Socialisti contro ricchi: la fobia del benessere

Le imprevedibili virtù dell’ignoranza

Le fila dei socialisti democratici statunitensi (liberal*, democratic socialists, social justice warriors, etc.) traboccano di personaggi tanto interessanti quanto ridicoli: Bernie Sanders, il multimilionario buon samaritano che predica l’uguaglianza e la redistribuzione dalla sua terza casa di proprietà da $600,000 [1]. La senatrice Elizabeth Warren, che per ottenere qualcosa dalla vita ha dovuto fingere di essere una nativa americana per poi essere pubblicamente svergognata dal recente test del DNA [2], e infine l’astro nascente dei guerrieri della giustizia sociale: Alexandria Ocasio-Cortez!

Questa giovane donna rappresenta la versione americana dei mali che da tempo affliggono il nostro paese: l’analfabetismo economico, l’idea “uno vale uno”, la totale assenza di vergogna o pudore nell’affermare incorrettezze, la fascinazione dell’ignoranza.

Ma come ha fatto una cameriera del Bronx – che nonostante una laurea in Relazioni internazionali accusa Israele di occupare militarmente la Palestina – non in grado di distinguere le tre funzioni dello Stato, a diventare la figura di riferimento della Sinistra radical-liberal* statunitense?

La ricetta economico-politica della Ocasio-Cortez è estremamente semplice quanto pericolosa: [3]

  • Assistenza sanitaria gratuita per tutti
  • Educazione gratuita per tutti
  • Reintroduzione del Glass-Steagal Act
  • Diritti delle donne e delle minoranze
  • Salario minimo di 15 $/h aggiustato al tasso di inflazione
  • Lotta al cambiamento climatico (il ridicolo Green New Deal)
  • Lotta alle armi
  • Abolizione dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement)
  • Ritiro delle truppe dal Medio Oriente

Come al solito un bel programma, pieno di proposte che vanno al cuore degli elettori, al punto che sorprende non trovare l’abolizione della fame nel mondo, la fine di tutte le guerre, e unicorni-arcobaleno per tutti.

Tuttavia, nonostante la varietà di ideali, questo progetto rimane drammaticamente povero in contenuti, povero in dati, e dal costo economico spropositato. La domanda è semplice: chi pagherà i 33 TRILIONI di dollari che Medicare For All – da solo – potrebbe costare solo nei primi dieci anni? [4]

Ovviamente i più ricchi, il Top 1%, che negli ultimi trent’anni avrebbe mangiato in testa al povero lavoratore americano. La proposta della Ocasio-Cortez è quindi naturale: introdurre una nuova aliquota fiscale marginale del 70% sulla parte di reddito eccedente i 10 milioni di dollari, che metterà finalmente fine ai tempi d’oro in cui l’1% più ricco pagava molto meno del restante 99%.

O forse no.

No. Perché tutti i dati economici mostrano in realtà esattamente l’opposto.

 

Cosa dicono i dati?

I dati dell’IRS (Internal Revenue System, l’Agenzia delle Entrate statunitense) mostrano come nel 2014 i 400 maggiori contribuenti americani per reddito (i Top 400) abbiano versato quasi 30 miliardi di dollari in tasse, il 2.13% del totale delle tasse federali per il 2014, con una media di 75 milioni di dollari a testa, coprendo di fatto DA SOLI il budget annuale della NASA e dell’EPA (Ente Protezione Ambientale). [5][6]

Osservando il grafico inoltre, si può notare come questa percentuale sia più che raddoppiata negli anni, passando dall’1.04% del 1992, al 2.13% del 2014, aumentando nonostante il taglio delle tasse sui redditi più alti, operato da George W. Bush nel 2003; in quegli stessi anni (2003-2007) il contributo dei Top 400 crebbe considerevolmente piuttosto che diminuire.

Un altro dato estremamente interessante è quello secondo il quale, sempre secondo l’IRS, negli ultimi anni, nonostante il livello di tassazione sui redditi più alti sia progressivamente diminuito dal 1945 ad oggi, il contributo totale del Top 1% sia vertiginosamente aumentato fino a superare definitivamente quello del Bottom 90%. In poche parole, l’1% della popolazione americana paga più tasse del 90% dell’intera popolazione messa insieme. E si noti sempre come il tax-cut di Bush nel 2003 non abbia minimamente fatto diminuire il contributo dell’1% più ricco, ma al contrario l’abbia incrementato. [7]

Al giorno d’oggi l’1% più ricco paga il 40% del totale delle tasse sul reddito. Ma il dato diventa ancora più significativo se consideriamo quello che in America viene definito il Top 5%, il secondo gruppo dei più “privilegiati”: la classe media-alta. Questi due gruppi combinati, il Top 1% e il Top 5%, contribuiscono da soli per il 60% del totale delle tasse versate allo Stato americano. [8]

E sempre i dati dell’IRS ci mostrano come i redditi più alti non solo contribuiscono in modo straordinario alle entrate, ma pagano anche molto di più in percentuale rispetto ai redditi più bassi. Al punto che il 50% dei contribuenti versa il 97.3% delle tasse. [8]

La progressività del sistema fiscale americano è rimasta invariata negli ultimi 30 anni (quando non è addirittura aumentata) nonostante la progressiva diminuzione delle aliquote sui redditi più alti, e anzi, come abbiamo visto, il contributo del Top 1% è aumentato significativamente fino ad arrivare al 40% del totale delle tasse versate in un anno. E solo nel 2006 le politiche fiscali statunitensi hanno redistribuito circa 1.4 trilioni di dollari dal 40% più ricco al 60% più povero, mentre le diseguaglianze nella distribuzione del reddito si sono stabilizzate. [8] [9]

Inoltre, per comprendere la completa follia della proposta della Ocasio-Cortez di un’aliquota marginale al 70% sulla parte di reddito eccedente i 10 milioni di dollari l’anno basta analizzare le prospettive di gettito fiscale aggiuntivo che questa potrebbe generare.

