L’Italia e lo Stato nel Terzo Millennio: Quanta spesa pubblica? Esegesi di uno stato snello

Il libro “Lo Stato nel Terzo Millennio” è, a mio parere, uno dei capisaldi del pensiero liberale del nostro secolo. Scritto dal Principe del Liechtenstein, in esso viene descritto uno Stato più leggero, limitato a poche funzioni come il funzionamento delle corti, la difesa e la politica estera, decentrando le restanti funzioni ai privati, alla società e alle comunità locali. Lo Stato, inoltre, sarebbe finanziato solo tramite imposte indirette, lasciando quelle dirette alle comunità locali.

Ma quanto, in effetti, peserebbe lo Stato centrale, a livello economico in un sistema del genere? Proviamo a fare un piccolo calcolo.

Difesa e sicurezza

Quanto spende l’Italia in difesa, ogni anno? Nel 2018 abbiamo speso 21 miliardi di Euro, cifra tra l’altro inferiore al 2% del PIL richiesto dalla NATO. E, in tutto ciò, sono inclusi i Carabinieri.

Bisogna considerare anche la sicurezza: Se lo Stato immaginato da Giovanni Adamo prevede il possibile decentramento anche di questo compito è facile immaginare la necessità, comunque, di avere un corpo di polizia statale, ad esempio per proteggere le frontiere o combattere fenomeni sovralocali quali la criminalità organizzata. Ebbene, lo Stato spende circa 25 miliardi in ciò, contando però anche i già contati Carabinieri e anche altri servizi che sarebbero decentrati o sono computati altrove.

Poniamo di volere un unico corpo statale di polizia che includa gli attuali Carabinieri e metà della Polizia di Stato. Ecco, dovremmo aggiungere 3 miliardi. E se vogliamo anche Pompieri e Protezione Civile statali sono altri 3, aumentando tra l’altro il finanziamento nel mentre. Totale 26 miliardi. (non sono pazzo, sono le approssimazioni a portare a 26)

Politica estera, giustizia e Parlamento

La giustizia, incluso il sistema carcerario, pesa circa 5 miliardi di Euro. Si possono fare passi in avanti, specie nella gestione carceraria, riducendo i costi, ma prendiamo pure il dato intero.

La politica estera, invece, costa circa 3 miliardi, includendo anche gli aiuti internazionali.

E il Parlamento? Il Principe immagina un parlamento monocamerale e ridotto, quindi prendiamo come dato quello del Senato, che costa agli italiani circa 600 milioni di Euro.

Istruzione e welfare

Lo Stato nel Terzo Millennio prevede esplicitamente un sistema scolastico a voucher. Fortunatamente, già sappiamo grosso modo quanto costerà: Con 5000€ l’anno ad alunno fanno 43 miliardi, ai quali vanno aggiunti circa 7 miliardi di finanziamenti alle università, ponendo che vengano mantenuti e non siano adottati sistemi quale l’ISA. In sostanza, il Ministero dell’Istruzione avrà un bilancio di 50 miliardi di Euro, creando tra l’altro una redistribuzione economica verso i comuni che decideranno di aprire scuole e riusciranno ad offrire l’istruzione a meno di quanto ricevano dal voucher.

Il welfare, invece, è tipicamente materia degli enti locali, e lo Stato viene visto come ultima istanza in caso di necessità. In questa ottica, una possibile proposta sarebbe quella di istituire un voucher welfare incondizionato di 1’000€ l’anno: Sarebbero 60 miliardi l’anno, che poi le persone potranno spendere per aderire ad un’assicurazione sociale sanitaria oppure per versarli al proprio ente locale di riferimento ed ottenere dei benefici. Sia chiaro, non sarebbe l’unica fonte di welfare, ma sarebbe l’unico sistema uniforme di welfare. Saranno poi gli enti locali a quantifare la misura rispetto alle esigenze del richiedente.

Il risultato economico

In totale, quindi, avremmo una spesa statale di circa 145 miliardi di Euro l’anno. Poniamo ancora che lo Stato abbia altri 35 miliardi di spesa indifferibile, necessaria e non decentrabile, magari per infrastrutture che debbono essere necessariamente statali. Sarebbe una spesa pubblica di 170 miliardi. Ma dobbiamo anche ridurre il debito pubblico, no? Decidiamo di destinare dunque 20 miliardi di Euro alla riduzione del debito. È poco, perché di questo passo il debito sarebbe estinto in quasi 130 anni.

Un totale, quindi, di 200 miliardi di Euro l’anno. Abbiamo ridotto la spesa statale da quasi il 50% del PIL a poco più del 10%. Abbiamo liberato enormi risorse per le comunità locali e gli individui, ossia le unità base del nuovo sistema.

Ma, soprattutto, lo Stato si finanzierebbe solo con imposte indirette, lasciando quelle dirette solo alle comunità locali. Per la Ragioneria dello Stato nel 2019 lo Stato incasserà circa 250 miliardi di imposte indirette, tolte le quote da destinare all’Unione europea. In sostanza, un avanzo di bilancio di 50 miliardi, includendo anche un bonus “che non si sa mai” da 35 miliardi e un ammortamento del debito da 20 miliardi. Se non lo si volesse usare per il debito si potrebbe, come propone il Principe, distribuirlo alle comunità locali proporzionalmente: 800€ circa per abitante. Milano, per esempio, prenderebbe più di un miliardo ogni anno da questa redistribuzione, il tutto senza contare che la città avrebbe capacità impositiva.

Parliamo, però, di mere ipotesi purtroppo. Cambiando un po’ la Costituzione sarebbe tutto fattibile, per carità, ma ci sarebbe il problema delle pensioni! Infatti quelle in essere devono essere pagate. Se si vuole modernizzare realmente l’Italia il primo passo dev’essere necessariamente fare sacrifici per passare al sistema pensionistico a capitalizzazione, poiché tutto il resto è bene o male decentrabile in breve tempo.

E perché converrebbe

Ma quali sarebbero le conseguenze di un taglio alla spesa così draconiano? Oltre al liberare risorse – cosa che porta quasi sempre a crescita economica – potrebbero non esserci grandi danni per lo stato sociale che, anzi, potrebbe migliorare. Come mai? Perché la gran parte delle risorse oggi stanziate per gli aiuti vanno, in realtà, all’amministrazione che li ottimizzano in maniera inefficiente.

Il welfare vero non sarebbe più appannaggio di un ente magico, che risolve i nostri problemi, ma cooperare per contare l’uno sull’altro. Ciò funziona bene nelle comunità locali, non negli elefantiaci stati nazionali. A fronte di una richiesta di occupazione, perdono di significato i Centri per l’Impiego se gli enti locali dispongono di una lista di chi necessita impiego, o magari attraverso un semplice sistema di rete fra cittadini. Poco burocratico? Sicuramente, ma probabilmente efficace. L’esperienza delle piccole attività e degli artigiani come bar o barbieri insegnano che funziona.

Tutto ciò vale anche per il contrasto alla povertà: Le ricette nazionali devono coniugare troppe esigenze per funzionare bene. Una politica di vicinanza invece funziona meglio. Un comune – o un ente di pari livello – è un’autorità che è in grado di aiutare chi è povero ad un livello più umano che economico. “Toh, tieni 600€ al mese”, chiunque sarebbe capace di farlo a disposizione dei soldi (degli altri) da poter spendere, riuscire a prendere una persona e farla uscire dalla povertà è diverso e richiede una visione umana differente da soggetto a soggetto, una visione che la burocrazia centralizzata non potrà mai avere.

Inoltre, essendo sistema di welfare slegati, ogni comunità può trovare la propria quadra riguardo alla propria situazione specifica: La maniera in cui Venezia contrasta la povertà non creerà un precedente vincolante per Morterone o per Bari, che magari hanno situazioni di povertà completamente diverse.

Non tutte le misure possono essere devolute agli enti locali, che potrebbero creare una situazione troppo dispersive, un esempio è la sanità: avere centinaia di Servizi Sanitari Locali rischia di creare non pochi problemi. Pensate ad un SSL (Sistema Sanitario Locale) composto da pochi comuni che si trova a dover pagare un intervento molto costoso ad un proprio assistito: nonostante in Italia gli interventi chirurgici non abbiano coti esorbitanti, il costo degli interventi a fronte di una bassa quantità di contribuenti nel sistema locale, potrebbe recare qualche grana nel bilancio del Servizio Sanitario Locale.

In questo caso, la soluzione potrebbe essere il modello Bismarck: assicurazioni sociali in leale concorrenza che funzionano a livello nazionale che pagano prestazioni presso strutture che possono essere pubbliche, private o sociali.

Lo Stato sociale prova ad emulare per vie legali il comportamento tradizionale dei piccoli gruppi. Una grande burocrazia è richiesta per gestire e controllare il processo e, al netto degli alti costi, il sistema mette in pericolo la libertà dell’individuo e in una democrazia dà la possibilità ai partiti politici di “comperare” voti con i soldi dei contribuenti.

