No, Churchill non fu il cattivo della Seconda guerra mondiale

Traduzione dell’articolo “No, Churchill Was Not the Villain“, Andrew Roberts, The Washington Free Beacon, 6 settembre 2024


Lo storico Darryl Cooper, in un’intervista al programma di Tucker Carlson, ha sostenuto che Winston Churchillè stato il principale cattivo della Seconda Guerra Mondiale”, il che sarebbe interessante, addirittura scioccante, se la sua tesi non si basasse su un’ignoranza e un disprezzo per i fatti storici così sconcertanti da poter essere completamente ignorati.

Il primo punto della tesi di Cooper è che Churchill “è stato il principale responsabile del fatto che quella guerra sia diventata ciò che è diventata, qualcosa di più grande di un’invasione della Polonia”. Eppure, nel momento in cui Adolf Hitler invase il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo all’alba del 10 maggio 1940, Winston Churchill non era nemmeno primo ministro. A meno che il signor Cooper non voglia sostenere che dalla sua posizione di Primo Lord dell’Ammiragliato – il capo della marina britannica – Churchill sia stato in qualche modo in grado di costringere Hitler a scatenare la guerra lampo in Occidente, la sua prima argomentazione crolla al suolo.

Hitler aveva pianificato il suo attacco a sorpresa attraverso le Ardenne – la manovra del “colpo di falce” – con alti generali come Erich von Manstein, Erwin Rommel e Gerd von Rundstedt molti mesi prima che l’attacco avesse luogo. Sono loro, e non Churchill, i responsabili “del fatto che quella guerra sia diventata ciò che è diventata”. Inoltre, hanno anche la piena responsabilità dell’invasione immotivata della vicina Polonia, su cui Cooper e Carlson hanno taciuto.

Nell’aprile del 1939, quando Churchill non era nemmeno nel gabinetto, il governo britannico si impegnò a difendere la Polonia. Hitler, quindi, non aveva alcun motivo di sorprendersi quando la Gran Bretagna entrò in guerra con la Germania dopo l’attacco di quest’ultima alla Polonia.

L’errore successivo di Cooper è stato quello di attribuire la colpa dell’Operazione Barbarossa alla percezione di Hitler di una minaccia da parte di Stalin, o di un piano sovietico per catturare i giacimenti petroliferi rumeni, ignorando completamente la vera ragione, che era la pretesa nazista del Lebensraum – “spazio vitale” in Europa orientale, specialmente in Bielorussia e Ucraina. Ci si chiede se Cooper abbia mai letto il Mein Kampf, in cui le intenzioni finali di Hitler erano chiare. In un’altra parte dell’intervista afferma in modo stravagante che Hitler “non pensava più alla Russia come a un movimento comunista internazionale”, il che contraddice tutte le prove delle dichiarazioni pubbliche e private di Hitler prima di scatenare il Barbarossa.

Cooper ha poi affermato che i milioni di prigionieri di guerra sovietici che morirono in prigionia tedesca lo fecero perché la leadership nazista “non aveva piani per i prigionieri di guerra”, ignorando il fatto ovvio, ben supportato dalle fonti, che in realtà la morte di milioni di prigionieri di guerra sovietici era il deliberato piano nazista su cosa fare con loro.

Cooper continua a criticare Churchill per non aver accettato le proposte di pace di Hitler durante lo stallo dall’ottobre 1939 al maggio 1940, affermando che Hitler “non voleva combattere contro la Francia o la Gran Bretagna”. Tuttavia, a quel punto aveva già invaso la Polonia e non aveva alcuna intenzione di liberarla, per cui il casus belli originario rimaneva.

La guerra era finita e i tedeschi avevano vinto nell’autunno del 1940”, afferma Cooper. Non è così. I tedeschi avevano effettivamente costretto i britannici a lasciare il continente a Dunkerque nel giugno 1940, ma la gloria eterna e incancellabile di Churchill sta nel fatto che egli mantenne la Gran Bretagna in guerra fino a quando il male nazista non fu estirpato. La guerra in mare continuava, così come quella sul litorale nordafricano. La Grecia entrò nel conflitto nell’aprile 1941, attirando le forze tedesche a sud due mesi prima dell’Operazione Barbarossa. La battaglia fu persa dalla Gran Bretagna, è vero, ma la guerra era tutt’altro che vinta da Hitler.

Le lamentele di Cooper sul fatto che Churchill rifiutò le offerte di pace di Hitler non tiene conto del fatto che se la Gran Bretagna avesse accettato una pace ignobile nel 1940, Hitler sarebbe stato in grado di concentrare tutte le sue forze a est nell’invasione della Russia nel giugno 1941. Invece, fu costretto a mantenere il 30% della Luftwaffe e considerevoli forze terrestri nella parte occidentale dell’Europa. Fu forse il più grande calcolo strategico di Churchill, quello di un eroe piuttosto che “il principale cattivo della Seconda Guerra Mondiale”.

Quando Cooper incolpa Churchill di aver “demonizzato [Neville] Chamberlain” nel 1940, presumibilmente ignora il fatto che Churchill chiese a Chamberlain di entrare a far parte del suo Gabinetto di Guerra, dove lavorò a stretto contatto e cordialmente con lui, e poi tenne uno dei suoi più grandi discorsi come elogio a Chamberlain nel novembre 1940.

Churchill voleva una guerra”, ha affermato Cooper. “Voleva combattere la Germania”. Non è così. Dal momento in cui Hitler salì al potere in Germania, Churchill avvertì della minaccia che i nazisti rappresentavano per la pace mondiale e di quanto l’Occidente fosse debole militarmente, ma la sua soluzione fu il riarmo, non la guerra. Aveva combattuto in trincea nella Grande Guerra e aveva perso troppi amici per volere un’altra guerra, ma era disposto a subirla se le uniche alternative erano il disonore e la vergogna.

Cooper ha poi sostenuto, sempre senza alcuna prova, che Churchill voleva la guerra perché “gli interessi a lungo termine dell’Impero britannico erano minacciati dall’ascesa di una potenza come la Germania”. Ancora una volta, non è così. Tutti gli alti responsabili politici britannici riconobbero che le minacce all’Impero provenivano dal Giappone in Estremo Oriente, dall’Italia fascista nell’Africa nord-orientale e dalla Russia nel Vicino Oriente. La Germania non aveva confini contigui con l’Impero britannico. Un’occhiata a una carta geografica avrebbe mostrato a Cooper questo fatto.

Ce l’ho tanto con Churchill [perché] ha tenuto in piedi la guerra quando non aveva modo di combatterla”, ha detto Cooper. “Aveva solo bombardieri”. Non è così. La flotta britannica all’epoca era la più potente del mondo e nella Prima Guerra Mondiale aveva bloccato la Germania in modo estremamente efficace. L’Impero stava inoltre fornendo un numero enorme di uomini per la causa della libertà, tanto che l’India aveva fornito la più grande forza di volontari nella storia dell’umanità. I caccia della Royal Air Force avevano vinto la Battaglia d’Inghilterra nel settembre 1940, nove mesi prima di Barbarossa.

Cooper accusa poi Churchill di aver scatenato un bombardamento terroristico sulla Germania, che definisce “il più grande attacco terroristico della storia mondiale”. A parte il fatto che l’offensiva combinata dei bombardieri non fu un attacco terroristico ma una legittima offensiva militare, e come dimostrano i documenti del Dipartimento di Intelligence della RAF sul bombardamento della Foresta Nera e molto altro, fu intrapresa solo dopo che Hitler e Göring avevano già bombardato Varsavia, Rotterdam e Londra. “Perché l’avrebbe fatto?”, ha chiesto incredulo Tucker Carlson. “Per ridurre la produzione bellica tedesca” sarebbe l’ovvia risposta.

Cooper ha detto correttamente che Churchill e la Gran Bretagna hanno fatto il possibile per coinvolgere gli Stati Uniti nella guerra, ma non ha sottolineato che tutti questi tentativi sono falliti e che è stata la dichiarazione di guerra di Hitler agli Stati Uniti l’11 dicembre 1941, quattro giorni dopo Pearl Harbor, a far entrare gli Stati Uniti in guerra.

Cooper ha fatto quello che Carlson ha definito “il sorriso più ironico che abbia mai visto” rispondendo alla domanda ingenua di Carlson: “Qual era il motivo di [Churchill]?” nel voler combattere la Seconda Guerra Mondiale. Il vero motivo era che Churchill sapeva di dover estirpare il nazismo, ma secondo Cooper era perché “Churchill ha una storia lunga e complicata” che aveva bisogno di “redenzione” perché “Churchill era stato umiliato dalla sua performance nella Prima guerra mondiale”.

Questa psicologia da quattro soldi non sta in piedi. Churchill nella Prima Guerra Mondiale è stato l’uomo che ha preparato la Royal Navy per la guerra, che ha trasportato l’intera Forza di Spedizione Britannica in Francia senza perdere un uomo nell’agosto del 1914, che ha difeso Anversa durante un periodo cruciale nell’ottobre dello stesso anno, che ha intrapreso 30 raid di trincea nella terra di nessuno come tenente colonnello e che è stato il ministro delle munizioni che ha fornito all’esercito britannico gran parte dell’armamento necessario per vincere nel 1918. L’idea che il disastro di Gallipoli, di cui Churchill fu in ultima analisi anche se non l’unico responsabile, gli abbia fatto sentire il bisogno di una “redenzione” un quarto di secolo dopo è una sciocchezza.

Cooper descrive poi Churchill come “uno psicopatico”, il che sicuramente dice di più sul suo stato mentale che su quello di Churchill. Prosegue con l’accusa che Churchill “era un ubriacone”, cosa che non era, anche se certamente beveva molto. Churchill era in grado di reggere l’alcol e durante la Seconda Guerra Mondiale si è ubriacato una sola volta, un risultato sorprendente se si considera la pressione a cui era sottoposto.

Era molto infantile sotto molti aspetti”, afferma Cooper dell’uomo che ha scritto 37 libri, ha formato due governi, ha avvertito dell’imminente guerra fredda nel suo discorso sulla cortina di ferro, e che tutt’oggi è simbolo di leadership. Quando Cooper vincerà il Premio Nobel per la Letteratura, come Churchill, sarò più propenso ad ascoltare le sue farneticazioni.

Cooper ha poi sferrato un attacco al sionismo di Churchill, affermando che “era in bancarotta e aveva bisogno di soldi e [veniva] salvato dai sionisti. … Non aveva bisogno di essere corrotto, ma era stato messo al suo posto dai finanzieri [e] dal complesso dei media che volevano assicurarsi che fosse lui a rappresentare la Gran Bretagna in quel conflitto”. Per favore.

È falso. Churchill non è mai andato in bancarotta, anche se ha sempre avuto bisogno di soldi perché le sue spese erano enormi. Alcune delle sue perdite in borsa durante il crollo di Wall Street furono sostenute da Bernard Baruch, ma ciò avvenne quattro anni prima che Hitler salisse al potere. Un altro amico ebreo, Sir Henry Strakosch, gli lasciò in eredità un’ingente somma di denaro, ma difficilmente poteva trattarsi di una tangente, per ovvie ragioni. Churchill non era sionista o antinazista perché era stato corrotto da finanzieri ebrei, ma perché credeva in entrambe le posizioni con ogni fibra del suo essere.

Inoltre, in un momento in cui l’antisemitismo è in aumento in tutto il mondo, è stato profondamente irresponsabile da parte di Cooper e Carlson fare le insinuazioni che hanno fatto in quella parte dell’intervista. Questa tesi – se un tale vomito di vecchie bugie e un apologismo hitleriano alla David Irving può essere definito tale – sarà accolta con favore in alcune zone della “Palestina”, in Turingia e in Sassonia, e nei recessi più oscuri del cyberspazio, ma non in luoghi dove la verità storica è ancora rispettata.