Secondo un recente studio della Tax Foundation, un’aliquota marginale del 70% applicata ai redditi oltre i 10 milioni di dollari l’anno porterebbe infatti nelle casse dello Stato americano 291 miliardi di dollari nel periodo 2019-2028 a fronte di una spesa di 32.6 trilioni nello stesso periodo solo per la prima delle promesse elettorali, Medicare For All, l’assistenza sanitaria gratuita e universale. [10]

A peggiorare questa abissale disproporzione tra gettito aggiuntivo e nuova spesa, si consideri che i risultati di questa politica fiscale potrebbero essere decisamente inferiori, dal momento che un simile aumento esponenziale dell’aliquota massima potrebbe scoraggiare i contribuenti a dichiarare o realizzare livelli di reddito superiori ai 10 milioni di dollari l’anno.

 

La parola ai fatti, non alle buone intenzioni

In conclusione, nessun sistema fiscale è perfetto, ma la storia degli ultimi decenni di quello statunitense è la storia di una semplice ricetta economica che ha funzionato: più bassa è la pressione fiscale, più tasse vengono pagate (dai più ricchi in primis), più l’economia cresce. Infatti, una pressione fiscale accettabile non solo non scoraggia il contribuente, costringendolo a limitare le sue prospettive di crescita per evitare il passaggio all’aliquota successiva, ma permette una maggiore immissione di liquidità nell’economia reale sotto forma di spesa e investimenti, gli unici due fattori in grado di supportare un crescita solida nel lungo periodo.

Le politiche e le proposte della sinistra liberal americana sono dettate da una precisa agenda fondata sull’invidia sociale, l’odio di classe, e la finta giustizia sociale, condite dalla più assoluta ignoranza economica e dal rifiuto dei dati empirici.

Questa agenda mira alla distruzione della più florida economia mondiale e dell’unica nazione fondata su una promessa di Libertà: è infatti evidente che la dittatura economica a cui mirano i Democratic Socialists sia solo l’anticamera della dittatura morale dello Stato etico e del politicamente corretto, a cui segue necessariamente la morte del diritto di parola e della libertà espressione.

 

 

 

 

 

*con il termine statunitense liberal si indica una corrente politica che in Europa verrebbe definita “socialista”. Il termine liberal non ha alcuna affinità con il Liberismo economico, il Liberalismo classico, o il Libertarismo americano.

FONTI:

[1] https://www.washingtonexaminer.com/bernie-sanders-slams-billionaires-gets-reminded-he-owns-3-houses

[2] https://www.foxnews.com/politics/warren-expressing-concern-about-releasing-dna-analysis-on-native-american-heritage-report-says

[3] https://ocasio2018.com/issues

[4] https://www.bloomberg.com/news/articles/2018-07-30/study-medicare-for-all-bill-estimated-at-32-6-trillion

[5] https://www.cato.org/blog/taxes-tippy-tippy-top?fbclid=IwAR1SWwcNuR-7aHT_kIb8FcHV7RzUUmYOsN99l_Cnvo-zFgI7dXI82vzWFTI

[6] https://www.irs.gov/statistics/soi-tax-stats-top-400-individual-income-tax-returns-with-the-largest-adjusted-gross-incomes

[7] https://taxfoundation.org/top-1-percent-pays-more-taxes-bottom-90-percent/

[8] https://taxfoundation.org/summary-latest-federal-income-tax-data-2016-update/

[9] https://taxfoundation.org/official-statistics-inequality-top-1-and-redistribution/

[10] https://taxfoundation.org/70-percent-tax-analysis/

 

N.B. tutti i dati della Tax Foundation sono dati ricavati dal sito dell’IRS, consultabili attraverso i link riportati in fondo agli articoli in citazione.

Stipendio Minimo, ossia come affossare il mercato del lavoro

Breve storia della follia socialista

Negli ultimi 20 anni i movimenti liberal* e progressisti statunitensi hanno chiesto al Congresso, sempre più insistentemente, prima l’approvazione, poi l’aumento, del Minimum Wage, il salario minimo garantito. Nel 2009, sotto la presidenza di Barack Obama è stato stabilito a livello federale un salario minimo garantito di $7,25 all’ora. Nonostante questo provvedimento drastico e discutibile, dal 2009 in poi, sempre più numerosi membri della sinistra americana sostengono che $7,25 non siano sufficienti e che, addirittura, bisognerebbe raddoppiare il Minimum Wage, portandolo a $15,00/h.

La sinistra liberal, i progressisti, e il partito Democratico in primis, credono che questa misura sia efficace e fondamentale per:

  • ridurre la povertà
  • ridistribuire ricchezza
  • garantire la possibilità di vivere dignitosamente anche lavorando full-time a salario minimo
  • creare posti di lavoro
  • aumentare la quantità di denaro circolante (e quindi i consumi)
  • ridurre i programmi di assistenza sociale

 

Questo provvedimento, come tutte le crociate di giustizia sociale, presenta tuttavia dei gravi difetti. Si concentra infatti sui risultati nel breve termine, è un salasso economico per le piccole-medie imprese. Inoltre distorcendo completamente il mercato e le sue leggi, ottiene l’effetto opposto ai propositi di partenza:

  • non riduce la povertà, la accresce
  • non ridistribuisce la ricchezza, la riduce
  • non crea posti di lavoro, crea disoccupati

 

Perché solo 15$/h? Perché non 45$/h?

