George Floyd ed il Principio di Libertà violato

L’uccisione per soffocamento di George Floyd da parte di alcuni agenti di polizia di Minneapolis ha scatenato forti proteste in tutti gli Stati Uniti e non solo.

E’ un fatto che riguarda tutti noi, senza distinzione di razza, di religione, di sesso o di età. Un agente, il cui compito sarebbe dovuto essere quello di garantire la sicurezza e la libertà dell’individuo, ha esattamente commesso l’azione opposta. Quella di abusare dei propri poteri conferitigli dalla legge per soffocare la libertà di un individuo.

I can’t breathe“. Letteralmente “Non riesco a respirare“, sono state le ultime parole pronunciate dall’afroamericano di 46 anni prima di essere ucciso.

Questo avvenimento ci porta a riflettere su noi stessi perché ancora una volta abbiamo assistito alla soppressione di una fondamentale libertà individuale: quella di non subire discriminazioni in base al colore della pelle, come quella di vivere la propria vita e di pensare in modo diverso.

Uno studio della School of Public Health di Harvard sulla discriminazione negli Stati Uniti riporta alla luce la percezione della discriminazione in base all’etnia e gruppi sociali. Si evince che in termini percentuali una persona di colore percepisce la discriminazione del 37% in più rispetto ad una persona bianca. Tali percezioni trovano una notevole differenza anche tra uomini, con il 44% di discriminazione percepita e donne con il 68 per cento.

Sempre lo stesso studio evidenza come tali percezioni siano presenti anche nel mercato del lavoro. Ad esempio, una persona di colore verrebbe discriminata il 44% in più rispetto ad un persona bianca sull’equità di remunerazione e promozioni. Sempre in quest’ambito lo studio evidenzia una marcata differenza in merito alla discriminazione percepita sul lavoro tra uomini (18%) e le donne (41%).

In termini economici, tutto questo si pone in contrasto con i principi del libero mercato, che prediligono l’individuo e la propria libertà di essere. Il mercato, per essere efficiente ed efficace, deve essere messo nelle condizioni di premiare le competenze ed il talento della singola persona e non il proprio gruppo sociale o etnico di appartenenza. Come affermava il celebre economista e pensatore liberale Ludwig von Mises, il mercato libero da interferenze statali non guarda il ceto sociale, il colore della pelle, il livello di istruzione, l’orientamento sessuale o l’identità di genere.

“Ciò che la democrazia capitalistica del mercato produce non è ricompensare le persone secondo i loro “veri” meriti, il valore instrinseco e la loro eminenza morale. Ciò che rende un uomo più o meno propenso non è la valutazione del suo contributo da un qualsiasi principio “assoluto” di giustizia, ma la valutazione da parte dei suoi simili che applicano esclusivamente il metro dei propri bisogni, desideri e fini personali”

Ludwig Von Mises – La mentalità anticapitalista

Questo è ciò che Mises ha definito come il sistema democratico del libero mercato. Ma affinché avvenga, il nostro afferma che è necessario non solo “un mercato non sabotato da restrizioni imposte dal governo“, ma anche il rispetto dell’uguaglianza di fronte alla legge.

Nel rispetto di queste due condizioni fondamentali, “è esclusivamente colpa tua se non superi il re del cioccolato, la star del cinema e il campione di pugilato.”

E allora, dovremmo domandarci: quante volte ci siamo sentiti discriminati e soffocati da leggi e restrizioni imposte dal governo? Quante volte abbiamo urlato tra le mura della nostra mente “I can’t breathe”, “Non riesco a respirare”, perché non ci siamo sentiti liberi di essere intraprendenti e attivi nella società a causa della burocrazia?

Garantire la libertà in tutte le sue forme nel rispetto della libertà altrui è il primo passo fondamentale per respirare e far respirare gli altri.

La legalizzazione della cocaina spiegata dal Principe del Liechtenstein

Nella politica ordinaria, quando si parla di legalizzazione delle droghe leggere, la risposta tipica dei contrari è “ah sì, dopo la marijuana cosa legalizzeremo, la cocaina?”.

Solitamente, a tal punto, si parte su un dibattito sul danno fattuale degli stupefacenti, sul fatto che le droghe leggere facciano questo e quello mentre le droghe pesanti siano peggiori, che vi sia una differenza e così via.

Eppure la risposta alla domanda iniziale dovrebbe tranquillamente essere “sì”. Esistono vari motivi per cui certe sostanze siano molto meno dannose dentro la legge e non fuori.

Per esempio la Svizzera ha portato l’eroina dentro la legge, offrendola gratuitamente ai dipendenti. Ciò da un lato ha enormemente ridotto i tassi di infezioni e morti e dall’altro ha anche mandato fuori mercato lo spaccio: nessuno creerebbe un mercato per quelle decine di persone che magari vorrebbero provare.

Ma tra l’eroina, che è tristemente nota per i suoi effetti, e la marijuana, che è ormai socialmente paragonabile all’alcol e tollerata e legalizzata in vari paesi, c’è tutto un mondo di droghe chiamate pesanti ma che sono meno dannose dell’eroina, tra cui la cocaina.

Questa droga è infatti poco spesso analizzata nelle proposte di legalizzazione: non ha particolari usi medici, chi la usa non è sempre un derelitto come con l’eroina e spesso è anche considerata una droga altolocata.

Perché legalizzare la cocaina?

Eppure esistono ottime ragioni per legalizzarla. La ragione è semplice: il proibizionismo ha fallito e le persone continuano a drogarsi allegramente, portando i politici a chiedere più guerra alla droga, che fallirà, portando i politici a fare più guerra alla droga. Ok.

L’illegalizzazione delle droghe porta a pessime situazioni sociali quali:

  • La possibilità di accedere al mercato solo per grandi organizzazioni criminali, che spesso usano i proventi per azioni terroristiche o per infiltrarsi nei governi
  • Nessuna garanzia sul contenuto e sulla qualità delle sostanze, portando a pericoli sanitari ben maggiori rispetto a quelli che darebbe la sostanza di qualità
  • Creazione di aree sotto il controllo dello spaccio dove le forze dell’ordine e i comuni cittadini non possono accedere senza correre grandi rischi
  • Aumento delle dipendenze e favorire, nei fatti, un legame spacciatore- dipendente

Come legalizzare la cocaina?

Nel suo “lo Stato nel Terzo Millennio” il Principe del Liechtenstein parte dal presupposto che lo Stato, con le sue politiche completamente slegate dalle logiche di mercato, abbia fatto più danni che altro sulle droghe, addirittura favorendo le dipendenze e il malessere della comunità.

Il Principe, da buon cattolico, ritiene un fenomeno negativo la dipendenza da stupefacenti. Ma, anche se non ci piace, esiste e va affrontato secondo le regole che regolano quasi tutta la nostra vita: quelle del mercato.

Ed ecco come Giovanni Adamo II legalizzerebbe la cocaina.

Coltivazione e Stati in via di sviluppo

Nei Paesi dove si coltiva la coca esistono moltissimi coltivatori ma solo un acquirente: il cartello della zona, che è libero di fare il prezzo che vuole. Con gli enormi profitti della vendita poi si infiltrano nel governo e aumentano il proprio controllo territoriale.

Ma se noi pagassimo di più questi coltivatori? Il Principe fa l’esempio dicendo “il doppio”, ma ovviamente ci sarebbe un naturale processo di mercato sul prezzo. La possibilità di acquistare legalmente la coca indebolirebbe molto il ruolo territoriale del cartello e aiuterebbe migliaia di persone a divenire indipendenti dalla criminalità. Chiaramente non eliminerebbe totalmente il cartello e tale misura andrebbe affiancata da aiuti per rafforzare lo Stato di Diritto in questi Paesi, ma iniziare a togliere il finanziamento e l’armata di schiavi di tale sistema è il primo passo per sconfiggerlo.

Prezzi e produzione

Tanti dicono che è impossibile legalizzare la cocaina perché “se costa 50€ al grammo e ci metti le tasse e tutto nessuno la comprerebbe a 100€ al grammo”. Peccato che il prezzo della cocaina non sia di certo un prezzo di mercato: i cartelli sono anche venditori unici e possono fissare i prezzi come desiderano per avere i profitti che vogliono: Pablo Escobar non girava con una Lada.

Inoltre l’illegalità della sostanza aumenta i suoi costi: bisogna trasportare tutto in segreto, con significative perdite, e ungere le persone giuste ai giusti livelli. Un business legale non ha bisogno di sottomarini o Cessna né di regalare un’auto al capo della Polizia di Frontiera per far passare il carico, detta semplice.

Un business legale semplicemente acquisterebbe le foglie di coca, le porterebbe da qualche parte dove vengono elaborate, magari in Paesi in via di sviluppo così da strappare altra manovalanza al cartello, e legalmente e senza sotterfugi lo porterebbe nel Paese di vendita.

Vendita ed effetti sulla popolazione

La vendita di cocaina può essere regolamentata, ovviamente, ad esempio vendendola solo in determinati locali che forniscono informazioni e assistenza a chi ne ha bisogno.

Inoltre, se si vuole mantenere una sanità base per tutti può essere una misura di buonsenso far pagare i costi della dipendenza a chi fa uso delle droghe. Non amo i discorsi del tipo “legalizzare le droghe per dare più soldi allo Stato”: lo Stato stesso ha bisogno di una cura al SERT contro la sua dipendenza dalla spesa pubblica, ma esiste ampio spazio per restare concorrenziali col nero e avere una tassa sugli stupefacenti che vada a finanziare la sanità, magari direttamente il fondo malati adottando un sistema ispirato a Bismarck.