In questa citazione c’è la spiegazione semplice del perché tale sistema funzionerebbe: Perché è insito nella nostra natura. Siamo propensi ad aiutare il prossimo, ma, come ben è spiegato nel libro, di aiutare una persona a 1000 chilometri di distanza ci importa meno e lo facciamo peggio.

Anche perché è obiettivamente difficile farlo: si immagini come potrebbe un milanese aiutare un disoccupato tarantino con convinzione verso il sistema di contribuzione nazionale? È difficile, ben più difficile che sedersi ad un tavolo e trovare soluzioni per il proprio vicino di casa.

Invece su scala locale tutto ciò diviene più semplice e meno costoso. E, solitamente, quanto più una popolazione ha soldi in tasca tanto più tende a spenderne una parte per aiutarne il prossimo.

Certo, vorrebbe dire togliere lo Stato da settori come le infrastrutture. E se per una qualche ragione un’infrastruttura necessaria non fosse costruita, magari per mancanza di fondi, né dai privati né dalle autonomie? Beh, il sistema è a prova di bomba: Lo Stato destinerebbe, per qualche anno, l’eccedenza che ha dalle imposte indirette alla costruzione dell’infrastruttura. Corrisponderebbe di fatto ad un aumento delle imposte, poiché si ridurrebbero i versamenti alle comunità locali, ma offrirebbe comunque una via per risolvere in via urgente alcune situazioni, che poi si potranno successivamente adattare al decentramento.

In ogni caso, gli enormi vantaggi di un welfare migliore, meno costoso e più vicino al cittadino e di una netta riduzione della spesa pubblica statale supererebbero nettamente i piccoli incidenti di percorso che sono naturali in un sistema decentrato.

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http://www.brunoleoni.it/lo-stato-nel-terzo-millennio

 

Venezuela, il “paradiso” dei socialisti sudamericani, dove tutti sono milionari (e poveri).

Con questo articolo analizzeremo in dettaglio come si è sviluppata la massiva inflazione che colpisce oggi il Venezuela.

Nel 2019, questo paese è l’incontrastato campione mondiale dell’inflazione, con un fantasmagorico 10,000,000%, secondo le ultime stime del FMI.

Per dare un ordine di magnitudine, ad oggi (Ottobre 2019), per comprare 1 Dollaro, i Venezuelani devono spendere la bellezza di 19.709 Bolivar Soberano (VES). Questo vuol dire che 1 Milione di VES equivalgono a soli USD 50,73.

La domanda è, come siamo arrivati fino a questo punto?

La storia dell’inflazione del Venezuela, in fin dei conti, è la storia del Venezuela degli ultimi anni, il risultato naturale dell’implementazione del cosiddetto “Socialismo del XXI Secolo”, tanto caro a Hugo Chavez ed a molti altri leader della sinistra latino-americana, tornato recentemente in auge, grazie anche alle rivolte in Cile ed in altri paesi latino-americani.

Per questo motivo, l’articolo sarà diviso in tre parti.

Nella prima parte parleremo delle cause alla base di questo fenomeno, le quali sono da ricercare nell’orribile gestione economica e nell’aumento massivo di spesa pubblica perpetrato durante l’epoca delle “vacche grasse” del governo Chavez, il quale riuscì a finanziare ogni delirio populista grazie al prezzo incredibilmente alto del petrolio.

Nella seconda parte poi, analizzeremo come la situazione è sfuggita completamente di mano dal 2013 in poi. La forte caduta del prezzo del petrolio, lasciò il paese con uno spaventoso deficit fiscale e commerciale, che il governo di Maduro decise (purtroppo) di finanziare in larga misura con emissione monetaria e riduzione di stock di dollari della Banca Centrale del Venezuela.

Nell’ultima parte poi, tratteremo a livello quantitativo l’andamento del Bolivar e dell’inflazione in Venezuela.

I parte: L’epoca delle “vacche grasse

Abbiamo chiamato questo come il periodo delle “vacche grasse”, a causa dell’esorbitante aumento del prezzo del petrolio che caratterizzò gli anni dal 2003 al 2013. Questo fu il vero motore che permise di finanziare le prime fasi del socialismo Venezuelano.

Per rendere l’idea, nel 2003 il prezzo del Crude Oil WTI si aggirava intorno ai $31 al barile, mentre nel 2008, anno in cui il prezzo del petrolio raggiunse l’apice, questo triplicò raggiungendo i $100 al barile. Tutto ciò ebbe ovviamente un tremendo impatto nelle possibilità di finanziamento del governo Venezuelano, dato che il petrolio rappresentava circa il 40% delle entrate del governo ed oltre il 90% delle esportazioni del Venezuela.

Si potrebbe parlare a lungo di questo periodo. Tuttavia crediamo che le cause principali dell’attuale crisi, e della conseguente inflazione, siano da attribuire principalmente all‘aumento esorbitante della spesa pubblica, attraverso il cosiddetto “Sistema Nacional de Misiones”, all’orribile gestione finanziaria di PDVSA, la compagnia petrolifera nazionale del Venezuela, ed alle nazionalizzazioni intraprese dal governo di Hugo Chavez, le quali distrussero in maniera drammatica il settore privato Venezuelano.

Il “Sistema Nacional de Misiones

Durante questo periodo Chavez cominciò un’enorme espansione della spesa pubblica, che passò dal 28% del PIL al 40% nel 2013. L’aumento principale della spesa avvenne attraverso una serie di programmi sociali pubblici chiamati “Sistema Nacional de Misiones”. Creati per “beneficiare” le classi più povere del Venezuela e tuttora in vigore, questi abbracciano un vasto numero di aree, tra cui educazione, sanità, abitazioni pubbliche, lavoro, alimentazione etc.

All’inizio, come talvolta accade con questo tipo di programmi pubblici, ci fu un significativo miglioramento delle condizione di vita delle classi più povere del Venezuela. Per rendere l’idea, dal 1999 al 2006, la povertà passò da circa il 50% al 30% e la povertà estrema calò dal 21% al circa 10%. Si ebbero miglioramenti significativi anche in altre aree come alimentazione, educazione etc.

Insieme a questi risultati positivi, però, ci furono anche tutta una serie di scandali legati al “Sistema Nacional de Misiones”, tra cui episodi di corruzione, inefficienza, mala gestione e addirittura casi di vere e proprie violazioni dei diritti umani. Uno dei più interessanti e drammatici, è quello legato all’ambito sanitario, il cui programma denominato “Mission Barrio Adentro” fu implementato, così come altre misiones, anche grazie all’aiuto di professionisti cubani inviati in massa dal regime di Fidel Castro. Si stima infatti che Cuba, abbia inviato oltre 44.800 concittadini, di cui oltre la metà medici, per servire come veri e propri schiavi nelle misiones, in parte come mezzo di pagamento per il debito pubblico contratto dal governo Cubano. Il governo Venezuelano, inoltre, paga per gran parte di questi professionisti tra $1500 ai $4000 al mese, ma il governo Cubano trattiene quasi tutto il loro stipendio, pagando i suoi concittadini intorno ai $100 al mese. La ONG “Solidaridad sin fronteras” descrive questo fenomeno come:

Uno dei più grandi traffici di esseri umani mai perpetrati da uno stato nazionale.

Dal 2010, ci sono state oltre 700 diserzioni di medici ed altre figure professionali Cubane. Casi simili sono stati riportati anche in altri paesi, come ad esempio in Brasile.

Aldilà di queste gravissime problematiche, il vero problema del “sistema di misiones” era ed è l’insostenibilità del loro finanziamento.

Le nazionalizzazioni e la mala gestione delle imprese statali

Un altro elemento alla base della crisi attuale, furono le nazionalizzazioni in molti settori, tra cui quello agrario e petrolifero, e l’orribile gestione finanziaria di molte imprese pubbliche, tra cui la più eclatante fu quella di PDVSA, la compagnia petrolifera nazionale del Venezuela ed una delle principali fonti di finanziamento del governo, poiché come precedentemente menzionato, il petrolio rappresenta il 90% dell’export Venezuelano e praticamente l’unica fonte di dollari per l’economia.

Al riguardo di PDVSA ci sarebbero moltissime storie da raccontare. Ci concentreremo tuttavia su 3 episodi particolarmente importanti.

Il primo di questi è lo sciopero generale del settore petrolifero del 2002. Questo sciopero scaturì come conseguenza del recente colpo di stato di Hugo Chavez, il quale aveva preso da poco il potere, ed in seguito ad un pacchetto di leggi molto polemiche approvato dalla assemblea nazionale venezuelana, chiamato “ley habilitante”. Immediatamente dopo questo evento, il governo di Chavez decise di licenziare in tronco oltre 18.000 dipendenti e di rimpiazzarli con funzionari più vicini al regime. Questo all’epoca rappresentava circa la totalità dei dipendenti della compagnia.