Per capire l’errore di fondo del Minimum Wage e le sue nefaste conseguenze dobbiamo prima ricordare qual è il significato del salario.

Siamo pagati per i benefici e i miglioramenti che apportiamo alla società in termini materiali o morali. Lo stipendio, in quanto corrispettivo di questo miglioramento, tiene conto della complessità della mansione svolta, del relativo rischio, della sua unicità o peculiarità. È quindi evidente che un lavoratore scarsamente qualificato debba necessariamente avere uno stipendio inferiore rispetto a uno altamente qualificato. Questo non per fare un torto, ma perché la sua specifica mansione potrebbe essere svolta da una qualunque persona con una preparazione minima e senza particolari titoli di studio.

 

L’errore del Minimun Wage

Il Minimum Wage è una radicale distorsione delle necessità di mercato, della legge della domanda e dell’offerta e perfino dell’umano buon senso. Se l’attuale salario minimo di 7,25$/h è un provvedimento discutibile, 15$/h sarebbero un colpo devastante anche per un mercato del lavoro mobile ed elastico come quello statunitense. I più importanti difetti di questa misura sono:

  • aumento radicale del costo del lavoro e della manodopera
  • onere pesantissimo, soprattutto per le piccole-medie imprese
  • obbligo per i datori di lavoro di ridurre le ore di lavoro dei dipendenti per contenere i costi di produzione
  • fine per i giovani delle possibilità di trovare facilmente uno “starting job” ed inserirsi nel mondo del lavoro
  • contrazione della domanda di manodopera e aumento della disoccupazione
  • chiusura di attività produttive perché nell’impossibilità di sostenere l’aumento dei costi di produzione
  • ricorso a macchine per sostituire la manodopera umana ormai troppo cara

 

Per concludere, vorrei ricordare una delle più profonde e significative argomentazione della sinistra americana a favore del Minimun Wage, e cioè che chiunque, lavorando full-time da McDonald’s, dovrebbe essere in grado di condurre una vita dignitosa. Nonostante il lavoratore abbia tutta la mia simpatia, il problema è che, in un mercato del lavoro flessibile ed insaziabile come quello americano, in cui il tasso di disoccupazione ha toccato i minimi storici del 3,5%, non si dovrebbe anche solo lontanamente credere che McDonald’s possa o debba offrire posti di lavoro che permettano di vivere dignitosamente lavorando 40 ore a settimana.

 

 

*con il termine statunitense liberal si indica una corrente politica che in Europa verrebbe definita “socialista”. Il termine liberal non ha alcuna affinità con il Liberismo economico, il Liberalismo classico, o il Libertarismo americano.

 

 

Giù le mani da Isacco: la religione del privato cittadino

Dio vive, Isacco è morto.

Il libro della Genesi (22, 1-19) ci offre il racconto ben noto del sacrificio di Isacco da parte di Abramo.

“Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò»”

Meno nota è l’analisi della figura e del gesto di Abramo, portata avanti anche dal filosofo Søren Kierkegaard nel suo capolavoro Timore e Tremore. Abramo infatti rappresenta perfettamente la Religione (e sia chiaro ogni Religione) prima dell’avvento del secolo dei Lumi e in particolar modo della filosofia di Kant. Il patriarca è l’uomo di fede ciecamente devoto alla chiamata di Dio, che non esita a sacrificare nemmeno il suo unico figlio.

Per chiarezza è opportuno ricordare che Abramo divenne padre in tarda età, quando ormai aveva perduto ogni speranza di vedere continuata la sua stirpe. Sua moglie Sara infatti era vecchia e sterile. Quest’unico figlio, Isacco, fu un autentico dono di Dio, e tuttavia, Abramo è pronto ad ucciderlo.

Certamente non vuole, ma accetta di compiere il gesto orrendo, perché Dio glielo ha chiesto. Sarà poi un angelo del Signore a fermare la mano di Abramo prima che cali il pugnale sul corpo inerme del figlio.

Søren Kierkegaard vide in Abramo l’incarnazione del suo ideale dell’uomo religioso, la terza possibilità di esistenza della filosofia del danese (vita estetica – vita etica – vita religiosa). Abramo infatti è l’uomo che vive la sua Fede come esperienza totalizzante. Non è sfiorato dal dubbio, dalla critica morale o etica. Non si interroga sulla “moralità” del suo atto, e non mette in dubbio la richiesta di Dio.

Abramo vive la Religione come un sistema assoluto fuori dalla possibilità di giudizio del Singolo, o della Società, che si impone con forza su qualsiasi sistema etico umano. In questo racconto dunque la volontà di Dio trionfa sulla Legge degli uomini, sui valori della famiglia, e sulla Morale.

 

Dio svanisce, Isacco vive.

Il progetto di vita religiosa di Kierkegaard si rivelò sostanzialmente fallimentare perché questa mentalità era già stata superata da anni grazie all’avvento della filosofia di Immanuel Kant. Dopo Kant nessuno si sognò più di provare a dimostrare l’esistenza di Dio o di principi metafisici, che proprio in quanto tali sono inconoscibili da parte dell’uomo.

Dio dunque, in quanto ente metafisico per eccellenza, è inconoscibile e la sua stessa esistenza non è dimostrabile. Di conseguenza la morale individuale dell’uomo, che è fondata su principi universali e necessari ed è superiore a Dio, trionfa sul precetto religioso.