Riguardo gli utenti è ben chiaro che avrebbero benefici tutte le categorie.

Chi ha veramente una dipendenza può procurarsi la sostanza in modo controllato e chiedere aiuto e informazioni a professionisti.

Chi è un utilizzatore occasionale ha la certezza di procurarsi una sostanza sicura, con dosi certe e che non pone rischi ulteriori rispetto alla sostanza per se.

Chi magari vuole provare la prima volta, invece di trovare uno spacciatore che dalla vendita di quella dose potrebbe potenzialmente guadagnarci molto, troverà professionisti che lo consiglieranno e potranno digli di evitare e, se proprio vuole, di farlo in sicurezza.

Qualcuno argomenterebbe che nemmeno dovrebbero comprarle queste sostanze. Ma tanto lo fanno, ed è preferibile che il profitto vada nell’economia legale e non alla mafia che sta comperando il tritolo per far saltare qualche magistrato.

Ma il beneficio è anche sociale: ridurremmo nettamente i detenuti per reati di droga, con ogni detenuto ci costa 150 Euro al giorno. Ci riprenderemmo zone della città che oggi sono chiuse e in mano allo spaccio.

Non c’è, in sostanza, una ragione che sia una per mantenere il proibizionismo.

Ma sconfiggerebbe la mafia?

Certo che no, non per questo non va fatto. Così come la mafia si infiltra nei ristoranti, nell’edilizia e in qualunque settore si infiltrerà anche nella vendita di droga.

Semplicemente, è completamente idiota non fare un qualcosa che lascerebbe, per esempio, il 20% del mercato alla mafia quando con l’attuale sistema… la mafia ha il 100% del mercato.

Anche la mafia dovrebbe competere nel mercato e dovrebbe quindi ridurre i propri profitti, alle volte azzerandoli o andando addirittura in perdita. Unito ad un controllo adeguato sulle imprese, beh, non avrà la vita semplice che ha oggi.

Poi, sicuramente, potrebbero esistere fenomeni di contrabbando, visto che la malavita ha già oggi una sua rete. Ma se lo Stato non vedrà la droga come l’ennesima vacca da mungere ma come un settore strategico per ridurre la malavita e il suo potere e terrà i prezzi bassi, beh, sarà un mercato molto, molto piccolo.

[INTERVISTA] Il liberalismo visto dal Professor Lorenzo Infantino

Per il blog dell’Istituto Liberale ho il grande piacere e l’onore di intervistare Lorenzo Infantino, Professore di Filosofia delle Scienze Sociali presso la LUISS Guido Carli e autore di numerose pubblicazioni tradotte in inglese e spagnolo. La sua più recente fatica, Cercatori di Libertà, è stata pubblicata dall’Editore Rubbettino.

D. Professor Infantino, grazie mille per la Sua disponibilità. Noi tutti le siamo grati per il suo instancabile lavoro di divulgazione del liberalismo di stampo evoluzionistico che dai moralisti scozzesi arriva fino alla Scuola Austriaca di Economia. Ci parli del “legislatore onnisciente” e di come David Hume e Adam Smith abbiano sferrato un attacco mortale sul piano gnoseologico a questo mito.

R. Duncan Forbes ci ha lasciato degli scritti molto acuti sull’Illuminismo scozzese. Nella sua introduzione a una ristampa del noto saggio di Adam Ferguson sulla “storia della società civile”, Forbes ha esattamente scritto che il “più originale e audace coup della scienza sociale dell’Illuminismo scozzese” è costituito dall’abbattimento del mito del Grande Legislatore.

Forbes si è in realtà giovato di un’affermazione di Émile Durkheim, secondo cui nulla ha ritardato la nascita della scienza sociale più dell’idea che attribuisce l’origine delle istituzioni alla volontà di un qualche legislatore, “dotato di un potere quasi illimitato”. Nella sua opera, Durkheim non è stato sempre fedele a ciò che dalla sua affermazione discende. Ma quanto sostenuto da Forbes con riferimento all’Illuminismo scozzese coglie nel segno. E Friedrich A. von Hayek lo ha riconosciuto.

Per citare i due maggiori esponenti della cultura scozzese del Settecento, direi che nel repertorio di David Hume e di Adam Smith si trovano gli strumenti con cui colpire mortalmente il mito del Grande Legislatore. Con la legge che porta il suo nome, Hume ha mostrato che non è logicamente possibile derivare proposizioni prescrittive da proposizioni descrittive. Bisogna perciò separare i fatti dai valori.

Non c’è una scienza del Bene e del Male, perché le regole morali “non sono conclusioni della ragione”, bensì il prodotto inintenzionale dei rapporti di convivenza. Com’è noto la legge di Hume sta alla base della libertà di coscienza. E nessun Leviatano, “Dio mortale” che pretenda di esprimere la volontà del “Dio immortale”, può imporci alcuna credenza.

Da parte sua, Smith si è soffermato su quello che possiamo oggi chiamare teorema della dispersione della conoscenza. Le nostre conoscenze di tempo e di luogo sono infinite; e, di conseguenza, non sono centralizzabili. “Nella propria condizione locale”, ognuno sa più di ogni legislatore, senato o assemblea. È un’idea che è stata letteralmente copiata da Edmund Burke e che, nel corso del Novecento, è stata posta da Hayek al centro della propria riflessione e, fra le altre cose, della critica all’economia pianificata.   

D. Ci può spiegare in che senso quello degli scozzesi è un liberalismo evoluzionistico?

R. Sir Friedrick Pollock ha scritto che Montesquieu, Burke e Savigny devono essere considerati dei “darwiniani prima di Darwin”. Ma tale appellativo spetta senza dubbio anche a Bernard de Mandeville, Hume e Smith. Attraverso il nonno Erasmus, Charles Darwin è stato influenzato da Hume. Egli è stato anche influenzato dalla lettura dei testi smithiani.

In ogni caso, tutti gli autori che ho appena citato hanno compreso, come farà successivamente Alexis de Tocqueville, che gli uomini sono ovunque soggetti alle stesse imperfezioni e alle stesse miserie. Si affermano coloro i quali adottano le norme sociali che meglio consentono la soluzione dei problemi della convivenza. L’esempio più chiaro è quello della divisione del lavoro.

Le popolazioni che hanno diviso il lavoro hanno realizzato l’allargamento dell’ambito della cooperazione sociale e incrementato il volume degli scambi. Hanno in tal modo conseguito un benessere a cui, in caso contrario, non sarebbero potuti pervenire. Quello degli autori che ho richiamato è un evoluzionismo di carattere culturale, in cui sopravvivono le norme e le istituzioni che maggiormente facilitano la cooperazione sociale. Nulla a che fare col darwinismo sociale, tristemente trasferito dalla biologia alle scienze sociali.

Nel mercato, ciascuno di noi paga ciò che sa fare peggio con quello che sa fare meglio. Se qualcuno non riesce efficacemente a svolgere il proprio compito, egli può occupare una diversa posizione, servire gli altri mediante una differente attività, abbracciando regole professionali più confacenti alle sue capacità e al suo impegno.

D. In che maniera e tramite quali figure la tradizione scozzese si ricollega alla Scuola Austriaca e all’individualismo metodologico?

R. L’evoluzionismo culturale e l’individualismo metodologico sono due aspetti della stessa realtà. Se si abbatte il mito del Grande Legislatore, il processo sociale è necessariamente ateleologico. Sappiamo che ci sarà un ordine sociale: perché il diritto, delimitando i confini fra le azioni, lo rende possibile.

E tuttavia non possiamo sapere quale ordine concretamente si realizzerà. Ossia: lo scambio dei mezzi fra gli attori è di carattere intenzionale, ma la cooperazione ai fini altrui è inintenzionale. E lo è anche il risultato finale, giacché esso non è il frutto della programmazione di una qualche mente ordinatrice. Nelle sue Untersuchungen, Menger ha rivelato i suoi debiti nei confronti di Burke e di Savigny. E ha criticato Smith.

Malgrado ciò, Hayek ha affermato che Menger ha fatto “rivivere” l’individualismo metodologico di Adam Smith. Possiamo afferrare le ragioni di tale diversità di vedute. Pur avendo tutti gli strumenti per respingere la teoria del costo di produzione (la teoria del valore-lavoro ne è una versione), Smith ha fatto a essa delle concessioni. Com’è noto, Menger è stato uno degli artefici della cosiddetta “rivoluzione marginalista”.

È così accaduto che, nel giudicare Smith, si è concentrato sulle concessioni smithiane alla teoria del costo di produzione. Ma ciò lo ha tenuto lontano dal filo che tiene assieme i vari scritti di Smith e che è costituito dalla teoria delle conseguenze inintenzionali. Il che è quanto maggiormente rileva. Condivido pertanto la posizione di Hayek.

D. Hayek è forse il principale esponente del Liberalismo nel Novecento, un vero gigante del pensiero, premio Nobel per l’Economia nel 1974. Qual è secondo Lei il suo più originale contributo alla teoria del liberalismo?

R. Non devo fare alcuno sforzo. Lo stesso Hayek ha dichiarato di ritenere “Economics and Knowledge” il suo più originale contributo alla teoria economica. Basando la sua critica agli schemi dell’equilibrio economico generale sulla divisione (dispersione) della conoscenza, Hayek ha gettato una potente luce sul significato della concorrenza come processo di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori. E ciò gli ha consentito di farci comprendere che, senza libertà individuale di scelta, non è possibile la crescita della nostra razionalità.  

