La battaglia non è destra contro sinistra. È statalismo contro individualismo

(Traduzione dell’articolo The Battle Isn’t Right vs. Left. It’s Statism vs. Individualism di Daniel J. Mitchell su FEE.org)

Ho già scritto di come comunismo e nazismo abbiano molto in comune. Entrambi subordinano l’individuo allo stato, entrambi conferiscono allo stato la facoltà di intervenire nell’economia, ed entrambi hanno massacrato milioni di persone.

La battaglia non è destra contro sinistra. È statalismo contro individualismo .

Diamo un’occhiata ad alcuni scritti su questo tema.

Iniziamo con un articolo di Bradley Birzer, pubblicato da Intellectual Takeout. Teme che il totalitarismo a sinistra stia tornando in auge.

Nel 1936 avevi tre scelte: nazionalsocialismo, socialismo internazionale, o dignità. Nel 2018 ci troviamo in circostanze simili. Perché sta accadendo di nuovo? In primo luogo, noi studiosi non siamo riusciti a convincere il pubblico di quanto dannose fossero e restino tutte le forme di comunismo. Quasi tutti gli storici sottovalutano il fatto più importante del Novecento: che i governi hanno assassinato più di 200 milioni di innocenti, il più grande massacro nella storia del mondo. Il terrore regnava tanto nei campi di concentramento quanto nei gulag.

In secondo luogo, un’intera generazione è cresciuta senza conoscere cose come i gulag sovietici o persino il muro di Berlino. La maggior parte dei giovani difensori del comunismo accetta la più antica linea di propaganda della sinistra: che il vero comunismo non è mai stato applicato.

Il fascismo e il comunismo sono due facce della stessa medaglia.

Che i nazionalsocialisti abbracciassero il socialismo è comprovato. Nazionalizzarono l’industria, molto vitale in Germania, anche se con l’intimidazione piuttosto che con la legge. Nei suoi diari personali, Joseph Goebbels scrisse alla fine del 1925: «Sarebbe meglio per noi porre fine alla nostra esistenza sotto il bolscevismo piuttosto che sopportare la schiavitù sotto il capitalismo». Solo pochi mesi dopo, aggiunse «penso che sia terribile che noi e i comunisti ci stiamo picchiando a vicenda».

Qualunque siano le ragioni per la rivalità tra i due partiti, affermava Goebbels, le due forze dovrebbero allearsi e vincere. I fascisti italiani avevano legami ancora più stretti con i marxisti, con Mussolini che aveva iniziato la sua carriera come pubblicista e scrittore marxista. Alcuni fascisti italiani avevano un passato nel Comintern.

Richard Mason fa osservazioni simili in un pezzo che ha scritto per la Foundation for Economic Education.

È superfluo scrivere un articolo per parlare dei milioni di morti che si sono verificati per mano dei regimi comunisti; come l’Olocausto, i gulag dell’Unione Sovietica e i campi di sterminio della Cambogia sono ampiamente noti. Eppure i giornalisti nel Regno Unito sostengono apertamente e con orgoglio il comunismo. Vengono erette statue a Karl Marx. Ai fascisti non è permesso uscirsene con «quello non era vero fascismo». Lo stesso non vale per il comunismo. Poiché Karl Marx non ha mai attuato il comunismo in prima persona, i leader degli Stati comunisti hanno sempre quella carta per cavarsi fuori dai guai.

Tutte le carestie, le tragedie o le crisi che un regime comunista si trova ad affrontare vengono sempre imputate a un’errata applicazione dell’infallibile tabella di marcia di Marx. Puoi anche separare l’ideologia comunista dalla sua applicazione, ma fino a che punto puoi ignorare gli orribili precedenti che il comunismo ha creato? La storia del comunismo è sporca di sangue quanto quella del nazismo; anzi, molto di più. È tempo di trattarla di conseguenza.

Sheldon Richman va più a fondo:

Il fascismo è un socialismo con una facciata capitalista. La parola deriva da fasces, il simbolo romano del collettivismo e del potere: un fascio di verghe legato con un’ascia sporgente. Laddove il socialismo cercava il controllo totalitario dei processi economici di una società attraverso la gestione diretta dei mezzi di produzione da parte dello Stato, il fascismo cercava quel controllo indirettamente, attraverso l’autorità su proprietari solo formalmente privati. Laddove il socialismo ha abolito del tutto i rapporti di mercato, il fascismo ha lasciato l’apparenza dei rapporti di mercato, pianificando tutte le attività economiche. Laddove il socialismo aveva abolito il denaro e i prezzi, il fascismo controllava il sistema monetario e stabiliva politicamente tutti i prezzi e i salari.

Spiega l’enorme differenza tra fascismo e capitalismo:

L’iniziativa economica privata fu abolita. I ministeri, e non più i consumatori, decidevano cosa produrre e a quali condizioni. Il fascismo va distinto dall’interventismo, o economia mista. L’interventismo cerca di guidare il processo di mercato, non di eliminarlo, come fece il fascismo. Nel fascismo, lo Stato, attraverso le corporazioni, controllava tutti gli aspetti della produzione, del commercio, della finanza e dell’agricoltura.