 

Dio è morto, Isacco vive.

Mostrandoci il predominio della morale individuale sulla religione, Kant diede inconsapevolmente inizio a quel “processo filosofico” che in un secolo porterà Nietzsche ad affermare: “Dio è morto”. Dio è morto perché l’uomo si è trovato nel nulla del nichilismo passivo. L’età della tecnica ha trionfato e qualsiasi velleità di metafisica è stata definitivamente cancellata. Il Dio di Abramo e di Isacco è morto perché l’umanità, stanca del sacrificio del povero Isacco, lo ha ucciso.

È dunque giunto il momento della filosofia del mezzogiorno, il momento degli spiriti liberi e dei giovani leoni, che si liberano dal giogo millenario della Religione, “il drago d’oro che dice all’uomo: «Tu devi»”. Dopo secoli di teocrazia mascherata, l’uomo riconosce la sua Libertà e riconduce Fede e Religione alla sfera privata, accettando il mistero personale che riguarda il metafisico. Forse l’aveva già detto in modo migliore a suo tempo il filosofo Ludwig Wittgenstein:

“Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”

Privatizzazioni e monopoli: a sbagliare è sempre lo Stato

Nazionalizziamo!1!!111!

Il tragico avvenimento del crollo del ponte Morandi a Genova si è purtroppo trasformato nel pretesto ideale per la boriosa massa degli statalisti feroci per chiedere a gran voce la nazionalizzazione delle autostrade italiane.

Il presunto fallimento del gestore privato è dunque la riprova definitiva del fallimento del liberismo, del regime di concorrenza perfetta, delle privatizzazioni. Il mercato ha fallito e lo Stato deve tornare ad essere proprietario e gestore delle infrastrutture nazionali (cosa che detta dai fautori del NO categorico ad ogni investimento per le grandi opere fa già abbastanza ridere).

Inoltre, è di questi giorni la notizia che il Regno Unito, dopo le privatizzazioni “selvagge” operate dal governo Thatcher, sta riconsiderando la nazionalizzazione del sistema ferroviario britannico. Non è forse questa la prova definitiva del fallimento del privato? Non è forse questo il segno definitivo della necessità dell’intervento dello Stato nella gestione delle infrastrutture (prima) e dell’economia (dopo)?

Beh, no.

Il principale errore dello statalista (o del socialista/comunista) medio è credere questo: gli infami Liberali sono per la privatizzazione indiscriminata a prescindere. Tutto questo nel nome del guadagno indiscriminato, senza alcuna preoccupazione per le conseguenze che il povero cittadino dovrà subire (i.e. il crollo di un ponte). Se potessero infatti privatizzerebbero anche l’aria.

Niente di più sbagliato.

Cosa dice il Liberalismo classico

Ogni Liberale classico crede che lo Stato debba avere un ruolo minimo nell’economia. Deve infatti garantire che le infrastrutture fondamentali per lo sviluppo del tessuto economico nazionale siano costruite. Poi lo Stato deve delegarne la gestione a più privati (come non è stato fatto in Italia). Tutto questo all’interno di un regime di concorrenza perfetta (come non è successo in Italia) per garantire la possibilità di scelta e il miglior servizio possibile al cittadino (certamente non in Italia).

Basta guardare la concessione firmata nel 2007 dal governo Prodi, che ha dato ad Autostrade per l’Italia la gestione delle infrastrutture nazionali, per capire che di tutto si è trattato, tranne che di libero mercato. Il regime creato è stato un monopolio a gestore unico, senza concorrenza. La revisione del contratto è praticamente impossibile. Insomma, è stata l’ennesima porcata all’italiana che ha visto il trionfo di un capitalismo marcio di Stato, cosa che susciterebbe giustamente la più assoluta indignazione di ogni Liberale.

Per spostarci all’estero, andando a guardare all’iter di privatizzazione delle ferrovie britanniche negli anni ’80, si può riscontrare un fenomeno analogo. Si è privatizzato, ma non si è liberalizzato.

Ora, lo sciacallaggio di governo ha approfittato di questa tremenda tragedia per lanciare una proposta dal sapore di IRI 2.0 (tra l’altro proprio l’IRI costruì il ponte Morandi nel ’67). La risposta al fallimento del concordato Stato – industriali (che ripetiamo non ha niente a che vedere con un regime di libero mercato) non sta nel nazionalizzare. Riuscite ad immaginare l’intera rete autostradale nazionale gestita dall’ANAS come la Salerno-Reggio Calabria? Trent’anni di cantieri? Continui ritardi? Disagi inimmaginabili? Miliardi di euro dei contribuenti sacrificati sull’altare dell’inefficienza pubblica? Ma manco per sogno.

Liberalizzare per il bene del cittadino

La soluzione è unica ed evidente, ma questo paese la rifiuta categoricamente sin dall’era giolittiana. Deve finalmente cessare lo sporco connubio tra Stato e industria. Privatizzando un settore dell’economia senza liberalizzarlo si finisce semplicemente per passare dal monopolio statale a quello privato. Solo un regime di perfetta concorrenza, con lo Stato relegato alla giusta dimensione di arbitro, può garantire uno sviluppo efficiente delle infrastrutture nazionali. Vogliamo un sistema efficiente e che funzioni, al servizio del cittadino. Non vogliamo che il contribuente venga sfruttato come finanziatore né dello spreco statale né di accordi secretati e monopolistici.

 

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Come il Presidente americano NON viene eletto dal popolo

Ancora una volta un presidente non eletto dal popolo”. Quante volte abbiamo sentito pronunciare queste parole? E perché ultimamente anche gli Stati Uniti d’America, la nazione del presidenzialismo per eccellenza, hanno cominciato a mettere in dubbio l’ordine costituzionale ereditato dalla lungimiranza dei padri fondatori?