D. Lei ha avuto modo di definire l’ordine spontaneo hayekiano come un “ordine senza piano”. Michael Oakeshott, riferendosi alla celeberrima “the road to serfdom” di Hayek, ha mosso la seguente critica: A plan to resist all planning may be better than its opposite, but it belongs to the same style of politics”. Si sente di difendere Hayek da questa critica?

R. Hayek non ha bisogno di essere difeso da me. Il contributo che egli ha dato alla comprensione della dinamica dei processi sociali lo pone molto al di sopra di ogni piccola disputa. Se teniamo conto di quanto Hayek ha in particolare scritto contro l’abuso della ragione, sulla formazione dell’io e sull’ordine sensoriale, l’affermazione di Oakeshott mi sembra del tutto fuori luogo.

Hayek non ha mai sostenuto la necessità di opporre alla pianificazione centralizzata un piano diversamente concertato. Egli ha semplicemente opposto la libertà individuale di scelta, capace di mobilitare conoscenze e risorse altamente disperse all’interno della società. 

D. Lei è sempre stato molto critico nei confronti della distinzione Liberismo-Liberalismo di Benedetto Croce.  In che maniera possiamo evitare, però, che il liberalismo sfoci in una forma di morale utilitaristica?

R. Bisogna capire che cosa intendiamo per morale utilitaristica. Fra le cose importanti che Hayek ci ha portati a comprendere, c’è l’esigenza di delimitare i confini fra le varie tradizioni di ricerca. Il liberalismo della tradizione scozzese-austriaca non ha nulla da spartire con l’utilitarismo di Jeremy Bentham e dei suoi seguaci.

La teoria delle conseguenze inintenzionali lo pongono su un piano molto diverso, in cui prevale il “governo della legge” e l’utilità delle regole. Si aggiunga che la polemica di Croce, sia detto con tutto il rispetto per il suo antifascismo, volta le spalle all’incontestabile fatto che, senza libertà economica, non è possibile nemmeno la libertà politica. Sin dal Seicento, ci sono stati pensatori che hanno richiamato la nostra attenzione su tale problema.

E Hayek ha sintetizzato nella maniera più efficace quello che possiamo chiamare teorema di François Bernier, il medico francese che, dopo avere visitato alcuni paesi orientali, ha mostrato come la base della libertà individuale di scelta risieda esattamente nella proprietà privata dei mezzi di produzione, perché “chi detiene tutti i mezzi determina tutti i fini”, ideali e materiali (Hayek).    

D. Se il prezzo della libertà è, come Karl R. Popper ha affermato, “l’eterna vigilanza”, quali sono secondo Lei le maggiori minacce alla nostra libertà dalle quali oggigiorno dobbiamo difenderci?

R. Dobbiamo difenderci dalla “democrazia illimitata”, regime politico contro cui già Aristotele ci poneva in guardia. Benjamin Constant ha chiarito molto bene la questione, allorché ha affermato che “l’astratto riconoscimento della sovranità popolare non incrementa di alcunché la libertà di ciascuno di noi.

Se attribuiamo a quella sovranità un’ampiezza che non deve avere, possiamo perdere la libertà nonostante quel principio o anche a causa di esso”. La “democrazia illimitata”, in cui le interferenze e le sistematiche prescrizioni del potere politico hanno il sopravvento sulla cooperazione sociale volontaria, coincide con quella che James M. Buchanan ha chiamato “democrazia in deficit”. Quest’ultima definizione ci dice molto anche con riferimento alle vicende del nostro Paese.

D. Infine una domanda più “personale”: lei è di origine calabrese come anche l’editore Rubbettino, al quale va tutta la nostra gratitudine per il grande lavoro di divulgazione dei testi del liberalismo di ieri e di oggi. Il Sud sembra non riuscire ad affrancarsi dall’idea che la salvezza e lo sviluppo derivino dall’intervento statale. Non ritiene che la mancanza di una diffusa cultura liberale sia tra le cause di questa forma mentis?

R. Come non è nato in Calabria, il liberalismo non è nato nemmeno in Italia. Quale che sia stata la sua origine, le popolazioni che lo hanno abbracciato hanno visto rapidamente cambiare le loro condizioni di vita. Senza attardarci su ciò, possiamo dire che il liberalismo ha cambiato il mondo, perché le sue regole hanno reso possibile la crescita economica e culturale.

Pertanto, gli uomini (l’ho già detto rispondendo a una precedente domanda) sono ovunque soggetti alle stesse imperfezioni e alle stesse miserie. Ma i modelli di vita adottati possono portare benessere e impedire fenomeni degenerativi della convivenza sociale. La nostra classe politica ha pensato che il recupero dei ritardi accumulati da alcune aree del Paese potesse avvenire tramite la logica redistributiva. Il che ha sicuramente allargato la sfera d’intervento dei poteri pubblici, ha alimentato clientele e ha impedito l’affermazione di una diffusa classe imprenditoriale, senza cui lo sviluppo economico e i correlati modelli di comportamento sono impossibili. È stato un naufragio.

Rialzati, Imprenditore!

Caro imprenditore,

chi scrive è uno della tua stessa specie. 

Uno di quei folli che ha deciso di fare impresa in Italia, rinunciando a qualsiasi tipo di sicurezza per provare a realizzare un sogno.

Come te sono partito da sotto zero, armato solo di ciò che sapevo fare e consapevole che non avrei mai fatto un 9-17 e poi tutti a fare aperitivo sul divano.

Ma come te amo il mio lavoro: ogni cliente che aiuto mi dà la sensazione di aver spostato l’ago della bilancia verso il bene, anche solo di poco.

Tuttavia, devo lottare ogni giorno per tenere accesa la fiamma di questo amore, perché c’è una cosa che succede in Italia che ogni tanto mi porta a chiedermi: “ma ne vale davvero la pena”?

Di cosa sto parlando?

Non è il sapere che una fetta consistente del mio fatturato va nelle mani di un governo che lo spreca nei modi più immorali possibili.1

Non è neanche sapere che, a causa di politiche assistenzialiste assurde, assumere un dipendente può costare anche più di 35mila euro annui.2

Impedendomi così di assumere lavoratori talentuosi, far crescere velocemente la mia impresa e diventare competitivo nel mercato internazionale.

E no, non è neanche sapere che le continue riforme economiche italiane rendono il paese più instabile di un tavolo con due gambe

cosa che mi obbliga a buttare tempo e risorse preziose per non morire soffocato nelle sabbie mobili dalla burocrazia italiana. 3

Quello che davvero mi manda il sangue al cervello è la considerazione pari a zero nei confronti degli imprenditori.

Siamo stigmatizzati e trattati alla stregua di fuorilegge che sfruttano degli onesti lavoratori.

Le forze politiche non ci considerano perché siamo pochi: secondo i dati ISTAT siamo meno di 5 milioni tra imprese e liberi professionisti su 60 milioni di abitanti.4

Questo significa che per le forze politiche, che prendono decisioni non in base al bene della nazione, ma in base a dove c’è il maggior numero di elettori, non esistiamo nemmeno.

Lo ripeto: per loro non esistiamo.

Dimentica che qualche politico, inserito in quella srl senza rischio di impresa che è il nostro governo, avrà mai interesse a fare delle manovre economiche DAVVERO a nostro favore.

Vorrebbe dire inimicarsi i rimanenti 55 milioni di italiani che, come disse una volta Frank Merenda, noto imprenditore e divulgatore italiano, sentono in cuor loro di avere diritto a una specie di “lavoro di cittadinanza”.

Peccato che l’economia di un paese non la crei lo Stato dal nulla.

La VERA economia del paese la crei TU, imprenditore.

È solo grazie al profitto che crei con il tuo lavoro che si crea l’economia del paese perché, a differenza di quello che molta gente crede, lo Stato NON può creare ricchezza dal nulla.

Lo Stato ha in cassa solo i soldi che, gira e rigira, gli dai tu: 

  • I pensionati ricevono soldi raccolti con le tasse di oggi;
  • I dipendenti ricevono gli stipendi che hai pagato tu;
  • I dipendenti statali vivono con soldi dei contribuenti, visto che i sistemi burocratici non producono alcun tipo di valore;

Insomma, non solo abbiamo 55 milioni di italiani sulle nostre spalle, un governo che brucia costantemente soldi per salvare Alitalia e una tassazione vergognosa.

Ma siamo anche stigmatizzati dall’opinione pubblica.5

La mia parte più ribelle sogna che tutti gli imprenditori italiani si mettano d’accordo e decidano di dare in tasse il vero corrispettivo di quello che vale questo governo: 2 centesimi.

Ma so che questo è solo il sogno di un ragazzo che vorrebbe dare la giusta dignità all’imprenditoria e al nostro paese.

Dignità che ogni giorno viene dilaniata da un governo che si nutre del nostro lavoro e in cambio ci restituisce servizi scadenti, sprechi e corruzione.

Dignità che ci viene strappata in questo “tutti contro tutti” mediatico che ci porta ad essere in lotta con i nemici sbagliati:

  • Dipendenti contro imprenditori;
  • Destra contro sinistra;
  • Sovranisti contro europeisti;
  • Cittadino contro cittadino.

Combattendo una guerra tra poveri che non fa altro che nutrire il Leviatano che ci sta divorando davvero: lo Stato.

Lo stato che non ti permette di investire i frutti del tuo lavoro nella crescita della tua azienda.

A quante persone potresti dare lavoro se solo non fosse così difficile assumere e licenziare persone all’occorrenza?

Moltissime. E probabilmente potresti pagarle tutte senza problemi.

Quanto aumenterebbe la tua produttività se avessi più forza lavoro?