Lungi dall’essere sostenuto dal “complesso dei media”, Churchill fu ridicolizzato e osteggiato dalla maggior parte dei giornali per la maggior parte della sua carriera, e gli editori si avvicinarono al suo ingresso nel governo solo nel luglio 1939, una volta chiarito che tutti i suoi avvertimenti su Hitler e i nazisti si erano dimostrati corretti in ogni particolare.

Quando Carlson ha lodato la “fede nell’accuratezza e nell’onestà” di Cooper, ha rappresentato l’unico momento comico dell’intera intervista, a meno che non si consideri anche la valutazione di Carlson secondo cui Cooper, che confesso di non aver mai sentito prima, è “lo storico più importante degli Stati Uniti”.

È interessante che in tutta l’intervista Darryl Cooper non sia riuscito a sferrare un solo colpo alla reputazione di Winston Churchill che fosse supportato da una qualsiasi prova. In effetti, Churchill commise diversi errori nella sua carriera, come attesta ogni suo biografo responsabile. “Non avrei fatto nulla se non avessi commesso errori”, disse alla moglie Clementine nel 1916.

Tuttavia, nelle tre più grandi minacce alla democrazia e alla civiltà occidentale del XX secolo – dalla Germania guglielmina nella Prima Guerra Mondiale, da Adolf Hitler e dai nazisti nella Seconda Guerra Mondiale e dal comunismo sovietico nella Guerra Fredda – Winston Churchill le ha previste tutte e tre e ha fornito gran parte della resilienza e della saggezza necessarie per sconfiggerle. In questo modo è stata salvata la libertà di parola, una libertà che è stata così squallidamente abusata dall’intellettualmente vacuo ma presuntuoso sberleffo dei signori Cooper e Carlson.


ANDREW ROBERTS, nato a Londra nel 1963, è storico e giornalista. Autore di documentari e pubblicazioni di successo, ha vinto molti premi, tra cui il Wolfson History Prize e il British Army Military Book of the Year. Esperto internazionale di storia della Seconda guerra mondiale, è autore di una recente biografia monumentale di Winston Churchill, “Churchill: Walking with Destiny“.

No, Fidel Castro non ha migliorato sanità e istruzione a Cuba

In un’intervista di 60 minuti sulla CBS, il senatore Bernie Sanders ha recentemente elogiato i successi di Cuba comunista.

Un’intervistatrice gli ha chiesto dei suoi commenti del 1985 in cui affermava che i cubani sostenevano il dittatore comunista Fidel Castro perché «aveva educato i loro figli, aveva dato loro assistenza sanitaria, aveva completamente trasformato la società». In risposta, Sanders ha difeso quei commenti affermando che «quando Fidel Castro è entrato in carica, sai cosa ha fatto? Ha avviato un massiccio programma di alfabetizzazione».

Ma Castro non ha dato l’alfabetizzazione ai cubani. Cuba aveva uno dei più alti tassi di alfabetizzazione in America Latina già nel 1950, quasi un decennio prima che Castro assumesse il potere, secondo i dati delle Nazioni Unite (statistiche dell’UNESCO). Nel 2016, il fact-checker del Washington Post Glenn Kessler ha smentito la affermazione di un politico secondo cui il regno di Castro avesse significativamente migliorato l’assistenza sanitaria e l’istruzione a Cuba.

Nel frattempo, i paesi latino-americani che erano largamente analfabeti nel 1950, come il Perù, il Brasile, El Salvador e la Repubblica Dominicana, sono largamente alfabetizzati oggi, chiudendo gran parte del divario con Cuba. El Salvador aveva un tasso di alfabetizzazione inferiore al 40 percento nel 1950, ma oggi ha un tasso del 88 percento. Il Brasile e il Perù avevano un tasso di alfabetizzazione inferiore al 50 percento nel 1950, ma oggi il Perù ha un tasso del 94,5 percento e il Brasile un tasso del 92,6 percento. Il tasso della Repubblica Dominicana è passato da poco più del 40 percento al 91,8 percento. Mentre Cuba ha fatto significativi progressi nella riduzione dell’analfabetismo nei primi anni del potere di Castro, il suo sistema educativo è rimasto stagnante da allora, anche se gran parte dell’America Latina è migliorata.

Contrariamente alla affermazione di Sanders secondo cui Castro «ha dato» assistenza sanitaria ai cubani, questi già avevano accesso all’assistenza sanitaria prima che lui prendesse il potere. I medici fornivano spesso assistenza sanitaria gratuita a chi non poteva permettersela. Come ha osservato Glenn Kessler del Washington Post:

Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria e l’istruzione, Cuba era già tra i primi della lista prima della rivoluzione. Il basso tasso di mortalità infantile di Cuba è spesso elogiato, ma già nel 1953-1958 era al primo posto nella regione, secondo i dati raccolti da Carmelo Mesa-Lago, esperto di Cuba e professore emerito all’Università di Pittsburgh.

Cuba guidava praticamente tutti i paesi dell’America Latina per quanto riguarda l’aspettativa di vita nel 1959, prima che i comunisti di Castro prendessero il potere. Ma nel 2012, subito dopo che Castro si è dimesso come leader del Partito Comunista, i cileni e i costaricani vivevano leggermente più a lungo dei cubani. Nel 1960, gli cileni avevano una aspettativa di vita di sette anni inferiore a quella dei cubani, e i costaricani vivevano in media più di due anni meno dei cubani. Nel 1960, i messicani vivevano sette anni meno dei cubani; nel 2012, il divario si era ridotto a soli due anni.

(Oggi, l’aspettativa di vita è praticamente la stessa a Cuba come nel più prospero Cile e Costa Rica – se si accettano le statistiche ufficiali ottimistiche diffuse dal governo comunista di Cuba, cosa che molti non fanno. A Cuba è stato accusata credibilmente di nascondere le morti infantili e di esagerare le aspettative di vita dei suoi cittadini. Se queste accuse sono vere, i cubani muoiono prima dei cileni o dei costaricani).

Cuba ha fatto meno progressi in termini di assistenza sanitaria e aspettativa di vita rispetto alla maggior parte dell’America Latina negli ultimi anni, a causa del suo decrepito sistema sanitario. «Gli ospedali della capitale dell’isola stanno letteralmente crollando». A volte, i pazienti «devono portare tutto con loro, perché l’ospedale non fornisce nulla. Cuscini, lenzuola, medicina: tutto».

Come ha osservato Glenn Kessler del Washington Post:

I giornalisti hanno anche documentato che gli ospedali cubani sono poco attrezzati. Una serie del 2004 sull’assistenza sanitaria a Cuba pubblicata dal National Post del Canada ha affermato che le farmacie hanno pochissimo in scorta e gli antibiotici sono disponibili solo sul mercato nero. «Uno dei miti che i canadesi hanno su Cuba è che le sue persone possano essere povere e vivere sotto un governo repressivo, ma hanno accesso a strutture sanitarie e scolastiche di qualità», ha affermato il Post. «È un ritratto incoraggiato dal governo, ma la realtà è radicalmente diversa».

Sotto il comunismo, Cuba è anche indietro su misure generali di sviluppo umano. Come ha osservato l’economista progressista Brad DeLong:

Cuba nel 1957 era un paese sviluppato. Cuba nel 1957 aveva una mortalità infantile inferiore a quella della Francia, del Belgio, della Germania Ovest, di Israele, del Giappone, dell’Austria, dell’Italia, della Spagna e del Portogallo. Cuba nel 1957 aveva medici e infermieri: come molti medici e infermieri per abitante come i Paesi Bassi, e di più di Gran Bretagna o Finlandia. Cuba nel 1957 aveva come molti veicoli per abitante come l’Uruguay, l’Italia o il Portogallo. Cuba nel 1957 aveva 45 TV per 1000 abitanti, il quinto più alto al mondo… Oggi? Oggi le Nazioni Unite collocano l’IDU di Cuba [Indicatori di Sviluppo Umano] nella stessa categoria del Messico. (E Carmelo Mesa-Lago pensa che i calcoli delle Nazioni Unite siano gravemente difettosi: che i pari IDU di Cuba oggi sono posti come la Cina, la Tunisia, l’Iran e il Sud Africa.) Quindi non capisco i sinistri che parlano dei successi della Rivoluzione Cubana: «per avere una migliore assistenza sanitaria, alloggi, istruzione».

Come nota Michael Giere, Cuba era prospera prima che i comunisti di Castro prendessero il potere:

Un rapporto dell’ONU (UNESCO) del 1957 ha notato che l’economia cubana includeva una proporzione maggiore di lavoratori sindacalizzati rispetto agli Stati Uniti. Il rapporto afferma anche che i salari medi per una giornata lavorativa erano più alti a Cuba rispetto a «Belgio, Danimarca, Francia e Germania». La PBS ha spiegato in un riassunto del 2004 che

«L’Avana (prima di Castro) era una città brillante e dinamica. Cuba era al quinto posto nell’emisfero in termini di reddito pro capite, al terzo posto per l’aspettativa di vita, al secondo posto per la proprietà pro capite di automobili e telefoni, al primo posto per il numero di televisori per abitante. Il tasso di alfabetizzazione, il 76%, era il quarto più alto in America Latina. Cuba era al undicesimo posto nel mondo per il numero di medici per abitante. Molte cliniche e ospedali privati offrivano servizi ai poveri. La distribuzione del reddito a Cuba era confrontabile con quella di altre società latinoamericane. Una classe media prospera prometteva prosperità e mobilità sociale».

Ma dopo che Castro ha preso il potere, la prosperità è finita:

La distruzione di Castro di Cuba non può essere esagerata. Ha saccheggiato, assassinato e distrutto la nazione dalle fondamenta. Un solo fatto spiega tutto; una volta i cubani godevano di uno dei più alti consumi di proteine in America, eppure nel 1962 Castro dovette introdurre le tessere di razionamento (carne, 60 grammi al giorno), poiché il consumo di cibo per persona è crollato a livelli mai visti dall’800.

La fame si diffuse a tal punto che nel 1992 un medico svedese in visita a Cuba, Hans Rosling, dovette avvertire il dittatore della diffusa carenza di proteine tra i cubani. Circa 40.000 cubani avevano accusato «offuscamenti della vista e forte intorpidimento delle gambe». Rosling indagò su invito dell’ambasciata cubana in Svezia e con l’approvazione dello stesso Castro. Rosling si recò nel cuore dell’epidemia, nella provincia occidentale di Pinar del Río. Si scoprì che le persone colpite dal disturbo soffrivano tutte di carenza di proteine. Il governo stava razionando la carne e gli adulti avevano sacrificato la loro parte per nutrire bambini, donne incinte e anziani. Il dottor Rosling ne parlò a Fidel Castro.

Durante questo periodo di fame diffusa, Bernie Sanders diffondeva il mito che la fame a Cuba fosse inesistente. Nel 1989, pubblicò un articolo di giornale in cui affermava che la Cuba di Fidel Castro «non soffre fame, istruisce tutti i suoi figli e fornisce assistenza sanitaria gratuita e di alta qualità».

(Traduzione di Claudio Colonna dell’articolo “No, Fidel Castro Didn’t Improve Health Care or Education in Cuba” di Hans Bader pubblicato su FEE.org)

Lettura consigliata: Smascherare il Marxismo, L. von Mises

 

Il Superbonus è il fallimento dello statalismo

Quello che è accaduto con il Superbonus rappresenta alla perfezione la morte economica dell’Italia e il fallimento dello statalismo.

Andiamo con ordine.

L’edilizia è una industria morente tenuta in stato vegetativo da una serie di bonus edilizi istituiti negli ultimi quindici anni. Questi bonus sono diventati via via più generosi: il bonus ristrutturazione al 36% e poi al 50%, l’ecobonus al 65%, il sismabonus al 75% e poi all’85%, il bonus facciata al 90% e infine il tristemente famoso Superbonus 110%.