I consigli di pianificazione stabilivano cosa produrre, le quantità, i prezzi, i salari, le condizioni di lavoro e le dimensioni delle imprese. Occorreva una licenza per tutto; nessuna attività economica poteva essere intrapresa senza il permesso del governo. I redditi “in eccesso” dovevano essere consegnati allo Stato sotto forma di tasse o “prestiti”. Poiché la politica del governo mirava all’autarchia, o all’autosufficienza nazionale, il protezionismo era necessario: le importazioni erano vietate o strettamente controllate. 

Non si tratta di teorie nuove. Ecco cosa scrisse Ludwig von Mises su questo argomento negli anni ’40 del secolo scorso.

I marxisti sono ricorsi al polilogismo perché non potevano confutare con metodi logici le teorie sviluppate dall’economia “borghese”, o le conclusioni tratte da queste teorie che dimostravano l’impraticabilità del socialismo. Non potendo dimostrare razionalmente la fondatezza delle proprie idee o la non fondatezza delle idee dei loro avversari, hanno messo in discussione la logica. I nazionalisti tedeschi hanno dovuto affrontare esattamente lo stesso problema dei marxisti.

Anche loro non potevano né dimostrare la correttezza delle proprie affermazioni né confutare le teorie dell’economia e della prasseologia. Così si rifugiarono sotto il tetto del polilogismo, preparato per loro dai marxisti. Naturalmente, hanno la loro versione di polilogismo. Né il polilogismo marxista né quello nazista andarono oltre la dichiarazione che la struttura logica della mente è diversa nelle varie classi o razze. Il polilogismo non è una filosofia o una teoria epistemologica. È l’atteggiamento di fanatici dalla mentalità ristretta.

E questi fanatici sono mossi dall’odio. I nazisti odiano le persone di razza e religione diversa, mentre i marxisti odiano le persone di reddito e classe diversa.

Il Daily Caller riporta la storia di una studentessa che si è arrabbiata molto dopo aver appreso che il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori era… sì, socialista.

La social justice warrior e laureata in storia Shelby Shoup è stata arrestata per aver lanciato latte al cioccolato a un compagno di studi e candidato repubblicano gridando «i nazisti non erano socialisti». È stata accusata di aggressione.

Dato che stiamo facendo umorismo, colgo l’occasione per condividere questo pezzo satirico dei mitici autori di Babylon Bee.

Giovedì, in una conferenza stampa, il leader del partito nazista americano Emmett Scoggins ha dichiarato davanti ai giornalisti che il suo partito non sta cercando di instaurare un nazismo completo, ma un sistema molto migliore chiamato “nazismo democratico”. Scoggins è stato interrogato sull’uso della parola “democratico” e su come il nazismo democratico fosse diverso dal semplice nazismo. «La differenza principale è che aggiungiamo la parola ‘democratico’ perché alla gente piace molto di più rispetto al semplice ‘nazismo’», ha risposto Scoggins. La conferenza si è conclusa con un lungo discorso di Scoggins su come il “vero” nazismo non sia mai stato applicato.

Concludo il mio articolo usando un triangolo per catalogare le varie ideologie.

Qualche osservazione in proposito:

  • Potremmo aggiungere una linea proprio sopra l’autoritarismo, il collettivismo e il socialismo, e dire che le ideologie al di sopra della linea sono democratiche, quelle al di sotto sono dittatoriali.
  • Data la differenza tra la definizione tecnica di socialismo (proprietà del governo, pianificazione centralizzata, controllo dei prezzi) e la definizione di uso comune (molta ridistribuzione), forse dovrei usare “stato sociale” piuttosto che “socialismo democratico”. Ma il risultato è comunque pessimo, comunque lo si chiami.

Mi piace pensare che non ci siano persone civili disposte a tollerare l’ideologia nazista. Ma temo che non si possa dire lo stesso del comunismo. Il capo della Commissione europea ha recentemente tenuto un discorso in Germania per il 200° compleanno di Marx. Aziende come Mercedes-Benz glorificano gli assassini razzisti nella loro pubblicità (parte del culto della morte del Che ), e persino le orchestre usano simboli comunisti.

Quante altre vittime dovranno esserci prima che le persone si rendano conto che il comunismo, come il nazismo, è il male assoluto?

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Lettura consigliata: Il libero mercato e i suoi nemici, L. von Mises

No, Fidel Castro non ha migliorato sanità e istruzione a Cuba

In un’intervista di 60 minuti sulla CBS, il senatore Bernie Sanders ha recentemente elogiato i successi di Cuba comunista.