Non lo puoi neanche immaginare.

E questo è un altro problema enorme: questa economia stagnante gestita da burocrati ignoranti in materia economica, ci ha privato anche della libertà di sognare un mondo del lavoro migliore e più sano.

Lo vedo quando, parlando con amici e parenti e mostrando loro che in altri paesi è già presente una cultura della libertà imprenditoriale, mi sento rispondere “in Italia questo non accadrà mai. Siamo un popolo di disonesti e di corrotti”.

Non andremo da nessuna parte con questa mentalità.

Non c’è nessuna dignità nel denigrare il proprio stesso popolo.

Nessuna.

Non solo ci hanno privato della capacità di sognare un paese migliore, ma ci hanno persino privato del desiderio di partecipare alla vita politica.

Perché so che anche tu, come me, hai la sensazione che sia che si scelga la destra, la sinistra o il centro, alla fine non cambi poi molto.

Se pensi questo, sappi che non ti sbagli.

Muoversi sull’asse destra-sinistra è un pensiero tanto vecchio quanto limitante.

Non a caso l’orientamento politico, oggi, è infatti possibile collocarlo in un doppio asse:

  • Destra/sinistra economica
  • Liberale/autoritario

Andando a comporre un quadrante chiamato Political Compass

Dove i vari elementi che strutturano lo schema possono essere così definiti:

Destra economica/Economic Right: è un sistema economico fondato sull’individuo, sulla competenza e sul libero mercato.6

Sinistra economica/Economic Left: è un sistema economico fondato sulle esigenze collettive, sulla giustizia sociale e sul socialismo.7

Liberalismo/Libertarian: atteggiamento politico fondato sulla libertà individuale, sulla protezione dei cittadini dalla coercizione e sui limiti del potere statale.8

Autoritarismo/Authoritarian: atteggiamento politico che antepone lo Stato all’individuo.9

Questo cambia totalmente le carte in tavola e mostra chiaramente come nessun partito politico sia davvero favorevole al libero mercato

Anzi, procede verso un sempre maggiore controllo statale e verso l’annientamento del tessuto imprenditoriale.

Si è visto nella gestione della crisi da Coronavirus dove siamo stati totalmente abbandonati a noi stessi con 600 miseri euro in tasca che ad alcuni non sono nemmeno arrivati.

Dove la “sanità migliore del mondo” ha mostrato il suo vero volto: l’ennesimo colabrodo iper burocraticizzato dove chi lavora al suo interno viene spremuto come un limone in cambio del nulla più assoluto.

Dove una Task Force di più di 450 persone (tutte regolarmente pagate con i soldi dei contribuenti) non è riuscita né a salvare vite, né a salvare l’economia.

Dove sono riusciti a mettere in ginocchio la distribuzione delle mascherine grazie alla calmierazione dei prezzi, pratica che ogni studente del primo anno di economia sa essere dannosa. perché distrugge la filiera produttiva e crea in automatico scarsità.

Spacciando questo scempio per un grande trionfo su giornali e telegiornali, quando per la verità è che non sono riusciti né a salvare vite, né a salvare l’economia.

Nonostante tutto questo, la propaganda mediatica continua a invocare una maggiore presenza statale, credendo che questo sia l’unico modo per risolvere le cose.

Ma come possiamo pensare di tirarci fuori da questo pantano chiedendo una soluzione alla stessa entità che ci ha portati in questo inferno?

Cosa possiamo fare DAVVERO per uscire da questa schifezza?

Ho una brutta notizia per te: non esiste una bacchetta magica capace di mettere tutto a posto in un secondo.

La storia insegna che anche la più grande rivoluzione è controproducente se non c’è un sostanziale cambiamento culturale alla base.

Nessuna grande manovra economica potrà salvarci finché continueremo a:

  • Pensare solo in termini di destra e sinistra come se fossero squadre di calcio;
  • Rimanere totalmente ignoranti in materia di cultura economica di base;
  • Sostenere partiti politici che non fanno altro che spartirsi i nostri soldi;
  • Accontentarci del “male minore” in politica;
  • Sacrificare la nostra libertà economica e individuale in nome di uno Stato che ci vede come delle vacche da mungere fino alla morte;

Abbiamo solo una via di uscita: imparare il linguaggio della libertà.

Imparando che alcune soluzioni, per quanto distanti dalla situazione attuale, sono possibili.

Ed è esattamente quello che facciamo noi dell’Istituto Liberale.

In pochi anni siamo diventati il più grande Think Tank liberale italiano, riunendo sotto la nostra ala migliaia di persone che prima di conoscerci odiavano la politica.

Ora, invece, via via che diffondiamo questa cultura, migliaia di persone sentono finalmente di far parte di qualcosa che ha davvero la possibilità di cambiare l’opinione pubblica.

“Ma cos’è un think tank? E in che modo potrà cambiare il nostro paese?” ti starai chiedendo.

Un think tank è un’organizzazione che si occupa di un determinato tema.

Nel concreto, come puoi notare dai nostri canali, ci impegnamo a diffondere la cultura liberale.

Ecco gli strumenti con cui la diffondiamo e che sono a disposizione di tutti:

  • Video su youtube con approfondimenti di temi di attualità;
  • Interviste a personaggi di spicco in ambito economico, filosofico e sociale;
  • Post di approfondimento su Facebook;
  • Infografiche su Instagram;
  • Pubblichiamo 3 articoli ogni settimana sul nostro blog;
  • Traduciamo libri che in Italia non si trovano;
  • Organizziamo eventi di sensibilizzazione alla libertà in tutta Italia;
  • Organizziamo dei gruppi di studio locali creando dibattiti sui temi più disparati;

Insomma, forniamo a chi ci segue delle Armi di Istruzione di Massa.

Armi per difendere la tua libertà individuale, troppo spesso sacrificata sull’altare della collettività in cambio di politiche economiche inadeguate.

Armi per poterti liberare dall’ipnosi della propaganda pubblica che ci mette costantemente tutti contro tutti.

Armi per poter difendere le persone che ami dalle idee velenose distillate con l’odio che ci vengono fatte ingoiare a forza ogni giorno da telegiornali e media nazionali.

Tutto questo è possibile grazie a chi ci ha sostenuto finora iscrivendosi.

La stragrande maggioranza sono ragazzi tra 16 e 30 anni che, malgrado non abbiano un reddito come me e te, hanno deciso di investire parte delle loro finanze per far parte di questo progetto.

E, solo con loro, siamo già riusciti ad ottenere dei risultati straordinari, triplicando la nostra potenza di fuoco in una manciata di anni, arrivando ad essere ospitati persino dalla Rai.

Poi dicono che in questo paese i giovani pensano solo alla movida e a divertirsi.

La verità è ben diversa.

La verità è che ci sono moltissimi ragazzi in questo paese che si sono uniti per cambiare la direzione dell’opinione pubblica.

Sono gli stessi giovani che in un vicinissimo futuro potranno votare, partecipare alla vita politica e dare una vera svolta a questo paese.

E che hanno realizzato tutto questo da soli, unendo le loro forze in nome di un futuro migliore.

Infatti non siamo affiliati a nessun partito politico, non abbiamo “le mani in pasta” e non abbiamo neanche interesse ad averle.

L’unica cosa che ci preme è continuare a diffondere la cultura della libertà. 

Per questo, oggi ti diciamo: “Rialzati, imprenditore!”

Rialzati e lotta per la libertà di poter generare ricchezza dalla tua capacità di aiutare la società con i tuoi prodotti e servizi.

Rialzati e guardati allo specchio con fierezza, perché è grazie al tuo sacrificio se questo paese è ancora in piedi.

Rialzati e sii fiero di te per aver dato un lavoro a persone meritevoli che oggi mettono sul tavolo del cibo per sé stessi e i loro cari.

Rialzati e smetti di accettare silenziosamente le ingiustizie perpetrate da questo governo e dalla sua propaganda.

Rialzati, imprenditore, e aiutaci ad aiutarti!

Aiutaci a continuare a diffondere la cultura dell’imprenditorialità, del libero mercato e della libertà individuale.

Se in pochi anni e solo con l’aiuto dei giovani italiani siamo riusciti a diventare il più grande think tank italiana, cosa potremmo raggiungere con il tuo aiuto?

  • Investiremo nella formazione di nuovi articolisti, designer e ricercatori, aumentando esponenzialmente la qualità della nostra divulgazione;
  • Tradurremo sempre più libri sul pensiero liberale;
  • Raggiungeremo dei player mediatici sempre più grossi e importanti, arrivando nelle case di sempre più italiani;
  • Metteremo a disposizione tua e delle persone che ami sempre più strumenti di educazione alla libertà;

E se tutto andrà bene, arriverà un giorno in cui questo paese tornerà a risplendere, in cui lo spirito imprenditoriale italiano, la sua genialità e la sua creatività otterranno finalmente il posto che meritano.

Un giorno in cui gli altri paesi guarderanno con ammirazione la qualità della vita nello Stivale.

Un giorno in cui la politica non si approfitterà delle nostre paure per fare false promesse in cambio di voti.

Un giorno in cui ci vergogneremo un po’ di noi stessi per aver accettato silenziosamente di sacrificare la nostra libertà in cambio di un governo mediocre.

Quindi rialzati, imprenditore, e aiutaci ad aiutarti!

Come?

Non devi fare altro che cliccare sul pulsante rosso qui sotto.

Come vedrai, abbiamo diversi tipo di tesseramento, pensati per le tasche di tutti.

 

 

Moltissimi ragazzi che potrebbero avere l’età di tuo figlio si sono già iscritti, iniziando a ricevere libri e materiali esclusivi sulla cultura liberale.

