vera libertà, nel senso di volontarietà e autodeterminazione, non può essere raggiunta armeggiando con gli Stati esistenti attraverso il processo democratico. Semplicemente non c’è abbastanza domanda per questi valori. Tuttavia, qualcuno potrebbe offrire questo come prodotto di nicchia per le parti interessate. Potrebbe essere possibile per le aziende private fornire tutti i servizi necessari che il governo normalmente monopolizza. Io ho avviato una società di questo tipo: Free Private Cities Ltd (freeprivatecities.com).

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IL MERCATO DELLA CONVIVENZA
Tutto ciò che sappiamo dal libero mercato potrebbe essere applicato a quello che io chiamo il “mercato della convivenza”: lo scambio volontario (compreso il diritto di rifiutare qualsiasi offerta), la concorrenza tra i prodotti e la conseguente diversità della gamma di prodotti. Un “fornitore di servizi statali” o “fornitore di servizi governativi” potrebbe offrire un modello specifico di convivenza all’interno di un territorio definito e solo coloro che amano l’offerta vi si stabiliscono. Tali offerte devono essere attraenti, altrimenti non ci saranno clienti.
E questa è esattamente l’idea di una Città Privata Libera: un’impresa privata volontaria, a scopo di lucro, che offre protezione per la vita, la libertà e la proprietà in un determinato territorio – migliore, più economica e più libera dei modelli statali esistenti. La residenza dipenderebbe da un rapporto contrattuale predefinito tra i residenti e il gestore. Monaco è oggi molto vicina ad una Città Libera Privata: Sovrana, competitiva e volontaria.

Una Città Libera Privata come la propongo io si basa sui seguenti principi:
1) Ogni residente ha il diritto di vivere una vita indipendente senza l’interferenza di altri.
2) L’interazione tra i residenti avviene su base volontaria, non basata sulla coercizione. La partecipazione e la permanenza nella Città Libera Privata è strettamente volontaria.
3) I rispettivi diritti degli altri devono essere rispettati, anche se non si ama il loro stile di vita o il loro atteggiamento.
4) Esiste una completa libertà di parola con una sola eccezione: Se si promuove l’espropriazione o la violenza contro gli altri, bisogna andarsene. La critica pura e semplice di altre persone, ideologie, religioni, ecc. deve essere accettata: “Sentirsi oltraggiati” non giustifica alcuna limitazione della libertà di parola.
5) Il gestore della Città Libera Privata garantisce un quadro normativo stabile e un’infrastruttura di base, che comprende l’istituzione di una polizia, i vigili del fuoco, il soccorso d’emergenza e, inoltre, l’istituzione di un quadro giuridico e di tribunali indipendenti, in modo che la proprietà della proprietà sia registrata in modo vincolante e i residenti possano far valere le loro legittime rivendicazioni in un processo regolamentato, se non sono in grado di accordarsi sull’arbitrato.
6) Il quadro di riferimento è stabilito tra i residenti e il gestore in un contratto che detiene tutti i rispettivi diritti e obblighi. Ciò include il corrispettivo per ogni abitante per i servizi del gestore. Ogni residente ha diritto all’esecuzione del suo contratto e può chiedere il risarcimento dei danni per inadempimento. Questo contratto è fondamentalmente la propria “costituzione” personale, che è superiore a tutte le costituzioni esistenti, poiché non può essere modificato unilateralmente in seguito, né dal gestore né dalla maggioranza dei voti.
7) Tutti i residenti adulti sono responsabili delle conseguenze delle loro azioni, non la “società” o il gestore. Anche in questo caso, non esiste un “diritto umano” a vivere a spese degli altri.
8) I conflitti di interesse tra residenti o tra residenti e l’operatore sono negoziati da tribunali indipendenti o da tribunali arbitrali. Le loro decisioni devono essere rispettate. Vale a dire, i conflitti con l’operatore, ad esempio per quanto riguarda l’interpretazione del contratto, vanno all’arbitrato, non ai tribunali dell’operatore.
9) Non vi è alcun diritto legale ad aderire alla Città Libera Privata. L’operatore può rifiutare i candidati a sua discrezione. Le persone che dichiarano apertamente opinioni non compatibili con una società libera, ad esempio socialisti, fascisti o islamisti, o noti criminali, non saranno ammessi.
10) Ogni residente può rescindere il contratto in qualsiasi momento e lasciare di nuovo la città, ma l’operatore può – dopo un periodo di prova – cancellarlo solo per giusta causa, come per violazione delle regole di base.