Un’intervistatrice gli ha chiesto dei suoi commenti del 1985 in cui affermava che i cubani sostenevano il dittatore comunista Fidel Castro perché «aveva educato i loro figli, aveva dato loro assistenza sanitaria, aveva completamente trasformato la società». In risposta, Sanders ha difeso quei commenti affermando che «quando Fidel Castro è entrato in carica, sai cosa ha fatto? Ha avviato un massiccio programma di alfabetizzazione».

Ma Castro non ha dato l’alfabetizzazione ai cubani. Cuba aveva uno dei più alti tassi di alfabetizzazione in America Latina già nel 1950, quasi un decennio prima che Castro assumesse il potere, secondo i dati delle Nazioni Unite (statistiche dell’UNESCO). Nel 2016, il fact-checker del Washington Post Glenn Kessler ha smentito la affermazione di un politico secondo cui il regno di Castro avesse significativamente migliorato l’assistenza sanitaria e l’istruzione a Cuba.

Nel frattempo, i paesi latino-americani che erano largamente analfabeti nel 1950, come il Perù, il Brasile, El Salvador e la Repubblica Dominicana, sono largamente alfabetizzati oggi, chiudendo gran parte del divario con Cuba. El Salvador aveva un tasso di alfabetizzazione inferiore al 40 percento nel 1950, ma oggi ha un tasso del 88 percento. Il Brasile e il Perù avevano un tasso di alfabetizzazione inferiore al 50 percento nel 1950, ma oggi il Perù ha un tasso del 94,5 percento e il Brasile un tasso del 92,6 percento. Il tasso della Repubblica Dominicana è passato da poco più del 40 percento al 91,8 percento. Mentre Cuba ha fatto significativi progressi nella riduzione dell’analfabetismo nei primi anni del potere di Castro, il suo sistema educativo è rimasto stagnante da allora, anche se gran parte dell’America Latina è migliorata.

Contrariamente alla affermazione di Sanders secondo cui Castro «ha dato» assistenza sanitaria ai cubani, questi già avevano accesso all’assistenza sanitaria prima che lui prendesse il potere. I medici fornivano spesso assistenza sanitaria gratuita a chi non poteva permettersela. Come ha osservato Glenn Kessler del Washington Post:

Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria e l’istruzione, Cuba era già tra i primi della lista prima della rivoluzione. Il basso tasso di mortalità infantile di Cuba è spesso elogiato, ma già nel 1953-1958 era al primo posto nella regione, secondo i dati raccolti da Carmelo Mesa-Lago, esperto di Cuba e professore emerito all’Università di Pittsburgh.

Cuba guidava praticamente tutti i paesi dell’America Latina per quanto riguarda l’aspettativa di vita nel 1959, prima che i comunisti di Castro prendessero il potere. Ma nel 2012, subito dopo che Castro si è dimesso come leader del Partito Comunista, i cileni e i costaricani vivevano leggermente più a lungo dei cubani. Nel 1960, gli cileni avevano una aspettativa di vita di sette anni inferiore a quella dei cubani, e i costaricani vivevano in media più di due anni meno dei cubani. Nel 1960, i messicani vivevano sette anni meno dei cubani; nel 2012, il divario si era ridotto a soli due anni.

(Oggi, l’aspettativa di vita è praticamente la stessa a Cuba come nel più prospero Cile e Costa Rica – se si accettano le statistiche ufficiali ottimistiche diffuse dal governo comunista di Cuba, cosa che molti non fanno. A Cuba è stato accusata credibilmente di nascondere le morti infantili e di esagerare le aspettative di vita dei suoi cittadini. Se queste accuse sono vere, i cubani muoiono prima dei cileni o dei costaricani).

Cuba ha fatto meno progressi in termini di assistenza sanitaria e aspettativa di vita rispetto alla maggior parte dell’America Latina negli ultimi anni, a causa del suo decrepito sistema sanitario. «Gli ospedali della capitale dell’isola stanno letteralmente crollando». A volte, i pazienti «devono portare tutto con loro, perché l’ospedale non fornisce nulla. Cuscini, lenzuola, medicina: tutto».

Come ha osservato Glenn Kessler del Washington Post:

I giornalisti hanno anche documentato che gli ospedali cubani sono poco attrezzati. Una serie del 2004 sull’assistenza sanitaria a Cuba pubblicata dal National Post del Canada ha affermato che le farmacie hanno pochissimo in scorta e gli antibiotici sono disponibili solo sul mercato nero. «Uno dei miti che i canadesi hanno su Cuba è che le sue persone possano essere povere e vivere sotto un governo repressivo, ma hanno accesso a strutture sanitarie e scolastiche di qualità», ha affermato il Post. «È un ritratto incoraggiato dal governo, ma la realtà è radicalmente diversa».