Tra loro tantissimi hanno persino fatto la tessera gold, cosa che ci ha riempito il cuore di orgoglio e di onore, spingendoci ad aumentare sempre di più la qualità dei materiali divulgativi.

Non serve che tu faccia lo stesso: sappiamo bene che questo è un momento economicamente delicato per le imprese.

Tuttavia anche il più piccolo aiuto per noi è fondamentale: ci permette di stampare nuovi materiali, pagare i servizi legati al sito, organizzare eventi, tradurre libri, etc.

Tutti modi con cui ci impegniamo a diffondere la tua voce e a difendere il libero mercato.

Clicca sul pulsante qui sotto e aiutaci ad aiutarti!

 

 

La libertà ha bisogno di te.

Rialzati, imprenditore!

Fonti:

1 https://www.theitaliantimes.it/economia/contratto-tempo-indeterminato-costo-azienda_140220/

2 https://24plus.ilsole24ore.com/art/decreto-rilancio-ad-alitalia-3-miliardi-quanto-ospedali-ADfbBfR

3 https://www.assolombarda.it/centro-studi/quanto-costa-la-burocrazia#:~:text=Il%20costo%20della%20burocrazia%20%C3%A8%20stimato%20variare%20dai%20108%20mila,parte%20di%20un%20collaboratore%20dedicato.

4 http://dati.istat.it/

5http://www.confapi.padova.it/notizie/archivio/luglio-agosto-settembre-2019/questo-paese-demonizza-ancora-gli-imprenditori-difficile-essere-ottimista-sul-nuovo-governo/

7http://temi.repubblica.it/micromega-online/che-significa-essere-di-sinistra/

8http://www.treccani.it/enciclopedia/liberalismo_res-8e96f266-87f0-11dc-8e9d-0016357eee51_%28Enciclopedia-del-Novecento%29/

9http://www.sapere.it/enciclopedia/collettivismo.html

https://www.linkiesta.it/2020/01/italia-pil-crescita-declino/

Il protezionismo è un errore – Adam Smith e David Ricardo

Il protezionismo è fallace e logicamente insostenibile. La filosofia economica protezionista è ritornata in voga con la politica economica di Trump negli Stati Uniti e con gli slogan artati dei movimenti sovranisti e populisti in Italia e nell’intera Europa.

Quante volte abbiamo sentito frasi come “consumate italiano”, “mangiate italiano”, “comprate italiano”? Troppe volte, specialmente nelle battaglie di due politici nostrani come Giorgia Meloni o Matteo Salvini. Ovviamente i prodotti italiani sono delle eccellenze, ma è giusto che nella logica del libero scambio, nel mercato aperto, entrino in concorrenza con altri prodotti esteri.

Prendiamo come naturale l’attitudine dell’uomo al libero scambio. Da questo postulato ne consegue che il protezionismo è innaturale, disumano e deleterio.

La dimensione del libero mercato si adegua al meglio alla struttura naturale dell’essere umano. In questa struttura economica estremamente raffinata ciò che ha una priorità ontologica e reale è la mutua interazione tra produttore e consumatore, tra acquirente e venditore. Gli effetti aggregati delle decisioni (decisionismo) dei singoli individui sono descritti dalla Legge della Domanda e dell’Offerta. Un mercato lasciato libero a se stesso, nonostante i tentativi della manipolazione statale, può garantire dei risultati ed allocazioni di beni estremamente proficui. Cooperazione, libertà, capacità di scelta, interazione, principio di non aggressione, rispetto reciproco… sono questi i principi base su cui si basano le libere transazioni economiche. È il principio morale della “simpatia”, già descritto da Adam Smith nella sua “Teoria dei sentimenti morali”, che valorizza appieno i rapporti tra gli uomini. All’opposto, a livello economico, troviamo Il protezionismo. Questo “demone” deve la sua compiuta strutturazione teorica con il mercantilismo del XVII e XVIII secolo.

Al mercantilismo, si affianca il rafforzamento degli apparati militari dei singoli stati nazionali. I protezionisti ritengono che l’economia può essere salvaguardata attraverso la tutela di prodotti e aziende nazionali e con un poderoso intervento dello Stato pianificatore, l’applicazione di dazi protettivi ai prodotti importati o alle materie prime esportate e il controllo nazionale o internazionale dei cambi, delle monete e del movimento dei capitali (protezionismo non doganale).

Adam Smith, a cui più di ogni altro si deve la prima vera teorizzazione del libero mercato e del libero scambio (liberismo economico), diede il colpo di grazia all’indirizzo di politica economica protezionista. Nella sua opera principale, che segnò l’avvio dell’indipendenza della scienza economica moderna e l’avvio dell’economia politica classica – “La ricchezza delle Nazioni” del 1776 – affermava che è una regola valida per ogni famiglia, così come per una Comunità, non tentare mai di produrre all’interno delle mura domestiche ciò che sarebbe più conveniente acquisire all’esterno. Ciò vuol dire che se una merce può essere acquistata all’estero a un prezzo minore di quello che costerebbe produrla nella madrepatria, sarebbe stolto ostacolarne l’importazione, poiché questo spingerebbe l’industria su strade meno profittevoli di quelle che essa potrebbe trovare autonomamente su mercati diversi. 

La stessa idea fu condivisa da David Ricardo con la teoria dei vantaggi comparati. Su Ricardo va fatta una premessa importante. A differenza del suo maestro Smith, il pensatore inglese, non si domandava quali fossero le cause della ricchezza delle nazioni, ma come fosse possibile suddividere il prodotto sociale tra le varie classi esistenti nella società. A chi spettava e come veniva frazionata la ricchezza? La rendita andrà ai rentiers (i proprietari terrieri), il salario ai lavoratori ed il profitto ai capitalisti. David Ricardo, autore di “Principi di economia politica e dell’imposta”, fu un estremo difensore del commercio internazionale. Fu strenuo oppositore delle Corn Laws, provvedimenti aventi valore di legge presenti in Gran Bretagna dal 1815 al 1846 che imponevano dazi all’importazione di cereali. La sua teoria dei vantaggi comparati è l’eredità della teoria dei vantaggi assoluti di Smith. Secondo Ricardo, ogni paese dovrebbe dedicarsi alla produzione di quei beni per i quali ha vantaggi comparati maggiori rispetto ad altri paesi e deve procurarsi con il libero scambio quelli che non ha convenienza a produrre. È il principio del libero mercato, è la regola del commercio internazionale, è il leitmotiv che dona un senso specifico alla nostra realtà economica attuale. 

Viaggio nella storia pensionistica italiana

In questo nuovo articolo della nostra campagna sulle pensioni faremo un viaggio nello statalismo assistenziale più spinto; ossia racconteremo la storia del sistema pensionistico italiano. È una storia che deve essere raccontata: per sconfiggere il tuo nemico, devi conoscerlo.

Nel nostro primo articolo avevamo invece rapportato la spesa pubblica italiana con quella di alcuni Paesi europei, lo potete ritrovare qui.

Il primo antenato dell’odierno INPS (Istituto Nazionale di Previdenza Sociale) fu istituito addirittura nel 1898 e subì numerose modifiche fino al 1943 quando, durante il regime fascista, prese le denominazione attuale. 

Inizialmente il sistema italiano era a capitalizzazione: i lavoratori versavano in fondi pensionistici quote del loro stipendio, che venivano accantonate e investite in modo da garantire a ciascuno una pensione in linea con quanto versato nell’arco di tutta la vita lavorativa.

Nel 1969 l’ordinamento a capitalizzazione fu definitivamente abbandonato a favore di uno a ripartizione: un sistema in cui i contribuenti pagano le pensioni erogate a chi ha già smesso di lavorare – con la speranza che un giorno i futuri lavoratori pagheranno la loro. 

La riforma del 1969 (legge Brodolini) istituì la pensione sociale per i cittadini con più di 65 anni di età con reddito considerato minimo, e quella di anzianità per i cittadini con 35 anni di contribuzione che non avevano raggiunto l’età pensionabile. Inoltre, era previsto che il calcolo della pensione fosse realizzato in base alla retribuzione degli ultimi 5 anni di lavoro, di conseguenza l’assegno percepito era mediamente più cospicuo rispetto ai contributi realmente versati. Infine, venne prevista la perequazione automatica delle pensioni, cioè la rivalutazione delle pensioni sulla base dell’indice dei prezzi al consumo.

Il sistema pensionistico concepito nel 1969 era molto più soggetto a generare squilibri di bilancio, coperti sistematicamente dallo Stato, rispetto a quello a capitalizzazione e segnalava la nuova ratio con cui la classe politica italiana intendeva gestire le pensioni: statalismo assistenziale spinto e feticismo per il debito pubblico.

Il passo successivo arrivò nel 1973, che verrà ricordato come un anno maledetto per la storia del bilancio pubblico italiano. Fu l’anno in cui il governo Rumor IV inaugurò la sciagurata stagione delle baby pensioni e i politici italiani scoprirono un altro modo per essere generosi con i soldi prelevati dalle tasche altrui. Venne quindi deciso che le donne sposate con figli potessero andare in pensione con 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi, gli statali con 20 e i dipendenti locali con 25. Curiosamente la riforma arrivò giusto due giorni prima di Natale, come un bel pacchetto da scartare per tutti gli italiani; peccato fosse un pacco bomba, scoppiato in faccia a chi si impegnava per lavorare onestamente e alle nuove generazioni. Basti pensare che nel 2018 la spesa per questa voce era ancora di 7,5 miliardi € l’anno, divisa tra 400mila privilegiati.