In Italia, negli ultimi sette anni, quello del “presidente non eletto dal popolo” è stato uno dei principali cavalli di battaglia del Movimento 5 Stelle nella loro critica al sistema politico del Belpaese. Negli USA invece, dopo la sconfitta alle elezioni presidenziali del 2016, i Democratici hanno sostenuto con forza la necessità di abolire una volta per tutte i collegi elettorali e il sistema dei grandi elettori.

In Italia, Silvio Berlusconi fu il primo nel 2006 a tentare di riformare la Costituzione in senso federalista per superare il bicameralismo perfetto e soprattutto per aumentare i poteri del premier (il famoso premierato), ma fallì: il popolo respinse il progetto con il referendum costituzionale del 2006. Caduto il governo Berlusconi nel 2011, il governo Monti fu da subito additato come l’incarnazione del male assoluto, il tecnico non eletto dal popolo, servo dell’Europa e dei tanto famosi, quanto misteriosi, “poteri forti”.

Vent’anni di berlusconismo avevano riproposto al paese quell’immagine nostalgica dell’uomo forte, capace di governare da solo e senza dover scendere a compromessi, che mancava da decenni. L’Italia infatti, salvo il fascismo e la DC delle elezioni del 1948, non aveva mai visto un solo partito conquistare la maggioranza assoluta di voti e seggi. Siamo sempre stati il paese delle coalizioni, del Pentapartito. Caduto Berlusconi, la possibilità di un governo di larghe intese sembrava dunque un sacrilegio. Ed è proprio in questi anni che la cantilena del “premier non eletto dal popolo” cominciò a diffondersi.

Le ultime elezioni poi hanno visto la formazione dell’ennesima legislatura senza maggioranza assoluta, e con un gesto di coerenza stoica, l’accordo di governo tra due forze politiche che si erano presentate in liste diverse ci ha consegnato l’ennesimo premier non eletto dal popolo. Ma il popolo non elegge il premier, come molti, troppi si ostinano a credere. Per la nostra Costituzione, l’elettore è chiamato a rinnovare il Parlamento ogni 5 anni. Poi, il presidente della Repubblica indica un premier incaricato che deve formare un governo e presentarsi davanti alle Camere per ottenerne la fiducia.

Negli Stati Uniti invece, dopo le elezioni del 2016 è iniziato un acceso dibattito circa il superamento del sistema elettorale corrente basato sul collegio elettorale, l’Electoral College. Infatti, l’elettore americano, quando si reca ogni quattro anni alle urne, non elegge direttamente il presidente (come molti erroneamente credono), ma vota per eleggere i grandi elettori, 538 rappresentanti divisi tra i vari Stati, che “promettono” di votare un determinato candidato alla presidenza (ma non sono legalmente obbligati a votare per un determinato candidato).

Questo peculiare sistema elettorale winner-takes-all (per cui il partito vincitore in un determinato Stato ottiene tutti i grandi elettori dello Stato) non è puramente proporzionale, e presenta degli innegabili vantaggi, poiché da un lato concede anche agli Stati più piccoli di avere un certo peso politico, e dall’altro permette un maggiore controllo sull’elezione del presidente da parte dei grandi elettori.

Infatti, nelle intenzioni dei padri fondatori, il presidente non doveva essere eletto direttamente dalla popolazione. Essa invece avrebbe dovuto eleggere come rappresentanti uomini validi, “grandi” elettori appunto, i quali avrebbero poi scelto il presidente della nazione, e se necessario, avrebbero potuto sovvertire il risultato dell’elezione popolare nel caso in cui il candidato vincente si fosse dimostrato incapace di svolgere il ruolo di presidente.

Le elezioni presidenziali del 2016 hanno visto il trionfo di Donald Trump, che è riuscito a conquistare 304 grandi elettori, strappando a Hillary Clinton e al Partito Democratico alcuni Stati chiave (Michigan, Pennsylvania, e Wisconsin) storicamente blue.

 

                                                        

 

A livello nazionale i risultati furono i seguenti:

  Donald Trump Hillary Clinton
Partito repubblicano democratico
Voti 62.984.825

46,1 %

65.853.516

48,2 %

Grandi Elettori 304

56,5%

227

42,2%

 

In un sistema proporzionale puro Hillary, che ottenne circa 2.800.000 voti (il 2%) in più di Trump, avrebbe vinto. Tuttavia, occorre considerare due dati:

  • La distribuzione dei voti per contea
  • La distribuzione dei voti per Hillary Clinton

Hillary (come più o meno ogni candidato democratico) vinse soprattutto nelle grandi città e nelle storiche roccaforti democratiche (California, East Coast, Oregon, New Mexico). La stragrande maggioranza delle contee americane votò repubblicano.

Il motivo per cui Hillary Clinton conquistò il voto popolare, ma perse le elezioni, è da ricercare proprio nel sistema elettorale americano. Dove vinse Hillary (soprattutto nelle città) vinse di molto, distaccando notevolmente il proprio avversario. Tuttavia, per questo sistema elettorale, è meglio vincere due Stati con il 51%, piuttosto che un solo Stato con il 90%.

E qui si scopre l’errore principale dei Democratici, che costò loro la vittoria: la decisione di non fare campagna elettorale nelle roccaforti storiche del midwest (Michigan, Winsconsin) o in Pennsylvania (che da quasi vent’anni votava blue). La vittoria di Trump in questi Stati, con margini di vantaggio relativamente modesti rispetto allo scarto tra Democratici e Repubblicani in California, gli fruttò 46 grandi elettori, che gli permisero di sconfiggere agevolmente l’avversaria.