Il secondo episodio è legato alla nazionalizzazione di molti asset di imprese petrolifere straniere come ad esempio Exxon Mobil e ConocoPhilips, i quali passarono in mano a PDVSA nel 2007, dopo che queste compagnie si rifiutarono di formare una join venture con il governo Venezuelano. Questo risultò in una massiva fuga dal paese di compagnie petrolifere, che portarono via con se anche le loro competenze.

Il terzo e ultimo episodio poi, è stato forse il più drammatico dal punto di vista finanziario per PDVSA. Questo si tratta di una misura presa dal governo Bolivariano, chiamata “Sistema de Democratización del Empleo” (SISDEM), tradotto dallo spagnolo in sistema di democratizzazione del lavoro, la quale portò PDVSA a quadruplicare il numero di dipendenti, senza alcun tipo di giustificazione economica. Il numero di barili prodotti dalla petroliera infatti, non solo non aumentò, ma non fece altro che diminuire nel corso degli anni.

Possiamo quindi soltanto immaginare il livello di inefficienza e mala gestione raggiunti da questa compagnia, la quale riusciva a restare a galla solo ed esclusivamente grazie all’altissimo prezzo del greggio.

Oltre alla mala gestione di PDVSA, come in ogni buon governo populista di taglio socialista, il governo di Chavez iniziò tutta una serie di nazionalizzazioni. Questo tipo di misure hanno ovviamente contribuito a distruggere il già scarno tessuto industriale del Venezuela, rendendo la nazione ancora più dipendente dal petrolio e dalle importazioni di prodotti esteri.

Dal 2005 ad oggi il governo Venezuelano avrebbe nazionalizzato 1.359 compagnie attraverso espropri e confische. I dati del “Observatorio de Derechos de Propiedad del Centro de Divulgación del Conocimiento Económico para la Libertad” della ONG “Cedice” ci dicono che oggi oltre 1000 di queste imprese hanno chiuso definitivamente i battenti.

Oltre a questo negli ultimi 17 anni, il governo Venezuelano sarebbe intervenuto su oltre 60 imprese multinazionali, le quali avrebbe scatenato una vera e propria fuga di massa di questo tipo di compagnie dal paese, oltre ad una serie enorme di battaglie legali, che sarebbero costate miliardi di dollari allo stato del Venezuela. Una delle più recenti, quella con Exxon Mobil, è costata ad esempio $1.4 miliardi.

II Parte: La crisi

La crisi in Venezuela cominciò intorno al 2013. I primi sentori della crisi imminente si iniziarono ad avvertire già durante l’ultimo periodi di Chavez. In quel periodo iniziò a cadere fortemente il prezzo del petrolio, il quale si dimezzò nel 2015, raggiungendo i $49 a barile.

Come abbiamo precedentemente visto, a causa dell’implementazione del “sistema di misiones”, la spesa pubblica non aveva fatto altro che aumentare negli anni.

Inoltre, nonostante un prezzo del petrolio ancora molto alto, le entrate del governo erano diminuite notevolmente anche a causa anche della sempre minor efficienza produttiva di PDVSA.

Come vediamo di seguito, infatti, dall’inizio del governo di Chavez, il trend seguito dalla produzione di barili di petrolio è stato costantemente decrescente. Questo andamento si è poi notevolmente intensificato dopo il 2013, anche a causa delle sanzioni degli U.S.A. le quali sono iniziate ad Agosto 2017, in seguito alle ripetute violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime di Maduro.

Tutto questo, unito al consistente aumento dei costi affrontati da PDVSA, molti dei quali legati all’aumento smisurato del numero di dipendenti dopo l’implementazione del SISDEM, contribui notevolmente a diminuire la redditività della compagnia.

Un’altra cosa che contribui notevolmente a ridurre le fonti di finanziamento del governo fu anche la distruzione del settore privato, verificatasi durante il governo di Chavez. Secondo la ONG “Cedice”, dall’inizio del suo governo ci sarebbe stata una vera e propria ecatombe di aziende in Venezuela. Il numero di aziende presenti nel paese si sarebbe infatti ridotto di un 75%, e le poche aziende rimaste ad oggi sarebbero quasi tutte aziende storiche del Venezuela o aziende direttamente controllate dal governo.

Nel grafico di seguito vediamo quindi l’evoluzione del deficit pubblico in Venezuela. In blu troviamo le entrate del governo ed in grigio la spesa pubblica.

Ad oggi le cifre ufficiali del deficit pubblico Venezuelano non sono note, poiché il governo di Maduro non rilascia statistiche ufficiali al riguardo. Tuttavia, la CIA stima questo numero intorno ad un fantasmagorico 46% del PIL.

Vediamo un andamento molto simile per quanto riguarda il deficit commerciale. Il governo Venezuelano, attraverso le sue politiche, ha portato il Venezuela a non produrre praticamente più niente internamente. Praticamente tutto viene importato, creando uno spaventoso deficit commerciale, che necessita di dollari per essere finanziato.

Le cause della crisi inflazionaria Venezuelana a questo punto sono chiare, e sono legate alle necessità di finanziamento del governo, in particolare dopo l’assunzione di Maduro nel 2013.

A causa della quasi completa distruzione del settore privato, il governo Venezuelano non aveva la possibilità di aumentare le tasse. A questo punto quindi, per il governo di Maduro restavano solo 2 strade da percorrere. La prima, tagliare i programmi sociali e rischiare fortemente di perdere la base di sostegno popolare, la seconda, ricorre a forme di finanziamento alternative come debito pubblico ed emissione monetaria. Ovviamente, il governo di Maduro optò per la seconda via, erodendo sempre più velocemente il valore del Bolivar, rendendolo oggi una moneta praticamente priva di valore.

III Parte: l’evoluzione dell’inflazione in Venezuela

Dobbiamo dire che il Venezuela, così come altri paesi sudamericani, ha sempre sofferto il male dell’inflazione. L’inflazione a due digiti è sempre stata la norma da queste parti.

Tuttavia, il vero problema iperinflazionario iniziò intorno al 2014, poco dopo l’insediamento del governo di Maduro e in concomitanza con la diminuzione del prezzo del petrolio. Per rendere l’idea, l’inflazione nel 2013 si attestava intorno al 29,4%, solo 0,1% superiore rispetto all’anno precedente. Nel 2014, questa saltò a 61,5%.

Negli ultimi anni, abbiamo assistito anche ad una massiva diminuzione delle riserve di dollari della Banca Centrale Venezuelana. Come possiamo vedere nel grafico di seguito, lo stock di dollari ha un trend discendente dal 2008, periodo in cui, come abbiamo visto precedentemente, il deficit pubblico e commerciale Venezuelano cominciò ad ingrandirsi.

Di seguito, possiamo vedere la correlazione tra deficit ed emissione monetaria e riduzione delle riserve di dollari. Come possiamo vedere dal grafico, la correlazione è assolutamente cristallina. L’emissione monetaria, così come la diminuzione dello stock di dollari della Banca Centrale del Venezuela, è servita a finanziare il deficit.

Come si può vedere dal grafico, lo stock di moneta, espresso in dollari, è drammaticamente diminuito negli anni. Questo è legato al fatto che il governo, nonostante abbia continuato a stampare moneta a man salva, non ha potuto mantenere il passo dell’inflazione, lasciando l’economia in una crisi di liquidità molto grande.

Si stima che ad oggi il 95% della liquidità sia in moneta elettronica, principalmente depositi bancari, e che solo il 5% della base monetaria sia effettivamente in contanti. Questo comporta, che gran parte dei beni arrivi a costare fino a quattro volte meno se pagato in moneta fisica.

Il governo venezuelano, nel tentativo di controllare l’aumento dei prezzi, ha deciso di intraprendere un programma di limitazione di prezzi. Questo, insieme ad altri fattori, ha portato ad una scarsità generalizzata di prodotti di consumo, che già nel 2014 raggiungeva il 25% dei beni. Negli ultimi anni, questo problema si è talmente aggravato, tanto che oggi il Venezuela, il paese con la più grande riserva di petrolio del mondo, affronta addirittura una mancanza generalizzata di combustibile.

Un altro dato interessante, anche se estremamente drammatico, è quello legato all’andamento del salario minimo, il quale è diminuito in maniera incredibile, durante il governo di Maduro, proprio a causa dell’erosione del potere d’acquisto. Nel 2012, il salario minimo si aggirava intorno ai $360 al mese, ed era abbastanza in linea con altri della regione. Nel 2015 purtroppo, questo aveva già raggiunto la misera cifra di $31. Oggi, dopo l’ultimo decreto presidenziale, il salario minimo in Venezuela si attesta intorno ai $3. Questo oggigiorno equivale al prezzo di due “happy meal” a Caracas. Ovviamente ciò non ha fatto altro che far esplodere la povertà in Venezuela, la quale oggi si attesta intorno al 90%.