 

Dagli anni ‘90 ai giorni nostri

 

All’inizio degli anni ‘90 era ormai chiaro che il nostro sistema pensionistico non era più sostenibile. La riforma Amato del ‘92 fu il primo tentativo per risolvere il problema, innalzando l’età pensionabile così come la contribuzione minima per la pensione di anzianità. La riforma Dini del 1995 segnò invece il passaggio (parziale) [1] a un sistema a ripartizione di tipo contributivo, dove le pensioni sono calcolate sulla base delle somme versate nel corso della vita lavorativa (ma i contributi dei lavoratori continuano a pagare le pensioni attuali e non vanno ad alimentare un fondo).

Le due riforme non furono sufficienti a raddrizzare la situazione e si dovette intervenire ancora. Nel 1997 la prima riforma Prodi innalzò ancora i requisiti di contributi maturati per avere accesso alla pensione, eliminò le baby pensioni e ridusse le differenze di trattamento tra dipendenti pubblici e privati. Nel 2004 la riforma Maroni aprì il sistema pensionistico alla previdenza complementare e integrativa (dunque a fondi privati che potevano fornire una ulteriore pensione ai lavoratori che vi accedevano), nell’ottica di tutelare le generazioni più giovani, e introdusse lo “scalone” (un aumento dell’età anagrafica per uscire dal mondo del lavoro). 

La riforma Maroni sarebbe dovuta entrare in vigore a partire dal 1 Gennaio 2008, ma non ci riuscì mai. Nel 2007 il governo di centrosinistra fece una controriforma, sotto la pressione dei sindacati, e diluì le restrizioni ai pensionamenti che sarebbero dovute derivare dalla riforma Maroni. Essa viene ricordata ironicamente come quella degli “scalini”.

 

Le riforme degli anni ‘90 e primi Duemila non furono sufficienti a risolvere l’impatto del sistema pensionistico sulle casse pubbliche, già disastrate di per sé. Quando l’Italia fu investita da una delle più gravi crisi economiche della sua storia nel 2011, il governo tecnico Monti intervenne con misure radicali.

Il decreto Salva Italia venne immaginato per mettere in sicurezza la finanza pubblica e, ovviamente, non poteva mancare la parte dedicata alle pensioni, la famigerata riforma Fornero. Le idee di fondo erano l’equità intergenerazionale ed intragenerazionale, la maggiore flessibilità nell’accesso ai trattamenti pensionistici e l’adeguamento dei requisiti di accesso alla speranza di vita. Venne definitivamente abbandonato il sistema retributivo, rimasto in vigore per alcune categorie nonostante la riforma Dini, ed applicato il sistema contributivo per tutti i lavoratori. Data la bassa età reale di pensionamento (circa 61 anni per gli uomini, contro i 65 teorici), sono stati innalzati ulteriormente i requisiti d’accesso, 66 anni per gli uomini (dipendenti ed autonomi) e per le lavoratrici del pubblico impiego; a 62 anni per le lavoratrici dipendenti del settore privato; a 63 anni e 6 mesi per le autonome e la parasubordinate. 

Infine, la legge di bilancio del 2019, l’unica varata dall’allora governo Lega-M5S, conteneva anche una misura che impattava il sistema pensionistico: Quota 100. Essa prevede la possibilità di uscita anticipata dal mondo del lavoro per tutti coloro che vantano almeno 38 anni di contributi con un’età anagrafica minima di 62 anni. Quota 100 non è però una riforma strutturale; è stata infatti concepita come una deroga per gli anni 2019, 2020 e 2021, da confermare ogni anno.

Quello che manca nella deprimente storia delle pensioni italiane, è evidente, sono libertà e sicurezza. Ancora adesso i lavoratori italiani non versano i propri contributi in un fondo a loro scelta che li farà crescere e fruttare (e gli permetterà di godersi una serena vecchiaia); quei soldi finiscono a pagare le pensioni attuali. Certo, lo Stato promette che un giorno fornirà anche a noi una pensione (pagata da qualcun altro) ma che certezza ne abbiamo? Tutte le riforme degli ultimi 30 anni provano che quando un governo ha bisogno di soldi non si fa scrupoli a rinnegare le promesse fatte in precedenza.

In un mondo liberale nessun cittadino potrebbe essere obbligato a mantenere con le proprie tasse intere categorie favorite dallo Stato (come i dipendenti pubblici), ma dovrebbe invece avere il diritto di scegliere a quale fondo (pubblico o privato) versare i propri soldi, in modo da programmare a suo piacimento l’uscita dal mondo del lavoro. Questo è il mondo che immaginiamo, un mondo di libertà e opportunità.

 

 

Articolo ideato, scritto e curato da:

Francesco Chevallard

Leonardo Accardi

Alessandro Pala

Mattia Maccarone

 

 

Note

[1] In particolare, si passò a un criterio misto in cui l’assegno percepito era in parte legato alla retribuzione ed in parte legato ai contributi versati durante la vita lavorativa, e ad un criterio puramente contributivo per chi doveva ancora iniziare a lavorare.

Fonti

https://tesi.luiss.it/7708/1/paolillo-francesca-tesi-2014.pdf

http://www.fondapol.org/wp-content/uploads/2019/07/135-RETRAITES-ITALIE_VO_2019-07-11_w.pdf

https://www.inps.it/nuovoportaleinps/default.aspx?itemdir=52198

https://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/previdenza/focus-on/Previdenza-obbligatoria/Pagine/Evoluzione-del-sistema-previdenziale.aspx

http://www.covip.it/wp-content/uploads/evoluzionedelsistemapensionistico.pdf

http://www.covip.it/wp-content/uploads/EvoluzioneSistema.pdf

http://www.treccani.it/enciclopedia/sistema-pensionistico-a-capitalizzazione_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/

https://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/previdenza/focus-on/Previdenza-obbligatoria/Pagine/Il-passaggio-dal-sistema-retributivo-a-quello-contributivo.aspx

https://tuttoprevidenza.it/wp-content/uploads/2016/10/CriptCompleto-Una-piccola-storia-della-previdenza-italiana.pdf

https://www.ilsole24ore.com/art/il-macigno-baby-pensioni-75-miliardi-costano-piu-quota-100-AEJcFAUG

https://st.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2013-12-26/pensioni-compie-40-anni-decreto-che-fece-nascere-babypensioni-e-che-ci-costa-ancora-oggi-04percento-pil-184329.shtml?uuid=AB9cLEm

https://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/pensioni/la-riforma-amato.htm

https://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/pensioni/la-riforma-dini.htm

https://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/pensioni/la-riforma-maroni.htm

https://pagellapolitica.it/dichiarazioni/7973/fu-maroni-ad-agganciare-eta-pensionabile-e-aspettativa-di-vita

https://www.repubblica.it/economia/2016/04/13/news/pensioni_scheda-136973152/

https://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/pensioni/la-riforma-fornero.htm

OCSE (Pensions at a Glance 2011, https://www.oecd-ilibrary.org/docserver/pension_glance-2011-en.pdf?expires=1589191905&id=id&accname=guest&checksum=BD5629BC8909B455207AF6A32DA776A4)

https://www.pmi.it/tag/quota-100

Pim Fortuyn, martire gay per la libertà coerente

Si può morire per aver chiesto una società tollerante, che dia pari opportunità a uomini e donne e che riconosca le libertà delle persone in campo civile, come per le unioni omosessuali, ed economiche? E soprattutto, può ciò accadere in Europa e non a un politico progressista ma ad un politico di destra?

Quello che vi ho appena descritto è stato Pim Fortuyn, un politico olandese assassinato il 6 maggio 2002. Cresciuto come marxista negli ambienti accademici olandesi, fece coming out della sua omosessualità quando era ancora un atto di coraggio ma crescendo cambiò idea e si avvicinò a idee più liberali.

Egli vedeva le aree a prevalenza islamica del Paese, tipicamente abitate da persone scarsamente acculturate e povere, e vedeva come in esse vi fosse uno stile di vita incompatibile con la cultura umanista ed europea che egli amava.

I tre punti che per lui creavano un abisso tra le due culture erano principalmente tre:

  • Separazione Stato-Chiesa
  • Rapporti familiari
  • Diritti omosessuali

Tali concetti, diciamocelo, sono radicalmente differenti tra le due culture: nel mondo islamico, escludendo alcune lodevoli eccezioni, la condizione di donne ed omosessuali è nettamente peggiore e la separazione tra legge e religione quasi inesistente.

Fortuyn, però, a differenza dei politici anti immigrazione dell’epoca, era per l’integrazione: per lui chi veniva in Olanda doveva integrarsi nel tessuto sociale olandese, accettare la separazione tra religione e stato e l’uguaglianza tra uomo e donna.

Si distanziò ripetutamente da politici razzisti che chiedevano l’espulsione degli stranieri, ritenendolo un atto divisivo e dunque contrario alle sue idee. Chiedeva invece una moratoria da quel momento, per poter lavorare sull’integrazione di chi era già presente e una garanzia economica per i ricongiungimenti familiari, pratica che esiste anche in altri Paesi per evitare che il coniuge, in caso di separazione, andasse a pesare sui contribuenti.

E, in quanto gay, rifiutava anche dichiaratamente i partiti che si rifacevano ai valori della famiglia tradizionale. E si rifiutava anche di essere paragonato a politici di estrema destra come Jean Marie Le Pen. Preferiva paragonarsi alla Thatcher o a Berlusconi, seppur in generale non amando il doversi definire.