Le città private gratuite non sono intese come un rifugio per i ricchi. Se gestite correttamente, si svilupperebbero sulla falsariga di Hong Kong, offrendo opportunità sia ai ricchi che ai poveri. I nuovi residenti che sono disposti a lavorare ma senza mezzi potrebbero negoziare un rinvio dei loro obblighi di pagamento, e i datori di lavoro che cercano una forza lavoro potrebbero assumere i loro obblighi contrattuali di pagamento. L’incentivo per il gestore di una Città Libera Privata sarebbe il profitto: offrire un prodotto attraente al giusto prezzo.

Questo includerebbe alcuni beni pubblici, come già detto, nonché alcune infrastrutture, un ambiente pulito e una serie di regole sociali, ma il servizio principale dell’operatore è quello di garantire che l’ordine libero non venga disturbato e che la vita e la proprietà dei residenti siano sicure. In pratica, l’operatore può garantire questo solo se è in grado di controllare chi sta arrivando (prevenzione) e ha il diritto di buttare fuori i disturbatori (reazione). Per tutto ciò che va oltre questo quadro, ci sono imprenditori privati, assicurazioni e gruppi della società civile.
Naturalmente, tutte le attività terminano quando i diritti degli altri vengono violati. Oltre a questo, il correttivo corretto è la concorrenza e la domanda.

CONCORRENZA E USCITA
La minaccia della concorrenza porterà una protezione sufficiente ai residenti? Considerate questo: il Principato di Monaco è una monarchia costituzionale. Esso concede zero diritti di partecipazione politica ai residenti senza cittadinanza monegasca – circa l’80% della popolazione, me compreso. Ciononostante, ci sono molti più candidati alla residenza di quanto possa richiedere il piccolo mercato immobiliare di questo piccolo luogo (due chilometri quadrati). Perché è così? Tre motivi: a Monaco non ci sono imposte dirette per i privati, è estremamente sicuro e il governo vi lascia in pace.

Se il Principato di Monaco cambiasse questa situazione, le persone si sposterebbero in altre giurisdizioni. Così, nonostante la posizione formale di grande potere del principe, la concorrenza con le altre giurisdizioni – non la separazione dei poteri, non una costituzione e non il voto – garantisce la libertà dei residenti.
Simile nelle libere città private: se il fornitore del governo si attiene ai suoi pochi fondamentali ambiti, non c’è bisogno di partecipazione politica. L’idea è di avere la massima autodeterminazione possibile, non di garantire la massima partecipazione. Di conseguenza, non c’è bisogno neanche dei parlamenti. Piuttosto, tali organi rappresentativi sono un pericolo costante per la libertà, poiché gruppi d’interesse speciali li dirottano e li trasformano inevitabilmente in negozi self-service per la classe politica.

La concorrenza si è dimostrata l’unico metodo efficace nella storia dell’umanità per limitare il potere. In una libera città privata, il contratto e l’arbitrato sono strumenti efficaci a favore dei residenti. Ma in ultima analisi, sono la concorrenza e la possibilità di una rapida uscita che garantiscono che l’operatore rimanga un fornitore di servizi e non diventi un dittatore.
Una Città Libera Privata non è un’idea utopica e costruttivista. Si tratta piuttosto di modelli di business i cui elementi sono già noti e che vengono semplicemente trasferiti ad un altro settore, ovvero il mercato della convivenza. In sostanza, l’operatore è un mero fornitore di servizi che stabilisce e mantiene il quadro entro il quale la società può svilupparsi, con esito aperto. L’unico requisito permanente a favore della libertà e dell’autodeterminazione è il contratto con l’operatore.

Solo questo contratto crea obblighi obbligatori: ad esempio, i residenti possono concordare l’istituzione di un consiglio. Ma anche se il 99% dei residenti sostiene l’idea e si sottomette volontariamente alle decisioni del consiglio, questo organismo non ha il diritto di imporre le sue idee al restante 1%.Pensate a idee come il finanziamento di una piscina pubblica, un sistema di sicurezza sociale o la fissazione di un salario minimo. E questo è il punto cruciale, che ha fallito regolarmente nei sistemi passati e presenti: la garanzia permanente della libertà individuale.