 

                                      

 

L’anno dopo la sua sconfitta, Hillary Clinton cominciò a sostenere la necessità di abolire il sistema dei grandi elettori e dei collegi elettorali. Tuttavia, questo sistema (certamente imperfetto, perché la perfezione non è di questo mondo) è senza dubbio la soluzione migliore per gli US, perché tiene conto della partecipazione dei singoli Stati all’unione perfetta, cosa che verrebbe meno con un sistema proporzionale puro, e non permette alle grandi metropoli delle due coste e dei laghi (che comunque mantengono un peso politico enorme) di monopolizzare completamente il panorama politico statunitense.

Il presidente dunque non è direttamente eletto dal popolo perché così vollero, con un atto di grande lungimiranza, i padri fondatori, e il sistema elettorale non è un proporzionale puro per garantire una minima difesa degli interessi degli Stati meno popolosi, e tuttavia, come l’elezione di Obama nel 2008 e nel 2012 ci hanno mostrato, questo non è di alcun impedimento per l’elezione di un presidente democratico. Forse il Partito Democratico dovrebbe concentrarsi sui veri problemi che lo affliggono: la scelta di candidati pessimi e la pericolosa svolta a sinistra che il partito sta subendo.

Libertà individuale. Quanto viene sottovalutata?

“L’indipendenza individuale è il primo bisogno dei moderni (…) la vera libertà moderna. La libertà politica che ne è garante, è perciò indispensabile. Ma chiedere ai popoli di oggi di sacrificare come facevano quelli di una volta, la totalità della libertà individuale alla libertà politica è il mezzo più sicuro per staccarli dalla prima, per poi, raggiunto questo risultato, privarli anche dell’altra.”

Così affermava un grande promotore del pensiero liberale, Henri-B. Constant de Rebecque, in una sua celebre conferenza a Parigi. Constant, in questo suo breve pensiero, concentra tutta la sua attenzione su una questione che forse, oggi, si dà per scontata o ancor più, si tende a sottovalutare; la libertà individuale.

L’uomo “moderno”, può infatti definirsi tale, proprio perché titolare di una serie di diritti individuali che gli “antichi” certamente non vantavano.

Per diritto individuale si intende una insieme di prerogative, “innate” ma garantite anche costituzionalmente, di cui nessuno, astrattamente, potrebbe o dovrebbe essere privato. Il presupposto indispensabile per poter godere di queste prerogative risiede nel concetto di indipendenza, sinonimo a sua volta di auotodeterminazione.

Può definirsi moderno l’individuo italiano?

Considerando che attualmente, vige una visione secondo cui lo Stato, e non l’individuo, debba essere al centro della libertà politica, la risposta non può che essere negativa.

Legittimando lo Stato alla totale disciplina dei diritti individuali non si fa che aumentare il suo potere di regolamentazione e dunque, di “disposizione” degli stessi, lasciando all’individuo un esiguo margine di libertà.
Lo Stato si fa, così, garante delle masse ma nemico del singolo.

Constant, riaffermava ancora,

Il dispotismo statale non ha alcun diritto su ciò che è individuale, che non dovrebbe essere sottomesso al potere sociale”

Un chiaro esempio di quanto detto si raffronta nella questione dei diritti individuali concernenti la c.d. comunità LGBT, soggetta alla continua “demonizzazione” di una determinata espressione sessuale umana, considerata non su base volontaria e individualista ma su base collettivista.

Ancora una volta, collegandoci alle normativa sulle unioni civili, centro di molteplici discussioni e probabili rivisitazioni, le masse, e dunque lo Stato che se ne fa rappresentate, tendono ad imporre un dettame sociale dato per unico su una libertà individuale, limitando di fatto il potere del singolo sul proprio io e sulla propria vita privata. Si viola, cioè, l’essenza dell’intimità umana.

La libertà politica, in poche parole, nel contesto sopracitato, e in generale nel più ampio contesto italiano, non tutela più quella individuale ma la sacrifica e la assorbe piegandola a proprio piacimento.

Ma il diritto individuale non può per sua stessa natura discendere da una decisione autoritaria e, il più delle volte, anche arbitraria, non può essere alla mercé della maggioranza, della quale bisogna certo tenere conto ma senza assurde assolutizzazioni.

L’uomo moderno deve, in conclusione, riappropriarsi della propria “modernità” ossia, della propria indipendenza e ciò può farlo solo ponendo il diritto all’individualità come perno principale su cui basare il sostrato sociale, perché così facendo, non solo non si annienta il singolo ma si preserva anche l’idea stessa di collettività, rielaborata, appunto, come insieme di singoli differenti tra loro e non semplicemente come insieme omogeneo e standardizzato.

La libertà, dunque, di scegliere per sé piuttosto che quella di scegliere per gli altri.

La libertà di essere “io” tra gli “altri” piuttosto che la libertà di essere “io, come gli altri.”

 

Anna Faiola

Le 2 nazioni più liberali del mondo

Non c’è una nazione al mondo che riunisca la totalità del Liberalismo Classico.
Noi esseri umani non siamo perfetti né uguali, e per raggiungere il livello di funzionalità nell’ambito del Liberalismo, sarebbe necessaria un’egemonia culturale che -proprio per i principi liberali di tolleranza- non è possibile. Mentre i marxisti -e gli appartenenti ai filoni derivati- non si pongono alcun problema nell’imporre a milioni di individui connazionali la propria idea, sia con la forza, sia con la coercizione, sia con l’eliminazione.