Economicamente era invece un classico liberale europeo: sosteneva un taglio della burocrazia e delle imposte per fornire servizi pubblici di qualità e vedeva l’Europa in modo blandamente scettico, al pari della Thatcher.

Non siamo chiaramente davanti ad un estremista di destra o ad un fascista: siamo davanti ad una persona che voleva conservare l’ampia libertà di cui godeva, e faceva uso in quanto gay, da una minaccia religiosa.

E bisogna dire che il tema Islam è molto caldo. E’ difficile ammettere che la cultura islamica sia spesso molto più restrittiva e arretrata di quella occidentale su molte libertà che noi diamo per scontato e che quindi sia, in un’ottica di mantenimento delle libertà, un’ottima idea integrare le persone di religione islamica nella nostra cultura in modo che l’Islam subisca i medesimi procedimenti che ha subito il cristianesimo e non sia più una minaccia alla società libera.

Accettare che invece le idee estremiste prosperino e non possano essere nemmeno contestate nel nome della tolleranza è una ricetta suicida che favorisce solo la violenza. Pensate solo se la stessa logica di incontestabilità fosse applicata al fascismo, ad esempio.

E infatti, come accennato, Fortuyn fu assassinato. Ma non da un fondamentalista islamico ma da un estremista verde che lo riteneva una minaccia per i deboli. Ma l’onda di violenza non si fermò: un estremista islamico uccise pochi anni dopo Theo Van Gogh per aver osato fare un cortometraggio sul tema della violenza sulle donne nel mondo islamico. E l’anno dopo vi fu un’ondata di violenza dopo che un giornale danese pubblicò delle vignette su Maometto. E nel 2015 dei barbari uccisero dei vignettisti francesi perché pubblicarono delle vignette, con il Papa cattolico che tutto sommato non pareva molto contrariato dalla cosa.

Ma non ha alcun senso combattere i tentativi della Chiesa di limitare le nostre libertà e poi lasciare una porta sul retro aperta nel nome della libertà.

E questa è la grande lezione di Pim Fortuyn.

Alcuni autori per conoscere il pensiero libertario

La libertà è il valore più importante per l’essere umano. Eppure quando cerchiamo di definirla, di catturarla o spiegarla attraverso simboli o concetti, ci troviamo di fronte a problemi insormontabili: tentare di definirla equivale a limitarla. 

Non è così per quell’insieme di filosofie politiche che cadono sotto la categoria del libertarianismo, corrente raffinata e pluralistica che considera la libertà come il più alto fine politico, senza restrizioni o imposizioni esterne, in primis statali. La libertà, secondo i libertari, si esplica in numerose forme: la libertà politica, la libertà individuale e la libertà economica come fulcro dell’intero assetto societario. Ben lontani dalla pedante distinzione di Benedetto Croce tra liberalismo e liberismo, che non ritrova riscontri nella terminologia e nel vocabolio anglosassone, il libertarianismo si rifà completamente al sistema economico capitalista, all’economia di mercato, alla politica economica del Laissez-Faire. Ovvero alla piena capacità dei mercati di equilibrarsi spontaneamente senza l’intervento dello Stato. 

Ed ecco il grande nemico della libertà: lo Stato, questo meccanismo astratto, questa potente macchina burocratica, questo Leviatano intollerante e artificioso, sovrano e paternalista. Con la biforcazione delle correnti del libertarianismo, troviamo differenti idee su come lo Stato possa e debba agire, ammesso che debba esistere. 

I miniarchisti prospettano uno Stato ridotto alla minima funzione di garante della libertà, un “guardiano notturno” della tradizione liberale, che deve garantire il rispetto dei contratti tra liberi individui.

Autori che hanno una valenza significativa nella teoria del miniarchismo sono, nel pantheon dei classici, John Locke ideatore del liberalismo classico, Friedrich Von Hayek della Scuola austriaca e Robert Nozick autore, tra le altre cose, della celebre opera Anarchia, Stato e utopia

Dall’altra parte della barricata si trovano, invece, gli anarco-capitalisti. Questi ultimi, attraverso una valida e argomentata filosofia, propongono l’eliminazione totale dello Stato, del suo monopolio nell’economia (attraverso l’abbattimento del regime delle imposte), nella sanità, nell’istruzione e nella giustizia.

Al posto di questo “meccanismo infernale”, l’anarco-capitalismo propone radicalmente una società di liberi individui legittimata da un sistema di privatopie. Entità territoriali auto-organizzate, capaci di offrire servizi di libero mercato, l’adesione volontaria degli individui alla regole della comunità, escludendo a priori l’esistenza di nazioni ed entità sovranazionali. La giustizia, il benessere e la pace della società, improntata al più vasto individualismo metodologico, può basarsi sul principio di non aggressione, insito nella natura umana. 

L’autore più influente della filosofia anarco-capitalista è stato Murray Newton Rothbard, già autore di un’opera straordinaria: For a new liberty.

In Italia, nonostante questo paese sia la culla dello statalismo assistenzialista, insieme alla figura del giurista “liberista” Bruno Leoni, il libertario per eccellenza impegnato in questa battaglia per la tutela libertà totale, contro qualsiasi collettivismo, è Leonardo Facco. Studioso ed editore poliedrico, critico e polemico, è stato autore di un libro del 2009 che fece molto scalpore: Elogio dell’evasore fiscale. All’interno del manuale possiamo trovare delle valide soluzioni per una rivolta fiscale densa di significato, improntata alla razionalità categorica. 

A livello internazionale occupa un posto di primo piano nel panorama libertario Javier Milei, economista argentino, promotore di una robusta critica al sistema politico vigente, figura presente nei dibattiti televisivi capace di sfoderare le armi della dialettica contro ogni censura liberticida che vuole soffocare la libertà in nome di un collettivismo socialista o di un assistenzialismo di Stato senza scrupoli. Il pensatore economico argentino ha un motto straordinario capace di infuocare gli animi libertari per tenere vivo il valore sacrale della libertà, contro coloro che vorrebbero sottrarcela:

Viva la libertad, carajo!

 

Il sistema pensionistico italiano: storia di assistenzialismo e statalismo

L’Italia annovera, tra i tanti servizi dello Stato inefficienti, quello pensionistico. Il sistema previdenziale italiano è un sistema vecchio e assistenzialistico; e le risorse spese per finanziarlo sono troppo grandi rispetto alla resa, se comparato a quello di altri Paesi. Come andremo a vedere più avanti in questa campagna, dietro al nostro sistema previdenziale è celata una storia di politiche economiche inutili volte a favorire determinate categorie, allo stesso tempo danneggiando il bilancio statale, incrementando il debito pubblico ed espropriando i risparmi degli italiani. 

In questo primo articolo della nostra serie di approfondimenti sul sistema pensionistico metteremo a confronto la struttura previdenziale italiana con quella di altri Paesi in Europa e nel mondo, evidenziando le principali differenze. I Paesi scelti sono Olanda, Svizzera, Svezia e Germania, tutte nazioni sviluppate e appartenenti al mondo occidentale, e con una struttura demografica simile alla nostra (seppure con una popolazione leggermente più giovane).

UNA COMPARAZIONE DEI COSTI (IN %) RISPETTO AL PIL:

Come è facile notare comparando i dati dell’OCSE, c’è una grossa differenza in merito alla percentuale di spesa pensionistica pubblica  sul PIL di questi Paesi. 

Nel grafico qui sopra si nota subito come nel 2015 lo Stato che spendeva nettamente di più fosse l’Italia, con un rapporto tra Spesa pensionistica pubblica e PIL pari al 16,2%, il doppio rispetto alla media OCSE. Un Paese ricco e considerato “socialdemocratico” come la Svezia spendeva appena il 7,2%, meno della metà di quanto fosse destinato al sistema pensionistico in Italia.

Una cifra oltretutto cresciuta moltissimo negli ultimi decenni, con un +100% circa rispetto al 1980, come si nota dal grafico sottostante. Un incremento casuale? O legato al naturale invecchiamento della popolazione? Non esattamente. Guardando al nostro pool di comparazione, vediamo che il trend di incremento dal 1980 è molto contenuto; Svezia e Svizzera hanno aumentato di meno del 20% la propria spesa, mentre Germania e Olanda spendono addirittura meno adesso rispetto ad allora. Dati in linea, tra l’altro, anche con la media OCSE, per cui risulta un incremento della spesa media dal 5,67% del 1980 che passa all’8,02% nel 2015 (risultando in un +40% circa, rispetto al +100% per l’Italia, nel medesimo periodo). 

La particolarità che contraddistingue questi paesi è l’adozione di sistemi pensionistici discretamente simili tra di loro, basati su una maggiore libertà di scelta da parte dei cittadini e con un sistema di fondi pensionistici privati molto sviluppato. 

UNA COMPARAZIONE VISTA DAGLI ESPERTI:

Per un’analisi più approfondita sul tema della spesa per le pensioni ci vengono incontro i dati del Melbourne Mercer Global Pension Index. L’indice è elaborato da un gruppo di ricerca australiano e ha come obiettivo quello di evidenziare fattori come la sostenibilità (prendendo in considerazione la crescita economica, la copertura pensionistica, la demografia, il debito nazionale e altro ancora), l’adeguatezza (benefici, risparmi, copertura fiscale, assets di crescita) e l’integrità (costi di operazione, protezione, comunicazione, regolamentazione). Una volta presi in analisi questi fattori viene stilata una “classifica” dei migliori sistemi pensionistici, assegnando ai vari stati una valutazione da A (massimo) ad E (minimo) in base all’index value che essi raggiungono. 