Il futuro del Venezuela è molto buio purtroppo. Il danno fatto prima da Chavez, e poi da Maduro è stato enorme, lasciando il paese in una crisi economica profondissima, che si è poi trasformata in una delle più grandi crisi umanitarie della regione, e mi spingerei a dire della storia moderna. Si stima infatti che ad oggi i Venezuelani che hanno lasciato il paese sono oltre 4 Milioni e l’esodo sembra non fermarsi.

In aggiunta a tutto ciò, in Venezuela si è installato ormai un vero e proprio narco-regime, che rappresenta senza ombra di dubbio, la maggior fonte di destabilizzazione per una regione, che già storicamente è stata più e più volte fortemente soggetta al populismo più selvaggio e becero. Il problema più grande inoltre, è che a causa di tutte queste problematiche che abbiamo elencato, il regime Venezuelano è ormai disperato, e possiamo solo immaginare cosa sarà capace di fare pur di mantenere il potere nei prossimi anni.

 

Fonti:

https://www.cnbc.com/2019/08/02/venezuela-inflation-at-10-million-percent-its-time-for-shock-therapy.html#targetText=Venezuela’s%20hyperinflation%20rate%20increased%20from,to%20a%20recent%20IMF%20forecast.

https://mises.org/es/wire/venezuela-tiene-hiperinflaci%C3%B3n-%C2%BFahora-qu%C3%A9

https://www.mises.org.br/article/3024/fim-da-ilusao-o-desastre-economico-da-venezuela-e-reconhecido-pelo-proprio-governo-socialista

https://www.bloomberg.com/graphics/2019-venezuela-key-events/

https://publicpolicy.wharton.upenn.edu/live/news/1696-the-legacy-of-hugo-chavez-and-a-failing-venezuela

http://harvardpolitics.com/world/the-legacy-of-hugo-chavez/

https://www.abc.es/internacional/20141112/abci-medicos-cubanos-desertores-en-masa-venezuela-201411111936.html

https://www.bbc.com/mundo/noticias-america-latina-48275780

https://uk.reuters.com/article/us-venezuela-pdvsa-idUKKBN14X0GW

https://news.culturacolectiva.com/noticias/crisis-de-venezuela/

https://elcomercio.pe/economia/mundo/venezuela-1-000-empresas-nacionalizadas-han-quebrado-noticia-547458-noticia/

https://www.bloomberg.com/news/articles/2019-03-09/what-broke-venezuela-s-economy-and-what-could-fix-it-quicktake

https://www.reuters.com/article/us-venezuela-pdvsa-military-specialrepor/special-report-oil-output-goes-awol-in-venezuela-as-soldiers-run-pdvsa-idUSKCN1OP0RZ

https://en.mercopress.com/2013/11/08/venezuela-joins-the-hyperinflation-club-54.3-in-last-twelve-months-and-climbing

http://www.laht.com/article.asp?ArticleId=774552&CategoryId=13303

https://www.nytimes.com/2014/03/01/world/americas/slum-dwellers-in-caracas-ask-what-protests.html

https://edition.cnn.com/2019/05/26/americas/gas-shortages-venezuela-intl/index.html

https://www.bloomberg.com/news/articles/2015-03-06/monthly-salary-of-20-shows-why-venezuelans-wait-in-food-lines

https://www.novinite.com/articles/196724/The+President+of+Venezuela+Raises+the+Minimum+Wage

https://www.businessinsider.co.za/venezuela-mcdonalds-happy-meal-more-than-months-minimum-salary-march-2019-5-2

https://www.economist.com/graphic-detail/2018/08/20/the-exodus-from-venezuela-threatens-to-descend-into-chaos

Recensione del libro “Le tasse invisibili” di Nicola Porro

“Le tasse invisibili” è il nuovo libro di Nicola Porro, uscito nelle librerie e su Amazon il 24 Ottobre 2019 edito da “La nave di Teseo”.

Dopo il successo della sua prima fatica ” La disuguaglianza fa bene”, il giornalista di origine pugliese si concentra su un tema più specifico ma di vitale importanza per un liberale, ovvero quello delle tasse e in particolare delle tasse nascoste.

Il ragionamento di Porro parte dalla constatazione che le tasse si siano trasformate nel tempo, o meglio che siano state camuffate o decorate dai politici italiani per renderle più accettabili, tanto da essere ormai ritenute in molti casi delle procedure indiscutibili.

Per Porro abbiamo imboccato un crinale che lentamente ma inesorabilmente ci porta alla tirannia organizzata tramite la leva fiscale, in cui l’individuo è al servizio dello Stato e non viceversa.

Fortissima è anche la denuncia verso i vari balzelli più o meno nascosti che colpiscono i nostri beni e le nostre attività, in un incontrollabile proliferare di imposizioni fiscali che hanno dato vita a un vero e proprio Far West della tassazione.

Imperdibile tutta la parte dedicata all’ipocrisia delle tasse per l’ambiente, le cosiddette tasse “green”: puro ossigeno liberale, fuori dal coro e di stringente attualità ( vedasi “plastic tax”, etc.).

Tutta l’opera è puntellata da interessantissime citazioni tra le quali spiccano quelle del grande liberale A. De Tocqueville e dei principali esponenti della scuola italiana di finanza di inizio Novecento.

Ciò che è maggiormente apprezzabile della scrittura di Porro, oltre al linguaggio semplice , comprensibile e diretto, è la costante attenzione ai motivi etici, oltre che economici, del pensiero liberale.

Ci opponiamo a queste nuove e insopportabili tasse poiché sono inefficienti ed ingiuste dal punto di vista economico, certo , ma prima di tutto perché esse costituiscono una limitazione alla nostra libertà individuale e perché consentono la proliferazione di quel flagello che è la tirannia burocratica.

Perché la rivolta cilena è antidemocratica (mentre Hong Kong e Catalogna no)

“Eh, voi liberali sostenete la ribellione a Hong Kong solo perché anticomunista ma in Cile state con la repressione cilena, vergogna, krumiri!”

Basterebbe ricordare che moltissimi liberali sostengono la Catalogna, che in quanto a politiche non è di certo l’ancapistan, per quanto riguarda la propria ricerca di libertà dalla Spagna.

Ma, nei fatti, cosa distingue le proteste in Cile da quelle a Hong Kong o in Catalogna? Molto semplice: l’esistenza di un’alternativa.

A Hong Kong, infatti, il sistema politico è fortemente sbilanciato in favore dei partiti pro-Cina (grazie a un sistema elettorale fortemente corporativo) mentre per quanto riguarda la Catalogna c’è da dire che la Spagna non permette neanche un voto consultivo sull’argomento.

È chiaro come per i cittadini, senza una vera rappresentanza democratica, l’unica arma sia la protesta, che spesso sfocia in violenza.

In Cile, invece, c’è una democrazia funzionante. I Cileni hanno eletto un Presidente, Piñera, ed hanno eletto anche un Parlamento a lui favorevole. Tra l’altro, ad affermare la democraticità di tali elezioni, c’è che queste sono state le prime con un sistema proporzionale puro e non con un particolare sistema binominale inventato durante l’uscita di scena di Pinochet.

La democrazia è sicuramente un sistema con vari difetti, ma è il modello scelto dai cileni, ed è inaccettabile che una minoranza, seppur consistente, di riottosi provi ad imporre la propria visione con la violenza.

In ogni caso, la vera soluzione sarebbe stata il dialogo, sedersi a un tavolo e provare a risolvere i problemi della minoranza senza però danneggiare la maggioranza (che ha tratto benefici da cose come le pensioni a capitalizzazione e il voucher scuola).

Siamo tutti miliardari

Qual è la minima quantità di denaro che chiederesti per vivere nel passato allo stesso modo di John Rockefeller nel 1916?  22 milioni di dollari del 2019 (che corrispondono a 1 milione del 1916)? 

Oppure 1 MILIARDO di dollari del 1916? 

Questa gran quantità di denaro ti permetterebbe di comprare abbastanza beni e servizi di altissima qualità in grado di rendere la tua vita nel 1916 diversa da quella che vivi oggi, con il tuo attuale stipendio?  

Pensaci attentamente. 

Se tu fossi stato un miliardario americano del 1916, avresti potuto comprare beni immobiliari esclusivi. Avresti potuto comprare casa sulla 5th Avenue o una che affacciasse sull’Oceano Pacifico o meglio ancora una sulla tua isola tropicale privata dall’altra parte del mondo. 

Avresti anche potuto comprarle tutte. 