Per fare un’analisi come quella proposta dobbiamo premettere che il liberalismo è una filosofia che difende la libertà in tutte le sue sfere, includendo aspetti economici, politici e sociali. Un’analisi olistica di tutte le aree, in cui la libertà deve essere presente e non solo limitata all’analisi parziale. A tal fine, dovrebbero essere considerati fattori come la libertà di stampa e di espressione in generale; la libertà di associazione; la libertà nei processi politici; il pluralismo politico e la partecipazione; il funzionamento del governo; lo stato di diritto, le libertà individuali in generale e la libertà economica.

Nuova Zelanda

Il paese più libero dell’Oceania occupava la quinta posizione nel 2016 e la tredicesima nel 2017 nella libertà di stampa (vedi il link); la stampa neozelandese è talvolta sottoposta a pressioni politiche che limitano l’accesso alle informazioni in determinate circostanze.

L’indicatore della Freedom House sulle libertà politiche elenca la Nuova Zelanda come un paese completamente libero in termini di libertà politiche e rispetto dei diritti umani. Questo fatto particolare è abbastanza rilevante considerando che la media della regione Oceania-Pacifico è solo del 38%.

La Nuova Zelanda è una monarchia costituzionale che risponde alla casa reale inglese, ma ha un proprio parlamento dal 1854 ed è totalmente indipendente dal parlamento inglese dal 1947.

Per quanto riguarda la questione economica, la Nuova Zelanda è classificata al 3 ° posto dell’Indice di libertà economica; superata solo da Hong Kong e Singapore. In questo indice ottiene una percentuale di libertà dell’84,2%, che è superiore al 59,7% della media globale ed è la ragione dell’evidente differenza con paesi come il Venezuela, dove questo indicatore raggiunge a malapena il 25,2%.

Svizzera

Eh sì, a due passi da noi c’è uno dei paesi più liberali del mondo.
Il paese che ci fa la concorrenza sul cioccolato è già molto famoso per le sue libertà e per i suoi comportamenti atipici rispetto al resto dei paesi del mondo. Immerso nell’Europa occidentale, tra Germania, Italia, Francia, Austria e Liechtenstein; non fa parte dell’Eurozona.

È una democrazia diretta che, nonostante abbia un sistema rappresentativo parlamentare, consente ai cittadini di presentare richieste referendarie che possano abolire le leggi approvate dai legislatori. Alcuni mesi fa, un referendum che proponeva l’introduzione di un reddito minimo pagato a ogni cittadino dallo Stato è stato respinto dall’80% della popolazione. È anche uno dei paesi con più armi al mondo, ma è riconosciuto fra quelli col livello più basso di criminalità.

La Svizzera occupa il 7 ° posto nella libertà di stampa nel mondo (vedi link). Il suo curriculum è  segnato unicamente da alcune restrizioni per la pubblicazione di informazioni trapelate sugli scandali riguardanti alcune banche.

Nelle libertà politiche, il continente europeo, secondo l’indicatore Freido Mouse, raggiunge un punteggio dell’86% in generale e del 66% nella libertà di stampa; e all’interno dell’Europa, la Svizzera è considerata un Paese completamente libero, messo in discussione solo da un referendum per il quale la costruzione di minareti nel paese è stata vietata.

In termini economici, la Svizzera è al 4 ° posto nel mondo (vedi link), con l’81.7% di libertà,  solo un posto sotto la Nuova Zelanda.

Quindi possiamo vedere come questi 2 paesi, che non sono al 100% liberi, hanno raggiunto una buona approssimazione all’ideale liberale.

Come abbiamo detto prima,  non possiamo pretendere di raggiungere -oggigiorno- una società perfettamente libera, perché avremo sempre la tendenza all’errore e alla stanchezza (caso classico della Svezia, che ha cambiato la sua società liberale in socialista, per poi invertire nuovamente il passo), ma almeno possiamo usare l’ideale come una guida che ci conduca a una società più libera e prospera e che possa assomigliare alla Nuova Zelanda e alla Svizzera, anziché al sogno socialista di paesi come Venezuela, Cuba o  Corea del Nord.

Scienza e Libertà: un rapporto complesso

Un breve excursus filosofico attraverso Comte, Mill e Bergson

Quando l’anno scorso, durante l’ennesimo scontro con un antivaccinista convinto, Roberto Burioni, per mettere a tacere l’insulso complottista, affermò che “la scienza non è democratica”, provai una certa estasi. Quella semplice frase, concisa ed efficace, rappresentava ai miei occhi il trionfo della Scienza e della Ragione sull’oscurantismo digitale 2.0, che sta cercando di mettere in dubbio uno dei più grandi successi della medicina moderna. Tuttavia, nel corso del tempo, ho avuto modo di ragionare sul significato profondo di quella frase. “La scienza non è democratica”.

Ho dunque realizzato di trovarmi totalmente d’accordo con questa affermazione se con essa si intende che in una discussione di argomento medico-scientifico, la mia opinione non può avere lo stesso valore di quella di un virologo del livello di Burioni. In medicina il mio “voto” non può (e non deve) contare quanto quello di una persona altamente qualificata; quindi in questo senso la Scienza non è assolutamente democratica.