Ciascuno di questi bonus è nato con un duplice obiettivo politico: far ripartire l’edilizia unendo una componente di “utilità sociale” che giustifica il contributo pubblico. E così l’ecobonus è motivato dall’efficienza energetica, il sismabonus dalla sicurezza sismica, il bonus facciate di Franceschini invece da una questione di pura estetica, per la quale abbiamo pagato il 90% dei lavori di abbellimento delle facciate con tinteggiature e cornicette.

Questi obiettivi politici sono sistematicamente stati mancati: in 15 anni gli investimenti con bonus edilizi sono stati irrisori, l’industria delle costruzioni è rimasta in un limbo tra la vita e la morte, e il contributo dato alla riqualificazione energetica, sismica ed energetica del patrimonio edilizio è vicino allo zero. È proprio per questo motivo che il Movimento 5 Stelle ha escogitato il Superbonus 110% nel suo Decreto Rilancio all’indomani della prima ondata pandemica.

Il provvedimento è stato dirompente: i cittadini, appreso che lo Stato avrebbe coperto l’intero importo dei lavori, non hanno esitato a cercare tecnici e imprese in grado di districarsi nel complesso impianto normativo del Superbonus. In due anni, lo Stato italiano si è impegnato economicamente per circa 60 miliardi di euro, una cifra pari a 2-3 finanziarie di medie dimensioni, e questo nonostante il sistema dei crediti di imposta abbia subito pesanti rallentamenti e blocchi ogni due mesi.

Tralasciando le questioni che hanno causato il tracollo del Superbonus, su cui pure ci sarebbe da ridere, proviamo a descrivere i motivi per cui questo provvedimento rappresenta la morte economica del Paese, almeno da un punto di vista liberale.

Ronald Reagan recitava una simpatica massima: “Se un’industria si muove tassala, se continua a muoversi regolamentala, se smette di muoversi sussidiala”.

L’industria delle costruzioni in Italia vive di sussidi statali da 15 anni, e l’unica soluzione che la politica è stata in grado di trovare consiste nell’aumentare la quota di incentivi in carico allo Stato. Nessuna parte politica, a destra e a sinistra, è in grado di esprimere un pensiero volto alla liberalizzazione del settore delle costruzioni, pesantemente condizionato da un apparato normativo mastodontico.

Le norme urbanistiche che oggi regolano la produzione edilizia sono state concepite negli anni ‘60, un periodo di boom demografico, economico ed urbano, ed erano volte a disciplinare il mercato, calmierando la speculazione edilizia. Oggi che viviamo in un periodo di stagnazione economica, quelle stesse norme stanno deprimendo ulteriormente la produzione edilizia.

La mentalità statalista però è così pervasiva che nessuna parte politica è disposta a proporre una deregulation strutturale. Finora hanno giocato sulle percentuali di agevolazione fiscale: togli il 65% e metti il 110%, togli il 110% e metti il 90%. È questo l’apice del pensiero liberale che possiamo aspettarci dalla politica italiana, centrodestra incluso? Si spera di no.

Dal punto di vista dei conti pubblici, effettivamente, lo scenario è inquietante: 60 miliardi di euro spesi per intervenire sul 3% delle abitazioni. E se si prova a misurare l’impatto sulla transizione ecologica ci si rende conto di quanto questo provvedimento sia diventato una macchina brucia-soldi: ipotizzando di aver dimezzato le emissioni CO2 di ogni edificio che ha beneficiato del 110%, e considerato che l’edilizia residenziale conta per il 10% delle emissioni totali dell’Italia, viene fuori che abbiamo complessivamente ridotto le emissioni nazionali circa dello 0,15%. Considerato che l’Italia è responsabile per meno dell’1% delle emissioni a livello globale, si lascia ai lettori il compito di calcolare di quanti gradi abbiamo abbassato le temperature globali spendendo 60 miliardi.

L’aspetto più oscuro della faccenda è però la fotografia del Paese restituita dal Superbonus: l’Italia appare un Paese fatto di case vecchie ed obsolete, i cui proprietari non hanno neanche una frazione delle risorse necessarie per gli adeguamenti strutturali ed energetici, e l’unico modo per far ripartire il settore dell’edilizia è che lo Stato debba coprire l’intero importo dei lavori. Roba che neanche in Unione Sovietica.

Insomma, il problema non è il 110%, il 90%, l’efficienza energetica. Il problema è il declino economico di una delle più grandi potenze industriali al mondo, dovuto al pantano burocratico e tributario a cui ogni attività produttiva è soggetta, e a una classe dirigente completamente assuefatta alle politiche stataliste. Quel che un tecnico di cultura liberale deve chiedere è che il governo tolga di mezzo tutto questo apparato enorme di sussidi, e abbia il coraggio di liberalizzare il settore delle costruzioni. Ciò consentirebbe agli investitori privati di rischiare i propri capitali per realizzare un vero rinnovo del parco residenziale italiano. Purtroppo, gli ordini professionali si uniscono alle richieste di sussidi e tutele da parte dello Stato.

Le nostre città sono cristallizzate da più di mezzo secolo in edifici antiquati che avrebbero bisogno non di un cappotto termico, ma di essere rasi al suolo e ricostruiti. I costruttori dovrebbero essere incentivati non tramite i sussidi, ma tramite dei bonus volumetrici (nuova cubatura) che servano a finanziare le operazioni immobiliari, immettendo così anche una grande quantità di nuovi appartamenti in zone dove c’è particolare richiesta, il che servirebbe a riequilibrare la curva di domanda e offerta, abbassando i prezzi esorbitanti che vediamo da un po’ di anni.

Il valore aggiunto di una operazione immobiliare è la cubatura aggiuntiva che è possibile realizzare: se le norme impediscono di creare una significativa quantità di nuovo volume, è normale che viene meno l’incentivo economico di mercato, e per questo lo Stato ha dovuto introdurre una serie di incentivi economici statali.

In sintesi, l’unica soluzione è lo sviluppo economico a trazione privata. L’Italia è diventata grande quando avevamo il coraggio di investire in modo spregiudicato: da un po’ di tempo abbiamo perduto questo coraggio, e ormai ci limitiamo a politiche di breve respiro volte a spostare da qui a lì un punto percentuale di spesa pubblica. È tempo di costruire l’Italia di domani, partendo da idee coraggiose e abbandonando una volta per tutte lo statalismo.

Gli ambientalisti vogliono regolamentare la tua vita

L’economia pianificata sta vivendo un’altra rinascita. I sostenitori della difesa dell’ambiente e gli anticapitalisti chiedono che il capitalismo venga abolito e sostituito con un’economia pianificata.

Altrimenti, sostengono, l’umanità non ha alcuna possibilità di sopravvivere.

In Germania, un libro intitolato “Das Ende des Kapitalismus” (La fine del capitalismo) è un bestseller e la sua autrice, Ulrike Herrmann, è diventata ospite regolare di tutti i talk show. L’autrice promuove apertamente un’economia pianificata, anche se in Germania è già fallita una volta, come ovunque sia stata tentata.

A differenza del socialismo classico, in un’economia pianificata le aziende non vengono nazionalizzate, ma possono rimanere in mani private. Ma è lo Stato a stabilire con precisione cosa e quanto produrre.

Non ci sarebbero più voli e veicoli privati. Lo Stato determinerebbe quasi tutti gli aspetti della vita quotidiana: ad esempio, non ci sarebbero più case unifamiliari e a nessuno sarebbe permesso di possedere una seconda casa. Le nuove costruzioni sarebbero vietate perché dannose per l’ambiente. La terra esistente verrebbe invece distribuita “equamente”, con lo Stato che deciderebbe quanto spazio è appropriato per ogni individuo. Il consumo di carne sarebbe consentito solo in via eccezionale, perché la produzione di carne è dannosa per il clima.

In generale, le persone non dovrebbero mangiare molto: 2.500 calorie al giorno sono sufficienti, dice Herrmann, che propone un’assunzione giornaliera di 500 grammi di frutta e verdura, 232 grammi di cereali integrali o riso, 13 grammi di uova e 7 grammi di carne di maiale.

«A prima vista, questo menu può sembrare un po’ scarno, ma i tedeschi sarebbero molto più sani se cambiassero le loro abitudini alimentari», rassicura la critica del capitalismo. E poiché le persone sarebbero uguali, sarebbero anche felici: «Il razionamento sembra sgradevole. Ma forse la vita sarebbe addirittura più piacevole di oggi, perché la giustizia rende le persone felici».

Queste idee non sono affatto nuove. La popolare critica canadese del capitalismo e della globalizzazione, Naomi Klein, ammette che inizialmente non aveva un interesse particolare per il cambiamento climatico. Poi, nel 2014, ha scritto un corposo tomo di 500 pagine intitolato “This Changes Everything: Capitalism vs. the Climate“.

Perché è diventata improvvisamente così interessata all’ambientalismo?

Prima di scrivere questo libro, l’interesse principale della Klein era la lotta contro il libero scambio e la globalizzazione. Lo dice apertamente: «Sono stata spinta a un impegno più profondo in parte perché ho capito che poteva essere un catalizzatore per forme di giustizia sociale ed economica in cui già credevo». Chiede un’economia attentamente pianificata e linee guida governative su «quanto spesso guidiamo, quanto spesso voliamo, se il nostro cibo deve essere trasportato in aereo per arrivare a noi, se i beni che compriamo sono costruiti per durare… quanto sono grandi le nostre case». L’autrice ha anche suggerito che il 20% più abbiente della popolazione dovrebbe accettare i tagli maggiori per creare una società più equa.

Queste citazioni – a cui si potrebbero aggiungere molte altre affermazioni simili nel libro della Klein – confermano che l’obiettivo principale degli anticapitalisti come Herrmann e Klein non è migliorare l’ambiente o trovare soluzioni per il cambiamento climatico.

Il loro vero obiettivo è eliminare il capitalismo e instaurare un’economia pianificata e gestita dallo Stato. In realtà, questo comporterebbe l’abolizione della proprietà privata, anche se tecnicamente i diritti di proprietà continuerebbero ad esistere. Perché tutto ciò che rimarrebbe è il titolo legale formale di proprietà. L'”imprenditore” continuerebbe a possedere la sua fabbrica, ma cosa e quanto produce sarebbe deciso unicamente dallo Stato. Diventerebbe un manager dipendente dello Stato.

L’errore più grande che i sostenitori dell’economia pianificata hanno sempre commesso è stato quello di credere nell’illusione che un ordine economico potesse essere pianificato sulla carta; che un’autorità potesse sedersi a una scrivania e proporre l’ordine economico ideale. Tutto ciò che sarebbe rimasto da fare sarebbe stato convincere un numero sufficiente di politici a implementare l’ordine economico nel mondo reale. E’ brutto da dire, ma anche i Khmer Rossi in Cambogia la pensavano così.

L’esperimento socialista più radicale della storia, che ebbe luogo in Cambogia a metà e alla fine degli anni ’70, fu originariamente concepito nelle università di Parigi. Questo esperimento, che il leader dei Khmer Rossi Pol Pot (chiamato anche “Fratello 1”) chiamò “Super Grande Balzo in Avanti”, in onore del Grande Balzo in Avanti di Mao, è particolarmente rivelatore perché offre una dimostrazione estrema della convinzione che una società possa essere costruita artificialmente su un tavolo da disegno.

Oggi si sostiene spesso che Pol Pot e i suoi compagni volessero attuare una forma pura di “comunismo primitivo” e il loro governo viene dipinto come una manifestazione di irrazionalità sfrenata. In realtà, ciò non potrebbe essere più lontano dalla verità. Le menti e i leader dei Khmer Rossi erano intellettuali provenienti da famiglie oneste, che avevano studiato a Parigi ed erano membri del Partito Comunista Francese. Due delle menti, Khieu Samphan e Hu Nim, avevano scritto tesi di laurea marxiste e maoiste a Parigi. In effetti, l’élite intellettuale che aveva studiato a Parigi occupava quasi tutti i posti di comando del governo dopo la presa del potere.