COME INIZIARE
Per avviare questo progetto è necessario garantire l’autonomia dalle sovranità esistenti. Non deve necessariamente comportare una completa indipendenza territoriale, ma deve includere il diritto di regolare gli affari interni della città. La creazione di una Città Libera Privata richiede quindi prima un accordo con uno Stato esistente. Lo Stato genitore concede all’operatore il diritto di istituire una Città Libera Privata e di stabilire regole proprie all’interno di un territorio definito, idealmente con accesso al mare e precedentemente disabitato.

Gli Stati esistenti possono essere venduti su questo concetto quando possono aspettarsi di trarne benefici. Le quasi-città stato di Hong Kong, Singapore e Monaco hanno un cordone di aree densamente popolate e ricche adiacenti ai loro confini. Queste aree fanno parte degli stati genitori e i loro residenti pagano le tasse alla madrepatria. Ora, se tali strutture si formano intorno a un’area precedentemente sottosviluppata o non popolata, questo è un guadagno per lo stato madre. Negoziare con un governo per rinunciare a una parziale sovranità non è certamente un compito facile, ma è a mio avviso più promettente dei tentativi di “cambiare il sistema dall’interno”. Le città private gratuite sono molto più di una bella idea per poche persone ai margini. Hanno il potenziale per sottoporre gli stati esistenti alla distruzione creativa.

Se le Città Libere Private si svilupperanno in tutto il mondo, metteranno gli stati sotto una notevole pressione per cambiare i loro sistemi verso una maggiore libertà, altrimenti potrebbero perdere cittadini ed entrate. E questo è proprio l’effetto positivo della concorrenza che finora è mancato nel mercato statale. Non tutte le Libere Città Private devono conformarsi alle mie regole ideali. Sono concepibili città specializzate che offrono previdenza sociale o che si occupano di specifiche preoccupazioni religiose, etniche o ideologiche. In questo quadro, anche i socialisti sarebbero liberi di cercare di dimostrare che il loro sistema, fatto a regola d’arte, funziona davvero. Ma questa volta una cosa è diversa: nessuno sarebbe costretto a soffrire di questo (o di qualsiasi altro) esperimento sociale. La sovrastruttura dell’associazione di volontariato permette a molti sistemi diversi di prosperare.

Data la partecipazione volontaria, tutto è possibile. Questa semplice regola ha il potenziale per disarmare e trasformare anche un’ideologia totalitaria in un unico prodotto tra tanti. Credo fermamente che le libere città private o regioni autonome simili siano inevitabili. Le persone di tutti i gruppi sociali ed economici non accetteranno per sempre di essere saccheggiate, maltrattate e trattante con sufficienza dalla classe politica, senza mai avere una scelta significativa. Le Città Libere Private sono un’alternativa pacifica e volontaria che può trasformare le nostre società senza rivoluzione o violenza – o addirittura senza il consenso della maggioranza. La mia ipotesi: vedremo la prima Città Libera Privata nei prossimi dieci anni.
Spero di vedervi lì.

Traduzione a cura di Gianmaria Dinaro

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Costruire le città del futuro

In che modo le nuove tecnologie e i nuovi modelli di gestione trasformeranno radicalmente la gestione cittadina da come noi la conosciamo.
Quando giunge il momento di aggiornare il modo in cui agiscono, i governi sono in ritardo rispetto alle organizzazioni private. Mentre le aziende rinnovano costantemente i loro modelli organizzativi, la maggior parte delle città è ferma a strutture governative secolari. Ma cosa potrebbe succedere se potessimo gestire le città come fossero delle compagnie?

Le nuove strutture legali potrebbero essere viste come social technologies. Pensiamo a Smart City e a piattaforme di E-Governance come al lato hardware. Per esempio, la distribuzione elettrica, l’illuminazione e i servizi di trasporto sono tutti diventati più efficienti grazie all’innovazione. Abbiamo potuto vedere molti progressi nei servizi cittadini, ma non nel modo in cui le città sono gestite e funzionano.