Tuttavia, dietro al fatto che, giustamente, la Scienza non sia democratica si annida un problema che già Kant, quasi tre secoli fa, aveva dibattuto: quale Libertà può restare all’uomo in un sistema rigidamente deterministico? Ci sono infatti soltanto due modi di porsi nei confronti della Scienza:

  • Accettarla come Verità assoluta, incontestabile ed immutabile porta necessariamente alla naturale tendenza della Scienza a voler spiegare, e quindi determinare, ogni singolo aspetto della Vita umana: dalla coscienza, al destino del singolo individuo, che viene così privato di ogni libertà di azione e morale
  • Accettarla come momentanea interpretazione della realtà che ci circonda, sempre aperta al cambiamento, all’evoluzione e a nuove teorie, secondo la tradizione humiana-kantiana per cui le leggi scientifiche hanno valore solo ipotetico e probabile, permette al singolo di riconquistare la sua libertà, e conseguentemente sottopone la Scienza al giudizio morale

Positivismo e Riduzionismo

Nella seconda metà dell’800 Auguste Comte, discepolo di Henri de Saint-Simon, concepì quell’insieme di dottrine filosofiche che passarono alla storia con il nome di Positivismo. Egli era convinto che il progresso della razza umana sarebbe stato possibile solo affidandosi ciecamente alla Scienza, e riponeva in essa così tanta fede che negli ultimi anni della sua vita arrivò a fondare una “Chiesa positivista” con un suo catechismo. Per Comte il ruolo di una persona nella società era determinato biologicamente dal suo DNA, la coscienza e la psiche umana erano riducibili a semplici processi chimici a livello del cervello, le donne erano indiscutibilmente inferiori agli uomini perché un cervello femminile pesa meno di uno maschile, e aveva come massima ambizione scoprire una legge scientifica in grado di ridurre l’uomo, i suoi pensieri, la sua volontà e le sue azioni, a fenomeni fisici riconducibili alla Legge di gravitazione universale. Il Positivismo comtiano, e ancora di più quello tedesco, abbracciò di conseguenza il Riduzionismo materialistico e la sua dottrina:

  • Tutto è materia misurabile quantitativamente
  • Spirito, Morale e Metafisica non hanno più alcun valore
  • Ogni fenomeno può essere quantitativamente spiegato dalla Scienza
  • L’individuo è biologicamente determinato nella sua condizione (sono di questi anni degli studi di Lombroso, Darwin, Dalton e Spencer)

È evidente come dal punto di vista sociale non resti più alcuna Libertà. Se tutto è determinabile e determinato scientificamente, l’individuo non ha alcuna possibilità di scelta. La società teorizzata da Comte, convinto oppositore della democrazia, è uno dei primi esempi di Tecnocrazia capitalista-statalista (pre-keynesiana, giusto per intenderci), alla cui guida ci sarebbe dovuta essere una élite di scienziati.

John Stuart Mill e la libertà individuale

Contemporaneo di Comte e padre del liberalismo inglese moderno, John Stuart Mill ebbe come punti di riferimento la tradizione empiristica inglese di Bacone, Berkeley, Locke, Hume e l’Utilitarismo di Bentham. Mill, che pure riconosceva alle scienze un grandissimo valore, sottolineò, in aperto contrasto con le teorie di Comte, la necessità di arrivare alla Scienza attraverso un processo di induzione che partisse dai fatti. A suo avviso infatti, non possono esistere leggi scientifiche definitive, poiché l’Induzione si basa sull’esperienza, che può sempre essere contraddittoria. Pertanto, la soluzione all’apparente dicotomia tra Scienza e Libertà fu trovata da Mill nella Statistica. Essa infatti permette di postulare assiomi generali validi per gruppi di individui numerosi, senza escludere la possibilità di libertà individuale del singolo. Un esempio. Si consideri la frase: “è statisticamente provato che ogni anno a Londra vengano smarrite dal servizio postale circa 10.000 lettere”. L’asserzione statistica permette di formulare un’affermazione che descrive in modo efficace, probabile, e non deterministico, la realtà dei fatti. Tuttavia, non è detto che le 10.000 lettere perse ogni anno appartengano sempre alle stesse 10.000 persone; in questo modo la libertà individuale è garantita, ma il quadro complessivo della società è efficacemente descritto in termini probabilistici.

Bergson e il Naturalismo

Filosofo della reazione anti-positivistica di inizio ‘900, il pensiero di Henri-Louis Bergson fu talmente affascinante da meritare il Nobel per la Letteratura nel 1927. Egli rifiutò radicalmente sia il Meccanicismo darwiniano e positivistico, sia il Finalismo delle nuove correnti spiritualistiche del suo tempo, per teorizzare un nuovo approccio al problema della Vita: il Naturalismo bergsoniano. Bergson, proprio per difendere la libertà umana e il valore intrinseco della vita dal martello del Riduzionismo positivistico, sottolineò come la Scienza, in tutta la sua grandezza, fosse completamente incapace di spiegare i due aspetti più importanti dell’essere umano: la Vita, e la Coscienza. Esse sono due Unità, indivisibili, e pertanto non indagabili dalla Scienza, che con il metodo analitico finirebbe per distruggerle, dal momento che la somma di parti distinte non permette di ricostruire né la Vita, né la Coscienza. Bergson non nega a priori il valore della Scienza, ma critica aspramente la tecnica sterile, che senza il controllo dell’uomo risulta potenzialmente distruttiva. Per concludere, ricordiamo come Bergson abbia rigettato del tutto anche ogni Finalismo; nella sua filosofia l’Universo è animato da uno “slancio vitale” che deriva dalla Vita stessa, Unità originaria di cui l’uomo è Coscienza. Questa “evoluzione creatrice” crea costantemente e in modo imprevedibile, tuttavia senza un fine o un progetto definito, in un costante passaggio dal complesso al semplice, dalla Vita alla materia.