Sotto il comunismo, Cuba è anche indietro su misure generali di sviluppo umano. Come ha osservato l’economista progressista Brad DeLong:

Cuba nel 1957 era un paese sviluppato. Cuba nel 1957 aveva una mortalità infantile inferiore a quella della Francia, del Belgio, della Germania Ovest, di Israele, del Giappone, dell’Austria, dell’Italia, della Spagna e del Portogallo. Cuba nel 1957 aveva medici e infermieri: come molti medici e infermieri per abitante come i Paesi Bassi, e di più di Gran Bretagna o Finlandia. Cuba nel 1957 aveva come molti veicoli per abitante come l’Uruguay, l’Italia o il Portogallo. Cuba nel 1957 aveva 45 TV per 1000 abitanti, il quinto più alto al mondo… Oggi? Oggi le Nazioni Unite collocano l’IDU di Cuba [Indicatori di Sviluppo Umano] nella stessa categoria del Messico. (E Carmelo Mesa-Lago pensa che i calcoli delle Nazioni Unite siano gravemente difettosi: che i pari IDU di Cuba oggi sono posti come la Cina, la Tunisia, l’Iran e il Sud Africa.) Quindi non capisco i sinistri che parlano dei successi della Rivoluzione Cubana: «per avere una migliore assistenza sanitaria, alloggi, istruzione».

Come nota Michael Giere, Cuba era prospera prima che i comunisti di Castro prendessero il potere:

Un rapporto dell’ONU (UNESCO) del 1957 ha notato che l’economia cubana includeva una proporzione maggiore di lavoratori sindacalizzati rispetto agli Stati Uniti. Il rapporto afferma anche che i salari medi per una giornata lavorativa erano più alti a Cuba rispetto a «Belgio, Danimarca, Francia e Germania». La PBS ha spiegato in un riassunto del 2004 che

«L’Avana (prima di Castro) era una città brillante e dinamica. Cuba era al quinto posto nell’emisfero in termini di reddito pro capite, al terzo posto per l’aspettativa di vita, al secondo posto per la proprietà pro capite di automobili e telefoni, al primo posto per il numero di televisori per abitante. Il tasso di alfabetizzazione, il 76%, era il quarto più alto in America Latina. Cuba era al undicesimo posto nel mondo per il numero di medici per abitante. Molte cliniche e ospedali privati offrivano servizi ai poveri. La distribuzione del reddito a Cuba era confrontabile con quella di altre società latinoamericane. Una classe media prospera prometteva prosperità e mobilità sociale».

Ma dopo che Castro ha preso il potere, la prosperità è finita:

La distruzione di Castro di Cuba non può essere esagerata. Ha saccheggiato, assassinato e distrutto la nazione dalle fondamenta. Un solo fatto spiega tutto; una volta i cubani godevano di uno dei più alti consumi di proteine in America, eppure nel 1962 Castro dovette introdurre le tessere di razionamento (carne, 60 grammi al giorno), poiché il consumo di cibo per persona è crollato a livelli mai visti dall’800.

La fame si diffuse a tal punto che nel 1992 un medico svedese in visita a Cuba, Hans Rosling, dovette avvertire il dittatore della diffusa carenza di proteine tra i cubani. Circa 40.000 cubani avevano accusato «offuscamenti della vista e forte intorpidimento delle gambe». Rosling indagò su invito dell’ambasciata cubana in Svezia e con l’approvazione dello stesso Castro. Rosling si recò nel cuore dell’epidemia, nella provincia occidentale di Pinar del Río. Si scoprì che le persone colpite dal disturbo soffrivano tutte di carenza di proteine. Il governo stava razionando la carne e gli adulti avevano sacrificato la loro parte per nutrire bambini, donne incinte e anziani. Il dottor Rosling ne parlò a Fidel Castro.

Durante questo periodo di fame diffusa, Bernie Sanders diffondeva il mito che la fame a Cuba fosse inesistente. Nel 1989, pubblicò un articolo di giornale in cui affermava che la Cuba di Fidel Castro «non soffre fame, istruisce tutti i suoi figli e fornisce assistenza sanitaria gratuita e di alta qualità».

(Traduzione di Claudio Colonna dell’articolo “No, Fidel Castro Didn’t Improve Health Care or Education in Cuba” di Hans Bader pubblicato su FEE.org)

Lettura consigliata: Smascherare il Marxismo, L. von Mises

 

Il Superbonus è il fallimento dello statalismo

Quello che è accaduto con il Superbonus rappresenta alla perfezione la morte economica dell’Italia e il fallimento dello statalismo.

Andiamo con ordine.

L’edilizia è una industria morente tenuta in stato vegetativo da una serie di bonus edilizi istituiti negli ultimi quindici anni. Questi bonus sono diventati via via più generosi: il bonus ristrutturazione al 36% e poi al 50%, l’ecobonus al 65%, il sismabonus al 75% e poi all’85%, il bonus facciata al 90% e infine il tristemente famoso Superbonus 110%.