In altre parole, la legge e l’amministrazione sono i sistemi operativi delle città che, tuttavia, non vengono aggiornati da molto tempo. Quello su cui dovremmo focalizzarci, allora, è il lato software. Però, non servirà a molto se abbiamo piattaforme digitali del ventunesimo secolo ma sistemi legali del diciannovesimo. Siamo ancora in ritardo. Il problema è che le nostre strutture giuridiche sono troppo rigide per essere innovate. Se vogliamo che il governo sia più innovativo, dovremmo osservare come le startup innovano. “Sono piccole, sperimentali, e responsive”, dice Max Borders, autore di The Social Singularity. “Se falliscono, forniscono un precedente da cui imparare; se hanno successo, le startup creano ricchezza”.

Borders è parte del movimento Startup Societies, che richiede più sperimentazione nell’ambito della governance. La piccola nazione di Liberland, il modello abitativo galleggiante ideato dal Seastanding Institute, e le charter cities americane fanno tutte parte di questa categoria. Per quale motivo? Perché hanno una cosa in comune: stanno provando a portare competizione nella sfera pubblica trattando la gestione statale come un fenomeno di mercato.
A qualcuno ciò potrebbe sembrare una posizione abbastanza radicale, ma consideriamo che questo sta già accadendo in una certa misura.

Le Associazioni dei padroni di casa (HOAs) e i condomini sono in continua crescita negli Stati Uniti, sia per quanto riguarda i residenti che per l’offerta di servizi proposta. Città innovative come Sandy Springs in Georgia hanno provato che è possibile avere una gestione privata dei servizi cittadini. Inoltre, molte SEZ (Special Economic Zones) hanno anche implementato servizi di sicurezza privati.

Con il numero di SEZ in crescita, la possibilità di esperimenti territorialmente limitati per quanto riguarda la gestione governativa sta aumentando. In giro per il mondo, almeno l’80% percento di tutti i paesi ha una SEZ di qualche tipo. Alcuni paesi hanno addirittura più SEZ, in competizione l’una con l’altra. È solo una questione di tempo prima che una compagnia privata lanci il suo prototipo di città.

Alcuni già si stanno avventurando in questo campo…
Come, per esempio, Titus Gebel, CEO di Free Private Cities. Gebel sta tentando di realizzare l’idea di città gestite come se fossero business. Per farlo, ha cercato di stabilire una speciale zona autonoma gestita da una compagnia, che secondo lui porterà lo spirito imprenditoriale nella gestione pubblica.

“Questo è un modello completamente nuovo del vivere insieme. Queste città avranno un incentivo economico ad essere innovative. Invece di essere soffocate da regolazioni obsolete, gli innovatori potranno agire in un quadro legale adattato ai loro bisogni. In questo modo si crea ricchezza” dice Gebel.

Gebel ha avuto la possibilità di lavorare con alcune delle ultime tecnologie per l’e- governance, incluse quelle che stanno venendo sviluppate per i progetti di zone autonome in America centrale. Questi modelli usano blockchain come un metodo per provare transazioni immobiliari, andate molto oltre la tradizionale proprietà.

“I proprietari possono commerciare direttamente tra loro gli spazi aerei e le quote di emissione, senza il bisogno di un intermediario statale”, fa notare. “Nella sfera pubblica, stanno avvenendo dei cambiamenti strutturali” , aggiunge Gebel. “Tecnologie rivoluzionarie, come blockchain, stanno ingrandendo la sfera della decentralizzazione, della trasparenza e dell’auto-determinazione. Questo influisce sul modo in cui concepiamo le città.”

La decentralizzazione sicuramente sembra il nuovo imperativo. Gebel e altri stanno già seguendo progetti con questo approccio, come l’ Ulex Open Source Legal System, che è essenzialmente un cloud per la Common Law. Un altro esempio è Bitnation, che emette passaporti per i cittadini del mondo e permette giurisdizioni non territoriali. Anche la gestione sta venendo influenzata dalle nuove forme organizzative come Holacracy.

Gebel è ottimista per quanto riguarda l’uso di registri distribuiti per una maggior partecipazione privata alla governance:“La possibilità di stabilire contratti quando ci si occupa della gestione di una città semplifica la vita e la rende meno burocratica. Per esempio, le tecnologie dei registri distribuiti rendono inutili notai, pubblici addetti e fanno risparmiare tempo nei passaggi di proprietà; più si può decidere da soli, meno si ha bisogno di rappresentanti statali, che, come si sa, nel tempo tendono a fare i loro interessi

Ma Gebel è scettico nel vedere questi sistemi come unico fattore di sviluppo in questo settore. Pensa che ciò comporterà un cambiamento epocale nel passaggio da strutture legali imposte dall’Ancien Régime, a quelle audaci e adattive tipiche di un settore gestionale competitivo.
Tutto ciò funzionerà? Solo il tempo ce lo potrà dire. Ma il futuro del settore governance sta cambiando sotto i nostri occhi – e i sindaci potrebbero non gradirlo.