Ma qualora avessi deciso di viaggiare dalla tua casa di Manhattan al tuo palazzo sulla west-coast, il viaggio sarebbe durato giorni. Tra l’altro, se lo avessi pensato in estate, non avresti nemmeno avuto l’aria condizionata durante il tragitto nella tua auto privata. 

E se tu fossi stato uno dei pochi a poter avere l’aria condizionata a casa, non l’avrebbero comunque avuta le case dei tuoi amici, bar e ristoranti che ami frequentare. In inverno, poi, molti erano scarsamente riscaldati rispetto ad oggi.

Per raggiungere l’Europa ci volevano giorni. Per arrivare nelle terre sperdute oltre Europa avresti potuto impiegare più di una settimana. 

E se tu avessi voluto inviare una lettera (come fai oggi con mail e messaggi) da New York a Los Angeles in piena notte? Impossibile. Non avresti potuto ascoltare la radio (fu inventata nel 1920) o guardare la TV. 

Tuttavia avresti potuto comprare il fonografo migliore del tempo. Che non era stereo ed era di qualità infima rispetto agli standard a cui siamo abituati da decenni. Non potevi chiaramente nemmeno scaricare la musica con un semplice download. C’erano davvero pochi film da guardare. Anche se avresti potuto tranquillamente costruire un intero cinema a casa. 

Il tuo “telefono” sarebbe stato una specie di mattoncino attaccato al muro. Non lo avresti potuto connettere a Skype per guardare i tuoi amici e parenti lontani. 

Avresti potuto comprare una limousine. Ma avrebbe avuto molte più possibilità, rispetto alla tua utilitaria del 2019, di rompersi in mille pezzi durante la marcia. 

Nel frattempo, a bordo della tua inutile, ma costosissima, scatola a quattro ruote, non avresti potuto chiamare nessuno per avvisare di essere in ritardo per l’appuntamento. 

Se in una tranquilla serata nella tua casa di Manhattan avessi avuto voglia di sushi, falafel, pho vietnamese o qualche altro cibo non autoctono del tuo Paese, saresti stato destinato a digiunare. Anche nel caso tu avessi avuto la fortuna di conoscere tali sapori lontanissimi, il tuo chef difficilmente sarebbe stato in grado di emulare piatti tanto complessi e sconosciuti. 

Avresti avuto la possibilità di rifornire di mirtilli la tua casa anche a Gennaio, ma la spesa, nonostante l’enorme disponibilità economica, sarebbe stata gravosa.  La tua connessione wi-fi sarebbe stata lentissima – ah, aspetta: non esisteva. Non importa, tanto non avresti nemmeno avuto un computer o internet. 

La sanità dell’epoca era a livelli orribili. Le cure erano poco efficaci e dolorosissime (da ricordare il figlio di Coolidge*). Gli antibiotici non esistevano. Disfunzione erettile? Disturbi psichici? Avresti solo potuto convivere con tali patologie. Sarebbe stata la tua unica opzione.

Tua moglie, tua sorella o tua figlia avrebbero avuto serie probabilità di morire durante il parto. Il neonato, tra l’altro, avrebbe avuto possibilità estremamente minori rispetto ad oggi di sopravvivere

Nonostante la tua vanità, non avresti potuto comprare lenti a contatto o trattamenti speciali per i capelli. E dimentica la liposuzione in grado di eliminare i frutti delle tue cene poco salutari. 

I contraccettivi erano primitivi: erano molto più dolorosi e molto meno efficaci di qualsiasi contraccettivo economico in vendita oggi

Saresti stato completamente escluso dalla ricchezza culturale generata dalla globalizzazione durante tutto il secolo scorso. Non c’era musica ispirata da America o Gran Bretagna come il rock’n’roll. Niente reggae. Il jazz era ancora alle primissime fasi e avresti potuto ascoltare davvero poche canzoni.

Avresti potuto comprare i più pregevoli orologi svizzeri, ma non sarebbero stati in grado di misurare il tempo così accuratamente come un qualsiasi Timex economico odierno o qualsiasi smartphone.

Sinceramente, non accetterei mai di abbandonare il 2019 per essere un miliardario del 1916. Per gli standard del 1916, io oggi sono ben più che miliardario. Questo significa che il me di oggi è nella pratica più ricco di quanto il miliardario John Rockefeller non fosse nel 1916. E se, come credo, le mie preferenze non sono inusuali, allora ogni occidentale borghese oggi è in pratica più appagato di quanto non fosse l’uomo più ricco del mondo soltanto 100 anni fa.   

*Nel 1924, il figlio del presidente USA Coolidge morì a causa di una infezione al piede ricavata durante una partita di tennis nei giardini della Casa Bianca. 

Articolo tradotto da CafeHayek.com

Il grafico sottostante mostra come sempre meno persone vivano in condizioni di estrema povertà (nel 1820 il 90% della popolazione viveva con meno di 1,20 dollari al giorno, oggi solo il 10%. E siamo 7 miliardi in più!).

Istruzione in Calabria: un caso per la concorrenza

La Calabria potrebbe essere il paradiso di chi vuole eliminare la concorrenza in materia di istruzione: secondo i dati del MIUR sono l’1%, poco più di tremila, gli studenti calabresi che frequentano una scuola non statale e gli istituti paritari sono solo 72, paragonati ai 1537 plessi pubblici. Per paragone, in Lombardia la percentuale di studenti presso le scuole paritarie è circa del 10%.

Senza la “scuola dei preti” a togliere risorse alla “scuola di tutti” dovremmo presumere che la scuola calabrese sia un’eccellenza. E invece no.

L’istruzione in Calabria versa in uno stato che definire pietoso è quasi un complimento.

La conoscenza della lingua italiana declina durante la carriera scolastica: in sostanza paghiamo l’istruzione calabrese perché gli alunni disimparino l’italiano, visto che partono, in terza elementare, al pari con i coetanei lombardi e, perdendo punti, arrivano in quinta superiore come ultimi in classifica.

Matematica? Non ne parliamo: ultimi a partire e ultimi ad arrivare, tant’è che, statisticamente, un perito del Centro-Nord ne sa di più in matematica rispetto a un diplomato scientifico della Calabria.

Magari l’istruzione si rifà sulla lingua inglese, e invece no: la Calabria parte penultima, dietro alla Sardegna, e arriva penultima, questa volta dietro alla Sicilia.

Monopolio, la parola magica

In Calabria, ma anche in altre regioni meridionali, la scuola paritaria rappresenta un limitato attore di mercato, spesso confinato al livello della scuola primaria.

E, al contempo, queste regioni sono spesso piagate da altri problemi sociali come la disoccupazione, cosa che rende obiettivamente difficile, per i più, mandare i figli in una scuola paritaria se ritenessero inadatta l’istruzione pubblica.

Ergo la scuola pubblica è, in pratica, fornitore in esclusiva del servizio istruzione in queste determinate regioni. E, come ogni monopolista, non ha alcuna necessità di curarsi della qualità: gli alunni arriveranno anche se la qualità cala drasticamente, idem i finanziamenti.

In sostanza, non avendo i genitori un’alternativa, l’istruzione resta libera di cadere in picchiata in termini di qualità.

Cosa dovremmo fare?

Immaginate se ogni famiglia calabrese avesse una cifra annuale vincolata per l’istruzione del proprio figlio. Potrebbe certamente spenderla presso una scuola pubblica, ma se fosse insoddisfatta della qualità potrebbe, molto semplicemente, spostare il proprio figlio verso un’altra istituzione scolastica. Se la qualità dell’istruzione pubblica è quella che mostrano i test INVALSI, molto probabilmente vi sarebbero esodi di massa verso scuole più serie e l’istruzione pubblica avrebbe solo due alternative: migliorare o fallire.

Ora smettete di immaginare, infatti questa soluzione esiste ma purtroppo non in Italia e si chiama voucher scuola. Giovanni Adamo II, nel suo saggio “lo Stato nel Terzo Millennio”, definisce questi voucher “una questione di uguaglianza, poiché permettono di frequentare buone scuole senza considerazione per lo stato economico della famiglia”.

E così è: se un sistema del genere chiaramente porterebbe a benefici anche dove la scuola pubblica tendenzialmente funziona, ad esempio riducendo i costi e introducendo nuove metodologie didattiche più vicine alle necessità degli alunni, nei territori più periferici ed economicamente dissestati la libertà di scelta nella scuola è una questione di sopravvivenza perché solo una buona istruzione (quella monopolistica pubblica non lo è) può permettere di avviare tutti quei meccanismi che consentono alle persone di uscire dalle situazioni di disagio economico, alle quali spesso si legano situazioni di disagio sociale.

Esempi pratici

Nelle periferie di varie città degli Stati Uniti, zone spesso soggette a fenomeni di degrado urbano che portano alla formazione di gang, le scuole pubbliche si erano trasformate, alla fine, in parcheggia-bambini: si stava dentro qualche ora, si imparava poco e basta.