Ciascuno di questi bonus è nato con un duplice obiettivo politico: far ripartire l’edilizia unendo una componente di “utilità sociale” che giustifica il contributo pubblico. E così l’ecobonus è motivato dall’efficienza energetica, il sismabonus dalla sicurezza sismica, il bonus facciate di Franceschini invece da una questione di pura estetica, per la quale abbiamo pagato il 90% dei lavori di abbellimento delle facciate con tinteggiature e cornicette.

Questi obiettivi politici sono sistematicamente stati mancati: in 15 anni gli investimenti con bonus edilizi sono stati irrisori, l’industria delle costruzioni è rimasta in un limbo tra la vita e la morte, e il contributo dato alla riqualificazione energetica, sismica ed energetica del patrimonio edilizio è vicino allo zero. È proprio per questo motivo che il Movimento 5 Stelle ha escogitato il Superbonus 110% nel suo Decreto Rilancio all’indomani della prima ondata pandemica.

Il provvedimento è stato dirompente: i cittadini, appreso che lo Stato avrebbe coperto l’intero importo dei lavori, non hanno esitato a cercare tecnici e imprese in grado di districarsi nel complesso impianto normativo del Superbonus. In due anni, lo Stato italiano si è impegnato economicamente per circa 60 miliardi di euro, una cifra pari a 2-3 finanziarie di medie dimensioni, e questo nonostante il sistema dei crediti di imposta abbia subito pesanti rallentamenti e blocchi ogni due mesi.

Tralasciando le questioni che hanno causato il tracollo del Superbonus, su cui pure ci sarebbe da ridere, proviamo a descrivere i motivi per cui questo provvedimento rappresenta la morte economica del Paese, almeno da un punto di vista liberale.

Ronald Reagan recitava una simpatica massima: “Se un’industria si muove tassala, se continua a muoversi regolamentala, se smette di muoversi sussidiala”.

L’industria delle costruzioni in Italia vive di sussidi statali da 15 anni, e l’unica soluzione che la politica è stata in grado di trovare consiste nell’aumentare la quota di incentivi in carico allo Stato. Nessuna parte politica, a destra e a sinistra, è in grado di esprimere un pensiero volto alla liberalizzazione del settore delle costruzioni, pesantemente condizionato da un apparato normativo mastodontico.

Le norme urbanistiche che oggi regolano la produzione edilizia sono state concepite negli anni ‘60, un periodo di boom demografico, economico ed urbano, ed erano volte a disciplinare il mercato, calmierando la speculazione edilizia. Oggi che viviamo in un periodo di stagnazione economica, quelle stesse norme stanno deprimendo ulteriormente la produzione edilizia.

La mentalità statalista però è così pervasiva che nessuna parte politica è disposta a proporre una deregulation strutturale. Finora hanno giocato sulle percentuali di agevolazione fiscale: togli il 65% e metti il 110%, togli il 110% e metti il 90%. È questo l’apice del pensiero liberale che possiamo aspettarci dalla politica italiana, centrodestra incluso? Si spera di no.

Dal punto di vista dei conti pubblici, effettivamente, lo scenario è inquietante: 60 miliardi di euro spesi per intervenire sul 3% delle abitazioni. E se si prova a misurare l’impatto sulla transizione ecologica ci si rende conto di quanto questo provvedimento sia diventato una macchina brucia-soldi: ipotizzando di aver dimezzato le emissioni CO2 di ogni edificio che ha beneficiato del 110%, e considerato che l’edilizia residenziale conta per il 10% delle emissioni totali dell’Italia, viene fuori che abbiamo complessivamente ridotto le emissioni nazionali circa dello 0,15%. Considerato che l’Italia è responsabile per meno dell’1% delle emissioni a livello globale, si lascia ai lettori il compito di calcolare di quanti gradi abbiamo abbassato le temperature globali spendendo 60 miliardi.

L’aspetto più oscuro della faccenda è però la fotografia del Paese restituita dal Superbonus: l’Italia appare un Paese fatto di case vecchie ed obsolete, i cui proprietari non hanno neanche una frazione delle risorse necessarie per gli adeguamenti strutturali ed energetici, e l’unico modo per far ripartire il settore dell’edilizia è che lo Stato debba coprire l’intero importo dei lavori. Roba che neanche in Unione Sovietica.

Insomma, il problema non è il 110%, il 90%, l’efficienza energetica. Il problema è il declino economico di una delle più grandi potenze industriali al mondo, dovuto al pantano burocratico e tributario a cui ogni attività produttiva è soggetta, e a una classe dirigente completamente assuefatta alle politiche stataliste. Quel che un tecnico di cultura liberale deve chiedere è che il governo tolga di mezzo tutto questo apparato enorme di sussidi, e abbia il coraggio di liberalizzare il settore delle costruzioni. Ciò consentirebbe agli investitori privati di rischiare i propri capitali per realizzare un vero rinnovo del parco residenziale italiano. Purtroppo, gli ordini professionali si uniscono alle richieste di sussidi e tutele da parte dello Stato.