Avevano elaborato un dettagliato Piano quadriennale che elencava con precisione tutti i prodotti di cui il Paese avrebbe avuto bisogno (aghi, forbici, accendini, tazze, pettini, ecc.). Il livello di specificità era molto insolito, anche per un’economia pianificata. Ad esempio, si legge: «Mangiare e bere sono collettivizzati. Anche il dessert è organizzato collettivamente. In generale, aumentare benessere del popolo nel nostro Paese significa farlo collettivamente. Nel 1977 ci saranno due dessert a settimana. Nel 1978 ci sarà un dolce ogni due giorni. Poi, nel 1979, un dolce al giorno, e così via. Così le persone vivono collettivamente e hanno a sufficienza da mangiare; sono soddisfatte e felici di vivere in questo sistema».

Il partito, scrive il sociologo Daniel Bultmann nella sua analisi, «ha pianificato la vita della popolazione come su un tavolo da disegno, incastrandola in spazi e bisogni prestabiliti». Ovunque, giganteschi sistemi di irrigazione e campi dovevano essere costruiti secondo un modello uniforme e rettilineo. Tutte le regioni furono sottoposte agli stessi obiettivi, poiché il Partito riteneva che condizioni standardizzate in campi esattamente della stessa dimensione avrebbero avuto anche rese standardizzate. Con il nuovo sistema di irrigazione e le risaie a scacchiera, la natura doveva essere imbrigliata nella realtà utopica di un ordine completamente collettivista che eliminava le disuguaglianze fin dal primo giorno.

Tuttavia, la disposizione dei canali di irrigazione in quadrati uguali con al centro campi altrettanto quadrati portò a frequenti inondazioni, perché il sistema ignorava totalmente i flussi d’acqua naturali, e l’80% dei sistemi di irrigazione non funzionò, proprio come i piccoli altiforni da cortile non funzionarono nel Grande balzo in avanti di Mao.

Nel corso della storia, il capitalismo si è evoluto, così come si sono evolute le lingue. Le lingue non sono state inventate, costruite e concepite, ma sono il risultato di processi spontanei e incontrollati. Sebbene l’Esperanto, giustamente chiamato “lingua pianificata”, sia stato inventato nel lontano 1887, non è riuscito ad affermarsi come la lingua straniera più parlata al mondo, come si aspettavano i suoi inventori.

Il socialismo ha molto in comune con una lingua pianificata, un sistema ideato da intellettuali. I suoi aderenti cercano di conquistare il potere politico per poter poi attuare il sistema scelto. Nessuno di questi sistemi ha mai funzionato da nessuna parte, ma questo apparentemente non impedisce agli intellettuali di credere di aver trovato la pietra filosofale e di aver finalmente ideato il sistema economico perfetto nella loro torre d’avorio. È inutile discutere in dettaglio idee come quelle di Herrmann o di Klein, perché l’intero approccio costruttivista – cioè l’idea che un autore possa “sognare” un sistema economico nella sua testa o sulla carta – è sbagliato.

 

(Traduzione dell’articolo Today’s Anti-Capitalists Want to Regulate What You Can Eat, How Often You Drive, and the Size of Your Home, Rainer Zitelmann, FEE.org)

 

Lettura consigliata: Il libero mercato e i suoi nemici, L. von Mises

 

 

La lezione dei fiorenti mercati neri a Cuba

Il mercato nero è sempre stato considerato una rete di scambio per beni e servizi considerati (generalmente) moralmente sbagliati. Cose come le droghe pesanti, la prostituzione illegale, le armi, sono le prime cose che vengono in mente quando si parla di mercato nero. Eppure, il mercato nero può funzionare per migliorare il benessere generale di una nazione.

Per dimostrarlo non vi è miglior esempio di Cuba.

Cuba è nota per la sua difesa dell’ideologia comunista e per aver attuato diverse politiche comuniste. Nel 2019, il governo cubano ha avviato una politica di controllo totale dei prezzi sui prodotti che i commercianti vendono sul mercato. E sebbene negli ultimi tempi il regime cubano sia stato più gentile nell’aprire settori specifici dell’economia (quelli che non incidono sul potere dei politici), la realtà è che nulla è cambiato in modo radicale.

Come molti sapranno, in un’economia in cui i prezzi sono controllati, c’è scarsità.

Come disse Henry Hazlitt:

La fissazione dei prezzi e dei salari è sempre dannosa. Non c’è un modo giusto di farlo. Non esiste un modo giusto di fare una cosa sbagliata. Non esisterà mai un modo giusto di fare qualcosa che non dovrebbe mai essere fatto. E’ impossibile definire un prezzo equo o un profitto equo o un salario equo al di fuori del mercato, al di fuori delle regole della domanda e dell’offerta.

E’ il caso di Cuba, dove di recente ci sono state proteste per la scarsità di cibo e medicinali; questo in un Paese il cui principale argomento di propaganda è la difesa dei lavoratori dai capitalisti e la tutela del benessere del popolo. Tuttavia, i politici che governano l’isola – in primis la famiglia Castro – non hanno le conoscenze economiche di base per sapere che se si pone un tetto ai prezzi di un prodotto, si può provocarne la scarsità.

Ma ciò che è ancora più dannoso è che, stabilendo dei prezzi fissi, l’economia che una volta funzionava e che poteva allocare le risorse in modo efficiente, smette di funzionare.

Ai cubani piace chiamare questo fenomeno “blocco interno” come risposta satirica a chi sostiene che la causa principale della distruzione economica di Cuba sia l’embargo. Sebbene l’embargo possa causare alcune difficoltà nelle operazioni di diverse microimprese sull’isola, non è la ragione principale per cui a Cuba c’è una diffusissima povertà. Il fatto che Cuba abbia chiuso l’anno scorso (2021, ndr) al 175° posto nell’indice di libertà economica dovrebbe essere sufficiente a fugare ogni dubbio.

Poiché le condizioni sull’isola sono peggiorate dopo il “trionfo” della rivoluzione cubana, i cubani hanno trovato una soluzione alla carenza di forniture e servizi: i mercati neri.

Questi mercati forniscono principalmente beni strumentali e di consumo venduti da burocrati corrotti – e qui si deduce che le carenze siano create di proposito – oppure importati sull’isola tramite voli commerciali. (Queste importazioni non sono considerate di contrabbando dalla legge, poiché sono il bagaglio dei clienti che arrivano all’aeroporto. Tuttavia, il loro scopo è quello di essere vendute in mercati non regolamentati).

Qualcuno potrebbe chiedersi quanto questi mercati siano accessibili ai consumatori o quanto siano visibili alle autorità. La verità è che ci sono guide che mostrano a stranieri e turisti dell’isola come accedere ai mercati neri.

Il commercio illegale è talmente diffuso a Cuba che l’unico modo che il governo ha avuto per contrastarlo è stato quello di iniziare a distribuire licenze ai commercianti. Ma anche se il governo ha regolamentato alcuni settori, la maggior parte del mercato nero a Cuba è ancora illegale.

I mercati neri sono cresciuti negli ultimi quattro anni grazie all’accesso a Internet su dispositivi mobili. L’introduzione di Internet nell’isola è stata ritardata da normative volte a monitorare e controllare rigorosamente ciò che i cubani caricano sui loro social media. Tuttavia, gli sforzi dello Stato per controllare l’uso di Internet sono pressoché inutili perché la maggior parte dei cubani utilizza applicazioni basate sulla crittografia del testo come Telegram, Signal o WhatsApp per acquistare online.

Prima della diffusione di Internet, gli scambi avvenivano localmente, a seconda della conoscenza dell’esistenza di acquirenti e venditori. Tuttavia, i mercati si sono evoluti notevolmente e alcune persone ora si recano in altre province per acquistare i prodotti. In circostanze normali, i venditori potrebbero spedire i prodotti, ma a Cuba è impossibile: il servizio postale è talmente corrotto che se qualcuno spedisce un articolo, questo viene rubato.

Nel portare oggetti da vendere sull’isola, i cubani non badano a limiti. La scarsità è così diffusa che manca persino l’ibuprofene. Dopo l’epidemia di Covid-19, la necessità di farmaci è aumentata al punto che i cubani che vivono fuori dall’isola trasportano farmaci e li vendono illegalmente. Nelle transazioni viene usato anche il Bitcoin a causa della svalutazione del peso. Steve Hanke ha dichiarato che lo scorso luglio l’inflazione cubana è stata dell’85% annuo.

Tuttavia, alcuni libertari come Martha Bueno hanno espresso preoccupazione per le piattaforme che i cubani utilizzano per queste transazioni. Queste piattaforme possono cambiare i Bitcoin dei cubani in una valuta digitale della banca centrale cubana (CBDC) chiamata MLC (“Moneda Libremente Convertible“). Questa moneta non ha alcun valore ed è stata creata dal governo cubano per raccogliere le valute straniere che le persone fuori dall’isola inviano ai loro parenti a Cuba. Per questo motivo, Bueno ha suggerito di utilizzare valute come Monero, meno tracciabili; in questo modo, nessuno può risalire a quando è stata effettuata la transazione o dove è avvenuta.

Cuba non sta passando a un’economia di mercato, ma i mercati neri sorti come risposta a normative dannose stanno avendo un’impatto positivo sulle vite dei cubani.

La crescita di questi mercati dimostra che l’interventismo statale nell’economia non è una soluzione, ma la causa della povertà.

Nel bene e nel male, anche gli stati totalitari hanno bisogno dei mercati per coordinare la produzione e l’allocazione delle risorse.

 

(Traduzione dell’articolo Cuba’s Bustling Black Markets Hold an Important Economic Lesson, Carlos Martinez, FEE.org)

 

Cosa sta succedendo in Cina?

Mentre in tutto il mondo le restrizioni anti-Covid vengono alleggerite o rimosse, l’esatto opposto sta succedendo in Cina.

Un lockdown, severo come non mai, è stato imposto a Shanghai, uno dei centri nevralgici del Paese, abitato da 25 milioni di persone. Girano voci di cittadini cinesi ridotti alla fame, perché il governo non gli permette di uscire di casa per procurarsi da mangiare.

Cosa ha portato a tutto ciò? Quale potrebbe essere l’impatto di questa decisione sul futuro del Partito Comunista Cinese?

I FATTI

La situazione è ancora in corso, ed il PCC sta censurando il flusso di notizie in uscita dal Paese, per cui non abbiamo un quadro molto chiaro su cosa stia realmente accadendo. Ad ogni modo, questi dovrebbero essere i fatti.

Negli ultimi due anni Shanghai era sfuggita alle restrizioni più dure imposte ad altre zone della Cina. A partire dalla fine di marzo, tuttavia, la città è stata colpita severamente dalla diffusione della nuova variante Omicron del virus.

Contro tale variante, il vaccino cinese si è rivelato meno efficace rispetto ai vaccini a mRNA occidentali, ma il governo si è rifiutato di importarli. Dietro a questa decisione non vi è alcun motivo valido, se non una sorta di “nazionalismo vaccinale”.

Ora, a differenza di quasi tutti gli altri governi al mondo, quello cinese resta fedele alla sua strategia “zero-Covid”. Secondo tale strategia, qualsiasi misura restrittiva, anche la più severa, è giustificabile al fine di stroncare la curva dei contagi sul nascere.

Pertanto, il 28 marzo è stato ufficialmente dichiarato il lockdown.

A dispetto della linea dura adottata dal PCC, i contagi sono saliti. Apparentemente, il picco è stato raggiunto circa un mese fa, con oltre 27.000 nuovi casi ogni giorno verso la metà di aprile.