Sono nate poi le charter school. Queste scuole sono privatamente amministrate ma finanziate dall’istruzione pubblica, solitamente meno di quanto si pagherebbe per un alunno nel sistema pubblico. Ma i numeri sono limitati, quindi si organizzano delle vere e proprie crudeli lotterie per decidere chi potrà avere un’istruzione buona e capace di tirarlo fuori dalla povertà e dal degrado e chi, invece, resterà nelle scadenti scuole pubbliche.

A volere ciò sono coloro che, si suppone, dovrebbero proteggere gli alunni: i docenti. Infatti i loro sindacati sono fermamente contrari a ipotesi del genere, perché sanno che non garantirebbero tutti i loro privilegi.
E non è un’americanata: anche in Italia i sindacati dei docenti sono agguerriti contro ogni ipotesi liberale in materia di istruzione, nonostante nel dibattito mainstream esse siano veramente ridotte e prevedano, al massimo, un contributo parziale alla retta delle scuole paritarie.

Un esempio, invece, da un Paese non problematico lo abbiamo in Svezia: nel 1993, al grido di “l’istruzione è troppo importante perché sia gestita come monopolio” vennero introdotte le scuole libere, ossia delle scuole che, finanziate dai comuni al pari delle scuole pubbliche, erano gestite da privati. Risultato?

La qualità dell’istruzione pubblica è aumentata. In fin dei conti la scuola pubblica, per conservare i propri alunni, ha dovuto competere con le scuole libere. E, come per ogni servizio, la concorrenza fa bene, riduce i prezzi (ma, essendo sussidiata, non è il caso) ma soprattutto aumenta la qualità.

In Italia, soprattutto per le zone più problematiche del Paese, abbiamo bisogno di un sistema che permetta la libertà di scelta. “Il valore della scuola pubblica” non esiste, il futuro di tanti ragazzi oggi oppressi da un sistema scolastico mal funzionante sì. E senza una sostanziale riforma non sarà un futuro roseo.

Facebook e i limiti della libertà di parola

Pochi giorni fa Mark Zuckerberg si è presentato di fronte al Congresso americano per rispondere alle domande dei parlamentari statunitensi sul suo progetto di cripto-valuta, Libra[1]. 60 fra deputati e senatori hanno avuto a disposizione 5 minuti a testa per interrogare il CEO di Facebook; e nonostante la causa ufficiale della convocazione, gran parte delle domande si è concentrata su tutt’altro, dallo scandalo Cambridge Analytica[2] alla discriminazione razziale nell’azienda.

La parte più interessante è stata per me la discussione che Zuckerberg ha avuto con alcuni deputati democratici (Rashida Tlaib, Jim Himes, Alexandra Ocasio-Cortez) sul tema della libertà di parola[3]. Tlaib ha accusato Facebook di non fare abbastanza contro i messaggi di odio condivisi sulla piattaforma e di non censurare i politici che usano linguaggio violento e discriminatorio; Ocasio-Cortez si è invece soffermata sulla questione fake news, chiedendo se Facebook interverrebbe per rimuovere palesi bugie postate da un politico; Himes, infine, ha chiesto a Zuckerberg cosa intende fare per promuovere una migliore consapevolezza negli utenti e una maggiore attenzione alla qualità del discorso pubblico.

Il CEO di Facebook ha provato a difendersi, sottolineando le difficoltà tecniche di fare ciò che i politici chiedono: la sua azienda non produce materiale giornalistico in proprio e non pone un filtro preventivo ai contenuti postati dagli utenti, per cui messaggi contrari alle policies della piattaforma possono non essere individuati immediatamente.

Zuckerberg ha poi allargato il suo ragionamento, spiegando che i discorsi dei politici sono di interesse pubblico e per questo non sono censurati (eccezioni a parte[4]) e concludendo con una frase che mi ha colpito: “I believe that people should be able to […] judge [politicians’] characters for themselves” (“Io credo che le persone dovrebbero giudicare i personaggi politici per conto proprio”)[5].

Nella maggior parte dei media (italiani[6] e stranieri[7]), l’audizione è stata vista come una severa e giusta “fustigazione pubblica” di Zuckerberg, colpevole di lasciare impunita, per pura avidità di denaro, la fascia di utenza che utilizza deliberatamente la piattaforma per promulgare idee di odio, violenza e bugie.

Pochi hanno preso sul serio e riflettuto sulle risposte del CEO di Facebook, che pure ha sollevato delle questioni molto importanti e delicate.

Al di là degli aspetti tecnici e legali (Facebook non è un giornale né può permettersi di censurare dei rappresentanti politici senza rischiare conseguenze), è profondamente sbagliato chiedere a un’azienda privata di controllare come si svolge il discorso pubblico.

Facebook è una piattaforma social, che permette agli utenti di condividere contenuti. Stop. Non è, e non deve essere, una “macchina della verità” che stabilisce cosa è vero e cosa è falso; tantomeno il suo compito è quello di “educare” i cittadini al pensiero critico.

È molto grave che dei rappresentanti del Congresso USA non si rendano conto di quanto siano pericolose le loro stesse proposte. Forse è ancor più grave che non se ne rendano conto i giornali. Gran parte delle dichiarazioni di politici possono essere considerate come false, o quantomeno imprecise: Facebook dovrebbe censurarle tutte?

Alexandra Ocasio-Cortez potrebbe diffondere il suo Green New Deal[8] in base a queste regole? Cosa significa chiedere alla piattaforma di promuovere una maggiore qualità del discorso pubblico? Significa censurare articoli e giornali in base al linguaggio utilizzato?

Tutti coloro che criticano l’eccesso di libertà di parola lo fanno sempre pensando alle opinioni che li disturbano o li preoccupano. Il problema è che una volta autorizzata la censura è molto difficile stabilirne il limite.


[1] Nelle intenzioni dei suoi proponenti (Facebook è solo una, anche se la principale, delle società coinvolte), Libra sarebbe una cripto-valuta per tutti coloro che non hanno accesso al sistema bancario, in tutto il mondo, agganciata ad un set di valute nazionali per garantirne la stabilità

[2] Lo scandalo Cambridge Analytica esplose all’inizio del 2018, quando si scoprì che l’omonima società inglese aveva raccolto illegalmente su Facebook i dati di milioni di utenti, a cui aveva successivamente inviato messaggi di propaganda elettorale

[3] L’audizione (sia in video che in trascrizione) può essere rivista integralmente a questo indirizzo: https://www.c-span.org/video/?465293-1/facebook-ceo-testimony-house-financial-services-committee&start=7914

[4] Rispondendo a Ocasio-Cortez, Zuckerberg ha dichiarato che Facebook censurerebbe incitamenti a violenza o dichiarazioni che impedirebbero l’effettivo esercizio del diritto di voto

[5] La risposta per esteso la si può trovare a questo link: https://www.youtube.com/watch?time_continue=1&v=8KFQx-mc2Ao, a partire dal minuto 3.30 circa

[6] Ad esempio:
https://www.bbc.com/news/technology-50152062;
https://www.cnet.com/news/congress-pillories-zuckerberg-over-libra-cryptocurrency/;
https://www.wired.com/story/mark-zuckerberg-endures-another-grilling-capitol-hill/

[7] Ad esempio:
https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/10/25/facebook-la-deputata-usa-ocasio-cortez-incalza-zuckerberg-durante-laudizione-al-congresso-il-video-fa-il-giro-del-mondo/5532310/;
https://www.ilsole24ore.com/art/facebook-ocasio-cortez-fa-pezzi-zuckerberg-congresso-ACqyTIu
https://www.giornalettismo.com/ocasio-cortez-zuckergberg-video/

[8] Il Green New Deal è un ambizioso programma di riconversione ecologica del sistema economico statunitense (qui la versione ufficiale presentata al Congresso: https://ocasio-cortez.house.gov/sites/ocasio-cortez.house.gov/files/Resolution%20on%20a%20Green%20New%20Deal.pdf) Molti critici lo considerano irrealistico e ritengono il suo costo pesantemente sottostimato (es. https://www.cato.org/publications/commentary/why-us-cant-afford-green-new-deal)

Ci serve una Repubblica direttoriale?

Abbiamo appena assistito ad una crisi di governo. Una crisi figlia del nostro assetto costituzionale che, pur volendo dare un bel po’ di potere allo Stato, voleva evitare un forte accentramento politico.

Da tempo mi interrogo sulla forma di governo migliore per uno Stato liberale. A mio parere questa forma dovrebbe avere principalmente tre caratteristiche:

  • Rappresentare quanti più cittadini possibile;
  • Avere una visione a lungo termine e un certo potere di implementarla;
  • Non essere schiava delle logiche elettorali.