Le nostre città sono cristallizzate da più di mezzo secolo in edifici antiquati che avrebbero bisogno non di un cappotto termico, ma di essere rasi al suolo e ricostruiti. I costruttori dovrebbero essere incentivati non tramite i sussidi, ma tramite dei bonus volumetrici (nuova cubatura) che servano a finanziare le operazioni immobiliari, immettendo così anche una grande quantità di nuovi appartamenti in zone dove c’è particolare richiesta, il che servirebbe a riequilibrare la curva di domanda e offerta, abbassando i prezzi esorbitanti che vediamo da un po’ di anni.

Il valore aggiunto di una operazione immobiliare è la cubatura aggiuntiva che è possibile realizzare: se le norme impediscono di creare una significativa quantità di nuovo volume, è normale che viene meno l’incentivo economico di mercato, e per questo lo Stato ha dovuto introdurre una serie di incentivi economici statali.

In sintesi, l’unica soluzione è lo sviluppo economico a trazione privata. L’Italia è diventata grande quando avevamo il coraggio di investire in modo spregiudicato: da un po’ di tempo abbiamo perduto questo coraggio, e ormai ci limitiamo a politiche di breve respiro volte a spostare da qui a lì un punto percentuale di spesa pubblica. È tempo di costruire l’Italia di domani, partendo da idee coraggiose e abbandonando una volta per tutte lo statalismo.

Il Marxismo funziona solo come forza distruttrice

Le teorie di Karl Marx non sono mai state valide, ma hanno cambiato il mondo fomentando il malcontento verso lo status quo e promettendo un’utopia non ben definita che sarebbe sorta spontaneamente dalle ceneri del vecchio ordine.

Tra le sue argomentazioni vi sono:

 1. Il valore è dato dal lavoro socialmente utile.

2. Le società capitaliste sono divise in due classi: i borghesi e i proletari.

3. Lo scambio volontario è un gioco a somma zero: una delle due parti guadagna a spese dell’altra.

4. I capitalisti si appropriano del plusvalore dei beni prodotti dagli operai.

5. Gli operai nelle società capitaliste si impoveriranno sempre di più finché sarà necessaria una rivoluzione.

6. Gli operai in disaccordo con Marx soffrono di “falsa coscienza”.

Ma ognuna di queste affermazioni è falsa.

1. Il valore non è dato dal lavoro, ma dalla domanda. Il lavoro ha valore solo se produce beni e servizi che la gente desidera.

Una torta fatta di fango può richiedere la stessa quantità di lavoro di una torta di mele, ma nessuno vuole una torta di fango, quindi non ha valore. Inoltre, il valore cambia al variare di alcune condizioni. Ad esempio, anche se il loro “contenuto di lavoro” non è cambiato, le fruste dei cocchieri avevano molto più valore prima dell’invenzione dell’automobile.

Marx cercò di spiegare queste variazioni di valore con il concetto di lavoro “socialmente utile”, ma non fu mai in grado di definirlo o quantificarlo al punto da consentire ai pianificatori centrali di comprendere il valore di mercato di un bene o un servizio.

2. La società capitalista non è divisa in due classi. I proprietari di imprese e i dipendenti provengono da ogni ceto sociale.

3. Lo scambio volontario non è un gioco a somma zero. Tutte le parti coinvolte in uno scambio ne traggono vantaggio, altrimenti non accetterebbero lo scambio. Ciascuno ne trae vantaggio perché ognuno attribuisce un valore diverso ai beni scambiati. Il valore è soggettivo e non si basa su parametri oggettivi come “la quantità di lavoro socialmente utile”.

4. Il plusvalore di un bene (in pratica, il prezzo di vendita di un bene meno il costo per la sua produzione) serve a pagare:

– L’inventore.
– L’imprenditore (che è spesso, ma non necessariamente, l’inventore stesso) che intercetta la domanda del mercato per quel bene e decide di produrlo.
– Il possessore di un capitale che finanzia l’impresa.
– Finanziatori che trovano altri investitori disposti a rischiare le loro risorse per avviare l’impresa.
– Dirigenti e quadri che coordinano il lavoro degli operai.
– I pubblicitari che pubblicizzano il prodotto affinché venga conosciuto dai consumatori.
– Gli operai stessi.

Marx ignorava gran parte di questi fattori produttivi e il valore aggiunto che i consumatori ottengono acquistando il prodotto. Se non ottenessero alcun vantaggio dall’acquisto, non l’acquisterebbero mai.

Pretendendo che gli operai della fabbrica (insieme a tutti gli impiegati che Marx considerava parte del proletariato piuttosto che della classe dirigente oppressiva) ricevessero tutto il valore del prodotto, Marx chiedeva che nessun altro responsabile dell’esistenza del prodotto fosse pagato e che i consumatori non guadagnassero acquistandolo.

In effetti, il suo “mondo perfetto” era quello in cui nessuno avrebbe avuto un incentivo a inventare, produrre o acquistare qualcosa.