 

Traduzione a cura di Gabriele Pierguidi

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L’Amazzonia brucia, e non è colpa di Bolsonaro

In questi ultimi giorni i comodi salotti degli ambientalisti d’Europa sono stati agitati e sconvolti da un’allarmante notizia, l’Amazzonia, il “polmone verde del mondo” sta bruciando ad un ritmo preoccupante. I colpevoli? Molti. Quel fascista del presidente brasiliano Bolsonaro, il cambiamento climatico, il capitalismo, il patriarcato bianco eterosessuale, il neoliberismo, la famiglia Rothschild e Donald Trump sono stati tutti avvistati sul luogo del misfatto armati di taniche di benzina e fiammiferi, intenti a bruciare la più grande foresta del mondo per costruire la loro nuova villa con piscina.

L’Amazzonia vista in questi giorni da Brasilia

Ironia a parte, il dibattito sul tema si è subito caratterizzato per il livello di disinformazione totale; e mentre i luoghi comuni piovevano sui social come grandine ad Agosto, chiunque abbia tentato – anche vagamente – di dissentire è stato immediatamente additato come: fascista, nazista, servo del capitale, eccetera. Cos’è dunque che è sfuggito riguardo al delicato problema della deforestazione e degli incendi in Brasile?

È un’emergenza straordinaria?

No.

Secondo i dati della INPE (Istituto Nazionale di Ricerche Spaziali), che da anni monitora l’avanzamento del disboscamento e il numero incendi nell’Amazzonia, il numero di incendi che ha colpito quest’anno l’Amazzonia fino al 27 di agosto è assolutamente nella norma.

Si noti invece il preoccupante picco avvenuto negli anni 2000 – 2007, quando al potere c’era il socialista Lula del Partito dei Lavoratori (stranamente di boicottaggi e attacchi internazionali allora però non se ne videro). In quegli anni il Brasile affrontò davvero una situazione di emergenza nazionale, caratterizzata però da un numero di incendi doppio rispetto al 2019.

Se andiamo ad osservare la serie storica dei dati sul numero di incendi in un anno, i risultati sono simili: il 2019 non si dimostra un anno particolarmente preoccupante, per ora (anche se il picco del numero di incendi si registra tra agosto e settembre). Si noti che i dati sono aggiornati al 27 di agosto 2019, quindi includono tutto il periodo della fantomatica “emergenza”.

Inoltre, potrebbe essere ulteriormente utile andare a confrontare il dato di agosto 2019 con la media del numero di incendi nello stesso periodo, con il massimo e con il minimo.

Come si può vedere, il numero di incendi in Brasile nel mese di agosto 2019 è addirittura inferiore alla media.

Il numero di incendi in Brasile, in particolare in Amazzonia, è tuttavia effettivamente aumentato rispetto all’anno scorso. Questo è innegabile.

Questo aumento, significativo, ma non eccezionale, ha tuttavia una spiegazione scientifica ben precisa, che i canali di informazione mainstream spesso si “dimenticano” di menzionare. Il 2019 è stato caratterizzato dal fenomeno climatico noto come El Niño, ovvero un aumento della temperatura della fascia equatoriale dell’Oceano Pacifico. Tale fenomeno comporta una riduzione delle precipitazioni nel bacino dell’Amazzonia, quindi una maggiore siccità. Di conseguenza la regione diventa molto più sensibile e soggetta ad incendi.

Come si può notare dal grafico, negli ultimi anni in cui si è verificato El Niño (2007, 2010), il numero di incendi è considerevolmente aumentato in Brasile. Il 2019 non è ancora finito, ci avviciniamo infatti al mese critico di settembre, ma ad oggi il trend nel numero di incendi non è allarmante.

E si noti ancora come, nonostante El Niño, il numero di incendi verificatisi prima del mese di agosto 2019 resti decisamente inferiore rispetto al 2007 e al 2010.