Rispetto agli Stati da noi presi in considerazione, il sistema migliore risulta essere quello Olandese, che raggiunge il punteggio di 81 e la valutazione “A”. Seguono i sistemi Svedese, Svizzero e Tedesco, con punteggi rispettivi di 72,3, 66,7 e 66,1, e una fascia di valutazione “B”. Nella fascia di valutazione “C+” troviamo il Regno Unito, con un punteggio di 64,4. L’Italia si trova molto più in basso e con un punteggio di 52,2 prende una C. 

Secondo Mercer il sistema previdenziale italiano è scadente soprattutto nell’ambito della sostenibilità, registrando il valore più basso in assoluto nell’indice, 19; la ragione è che si tratta di un sistema quasi unicamente pubblico e dove non c’è corrispondenza fra quanto versato da ogni cittadino e la sua pensione. I lavoratori italiani non versano i loro contributi in un fondo (pubblico o privato) che restituirà in seguito i loro soldi, ma pagano le pensioni attualmente elargite dall’INPS. Di conseguenza, quando finiranno di lavorare dovranno sperare che il bilancio pubblico sia in condizioni tali da permettersi di versare loro delle pensioni adeguate; il che, dato l’andamento dell’economia italiana e la scarsa crescita demografica nel nostro Paese, è sempre meno probabile. 

CONCLUSIONI

Il Mercer Index ci aiuta a capire quali Paesi hanno un sistema previdenziale più o meno efficiente e ci mostra come i Paesi più virtuosi sono quelli che si basano non solo sul settore pubblico, ma anche su quello privato. La presenza di un settore privato è fondamentale per aumentare le possibilità di scelta del cittadino e rendere più equo un sistema previdenziale. 

I sistemi pubblici obbligano i cittadini a lavorare fino a una data prestabilita dalle autorità e decidono dall’alto quale sarà la cifra ricevuta da ogni pensionato, spesso con criteri arbitrari – questa analoga attitudine ha favorito l’esistenza di accordi previdenziali particolarmente sfavorevoli od in certi casi più favorevoli di quanto il sistema stesso potesse permettersi, quali le baby pensioni italiane di cui parleremo in un prossimo articolo di questa serie.

Un sistema privato permette ai lavoratori di decidere in autonomia quanto versare per la propria pensione futura e quale sarà il momento più adatto per smettere di lavorare, garantendo loro più libertà di scelta ed un maggiore benessere. 

 

Articolo ideato, scritto e curato da:

Francesco Chevallard

Andrea Melcarne

Alessandro Pala

Mattia Maccarone

Sindacati, come hanno impoverito gli italiani

Dopo aver trattato alcuni aspetti estremamente coercitivi e violenti del mondo dei sindacati, in un precedente articolo, in questo affronterò una diversa problematica. Analizzerò gli effetti socio-economici provocati dalla mano del sindacalismo in Italia, effetti provocati dalle loro lotte per il bene (presunto) dei lavoratori.

Ci si chiederà: come mai giungo ad una conclusione così drastica? Obiettivo di questo articolo è spiegare perché i sindacati non possono agire efficacemente verso tutti i lavoratori. La conclusione probabilmente lascerà tutti un po’ perplessi, ma è ben rafforzata da dati di fatto e argomentazioni molto nette e chiare. D’altronde viviamo in un contesto in cui spesso ci si limita ad aspetti superficiali. Non entriamo nel vivo della questione, guardiamo la copertina senza leggere il libro.

Esistono dei lavoratori soddisfatti, indubbiamente, ma davvero possiamo dire che tutti i lavoratori possono considerarsi tali? Preciso che chi scrive è un lavoratore che vuole spiegare perché, da liberale, i sindacati non possano essere realmente dalla parte dei lavoratori. Nel corso del testo, come nell’articolo precedente, inserirò qualche altra citazione di Sergio Ricossa.

[…] (1972, ndr) Il nuovo contratto di lavoro dei metalmeccanici è un volume di oltre duecento pagine a stampa, quasi tutte incomprensibili. C’è l’operaio “comandato in trasferta in località malariche ufficialmente riconosciute” che ha diritto a una indennità speciale; c’è l’impiegato che ha una “ricaduta nella stessa malattia entro il periodo massimo di due mesi dalla ripresa del lavoro”, e ha una anzianità di servizio oltre i tre anni e fino a sei mesi anni compiuti al quale compete la conseervazione del posto per tredici mesi e mezzo, di cui quattro e mezzo a intera retribuzione globale e nove a metà retribuzione; c’è l’apprendista che a partire dal primo gennaio lavora 41 ore settimanali, ma riceve in pagamento una “quota aggiuntiva” di 171 secondi ogni ora lavorata; c’è il rappresentante sindacale autorizzato ad assistere alle operazioni di vendita (lire tremila) del testo del contratto all’operaio che non si avvale della facoltà, “evidenziata in un modulo illustrativo”, di rifiutare l’acquisto. C’è tutto, meno il buon senso.

Analizzando la nostra busta paga di ieri e di oggi, possiamo dire di aver avuto un qualche beneficio favorita dai sindacati? I contratti collettivi, con le varie retribuzioni previste, rappresentavano una vittoria sindacale. Una vittoria assurda se consideriamo che veniva esaltato quel becero slogan del “il Salario è una variabile indipendente”. Come se il salario fosse qualcosa di astratto, qualcosa che esula dal processo economico di un’azienda con lo scopo di non consentire ai datori di lavoro di fissare una retribuzione inferiore a quella prevista e sindacalmente concordata. Un mezzo di tutela ma completamente illiberale, in quanto impedisce a qualsiasi persona di poter accettare un salario inferiore. D’altronde la mia provocazione non sarebbe così strana. Non mettiamoci a fare i conti in tasca a qualcuno. Il datore di lavoro accetta questa situazione coercitiva, legittimata dallo Stato, proprio perché è consapevole che il sindacato ha il potere di non permettere ulteriori assunzioni in azienda. È paragonabile all’imporre un prezzo fuori mercato a qualcosa con il risultato che sarà molto difficile che questa possa essere consumata in una quantità maggiore o uguale rispetto ad una condizione svincolata da imposizioni. Quindi vale sia quando andiamo ad acquistare qualcosa con un prezzo impostato dallo Stato e vale anche nel caso del salario.

Tavola rotonda presso La Stampa: Luigi Macario, sindacalista della CISL, ripete la barzellette della variabile indipendente. “Non solo è vero che noi consideriamo la politica salariale una variabile indipendente, ma ciò è indispensabile se noi vogliamo lottare efficacemente. […] Dopo una lunga chiacchierata sulla mancanza di case popolari, gli scappa di dirmi che lui, vicino a Roma, in barba ai piani regolatori, si è fatta una villa con le agevolazioni statali per le cooperative.

In ogni caso, l’imposizione a tavolino del salario si è rivelata, soprattutto in Italia, un effetto boomerang. Per svariati motivi. In primo piano, imporre un salario, se porta benefici nel breve termine, risulta dannoso nel futuro. Come dimostrato dal fatto che i salari italiani sono pressoché stabili da più di 20 anni. Dato allarmante se consideriamo che il potere d’acquisto dei cittadini è stato notevolmente ridimensionato dall’aumento della tassazione. In secondo piano, creare un contratto così pieno di burocrazia ha costretto le aziende a ricorrere a contratti atipici che hanno danneggiato e danneggiano tutt’ora i nuovi lavoratori, come i giovani.

I sindacati non solo non aiutano i lavoratori nel suo complesso, ma aiutano solo nel presente e particolari categorie. I sindacati in Italia hanno sfruttato a proprio favore l’ossessione statalista verso le “aziende strategiche”, imponendo regole molto restrittive, spacciate nel nome della libertà dei lavoratori, nei settori metalmeccanici o aziende estremamente strategiche (secondo i governanti). Questo non si riferisce solo alla storia degli ultimi decenni, un esempio è Alitalia. Ci si è mai chiesti il perché, tra i vari motivi, Alitalia sopravviva sempre e comunque? Si provi a licenziare un dipendente Alitalia.

[…] (1970, ndr) Nel ’69 gli scioperi in Italia hanno causato la perdita di trecento miloioni di ore di lavoro. E’ un record, ma un record da poco. Poiché i lavoratori sono venti milioni, è come se in media ciascuno avesse scioperato un paio di giorni. Una epidemia di influenza costa assai di più. Secondo le statistiche, giù nel 1910. in piena bella époque, si scioperava così. E’ solo cresciuto il danno, perché oggi si produce assai di più, ogni ora che si lavora. E tuttavia il danno peggiore deve ancora venire: verrà nel prossimo futuro con l’inflazione, che i cedimenti ai sindacati e alla piazza provocheranno.

Il sindacato favorisce la disoccupazione e la diseguaglianza dei salari. Il mercato, come la ricchezza, si basa sullo spostamento dei capitali. Imporre coercitivamente un determinato salario, comporta che l’azienda dovrà porre un prezzo maggiore ai suoi prodotti e i clienti potrebbero ritrovarsi impoveriti da questa situazione. Quindi, il cliente otterrà qualcosa che poteva ottenere ad un prezzo più basso e il lavoratore possiede un reddito maggiore di quello che avrebbe dovuto avere. Impoverire qualcuno a favore di altri. Mi ricorda qualcosa.

I sindacati non vogliono la libertà dei lavoratori perché, in presenza di completa libertà, i lavoratori non avrebbero mai bisogno dei sindacati. La libertà dei lavoratori passa dal libero mercato, l’unica vera via al progresso, non dalla coercizione dei sindacati.

“Se i sindacalisti rispettassero davvero gli operai, gli farebbero dei contratti di lavoro comprensibili”