5. I lavoratori nelle economie di mercato non si stanno immiserendo. Al contrario, stanno molto meglio rispetto ai lavoratori di economie meno libere. Secondo i nostri standard, gli operai ai tempi di Marx lavoravano in condizioni terribili per salari miseri. Tuttavia, il lavoro in fabbrica e la retribuzione erano spesso molto migliori rispetto alle alternative disponibili all’epoca.

Il libero mercato ha reso le persone così produttive che hanno bisogno di lavorare meno ore per sfamare se stessi e le proprie famiglie. Invece di lavorare sei o sette giorni alla settimana per 12 ore, nei Paesi in cui vige il libero mercato le persone lavorano in genere cinque giorni a settimana per 7 o 8 ore al giorno. Inoltre, i bambini non hanno più bisogno di lavorare per sopravvivere.

Il libero mercato ha anche aiutato la parità di genere. In un mondo in cui la forza bruta è il fattore più importante per la sopravvivenza, le donne sono cittadini di seconda classe. Ma in una società di libero mercato, dove il cervello conta più dei muscoli, le donne sono più che in grado di competere con gli uomini.

Marx sosteneva che il socialismo avrebbe messo i mezzi di produzione nelle mani dei lavoratori, ma è stato il capitalismo a mantenere la promessa. Oggi i “mezzi di produzione” si traducono sempre più spesso in conoscenze e competenze di un lavoratore, nel suo computer e nel suo cellulare e, forse, in una stampante 3D.

Marx immaginava un’utopia socialista in cui «poter pescare le mattina, cacciare il pomeriggio, allevare il bestiame la sera e fare teoria critica la notte, a piacimento, senza mai diventare un pescatore, un cacciatore, un allevatore o un pensatore». Ancora una volta, è stato il capitalismo a trasformare il sogno di Marx in realtà, aumentando a tal punto la produttività che le persone non devono più trascorrere tutte le loro ore di veglia alla ricerca di cibo.

6. I lavoratori che non sono d’accordo con Marx non soffrono di “falsa coscienza” né sono stupidi. Comprendono i propri interessi molto meglio dei pianificatori centrali o dei teorici.

 

Conclusione

Marx non ha mai compreso, o si è rifiutato di comprendere, gli incentivi creati da una società basata sul principio «Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni». L’attuazione di questo principio crea società in cui le persone hanno capacità minime e bisogni massimi.

Marx non ha mai definito cosa sarebbe un “sistema marxista” o come funzionerebbe. Si rifiutò di descrivere la sua utopia socialista in termini più dettagliati perché riteneva che dovesse emergere spontaneamente e che sarebbe stato sciocco cercare di prevedere la forma finale in cui si sarebbe evoluta.

Allo stesso tempo, però, riteneva che per realizzare il socialismo fosse necessaria una rivoluzione. Ma la rivoluzione implica una brusca rottura dello status quo. Piuttosto che permettere a un nuovo ordine socio-economico di emergere naturalmente, quindi, Marx voleva installare con la forza il suo nuovo ordine sulle ceneri del vecchio, un nuovo ordine che si rifiutava di definire perché doveva emergere naturalmente.

Di conseguenza, il “marxismo” era una specie di secchio vuoto in cui i rivoluzionari potevano versare ciò che volevano.

In pratica, i marxisti si sono dimostrati molto più bravi a distruggere società e culture che a crearne di nuove di successo. Il marxismo funziona solo nella misura in cui rimane una forza distruttrice.

 

(Traduzione dell’articolo Marxism Remains Relevant Only as a Destructive Force, Richard W. Fulmer, FEE.org)

 

Lettura consigliata: Smascherare il Marxismo, L. von Mises

Cosa sta succedendo in Cina?

Mentre in tutto il mondo le restrizioni anti-Covid vengono alleggerite o rimosse, l’esatto opposto sta succedendo in Cina.

Un lockdown, severo come non mai, è stato imposto a Shanghai, uno dei centri nevralgici del Paese, abitato da 25 milioni di persone. Girano voci di cittadini cinesi ridotti alla fame, perché il governo non gli permette di uscire di casa per procurarsi da mangiare.

Cosa ha portato a tutto ciò? Quale potrebbe essere l’impatto di questa decisione sul futuro del Partito Comunista Cinese?

I FATTI

La situazione è ancora in corso, ed il PCC sta censurando il flusso di notizie in uscita dal Paese, per cui non abbiamo un quadro molto chiaro su cosa stia realmente accadendo. Ad ogni modo, questi dovrebbero essere i fatti.

Negli ultimi due anni Shanghai era sfuggita alle restrizioni più dure imposte ad altre zone della Cina. A partire dalla fine di marzo, tuttavia, la città è stata colpita severamente dalla diffusione della nuova variante Omicron del virus.