Sul fronte virus sembra infine che le cose stiano migliorando, ed il governo ha annunciato che presto le restrizioni verranno allentate. Ma tra quello che dice il PCC e quello che fa davvero ci sono grosse discrepanze.

Molti cittadini, infatti, si lamentano sul web perché le autorità continuano a limitare severamente la loro libertà di movimento. Numerosi abitanti di Shanghai si sono affrettati a fare scorte appena possibile, temendo un lockdown prolungato de facto.

Ma anche se il governo cinese mantenesse la parola data, il danno ormai è fatto.

Sul versante meramente economico, il PIL nazionale potrebbe aver perso quasi 30 miliardi di dollari per ogni settimana di lockdown, ed altrettanti per ogni settimana in cui Shanghai continuerà ad essere paralizzata.

Ancora più pesante è il costo umano. Per settimane gran parte dei 25 milioni di abitanti di Shanghai è stata confinata in casa. Non potevano uscire per fare una passeggiata, per fare provviste, o perfino per recarsi in ospedale.

Potevano solo uscire per sottoporsi ai test anti-Covid (cosa che comunque molti evitavano, per il timore di prendere il virus nei centri sovraffollati).

Tutto ciò ha minato la sanità fisica e mentale di milioni di persone, generando un malcontento popolare come se ne vedono raramente, sotto l’occhio vigile del PCC.

“Voci di aprile”, un video realizzato con gli audio di diversi cittadini di Shanghai, in cui ognuno descrive l’impatto del lockdown sulla propria vita, è diventato virale sui social media cinesi.

LE MOTIVAZIONI

Dal momento che le misure draconiane del PCC hanno danneggiato l’economia nazionale e hanno reso critici del governo milioni di cittadini, perché Xi Jinping non ha cambiato rotta?

La risposta più probabile è forse la più semplice: in un sistema come quello cinese, chi è al potere non può permettersi di ammettere di aver sbagliato.

Il regime comunista cinese può sembrare inattaccabile dall’esterno, ma la realtà è che la sua presa sul potere non è salda come vorrebbe far credere ai suoi nemici.

Spogliato di tutta la retorica marxista, esso non è altro che l’incarnazione moderna di quella forma di governo centralista, burocratica ed assolutista che ha dominato la Cina per millenni, durante l’epoca imperiale.

Tale governo, però, deve legittimare il proprio potere sulla base di un mandato divino, il “Mandato del Cielo”. Secondo tale pensiero, se chi è al potere non riesce più a garantire prosperità e sicurezza alla nazione, allora vuol dire che ha perso tale “Mandato del Cielo”, quindi può e deve essere deposto.

Sin dai tempi delle riforme di Deng Xiaoping, il PCC ha giustificato il proprio diritto di governare tramite la drastica riduzione della povertà prodotta dalla liberalizzazione dell’economia cinese.

Oggi tuttavia, per tutta una serie di fattori (declino demografico, diminuzione delle risorse naturali, competizione da parte dei Paesi in via di sviluppo), la crescita è rallentata. Anzi, con il repentino invecchiamento della popolazione, è probabile che la Cina entri in futuro in un periodo di stagnazione economica.

Il PCC ne è al corrente, e sta correndo ai ripari.

Ecco dunque il perché della retorica aggressiva di Xi Jinping su Taiwan, ed ecco perché non può tornare indietro sulla strategia “zero-Covid”.

Soffiare sulla fiamma del nazionalismo aiuta a distrarre i cittadini dalla situazione economica, supportando così il “Mandato del Cielo” del PCC.

Al contrario, se Xi Jinping cambiasse la propria linea sul Covid, questo vorrebbe dire ammettere ai cittadini che il governo ha inflitto loro sofferenze inutili.

Un simile governo, ovviamente, sarebbe un governo che ha perso il “Mandato del Cielo”.

LE CONSEGUENZE

Sia ben chiaro: il Partito Comunista Cinese gode ancora di una forte presa sul potere. Decine di milioni di cinesi, fra funzionari del Partito e semplici iscritti, traggono vantaggio dal suo governo, e sono pronti quindi a difenderlo.

Oltretutto, a differenza delle dinastie imperiali che lo hanno preceduto, il PCC dispone di sofisticati sistemi tecnologici per tenere a bada il malcontento popolare, e stroncare sul nascere qualsiasi seria opposizione.

Tuttavia, il tempo non sembra essere dalla sua parte. La sua gestione del Covid in generale, e gli ultimi lockdown in particolare, hanno disilluso molti cittadini in merito ai vantaggi della vita sotto il regime comunista.

Senza dubbio, questa non è l’ultima crisi che Xi Jinping ed i suoi successori si ritroveranno ad affrontare. Forse il lockdown di Shanghai sta per finire, ma è facile che in futuro il PCC sarà costretto a prendere altre decisioni impopolari, per non ammettere i suoi fallimenti.

Ad ogni crisi, sempre più cittadini resteranno disillusi, ed arriveranno alla conclusione che i benefici offerti dal sistema non superano più gli svantaggi.

In questo scenario, chissà per quanto ancora il PCC riuscirà a preservare il suo “Mandato del Cielo”.

FONTI

1) https://www.vox.com/future-perfect/23057000/beijing-covid-zero-lockdown-china-pandemic

2) https://www.bbc.com/news/world-asia-china-61023811

3) https://www.reuters.com/world/china/shanghai-inches-towards-covid-lockdown-exit-beijing-plays-defence-2022-05-21/

4) https://www.ilpost.it/2022/03/30/cina-zero-covid-omicron-coronavirus/

5) https://www.afr.com/world/asia/worse-than-wuhan-shanghai-suffers-as-xi-doubles-down-20220505-p5aiun

Bernie Sanders e la tassazione al 95%

Questo articolo è una traduzione del pezzo “Bernie Sanders Just Proposed a 95% Business Tax. Here’s Why That’s So Absurd” di Brad Polumbo, uscito su fee.org (Foundation for Economic Education) il 30/03/2022 e che potete leggere in originale qui: https://fee.org/articles/bernie-sanders-just-proposed-a-95-business-tax-here-s-why-that-s-so-absurd/

 

Prezzi alti della benzina ed inflazione fuori controllo sono generalmente le prime cause di preoccupazione per molti americani ad oggi.

Come risultato, i politici progressisti si sentono sotto pressione quando devono giustificare perché la stampa di denaro da parte del governo federale ed il deficit non ne sono i responsabili. E se l’ultima radicale proposta di Bernie Sanders ci dice qualcosa, alcuni di loro sono arrivati alla frutta.

 

Il senatore del Vermont ha appena svelato una proposta di legge per una tassa al 95% —esatto, 95%!— sui profitti aziendali al di sopra dei loro livelli pre-pandemia. Questo fa parte del suo più ampio tentativo di incolpare l’avidità delle imprese e il loro “ingiusto aumento dei prezzi” per gli effetti dell’inflazione.

Gli americani sono stufi di farsi derubare dalle corporations che fanno profitti record, mentre famiglie di operai pagano cifre esorbitanti per benzina, affitto e cibo” dice Sanders in un tweet[1] commentando le notizie. “È giunta l’ora che il Congresso si metta al servizio delle famiglie dei lavoratori ed esiga che le grandi corporations paghino la loro giusta quota”.

Di seguito alcuni dettagli del piano del senatore.

Le aziende potrebbero pagare l’attuale 21% dell’aliquota d’imposta sulle società sui guadagni fino ai livelli pre-pandemia e poi il 95% sui profitti oltre quei livelli.” spiega Bloomberg: “La tassazione totale viene bloccata al 75% del fatturato aziendale in un singolo anno. L’imposta verrebbe inoltre solo applicata ad aziende con almeno 500 milioni di $ di fatturato annuale”.[2]

 

Vediamo i tre grossi problemi di questa radicale e fuorviante proposta.

 

1. Non risolve il vero problema

L’avidità delle aziende e il loro “ingiusto aumento dei prezzi” non sono, in effetti, la ragione dietro l’attuale innalzamento dei prezzi che sta colpendo così duramente le famiglie americane. Come ha fatto notare l’economista Brian Riedl [3], le compagnie petrolifere, per esempio, non sono meno “avide” o “bramose di profitto” oggi di quanto non lo fossero nel maggio 2020, quando la benzina costava meno di 2$ al gallone.

Erano molto generose allora e sono molto avide oggi? Certo che no.

Economisti di ogni gruppo politica hanno liquidato l’uscita di Sanders come senza senso e sconnessa dalla realtà. Un sondaggio IMG di Chicago ha rivelato che l’80% degli economisti non è d’accordo con questa spiegazione dell’inflazione[4].

 

2. Aumentare la tassazione sulle imprese porterebbe a prezzi più alti e danneggerebbe l’americano medio invece di aiutarlo

L’aumento delle tasse sulle imprese, naturalmente, aumenterebbe i costi che i fornitori devono sostenere.

Quindi, é un classico esempio da manuale di qualcosa che causa scarsità di offerta. Cosa succede quando l’offerta cala? Avete indovinato, i prezzi salgono.

 

Diminuendo i profitti, questa politica scoraggerebbe le aziende dal reinvestire nella creazione di nuove tecnologie per aumentare l’offerta di petrolio” spiega l’economista della FEE Peter Jacobsen “e potrebbe anche incentivare le aziende a spostarsi fuori dagli Stati Uniti”.

Per queste ragioni un’ulteriore tassa sui profitti farebbe calare ulteriormente l’offerta di petrolio” ha detto, prendendo come esempio un settore che ne verrebbe colpito “Qualsiasi altra cosa simile porterebbe ad un innalzamento del prezzo alle pompe di benzina”.

 

Il senatore Sanders vorrebbe rispondere alla grande inflazione causata dall’ingerenza del governo con… maggior ingerenze nel mercato da parte del governo. È davvero una sorpresa che questo peggiorerebbe la situazione?

 

3. Il profitto è in realtà una cosa buona, non qualcosa da punire.

Il piano di Sanders è sbagliato dal principio, nell’incolpare il profitto quando è invece qualcosa che andrebbe celebrato.

 

Questo fraintendimento è il motivo per cui l’economista del Cato Institute Chris Edwards ha definito il piano “un’idiozia“.

Una cosa che la sinistra sembra non in grado di afferrare completamente a proposito del libero mercato è l’enorme rischio che le aziende corrono, e che  è vero che esse incassano i profitti, ma anche le perdite” ha detto Edwards a FEE “Si accusano le aziende con grandi profitti, ma quelle con perdite vengono accusate di avere una cattiva gestione. La realtà è che col tempo i guadagni tendono ad eguagliarsi fra le diverse aziende e a tornare a livelli normali, seguendo il flusso di denaro che gli investitori apportano ai vincenti e che sottraggono ai perdenti. E se il governo non si mette in mezzo, la competizione si mangia qualsiasi profitto superiore alla norma”.

 

I profitti sono benefici perché rappresentano un segnale che indica agli investitori dove allocare risorse che beneficino la crescita economica della nazione” ha aggiunto l’economista. “Anche i lavoratori ne giovano in quanto le risorse col tempo vengono dirottate verso aziende profittevoli aumentandone la produttività. La maggior parte dei profitti viene infatti reinvestita per ampliare le aziende, il che aiuta anche i lavoratori”.

L’idea di Sanders sarebbe di rubare più profitti dalle aziende, lasciandone meno per reinvestirlo e riducendo così le opportunità per i lavoratori” conclude Edwards.

 

Quest’argomentazione fa eco alle parole del celebre economista Ludwig von Mises, che notoriamente spiegava “Il profitto è la forza trainante dell’economia di mercato (…). Nel dichiarare guerra al profitto i governi sabotano deliberatamente il funzionamento dell’economia di mercato”.

 

In definitiva: una cattiva idea radicata nella lotta di classe.