Per concludere, vorrei sottolineare come questa situazione di fantomatica “emergenza” non stia colpendo solo il Brasile, ma anche alcuni dei paesi confinati tra cui soprattutto Bolivia e Paraguay.

Bensì, buona parte degli incendi in Amazzonia ha origine proprio al confine della Bolivia, dove i narcotrafficanti sfruttano la siccità della stagione calda (agosto-settembre) per dare alle fiamme ampie porzioni di foresta per poi costruirci piste di atterraggio clandestine da cui far decollare illegalmente i carichi di cocaina.

Proprio la Bolivia infatti in questi giorni sta affrontando una situazione di reale difficoltà. Il numero di incendi che ha colpito il paese fino al 27 di agosto è infatti ben superiore alla media stagionale:

Tuttavia, la comunità internazionale non si è scagliata contro l’eco-socialista Morales né ha lamentato come le sue azioni mettano a repentaglio il “polmone verde” del mondo, ignorando tra l’altro che sia stato proprio lo stesso Morales ad aver aperto alla deforestazione dell’Amazzonia boliviana, con un decreto sovrano di inizio luglio 2019.

C’entra la deforestazione?

No.

La cosa più fastidiosa del dibattito di queste ultime settimane è stata la quantità di fake news circolate in giro. Si è sentito di tutto:

“Bolsonaro ha dato il via ad una massiccia deforestazione”

“Bolsonaro ha emanato decreti per lo sfruttamento dell’Amazzonia”

“Bolosnaro è stato personalmente visto munito di motosega nell’Amazzonia ad abbattere alberi per farci stuzzicadenti”

In primis, da quando è entrato in carica Bolsonaro non ha modificato le normative ambientali brasiliane, che anzi restano le più rigide al mondo.

Basti pensare che in un paese ricoperto al 65% da vegetazione e foresta tropicale chiunque acquisti una certa quantità di terreno in Amazzonia è obbligato per legge a mantenere inviolato l’80% della sua proprietà. Vuol dire che il suddetto contadino potrà coltivare o lavorare solo il 20% del terreno che acquista, pena la confisca del terreno stesso da parte dello Stato.

In secondo luogo, la deforestazione nella foresta amazzonica (salvo piccole fluttuazioni su base annuale) è diminuita progressivamente nel corso degli anni. Di seguito sono riportati gli ultimi 20 anni di dati dell’INPE:

Ora, i dati sulla deforestazione non tengono conto della superficie di foresta tropicale persa a causa degli incendi. Ma per fortuna l’INPE ci fornisce anche quelli (purtroppo solo dal 2002, ma aggiornati a fine luglio 2019):

Come si può vedere il 2019 non risulta particolarmente preoccupante né per quanto riguarda la deforestazione né per quanto riguarda gli incendi. Certamente ci si aspetta che la serie negativa aumenti con i dati definitivi di agosto e di settembre, ma come già evidenziato dai dati precedenti sul numero di incendi, nulla fa presagire un anno straordinariamente negativo.

Si noti quindi il totale di superficie di foresta persa per deforestazione e incendi fino a fine luglio 2019:

Certo, quel dato aumenterà. La stagione secca è appena iniziata, ma di nuovo non c’è alcuna evidenza empirica che supporti l’esistenza di una qualche emergenza. Si confronti il 2019 con altri due anni caratterizzati da El Niño, il 2007 e il 2010.

Per concludere, si noti come dal 1977 ad oggi (la deforestazione è aumentata vertiginosamente fino al 2004) la superficie coltivata del Brasile non sia aumentata più di tanto. Mi domando allora se le “lobby dei germi di soia” non stiano allora forse bruciando e coltivando l’Oceano Atlantico.

L’Amazzonia è il “polmone verde” del pianeta?

No.

In questi giorni si è diffusa forse la più grande di tutte le bufale sull’Amazzonia: quella per cui questa contribuirebbe da sola alla produzione del 20% dell’ossigeno del pianeta. Tralasciando il fatto che la maggior parte dell’ossigeno della Terra (il 50-70%) è prodotto dalla fotosintesi delle alghe oceaniche, l’Amazzonia, che non è una foresta in crescita, produce tanto ossigeno quanto ne consuma per i naturali processi di decomposizione; molto probabilmente essa è – al netto della quantità d’ossigeno richiesta -addirittura una consumatrice di O2, ovvero consuma più ossigeno di quel che produce, rilasciando CO2 nell’atmosfera.