Ho scartato subito la Repubblica presidenziale: essendo un ruolo elettivo si rischia di perdere una qualsiasi garanzia e di legare anche la più importante carica del Paese a logiche a breve termine per ottenere voti. Se è accettabile in grandi Stati federali in un sistema di controlli e contrappesi, in Stati unitari invece rischia di essere un pericolo per la prosperità.

La Repubblica parlamentare è migliore ma di poco: il Presidente viene eletto dai Partiti ma dipende un po’ meno da essi che in uno Stato presidenziale, tende ad avere una visione di termine leggermente maggiore ma comunque resta il fatto che, avendo pochi poteri, i problemi si spostano al premier e, premierato debole o forte che sia, resta il problema della visione a breve termine e delle logiche elettorali. E anche se decidessimo, come accade in Cechia o in Austria, di eleggere direttamente il Presidente, poco cambierebbe.

Verrebbe naturale pensare alla Monarchia ma, Liechtenstein a parte essendo un’eccezione, le Monarchie europee sono solo leggermente più stabili delle Repubbliche, per il semplice fatto che hanno il medesimo sistema istituzionale sostituendo il Capo di Stato eletto con uno non eletto e vitalizio.

Un Capo di Stato collegiale?

Nel 1160, tuttavia, i Lombardi idearono un particolare sistema per la propria alleanza: un capo di Stato collegiale. La Lega Lombarda, che era una confederazione con compiti commerciali, giudiziari e politici oltre che militari, aveva un consiglio denominato universitas composto da membri dotti della società nominati dai singoli comuni.

Tale impostazione venne ripresa dai rivoluzionari francesi e, in tempi più recenti, dalla Confederazione Svizzera, che ad oggi rappresenta l’unico Stato ad adoperare questo sistema.

Si parla, in questi casi, di repubblica direttoriale: il Capo di Stato è collegiale ed è composto da pari; se c’è una figura unica, come il Presidente della Confederazione, assume esclusivamente un ruolo di rappresentanza poiché è un primo tra pari.

Perché è un sistema stabile?

Perché più o meno tutti sono rappresentati nel consiglio di governo. Nel sistema elvetico c’è un accordo de facto tra le forze politiche, denominato “formula magica”, ma si può anche immaginare una formula proporzionale direttamente prevista per legge.

Il governo, collegialmente, deciderebbe su vari temi rendendo possibile convergenze parallele e non obbligando a creare alleanze fisse: ogni partito sceglierebbe i migliori uomini e costoro, nel governo, deciderebbero.

E qualora non vi sia un accordo può decidere il popolo, nella forma di Parlamento o con voto diretto. Non è un caso che in Svizzera non esistano elezioni anticipate e sia la Patria della democrazia diretta: è una semplice conseguenza del sistema direttoriale.

Un’altra conseguenza potenzialmente piacevole è che il Capo dello Stato collegiale, se decide all’unanimità, rappresenta gran parte della popolazione. Pensate ad un potere di veto forte (ad esempio superabile solo per voto popolare o con un’elevata maggioranza di entrambe le camere): se venisse dato a Mattarella da solo sarebbe un conto, verrebbe sicuramente contestato, mentre se un consiglio che vede a destra Giorgia Meloni e a sinistra Pietro Grasso decidesse unanime che una legge ha qualcosa che non va forse tutti i torti non li avrebbe.

Certo: in Italia collaborare col nemico si chiama “inciucio” se lo fa l’avversario, se invece lo fanno gli alleati si chiama accordo. Ma vediamo bene i risultati: instabilità, riduzione della sovranità popolare, trasformazione del parlamento in un passacarte dell’esecutivo e, in definitiva, uno Stato peggiore.

Dove invece l’inciucio è legge, dove la “governabilità” sarebbe vista come un concetto degno di una dittatura, dove in ogni livello, dallo Stato federale al più piccolo comune montano, bisogna giungere ad accordi e dove, per buona pratica istituzionale, la minoranza del governo sostiene le decisioni prese collegialmente invece di aprire le crisi di governo defollowandosi su Instagram, si ha stabilità politica, economica e una vera partecipazione popolare.

Io, un pensierino, ce lo farei.

Lo sciopero politico è nemico della democrazia e della libertà

Non me la sento di condannare totalmente gli scioperi, se usati come mezzo di contrattazione col datore di lavoro. Se, ad esempio, il datore di lavoro non paga, non fa lavorare in sicurezza o non rinnova i contratti, ritengo comprensibile il protestare astenendosi dal lavoro.

Tuttavia, ultimamente, lo sciopero è fin troppo spesso usato come strumento politico. Basta leggere le ragioni degli ultimi scioperi nella scuola, nelle poste o nel trasporto pubblico per leggere cose come:

  • Sciopero contro la regionalizzazione della scuola
  • Sciopero del TPL contro la liberalizzazione
  • Sciopero del TPL contro l’austerità e per il diritto alla casa
  • Sciopero delle Poste contro le politiche neoliberiste

Sia chiaro, le persone hanno diritto di credere in ciò che vogliono e di manifestare collettivamente. Non hanno tuttavia il diritto di interrompere un servizio pubblico quale la scuola o il trasporto pubblico per le proprie idee.

È infatti assurdo che, se i professori sono contro la volontà della maggioranza dei cittadini in tema d’autonomia, possano tranquillamente bloccare la scuola in tutta Italia quando, se la stessa cosa fosse fatta dagli studenti di una singola scuola anche per ragioni pratiche (si pensi alle scuole in pietose condizioni, grande successo della nostra scuola pubblica), si configurerebbero gli elementi per un’accusa di Interruzione di Pubblico Servizio.

Non si può, tuttavia, pensare di risolvere il tutto limitando il diritto di sciopero. Se Reagan ci insegna che ogni tanto andare di forza può aver senso, è chiaro che se categorie protette e lobbistiche come quelle dei dipendenti pubblici possono avere così tanto potere è per connivenza della politica e, soprattutto, perché c’è troppo Stato nell’economia.

Se iniziamo a mischiare economia e lavoro, esattamente come fin troppo spesso accade in questo Paese dove essere “pubblico” -anche se spesso corrisponde a malagestione- è sinonimo di “bello”, è chiaro che stiamo dando un enorme potere ad una categoria singola a discapito delle scelte democratiche e individuali degli altri, cioè a chi può garantirsi il supporto della politica proprio scioperando. Ed è un circolo vizioso che solo una presa liberale di coscienza potrà evitare.

Perché è semplicemente discriminatorio che il cittadino comune, se ha un problema, debba agire secondo la legge mentre il membro della casta possa semplicemente interrompere il proprio servizio, imponendo la propria idea a tutti. Occorre dunque eliminare la mano dello Stato in settori dove non è essenziale, come l’istruzione o il trasporto pubblico, e fare in modo che diventino delle normali società private, con responsabilità chiare, e dove lo sciopero non è un’arma elusiva della democrazia e delle scelte individuali.

Nelle società necessariamente pubbliche, invece, si può mantenere un’autorità di garanzia che si occupi di impedire gli scioperi meramente politici permettendo, invece, quelli non politici.

Liberismo: male assoluto, da sinistra a destra

Mai come in questi anni si è assistito a così tanti attacchi al liberismo e ai suoi principi, veri e propri assalti condotti con una ferocia pari soltanto alle disarmanti mancanze dei loro autori, un carnevale di carenze i cui deleteri effetti spingono molti a cercare rifugio nella vera minaccia al nostro sistema economico e sociale: il collettivismo.

Gli eventi globali dell’ultimo biennio confermano tale trend (dalle distorsioni dei seguaci di Greta Thunberg, alle guerre commerciali, dalle recenti sommosse in Cile, all’ancor più recente vittoria peronista in Argentina) e l’Italia – ahimè – non è tutt’altro che estranea a ciò: siamo letteralmente ostaggio di un’allucinante propaganda anti-liberale portata avanti con ogni mezzo.

I nostri social network sono invasi da soggetti che – senza arte né parte – attaccano la libertà in qualunque sua fattispecie, ignoranti del fatto che se essi possono esprimere le loro opinioni – configurandosi talvolta in un vero e proprio abuso di tale possibilità – lo devono proprio a quella libertà che tanto odiano e contestano; e attenzione: non finisce qui.

Infatti, a tale problema se ne aggiunge ben presto un altro: la disinformante propaganda politica di partiti provenienti da ogni schieramento. Eh già figlioli: oggi non abbiamo più soltanto la storica sinistra collettivista ad attaccarci, bensì vi è anche la c.d. destra sovranista e populista a farsi avanti, con i suoi rappresentati e sostenitori che – utilizzando un linguaggio di meri slogan e distorsioni della verità – si riempiono tanto la bocca con la parola libertà, pur non potendosi neanche vantare di saper scrivere questo termine, che – in caso sia sfuggito – è il fondamento della nostra stessa civiltà.