Non c’è modo di difendere il nuovo radicale piano di Sanders nei suoi meriti. Tassare i profitti aziendali al 95%, anche se solo le aziende oltre una certa dimensione, è oscenamente ingiusto, da analfabeti economici e totalmente fuori strada per quanto riguarda l’arginare il vero problema dell’inflazione.

Quello che c’è davvero dietro questa proposta non sono considerazioni politiche ragionate ma l’invidia e l’incitamento alla lotta di classe, tipiche di Bernie Sanders. Mentre potrà giovargli dal punto di vista politico, questo non è il modo di far funzionare un Paese.

 

Traduzione di Claudio Colonna

 

[1] https://twitter.com/SenSanders/status/1507430127843655690

[2] https://www.bloomberg.com/news/articles/2022-03-25/sanders-floats-95-corporate-levy-going-after-jpmorgan-chevron

[3] https://twitter.com/Brian_Riedl/status/1494092072479084544

[4] https://www.igmchicago.org/surveys/inflation-market-power-and-price-controls/

Scuola libertaria, e dopo il voucher?

Ho pubblicato articoli sul tema istruzione dal mio punto di vista liberale classico, e mi è sempre dispiaciuto non potervi offrire anche la visione dei libertari. Fortunatamente ora, grazie a Mises.org, posso proporvi la traduzione di un articolo libertario del 2000 a cura di William Anderson sul lasciare l’istruzione al mercato. Pur non condividendone totalmente i contenuti l’ho trovata una lettura interessante che vi lascio volentieri.

I voucher scuola sono un punto caldo dell’attuale campagna elettorale e mettono contro democratici e repubblicani, con i primi che sostengono che danneggerebbero la scuola pubblica e i secondi che credono siano necessari per migliorare l’istruzione, specie per i più poveri. Come normale nel nostro panorama politico, sbagliano entrambi i lati.

I contrari ai voucher cadono quasi sempre in due categorie: i primi temono che siano una minaccia allo status quo della pubblica istruzione, visto che sempre più genitori iscriverebbero i propri figli nelle scuole private avendo i fondi per farlo, i secondi vedono invece nei voucher un cavallo di Troia che permetterebbe al governo di regolare le scuole private.

Essendo convinto che le scuole pubbliche siano viziate ogni oltre possibile sistemazione, per me è benvenuto ogni cambiamento che possa favorire la fine di questo mostro che danneggia le nostre libertà mentre svuota i nostri portafogli. Quindi, se credessi che i voucher fossero effettivamente capaci di danneggiare l’establishment delle scuole pubbliche, li sosterrei nonostante i miei timori.

In ogni caso, chi vede i voucher come un cavallo di Troia ha ragione, ma si perde un punto importante: i voucher non sono altro che una forma di “socialismo di mercato”. Vogliono giocare al mercato usando hardware socialista, una cosa che però in URSS ha mostrato di non funzionare e che quindi fallirebbe anche qui.

Il primo campione dei voucher fu Milton Friedman che li propose nel suo libro del 1962 “Capitalismo e Libertà” come maniera per migliorare l’istruzione per i giovani. Li ha poi riproposti nel suo “Liberi di Scegliere”, un best-seller, divenuto poi una serie di successo sulla televisione pubblica americana. I voucher, argomentava, creerebbero un mercato competititvo in un settore oggi dominato dal governo.

Le sue critiche della scuola pubblica sono fondamentalmente accurate. Le scuole pubbliche sono un monopolio intrusivo e ingombrante, come tutti i monopoli statali, e dunque falliscono quando si tratta di istruire bambini e ragazzi. Contro il monopolio Friedman e altri, soprattutto vari editorialisti neoconservatori del Wall Street Journal, propongono il già citato modello a voucher. A detta loro permettere ad ogni famiglia di usare il voucher per pagare la retta di una scuola privata darebbe ai figli l’opportunità di frequentare una scuola di qualità al posto di una decadente scuola pubblica.

L’idea sembra essere meritoria a prima vista, ma in verità ha vari problemi. Prima di tutto, come fatto notare da molti critici conservatori e libertari, i voucher – essendo finanziati dalle tasse – permetterebbero allo Stato di regolare le scuole private nella stessa maniera in cui regola gli istituti che, già oggi, ricevono sussidi statali. Dunque, il settore potrebbe trovarsi paralizzato e schiacciato molto presto dal governo. 

Ma passiamo alla seconda obiezione: l’obiettivo del voucher è quello di “creare un mercato” dove tale mercato non esiste. Purtroppo, come fatto notare molte volte da Murray Rothbard e da Ludwig von Mises, un mercato è impossibile senza veri diritti di proprietà. I voucher sono finanziati dallo Stato, coi soldi dei contribuenti. Non sono più privati di un’autostrada o del Ponte di Brooklyn.

Il problema della proprietà privata è importante: senza tali diritti il programma a voucher opererebbe a volontà degli enti statali, che potrebbero cambiarne i termini a loro piacimento. Un governo potrebbe dare un voucher senza farsi troppe domande, quello dopo potrebbe chiedere “responsabilità” o abolire direttamente il programma, se così chiedesse il sindacato dei docenti.

In sostanza, a differenza dell’apparato attuale, dove il governo fa pagare delle tasse per l’istruzione ma lascia comunque liberi di utilizzare quanto risparmiato per un’istruzione privata (d’altronde, miei soldi = mia proprietà), in un sistema del genere sarebbe lo Stato a pagare. Uno Stato che potrebbe limitarne l’uso su pressione di gruppi di interesse che non sono certamente interessati ai diritti delle famiglie.

Come fatto presente sempre da Rothbard e Mises, senza diritti di proprietà, il calcolo economico è una simpatica commedia degli errori. Ciò porterebbe a tre probabili scenari:

  1. La nuova domanda nel settore delle scuole private porterebbe ad un aumento delle rette, impedendo comunque a molte famiglie di mandare i figli nella scuola preferita e con politici che possono usare gli eventi per parlare di speculazione e proporre nuove regolamentazioni, spesso non necessarie e non sagge
  2. La nuova domanda porterebbe a varie start-up dell’istruzione: alcune assolutamente legittime, altre losche, i cui crimini porterebbero i politici a colpire duro sul settore privato, anche quello legittimo
  3. L’oligopolio: come mostrato da vari economisti le aziende già presenti sul mercato sono in grado di prendere in mano rapidamente il processo regolatorio, lasciando fuori i piccoli concorrenti. 

L’ultimo scenario è molto probabile in caso di adozione massiccia dei voucher: in principio scuole pubbliche e sindacati resisterebbero all’introduzione, ma prima o poi si renderebbero conto che i flussi di danaro permettono loro di avere più potere sulle operazioni delle scuole private.

Così, sorgerebbero alleanze tra questi ultimi e le scuole private più importanti, che non desiderano competere con piccole istituzioni, portando a regolamentazioni in grado di danneggiarle o portarle al fallimento.

In altre parole, il voucher sembra un’ottima idea ed è proposto in buona fede da chi vuole davvero mettere in discussione il monopolio statale sull’istruzione, ma i programmi a voucher hanno troppi problemi intrinseci. Non creano vere condizioni di mercato perché non sono proprietà privata. Esattamente come il socialismo di mercato di Lange sono misure a metà che, alla fine, metterebbero in trappola le scuole private più di quanto lo siano oggi.

 

Putin ed i suoi oligarchi: breve storia della cleptocrazia russa

La Russia di Putin, come qualsiasi altro Stato di polizia, è uno Stato governato da criminali. I crimini qui discussi, però, non sono quelli che stanno venendo alla luce in questi giorni a Bucha, Irpin, Hostomel.

Si tratta di crimini altrettanto disgustosi, ma un po’ meno sanguinari. Questa è la storia della cricca decadente, corrotta e megalomane di oligarchi che fa capo a Putin, e che ha reso possibile tutti gli orrori che vediamo oggi.

Le origini

Lo Stato ereditato da Putin vent’anni fa era una nazione in crisi. I cittadini russi non solo avevano visto il loro Paese ridotto da superpotenza a potenza regionale, si erano anche ritrovati grandemente impoveriti sotto Yeltsin.

Durante il suo governo, beni statali vennero privatizzati in massa, ufficialmente allo scopo di aprire la Russia all’economia di mercato e di generare fondi per il nuovo governo post-sovietico.

Quello che accadde in realtà, però, fu che pochi politici e burocrati si arricchirono, svendendo proprietà dello Stato ad una stretta cerchia di uomini politicamente ben collegati. Oggi li conosciamo come oligarchi.

Gli oligarchi ed i loro amici prosperarono, ma il cittadino russo medio rimase povero ed amareggiato. In questi anni, circa un terzo della popolazione russa viveva sotto la soglia di povertà[1].

Per via della carenza di fondi (dato che il ricavato delle privatizzazioni era andato perso in corruzione), il governo dovette tagliare pesantemente il welfare ed i servizi come scuola e sanità, esacerbando il malcontento popolare.

A tutto ciò bisogna poi aggiungere l’inflazione galoppante, che dopo il “martedì nero” del 1994 raggiunse livelli critici (in questo periodo, un dollaro americano valeva circa 4000 rubli)[2].

Per proteggersi da tale malcontento, gli oligarchi si affidarono al braccio destro di Yeltsin, favorendone l’ascesa. Costui era un politico fino a quel momento semi-sconosciuto, un certo Vladimir Putin.

Gli anni d’oro

La scommessa degli oligarchi si rivelò, all’inizio, un successo. Dal 1999 (inizio del primo mandato di Putin come presidente) al 2014 (annessione della Crimea), l’economia russa prosperò.

Questo soprattutto grazie ad un fattore esterno a Putin, cioè il massiccio aumento dei prezzi degli idrocarburi, che la Russia produce ed esporta in grandi quantità.

Fra il 1998 ed il 2008, l’economia russa crebbe del 7-8% ogni anno[3]. In seguito, con la grande recessione ed il conseguente crollo del prezzo di gas e petrolio, tale crescita rallentò, ma la Russia soffrì meno per la crisi rispetto ai Paesi occidentali.

Complessivamente, questo periodo fu molto piacevole per il cittadino medio russo, infatti il numero di persone sotto la soglia di povertà scese al 10%, ed il potere d’acquisto dei russi (malgrado l’inflazione) aumentò di quasi dieci volte[4].

Risulta facile capire come mai Putin non abbia avuto grandi difficoltà nel farsi rieleggere una volta dopo l’altra.

Certo, per andare sul sicuro il suo governo ha perseguitato, imprigionato o assassinato chiunque minacciasse il suo potere, ma in ogni caso i consensi necessari non mancavano.

Non bisogna però lasciarsi trarre in inganno da questa prosperità apparente. La vendita dei combustibili fossili russi ha generato enormi profitti, non c’è dubbio, ma di tali profitti ai cittadini sono andate solo le briciole.

La parte più consistente, infatti, è rimasta nelle mani degli oligarchi e dello stesso Putin, il quale ne ha approfittato, tra le altre cose, per farsi costruire una gigantesca villa sul mar Nero da 1.4 miliardi di dollari (a spese dei contribuenti)[5].

Le prime sconfitte

La luna di miele fra Putin e l’economia non durò a lungo. Dal 2014 in poi, per via delle sanzioni occidentali dovute all’annessione della Crimea e del calo nel prezzo degli idrocarburi, la Russia è entrata in una grave recessione, che ha spazzato via gran parte dei risultati economici conseguiti nei primi anni Duemila.

Come ai tempi di Yeltsin, il governo russo si è ritrovato a corto di fondi, e sempre come allora ha dovuto tagliare welfare e servizi.

La strategia di Putin per mantenere il consenso popolare, quindi, è cambiata. Per distrarre i cittadini dal peggioramento dei loro standard di vita, il governo si è affidato sempre di più ai successi militari[6].

Con le avventure militari in Crimea, Donbass e Siria, il presidente russo ha potuto “dimostrare” ai suoi concittadini di aver restaurato il prestigio nazionale all’estero. Grazie al controllo dei media da parte del governo, tale strategia si è rivelata complessivamente un successo nel preservare la popolarità di Putin.