E la Francia?

Il più acceso critico nei confronti del Brasile e del presidente Bolsonaro è stato proprio il presidente Francese Emmanuel Macron, il quale a colpi di tweet ha accusato la sua controparte un po’ di tutti i mali di questo mondo.

Sempre Macron ha invocato quindi una risoluzione globale al problema, in un tentativo alquanto interessante di mettere il Brasile sotto pressioni internazionali.

Il paladino dell’ambiente cade in doppio errore pubblicando dati falsi e una foto non di quest’anno

Non mi spingo oltre per non dare troppa attenzione a chi non ne merita. Vorrei solo ricordare che la Francia – un paese che riceve 7 miliardi di finanziamenti europei all’agricoltura – nella figura del proprio presidente, potrebbe stare reagendo in modo poco entusiasta all’accordo UE – MERCOSUL, che allentando i dazi tra i due blocchi commerciali, permetterà ai prodotti agricoli brasiliani di invadere gli scaffali dei supermercati francesi a prezzi più competitivi.

Quindi?

Per concludere, la situazione è seria dal momento che probabilmente quest’anno si assisterà ad un aumento del numero di incendi.

Tuttavia, non è una situazione straordinaria né di emergenza. Il disboscamento è aumentato nel mese di luglio rispetto allo stesso mese del 2018, ma resta assolutamente in linea con i dati degli anni precedenti. La superficie totale di Amazzonia persa fino a fine luglio tra incendi e disboscamento è assolutamente sotto la media, soprattutto considerando il fattore El Nino, mentre i dati di agosto (aggiornati al 26) sul numero di incendi confermano la realtà di una situazione assolutamente nella media.

Le uscite infelici di Bolsonaro sono indifendibili, ma altrettanto indifendibile è la disonestà intellettuale di una classe politica europea, che dopo aver conquistato lo sviluppo economico disboscando il 70% delle foreste nazionali, vuole andare a fare la morale ad una nazione ricoperta al 65% da foresta tropicale e vegetazione, basandosi su: notizie false, tendenziose, e luoghi comuni.

Il Brasile resta una delle nazioni con le regolamentazioni ambientali più severe di questo mondo. Bolsonaro non ha ancora tentato di modificarle, e anche qualora volesse (e in tal caso ci sarebbe da chiedersi perché non l’ha ancora fatto) avrebbe bisogno dell’appoggio del parlamento, cosa tutt’altro che scontata. In Brasile di fascismi non se ne vedono, e la democrazia funziona come dovrebbe. In Europa, forse, un po’ meno.

Fonti:

http://queimadas.dgi.inpe.br/queimadas/portal-static/estatisticas_paises/ (Brasile)

http://queimadas.dgi.inpe.br/queimadas/portal-static/estatisticas_paises/ (Bolivia)

https://www.forbes.com/sites/michaelshellenberger/2019/08/26/why-everything-they-say-about-the-amazon-including-that-its-the-lungs-of-the-world-is-wrong/amp/?__twitter_impression=true

https://rainforests.mongabay.com/amazon/deforestation_calculations.html

https://rainforests.mongabay.com/amazon/deforestation-rate.html

http://www.ciflorestas.com.br/cartilha/reserva-legal_qual-deve-ser-o-tamanho-da-reserva-legal.html

https://qz.com/1694263/the-amazon-rainforest-wildfires-will-worsen-this-year/

Prima riordina la tua camera e poi cambia il mondo

Che tipo di programma politico puoi aspettarti da qualcuno che non sa nemmeno pianificare da solo il contenuto del proprio armadio?

In una ormai famosa puntata del podcast di Joe Rogan, lo psicologo Jordan B. Peterson ha sottolineato quanto sia strano che molti giovani impegnati politicamente siano preoccupati di riorganizzare la società e il sistema economico quando non riescono nemmeno a tenere in ordine le proprie camerette. Ha detto:

I giovani di 18 anni non possono trovare soluzioni all’economia, non sanno nulla dell’economia. È una macchina complessa che va oltre la comprensione di chiunque. Sanno almeno riordinare la propria stanza? No. Beh, ci pensino. Dovrebbero pensarci, perché se non riescono nemmeno a pulire la loro stanza, chi diavolo sono loro per dare consigli al mondo?