A riprova di ciò, proprio stamattina mi è stato girato il link di un “articolo/opinione” redatto da uno di tali sostenitori, un testo così mal scritto e ricco di menzogne sul conto di noi liberali (per non parlare poi degli errori in ambito economico, sociologico e storico) che mi sono sentito in dovere di smontare ognuna di esse, ma attenzione: questo articolo non rappresenta (almeno direttamente) la mia risposta alle accuse mosse da tale individuo (infatti, per quello ho scritto un apposito articolo nel relativo blog), ma bensì è la risposta a 5 delle principali menzogne sul liberismo che ci vengono costantemente propinate dalla propaganda politica sia essa di destra che di sinistra.

1) il liberismo è un tipo di economia basato esclusivamente sul mercato, senza alcun intervento statale

Se la persona con cui parli parte con questa affermazione, stai certo che sa meno di 0 di questa “ideologia”, poiché:

  • il liberismo non riguarda solo la dimensione economica della società, ma anche quella dei diritti e delle libertà individuali e sociali

La distinzione tra liberismo e liberalismo è un errore prettamente italiano, dovuto a Croce e corretto già all’epoca da Einaudi, poiché senza libertà economica non vi sono libertà sociali e viceversa; a tal proposito, tra noi liberali si è soliti dire che chi vuole solo le libertà economiche (leggasi minor pressione fiscale) è un “fascista che si crede liberale solo perché vuole pagare meno tasse”, mentre chi vuole solo le sociali (leggasi legalizzazione delle sostanze stupefacenti) è un “socialista che si crede liberale solo perché vuole legalizzare la ganja”, sebbene la differenza tra le due categorie è nulla, come ci ricorda il nostro caro Hayek.

2) il liberismo esclude a priori l’intervento statale

Non molti lo sanno (il che comunque non giustifica tali soggetti), ma i liberali si dividono in più correnti di pensiero che vanno dal liberismo sociale (su di essa l’opinione non è unanime perché fa riferimento al pensiero di gente come Keynes) all’anarco-capitalismo.

Ebbene, l’assenza di intervento statale è una caratteristica proprio di quest’ultima corrente, mentre i liberali classici (tra i quali il sottoscritto) riconosco la necessità di un intervento statale in ambito economico, sebbene ridotto al minimo e di tipo negativo, visto che lo Stato è sì un male necessario, ma resta pur sempre un male ed in quanto tale si presenta come una tendenza masochista, la quale può essere solo personale, non un “gusto” da imporre a tutti.

3) il fallimento del modello liberale di Stato in questi anni è palese

La risposta più diretta a questa affermazione è in realtà una domanda: dove è mai stato veramente attuato il liberismo in questi anni?

Questo ricorda molto i comunisti quando affermano che il vero comunismo non è mai stato attuato (mai che riconoscano la realtà laddove i casi storici, o quelli odierni di Venezuela e Corea del Nord, hanno certificato il loro fallimento), ma da dottore e studente di economia io sono abituato a ragionare sui dati e basandoci sull’Index of Economic Freedom, sono 4 i Paesi più liberali al mondo: Hong Kong, Singapore, Nuova Zelanda e Svizzera.

Ora, domanda: siamo tutti per caso come Hong Kong o la Svizzera? Come si fa a parlare del trionfo del liberismo in un periodo storico ove lo Stato interviene massicciamente nel sistema economico?

E attenzione: non mi si venga a dire che è proprio colpa del fallimento del liberismo.

Infatti, per chi come me è cresciuto e ha studiato durante la Crisi, sa che essa è stata originata – manco a farlo apposta eh – proprio dallo Stato e dalle sue Istituzioni, con politiche monetarie espansive fuori controllo (leggasi FED), legislazione inadeguata (leggasi normativa finanziaria) e una socialistica gestione delle politiche fiscali.

4) l’Europa è un leviatano liberale e l’austerity, con conseguente aumento delle tasse, tagli della spesa pubblica e incremento dei prezzi ne è la sua massima emanazione

Ora, tralasciando l’ultimo punto che è palese ignoranza economica (l’aumento dei prezzi nel corso del tempo è detta inflazione. Se essa vi fosse veramente, com’è allora che la BCE continua a drogare il sistema a suon di QE e altre politiche espansive?), dobbiamo chiarire due cose in materia di austerità:

  • il liberismo – nel voler un minor ruolo dello Stato nella società sul fronte economico – richiede due politiche congiunte: minor spesa e MENO TASSE!
  • l’austerità non è colpa del liberismo, bensì (indovina un po’) dello Stato.

Infatti lo Stato – al pari di famiglie, imprese e terzo settore – è un’azienda soggetta al funzionamento delle leggi dell’economia, tra le quali quelle del mercato e se esso spreca i soldi dei cittadini (N.B.: ricordatevi gli insegnatemi di Margaret Thatcher: non esistono i soldi dello stato, ma solo quelli dei contribuenti), violando ogni principio di sana e prudente gestione, non c’è da meravigliarsi se con la crisi salta ogni senso di stabilità e i finanziatori richiedono di conseguenza un maggior tasso d’interesse.

Infatti, giusto per fare un po’ di sana cultura economico-finanziaria, una delle leggi alla base del funzionamento del sistema economico è quella della relazione positiva tra rischio e remunerazione; della serie, non mi si venga a dire che se Tizio è un pessimo debitore e vi chiede dei soldi, voi non glieli concedete senza chiedere una maggior tutela a fronte del rischio che correte nel privarvi della possibilità di usare tale denaro per altre attività più sicure?

5) la globalizzazione e il libero commercio sono un cancro liberista che uccide le nostre imprese

Questa è una delle affermazioni che personalmente mi dà più fastidio, tant’è che sul punto sto scrivendo un articolo di risposta su chi festeggia i dazi e per questo, qui mi limiterò a fare alcune riprese fondamentali, partendo da un caloroso invito: leggetevi La verità, vi prego, sul neoliberismo di Mingardi.

Infatti egli – in vari paragrafi – affronta proprio il tema della globalizzazione, dei trattati internazionali e della suddivisione del lavoro, smontando ogni fake news con un linguaggio che non richiede altre capacità se non quelle basilari di lettura (e comprensione) dell’italiano.

Detto ciò, a chi invoca il “protezionismo intelligente” (espressione a dir poco ossimorica), io sollevo qui le seguenti osservazioni:

  • principio cardine dell’economia: i bisogni dell’uomo sono illimitati, mentre le risorse sono scarse;
  • la specializzazione nella produzione risale alla Preistoria, tant’è che è da qui che nasce il mercato e i vantaggi derivanti dalla specializzazione e commercio fra paesi, sia per il sistema produttivo che per i consumatori, sono stati dimostrati mica l’altro ieri, ma bensì da Ricardo nei Principi di Economia Politica (1817) con la legge dei vantaggi comparati;
  • il liberismo non solo è a favore del libero commercio, ma è contrario allo sfruttamento dei lavoratori e a un sistema produttivo che danneggia l’ambiente; infatti, lo sfruttamento danneggia tanto la libertà sociale quanto quell’economica.

5) il liberismo privilegia i poteri forti

Senza scomodare la scuola austriaca sul ruolo dell’individuo e il funzionamento del sistema economico, mi limito a citare i ragionamenti di un altro economista classico, il padre dell’economia moderna (tanto contestato da Rothbard per la sua teoria del valore) Adam Smith.

Infatti egli, nella sua “Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni”, afferma che la condizione per il corretto funzionamento del mercato è la libera concorrenza, con un processo di formazione dei prezzi che non deve subire ingerenza da attori esterni (leggasi Stato), salvo nel ridurre ciò che ostacola ciò, IVI INCLUSI I POTERI MONOPOLISTICI & C.

Con quest’ultimo punto, termino qui questa prima analisi dei luoghi più comuni sul liberismo affermati tanto dalla sinistra quanto dalla sedicente destra.

Ad oggi, più che mai bisogna ricordare un principio fondamentale che io stesso ripresi nell’introduzione alla mia tesi di laurea triennale: la libertà e l’agire dei singoli individui è ciò che storicamente ha fatto crescere ed evolvere la nostra società.

Oggi ciò viene costantemente disconosciuto e il nostro sistema socio-economico viene azzoppato dall’agire fuori controllo di quel Kraken che è lo Stato e a fronte di ciò, la domanda è sempre quella: perché dare credito a chi invoca maggiore intervento statale? Perché ad oggi molti invocato l’intervento di una destra sovranista e antiliberista, usando quella stessa libertà che tanto detestano?

Per rendere a pieno la gravità di tale agire, vedete questo Paese come la propria casa che va in fiamme: al posto di metterti al sicuro e chiamare i pompieri, ti ci chiudi dentro inneggiando ai piromani.

Della serie, liberi di farlo ma senza imporre i vostri errori agli altri.