Il suo regime, tuttavia, non è più stabile come una volta, e questo ha avuto profonde conseguenze. Negli ultimi otto anni, le ultime tracce di democrazia e legalità sono state spazzate via.

Nuove riforme autoritarie hanno indebolito il sistema giudiziario ed il Parlamento, concentrando il potere nelle mani del presidente. Emendamenti alla Costituzione hanno aperto a Putin la possibilità di restare al governo per altri due mandati, fino al 2036[7].

L’evoluzione sempre più marcatamente dittatoriale della scena politica russa non ha colpito solo i cittadini comuni. Stavolta, neanche gli oligarchi stessi sono stati risparmiati dal mostro che hanno contribuito a creare.

Quale futuro?

Un esempio di come il rapporto fra Putin e gli oligarchi sia cambiato è dato dal “caso Bashneft”.

Nel 2014 l’oligarca Vladimir Evtushenkov venne inaspettatamente arrestato, e la sua compagnia petrolifera (Bashneft) venne statalizzata[8].

Tempo dopo, il governo russo mise in vendita la compagnia, e molti oligarchi si mostrarono interessati ad acquistarla. Tra questi spiccava Igor Sechin, CEO di Rosneft (la più grande compagnia petrolifera russa), probabile istigatore della caduta in disgrazia di Evtushenkov.

Sechin, però, era già considerato da molti come il secondo uomo più potente in Russia dopo Putin, di conseguenza il presidente intimò a Sechin di rinunciare ai suoi progetti.

Inizialmente Sechin si rifiutò, ed arrivò perfino a cercare il sostegno di altri oligarchi, ma venne ben presto messo all’angolo.

Nel 2015, di punto in bianco, Putin obbligò il potente Vladimir Yakunin, oligarca a capo delle Ferrovie dello Stato russe, a dimettersi. In questo modo, gli altri oligarchi capirono che nessuno di loro era intoccabile. Sechin tornò sui propri passi e rinunciò ai suoi piani[9].

Questa storia, come tante altre, mostra come il rapporto di potere fra Putin e la sua vecchia cerchia si sia capovolto nel corso degli anni.

Un tempo, lui era il politico semi-sconosciuto, scelto dagli oligarchi come burattino per proteggere i loro interessi. Oggi, lui è lo zar indiscusso di tutta la Russia, davanti al quale perfino i più ricchi fra loro devono piegarsi.

Come accadde in Germania all’epoca di Hitler, i ricchi e potenti che ne hanno appoggiato l’ascesa al potere sono stati messi da parte e ora non possono più contrastarlo, neanche quando i suoi piani vanno contro i loro interessi. La guerra criminale in Ucraina è solo l’ennesima dimostrazione della loro impotenza.

Quale futuro attende Putin, i suoi oligarchi e la cleptocrazia che hanno creato? Difficile da prevedere. Una cosa, però, è certa: ancora una volta, il russo medio finirà per pagare gli errori e gli eccessi dei suoi governanti.

[1][2] https://www.crf-usa.org/bill-of-rights-in-action/bria-8-1-c-on-the-road-to-revolution-with-boris-yeltsin

[3][4] https://www.youtube.com/watch?v=2F4x2-rVkIk&t=585s

[5] https://fortune.com/2022/03/02/vladimir-putin-net-worth-2022/

[6] https://www.youtube.com/watch?v=ZAMz5kgb7V4

[7] https://www.institutmontaigne.org/en/blog/putins-grip-power-beginning-end

[8][9] https://www.youtube.com/watch?v=BT4sK36cU3Y&t=598s

Pianificazione, scienza e libertà [Nature, no. 3759 (November 15, 1941), p. 581–84]

Gli ultimi dieci anni hanno visto in Gran Bretagna la grande rinascita di un movimento che da almeno tre generazioni contribuisce in modo decisivo alla formazione dell’opinione pubblica e all’andamento degli affari pubblici in Europa: il movimento per la “pianificazione economica”. Come in altri Paesi – prima in Francia e poi in particolare in Germania – questo movimento è stato fortemente sostenuto ed anche guidato da uomini di scienza e ingegneri.

Questa visione è riuscita ormai a conquistare l’opinione pubblica a tal punto che il fronte degli oppositori è rappresentato quasi solo da un piccolo gruppo di economisti. Ad essi tale movimento pare non solo proporre mezzi inadeguati per i fini a cui mira, ma appare anche come la causa principale di quella distruzione della libertà individuale e della libertà spirituale che è la più grande minaccia della nostra epoca. Se questi economisti hanno ragione, vi è un gran numero di uomini di scienza che si sforza inconsapevolmente di creare condizioni politiche di cui dovrebbero essere i primi ad avere paura. Lo scopo di queste righe è quello di delineare le argomentazioni su cui si basa questa visione.

Anche una breve dissertazione sulla “pianificazione economica” è incompleta senza una precisa definizione della parola “pianificazione”. Se il termine fosse preso nel suo senso più generale ed inteso come disegno razionale delle istituzioni umane, non ci sarebbe ragione per discutere sulla sua auspicabilità. Ma sebbene la popolarità della “pianificazione” sia almeno in parte dovuta a questa connotazione più ampia della parola, essa viene ora generalmente usata in un senso più ristretto e specifico. Descrive solo uno dei diversi principi che potrebbero essere deliberatamente scelti per l’organizzazione della vita economica: quello della direzione centrale di ogni attività economica, come opposta alla sua direzione da parte della forza della competizione.

Pianificare, in altre parole, significa oggi che non solo il tipo di sistema economico da adottare deve essere scelto razionalmente, ma che è oltremodo auspicabile orientarsi verso un sistema basato sul controllo “consapevole”, o centralizzato, di tutte le attività economiche. Ciò si evince, ad esempio, anche dalle parole che il professor P.M.S. Blackett usa quando spiega che “lo scopo della pianificazione è in gran parte quello di superare i risultati della concorrenza”. Questo uso ristretto del termine intende ovviamente suggerire che solo questo tipo di organizzazione economica è razionale, e solo essa può dunque essere definita pianificazione. È questa una tesi che gli economisti rifiutano.

La spiegazione completa che dimostra l’inefficienza del sistema della pianificazione intesa come direzione centralizzata dell’economia non può essere riassunta in poche frasi. Ma il succo è abbastanza semplice: il sistema della concorrenza e quello dei prezzi rendono possibile l’impiego di una quantità di conoscenza effettiva che non potrebbe mai essere raggiunta o avvicinata senza di essi. È certamente vero che il dirigente di un sistema pianificato centralmente può avere più conoscenze di qualsiasi altro singolo imprenditore sotto il sistema della concorrenza. Ma egli non potrebbe mai concentrare nel suo piano tutte le conoscenze combinate di tutti i singoli imprenditori, che vengono invece utilizzate in un contesto concorrenziale. La conoscenza più significativa non è infatti la comprensione delle leggi generali, ma la conoscenza degli eventi particolari e delle circostanze mutevoli del momento – una conoscenza che solo l’uomo fisicamente inserito in un determinato contesto può possedere.

Solamente un sistema di decentralizzazione delle decisioni favorisce il pieno sfruttamento della conoscenza. Non è possibile scindere lo schema generale del piano e il dettaglio dell’esecuzione – o almeno non è stato ancora mostrato alcun modo per una efficace divisione delle due parti. Questo in virtù del fatto che le caratteristiche generali non sono altro che il risultato di un’infinità di particolari, e non esistono principi che, senza arrecare conseguenze negative, possano essere stabiliti indipendentemente dal particolare. Tuttavia, affinché in un sistema decentralizzato le singole decisioni si adattino reciprocamente l’una all’altra, è naturalmente essenziale che il singolo imprenditore venga a conoscenza il più rapidamente possibile di qualsiasi cambiamento rilevante delle condizioni che influiscono sui fattori di produzione e sulle merci di cui si occupa.

Questo è esattamente ciò che fornisce il sistema di prezzi, se il sistema della competizione funziona correttamente. Si tratta infatti di un sistema in cui ogni cambiamento di condizioni e di opportunità viene registrato in modo tempestivo e automatico, in modo che il singolo imprenditore possa desumere, per così dire, da pochi indicatori e in cifre semplici, gli effetti più importanti di tutto ciò che accade nel sistema per quanto riguarda i fattori e le merci di cui si occupa.

Questo metodo di risoluzione per mezzo di decentramento automatico di problemi che altrimenti sarebbero al di là delle possibilità della mente umana, dovrebbe essere accolto come una straordinaria invenzione – se fosse stato ideato deliberatamente. Paragonato ad esso, il metodo più ovvio di risolvere i problemi per mezzo di una pianificazione centrale risulta incredibilmente goffo, primitivo e di portata limitata.

È davvero curioso il fatto che quegli economisti socialisti che hanno studiato attentamente i problemi pratici di un’economia socialista abbiano più di una volta rivalutato la concorrenza e il sistema dei prezzi come la soluzione più efficiente – solo che sfortunatamente questo sistema non può funzionare senza la proprietà privata. Per quanto riguarda l’atteggiamento generale nei confronti del sistema dei prezzi, è un peccato che non sia stato deliberatamente inventato, ma che si sia sviluppato spontaneamente molto prima della scoperta del suo funzionamento. Ciò che è avvenuto appare in contrasto con il profondo istinto dell’uomo di scienza, e in particolare dell’ingegnere, nel credere che tutto ciò che non è stato deliberatamente costruito, ma che è invece il risultato di una naturale evoluzione più o meno accidentale, non possa essere il metodo migliore per un fine umano. In verità la tesi non è che questo sistema così adatto alla civiltà moderna si sia sviluppato spontaneamente, come per miracolo, ma piuttosto che la divisione del lavoro, che è alla base della civiltà moderna, si è sviluppata su larga scala solo perché l’uomo si è imbattuto nel metodo che l’ha resa possibile.

A volte si sostiene – spesso sono le stesse persone che con la loro propaganda contro la competizione hanno contribuito in larga parte alla sua progressiva soppressione – che, sebbene tutto ciò sia sostanzialmente vero, e sebbene sarebbe auspicabile mantenere la competizione se solo ve ne fosse la possibilità, fattori tecnologici lo impediscono, e che quindi la pianificazione centrale è diventata inevitabile. Questo, però, è solo uno dei tanti miti che, come quello della “potenziale abbondanza”, vengono ripetuti da un’opera di propaganda a un’altra fino ad essere considerati come fatti accertati, anche se hanno poca attinenza con la realtà.

Non c’è spazio qui per dilungarsi a riguardo, ci basti citare la conclusione a cui è giunta la più completa indagine recente in merito alla questione. Questo è ciò che il rapporto finale dell’indagine sulla “Concentrazione del potere economico” dell’American Temporary National Economic Committee ha da dire sul punto:

“A volte si afferma, o si presume, che la produzione su larga scala, nelle condizioni della moderna tecnologia, sia talmente più efficiente della produzione su piccola scala che la concorrenza deve inevitabilmente cedere il passo al monopolio, dato che le grandi imprese escludono i loro rivali più piccoli dal campo. Ma tale generalizzazione trova scarso sostegno in qualsiasi prova che sia a nostra disposizione in questo momento”

In effetti, pochi tra coloro che hanno osservato lo sviluppo economico negli ultimi vent’anni circa possono dubitare del fatto che la progressiva tendenza al monopolio non è il risultato di una forza spontanea o inevitabile, ma l’effetto di una politica volutamente promossa dai governi, ispirata all’ideologia della “pianificazione”. Ciò che sorprende è la vitalità della concorrenza, che nonostante i persistenti tentativi di soppressione, rialza sempre la testa – anche se puntualmente deve scontrarsi con nuove misure volte a soffocarla.