In realtà, come dimostrarono i filosofi dell’economia Ludwig Von Mises, Friedrich Von Hayek e Leonard Read, l’economia di mercato è così spaventosamente complessa che neanche un pianificatore centrale onnisciente, perfetto e virtuoso (presumibilmente con una squadra tecnica immacolata) saprebbe pianificarla centralmente. Dunque, cosa possiamo aspettarci da qualcuno che neanche sa mettere in ordine il proprio armadio?

Eppure, molti giovani sono appassionati dall’idea di “cambiare il mondo” e sono profondamente negligenti con il loro piccolo angolo di mondo, la loro stanza. Questo approccio alla vita è una ricetta per l’angoscia e la depressione. Voler cambiare cose che non puoi cambiare porta a sentimenti di frustrazione e impotenza. Trascurare le cose che puoi cambiare, invece, porta alla stagnazione e alla crisi.

La prescrizione del Dr. Peterson per questo disturbo è la seguente:

La mia sensazione è che se vuoi cambiare il mondo, devi iniziare da te stesso e poi lavorare verso l’esterno, in questa maniera potrai sviluppare le tue competenze

Peterson continua:

Il mondo è presentato come una serie di enigmi, alcuni dei quali sei in grado di risolvere e altri che non puoi risolvere. Hai molti enigmi davanti a te che puoi risolvere, ma decidi di non farlo. Queste sono le cose che pesano sulla tua coscienza (…)

Perché la domanda è: quanto stiamo contribuendo al fatto che la nostra vita è una catastrofe esistenziale e una tragedia? Quanto contribuisce questa nostra corruzione a tutto ciò? Questa è una domanda che vale davvero la pena di porsi.

Le cose che tu decidi di non fare. Perché sei arrabbiato, sei risentito o sei pigro. Bene, consulta la tua coscienza e dille: “Beh, sai, in quel posto potrebbe esserci bisogno di un po’ di lavoro“. È come lavorare su te stesso. E così inizi pulendo la tua stanza, perché puoi. E poi le cose iniziano ad essere un po’ più chiare intorno a te. E tu stai un po’ meglio, perché ti sei esercitato. E sei anche un po’ più forte. E poi qualcos’altro si manifesta e dice: “Beh, forse puoi anche provare a riparare questo o quello“. Quindi decidi di farlo e anche questo diventa un altro piccolo risultato raggiunto…

… e poi magari imparerai abbastanza in questa maniera, che potrai risolvere i problemi della tua famiglia, e dopo averlo fatto, avrai abbastanza carattere, cosicché quando cercherai di operare nel mondo, nel tuo lavoro, o forse nelle sfere sociali più ampie, sarai una forza positiva anziché un danno.

Il messaggio di Peterson, “pulire la propria stanza”, ha colpito molti giovani ed è diventato virale. Innumerevoli ascoltatori di Peterson hanno riferito di come le loro vite siano cambiate e di come tutto sia iniziato con la pulizia delle loro stanze.

Questo è ottimo anche per “l’economia” e “il mondo”, perché il miglioramento di questi concetti astratti consiste nel miglioramento delle vite individuali che li compongono. E un tale miglioramento individuale può realmente avvenire solo attraverso la responsabilità e l’azione dell’individuo.

Il consiglio di Peterson è di iniziare con poco: basta iniziare con la tua vita e il tuo dominio di competenza. Inoltre, Peterson consiglia di iniziare poco a poco nel senso di iniziare con compiti relativamente facili. La pulizia di un angolo della tua stanza può essere uno degli elementi più facili nella tua lista di cose da fare. Ma il fatto che sia facile lo rende un ottimo punto di partenza, dato che puoi davvero farlo anche se la tua forza di volontà non è particolarmente alta.

Una volta che lo fai, il piccolo senso di realizzazione si nutre della tua efficacia e ti dà abbastanza forza di volontà per fare qualcosa di un po’ più difficile: ad esempio, pagare una fattura. Raggiungere questo step rafforza ulteriormente la tua auto-efficacia, permettendoti di compiere un’impresa ancora più grande, e così via. Se ci stai, alla fine puoi aumentare il livello di difficoltà, migliorarti e ottenere cose davvero impressionanti nella tua vita e nella tua carriera. 

Traduzione di Alessio Cotroneo