È preoccupante che in questa situazione si trovino così spesso uomini di scienza e ingegneri alla guida di un movimento volto solamente a sostenere la scellerata alleanza tra le organizzazioni monopolistiche del capitale e del lavoro, e che per ogni cento uomini di scienza che attaccano la concorrenza e il “capitalismo” se ne trovi a malapena uno che critica le politiche restrittive e protezionistiche che si mascherano da “pianificazione” e che sono la vera causa della “frustrazione della scienza”. Questo atteggiamento comune ad alcuni scienziati non può essere semplicemente ricondotto ad una particolare propensione per tutto ciò che è stato concepito coscientemente e contro tutto ciò che si è sviluppato in maniera naturale, a cui ho già accennato. Ciò è dovuto in parte all’antagonismo di tanti scienziati naturali nei confronti dell’insegnamento dell’economia, i cui metodi appaiono loro insoliti ed estranei, e di cui ignorano spesso risultati o, come il professor L. Hogben, che attaccano con violenza come “spazzatura medievale insegnata come economia nelle nostre università”.

Questa controversia sui metodi adatti allo studio della società è ormai datato e solleva problemi estremamente complessi e difficili. Ma poiché il prestigio di cui godono gli scienziati naturali presso il pubblico è così spesso sfruttato per screditare i risultati dell’unico sforzo sistematico e continuo per accrescere la nostra comprensione dei fenomeni sociali, questa disputa è una questione di sufficiente importanza da rendere necessarie alcune riflessioni in questo contesto.

Nel caso in cui vi fosse motivo di sospettare che gli economisti persistono nelle loro indagini solo per inerzia e nell’ignoranza dei metodi e delle tecniche che in altri campi si sono dimostrate efficaci, potrebbero sollevarsi seri dubbi sulla validità delle loro argomentazioni. Ma i tentativi di far progredire le scienze sociali con una più o meno stretta imitazione dei metodi delle scienze naturali, lungi dall’essere nuovi, sono stati una caratteristica costante per più di un secolo.

Le stesse obiezioni contro l’economia “deduttiva”, le stesse proposte per renderla finalmente “scientifica”, e, bisogna aggiungere, gli stessi errori caratteristici e primitivi a cui gli scienziati naturali che si avvicinano a questo campo sembrano essere inclini, sono stati ripetuti e discussi più e più volte da generazioni successive di economisti e sociologi e non hanno portato proprio da nessuna parte. Tutti i progressi compiuti nella comprensione dei fenomeni economici sono stati ottenuti grazie a quegli economisti che hanno pazientemente sviluppato tecniche a partire dalle singole problematiche. Ma nei loro sforzi sono stati costantemente messi in discussione da illustri fisici o biologi che si sono pronunciati in nome della scienza a favore di schemi o proposte che non meritano una seria considerazione. Un sociologo americano ha recentemente lamentato che “uno dei peggiori esempi di mentalità non scientifica è spesso un eminente scienziato naturale, cioè un fisico o biologo che parla di questioni sociali” esprimendo un’opinione comune a tutti gli studenti di questioni e problematiche sociali.

Dal momento che la disputa sulla pianificazione centrale è così strettamente legata alla disputa sulla validità scientifica dell’economia, era necessario fare brevemente riferimento a queste questioni. Ma questo non deve distoglierci dal nostro tema principale. L’inferiorità o la superiorità tecnica della pianificazione centrale rispetto alla concorrenza non è l’unico problema, e nemmeno quello principale. Se il grado di efficienza economica fosse l’unico argomento in ballo in questa controversia, i pericoli di un errore risulterebbero modesti rispetto a ciò che sono realmente. Ma così come la presunta maggiore efficienza della pianificazione centrale non è l’unico argomento utilizzato in sua difesa, così le obiezioni vanno ben oltre la sua reale inefficienza.

Bisogna infatti ammettere che se volessimo rendere la distribuzione dei redditi tra individui e gruppi conforme a un qualunque standard assoluto prestabilito, la pianificazione centrale sarebbe l’unico modo per raggiungere questo obiettivo. Si potrebbe sostenere – ed è stato sostenuto – che varrebbe la pena sopportare una minore efficienza se si potesse ottenere così una maggiore giustizia distributiva. Tuttavia gli stessi fattori che rendono possibile in un tale sistema il controllo della distribuzione del reddito necessitano l’imposizione di un ordine gerarchico arbitrario che governi lo status di ogni individuo e il ruolo di quasi tutti i valori umani.

Insomma, come è ormai sempre più generalmente riconosciuto, la pianificazione economica è la diretta causa della soppressione, conosciuta come “totalitarismo”, della libertà individuale e della libertà intellettuale. Come è stato detto recentemente su Nature da due eminenti ingegneri americani, “lo Stato fondato sull’autorità dittatoriale… e l’economia pianificata sono essenzialmente una cosa sola”.

Le ragioni per cui l’adozione di un sistema di pianificazione centrale produce necessariamente un sistema totalitario sono abbastanza semplici. Chi controlla i mezzi deve decidere quali sono i fini da conseguire. Al giorno d’oggi il controllo dell’attività economica significa controllo dei mezzi materiali per quasi tutti i nostri fini, dunque anche controllo su quasi tutte le nostre attività.

La natura della precisa scala di valori che deve guidare la pianificazione rende impossibile l’impiego di metodi democratici. Il dirigente di un sistema pianificato deve imporre la sua scala di valori, la sua priorità di obiettivi, che, per riuscire a portare a compimento il piano, deve includere una gerarchia dove lo status di ogni persona è ben definito.

Per permettere al piano di avere successo, o di sembrare di averlo, è necessario convincere il popolo che gli obiettivi scelti sono quelli giusti. Ogni critica al piano o all’ideologia che lo sottende deve essere trattata come un sabotaggio. Non può esservi alcuna libertà né di pensiero né di stampa, dove è necessario che ogni cosa sia dominata da un unico sistema di pensiero.

Il socialismo può volere, in teoria, accrescere la libertà, ma in pratica ogni forma di collettivismo non fa altro che applicare quei tratti caratteristici che fascismo, nazismo e comunismo hanno in comune. Il totalitarismo non è altro che un collettivismo sistematico, caratterizzato dall’esecuzione spietata del principio che “il bene comune viene prima dell’individuo” e dall’assoggettamento di tutti i membri della società ad una singola volontà che si suppone rappresenti il “bene comune”.

Richiederebbe troppo spazio mostrare nel dettaglio in che modo un tale sistema provoca un controllo dispotico in ogni sfera della vita, e come in particolare in Germania due generazioni di pianificatori hanno preparato il terreno per il nazismo. Ciò è già stato dimostrato altrove. Né è possibile dimostrare qui perché la pianificazione tende a produrre un forte nazionalismo e conflittualità internazionale o perché, come i redattori di uno dei più ambiziosi lavori cooperativi sulla pianificazione ebbero modo di scoprire con profondo rammarico, “la maggior parte dei ‘pianificatori’ sono accesi nazionalisti”.

A questo punto è bene trattare un più immediato pericolo che l’attuale andamento provoca in Gran Bretagna; quello della crescente divergenza fra i sistemi economici britannico e statunitense, che minaccia di rendere impossibile ogni reale collaborazione economica tra i due Paesi, una volta finita la guerra [l’articolo è del 1941, NdT]. Negli Stati Uniti l’attuale evoluzione è ben descritta dal programma per il ripristino della concorrenza presentato dal presidente Roosevelt nel discorso al Congresso dell’aprile 1938, che, nelle parole del presidente, si basa sull’idea “non che il sistema della libera impresa privata a scopo di lucro abbia fallito in questa generazione, ma che non sia stato ancora provato”.

D’altro canto, per quanto riguarda la Gran Bretagna nello stesso periodo si potrebbe giustamente dire che “ci sono molti segnali che i leader britannici si stanno abituando a pensare in termini di sviluppo nazionale per mezzo di monopoli regolamentati”. Ciò significa che stiamo percorrendo la stessa traiettoria avviata dalla Germania e che gli Stati Uniti stanno abbandonando perché, come afferma il rapporto sulla “Concentrazione del potere economico” a cui il discorso del presidente ha dato adito, “l’ascesa del centralismo politico è in gran parte il risultato del centralismo economico”.

L’alternativa non è, ovviamente, il laissez-faire, per come questo termine fuorviante e vago viene solitamente interpretato. Molto deve essere fatto per assicurare l’efficacia della competizione; e molto può essere fatto al di fuori del mercato per completare l’opera. Ma tentando di soppiantarla ci priviamo non solo di uno strumento che non può essere rimpiazzato, ma anche di un organismo senza il quale non ci può essere libertà per l’individuo.

In questo caso nulla può essere più degno di studio e considerazione della storia intellettuale della Germania nelle ultime due generazioni. È bene rendersi conto che le caratteristiche che l’hanno resa ciò che oggi è sono in gran parte le stesse che l’hanno resa così ammirata e che ancora oggi esercitano il loro fascino; e che la corruzione della mentalità tedesco è avvenuta in gran parte dall’alto, dai più influenti intellettuali e scienziati.

Alcuni uomini, indubbiamente notevoli a modo loro, resero la Germania uno Stato costruito in maniera artificiale – “organizzato pezzo per pezzo”, come ripetevano con orgoglio i tedeschi. Questo ha permesso al nazismo di proliferare e di trovare fra i suoi principali sostenitori i rappresentanti della scienza organizzata. Fu proprio l’organizzazione “scientifica” dell’industria che portò alla creazione deliberata di giganteschi monopoli e ne promosse l’inevitabile crescita 50 anni prima che ciò accadesse in Gran Bretagna.

La stessa dottrina sociale che al giorno d’oggi è così popolare tra alcuni uomini di scienza britannici cominciò a essere diffusa dalle loro controparti tedesche negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. La sudditanza degli uomini di scienza nei confronti di tutto ciò che fosse dottrina ufficiale cominciò con il notevole sviluppo della scienza finanziata a livello statale, che è l’oggetto di tanta glorificazione oggi in Gran Bretagna. La causa di cotanto disprezzo nei confronti della libertà e la sua soppressione a cui oggi assistiamo è il risultato di quello Stato in cui tutti aspirano al posto da dipendente statale e in cui tutte le attività a scopo di lucro vengono disdegnate.

Concludo con un’illustrazione di quanto ho detto circa il ruolo di alcuni dei grandi uomini di scienza della Germania imperiale. Il famoso fisiologo Emil du Bois-Reymond fu uno dei leader di un movimento volto a estendere i metodi delle scienze naturali ai fenomeni sociali, oltre che uno dei primi e più grandi sostenitori dell’opinione, ormai estremamente popolare, che “la storia delle scienze naturali è la vera storia dell’umanità”. È Inoltre colui che pronunciò quella che è forse la più vergognosa affermazione mai fatta da un uomo di scienza a nome dei suoi colleghi: “Noi, l’Università di Berlino”, proclamò nel 1870 in un discorso pubblico in qualità di rettore dell’Università, “acquartierati davanti al palazzo del Re, siamo, in dall’atto della nostra fondazione, la guardia del corpo intellettuale della casa degli Hohenzollern”.

La fedeltà degli scienziati-politici tedeschi si è da allora spostata altrove, ma il loro rispetto nei confronti della libertà non è aumentato. Eppure il fenomeno non è confinato solo alla Germania. Il signor J.G. Crowther non ha forse, in un libro dalla visione così simile a quella di du Bois-Reymond, cercato recentemente di difendere l’inquisizione perché, a suo avviso, “è utile alla scienza quando tutela una classe in ascesa”? Da questo punto di vista, chiaramente, tutte le persecuzioni degli uomini di scienza da parte dei nazisti dopo la loro ascesa al potere potrebbero essere giustificate – non erano essi in fondo una “classe in ascesa”?

Fonte: https://mises.org/library/planning-science-and-freedom

Traduzione a cura di Laura Pizzorusso