Contro tale variante, il vaccino cinese si è rivelato meno efficace rispetto ai vaccini a mRNA occidentali, ma il governo si è rifiutato di importarli. Dietro a questa decisione non vi è alcun motivo valido, se non una sorta di “nazionalismo vaccinale”.

Ora, a differenza di quasi tutti gli altri governi al mondo, quello cinese resta fedele alla sua strategia “zero-Covid”. Secondo tale strategia, qualsiasi misura restrittiva, anche la più severa, è giustificabile al fine di stroncare la curva dei contagi sul nascere.

Pertanto, il 28 marzo è stato ufficialmente dichiarato il lockdown.

A dispetto della linea dura adottata dal PCC, i contagi sono saliti. Apparentemente, il picco è stato raggiunto circa un mese fa, con oltre 27.000 nuovi casi ogni giorno verso la metà di aprile.

Sul fronte virus sembra infine che le cose stiano migliorando, ed il governo ha annunciato che presto le restrizioni verranno allentate. Ma tra quello che dice il PCC e quello che fa davvero ci sono grosse discrepanze.

Molti cittadini, infatti, si lamentano sul web perché le autorità continuano a limitare severamente la loro libertà di movimento. Numerosi abitanti di Shanghai si sono affrettati a fare scorte appena possibile, temendo un lockdown prolungato de facto.

Ma anche se il governo cinese mantenesse la parola data, il danno ormai è fatto.

Sul versante meramente economico, il PIL nazionale potrebbe aver perso quasi 30 miliardi di dollari per ogni settimana di lockdown, ed altrettanti per ogni settimana in cui Shanghai continuerà ad essere paralizzata.

Ancora più pesante è il costo umano. Per settimane gran parte dei 25 milioni di abitanti di Shanghai è stata confinata in casa. Non potevano uscire per fare una passeggiata, per fare provviste, o perfino per recarsi in ospedale.

Potevano solo uscire per sottoporsi ai test anti-Covid (cosa che comunque molti evitavano, per il timore di prendere il virus nei centri sovraffollati).

Tutto ciò ha minato la sanità fisica e mentale di milioni di persone, generando un malcontento popolare come se ne vedono raramente, sotto l’occhio vigile del PCC.

“Voci di aprile”, un video realizzato con gli audio di diversi cittadini di Shanghai, in cui ognuno descrive l’impatto del lockdown sulla propria vita, è diventato virale sui social media cinesi.

LE MOTIVAZIONI

Dal momento che le misure draconiane del PCC hanno danneggiato l’economia nazionale e hanno reso critici del governo milioni di cittadini, perché Xi Jinping non ha cambiato rotta?

La risposta più probabile è forse la più semplice: in un sistema come quello cinese, chi è al potere non può permettersi di ammettere di aver sbagliato.

Il regime comunista cinese può sembrare inattaccabile dall’esterno, ma la realtà è che la sua presa sul potere non è salda come vorrebbe far credere ai suoi nemici.

Spogliato di tutta la retorica marxista, esso non è altro che l’incarnazione moderna di quella forma di governo centralista, burocratica ed assolutista che ha dominato la Cina per millenni, durante l’epoca imperiale.

Tale governo, però, deve legittimare il proprio potere sulla base di un mandato divino, il “Mandato del Cielo”. Secondo tale pensiero, se chi è al potere non riesce più a garantire prosperità e sicurezza alla nazione, allora vuol dire che ha perso tale “Mandato del Cielo”, quindi può e deve essere deposto.

Sin dai tempi delle riforme di Deng Xiaoping, il PCC ha giustificato il proprio diritto di governare tramite la drastica riduzione della povertà prodotta dalla liberalizzazione dell’economia cinese.

Oggi tuttavia, per tutta una serie di fattori (declino demografico, diminuzione delle risorse naturali, competizione da parte dei Paesi in via di sviluppo), la crescita è rallentata. Anzi, con il repentino invecchiamento della popolazione, è probabile che la Cina entri in futuro in un periodo di stagnazione economica.

Il PCC ne è al corrente, e sta correndo ai ripari.

Ecco dunque il perché della retorica aggressiva di Xi Jinping su Taiwan, ed ecco perché non può tornare indietro sulla strategia “zero-Covid”.

Soffiare sulla fiamma del nazionalismo aiuta a distrarre i cittadini dalla situazione economica, supportando così il “Mandato del Cielo” del PCC.

Al contrario, se Xi Jinping cambiasse la propria linea sul Covid, questo vorrebbe dire ammettere ai cittadini che il governo ha inflitto loro sofferenze inutili.

Un simile governo, ovviamente, sarebbe un governo che ha perso il “Mandato del Cielo”.

LE CONSEGUENZE

Sia ben chiaro: il Partito Comunista Cinese gode ancora di una forte presa sul potere. Decine di milioni di cinesi, fra funzionari del Partito e semplici iscritti, traggono vantaggio dal suo governo, e sono pronti quindi a difenderlo.

Oltretutto, a differenza delle dinastie imperiali che lo hanno preceduto, il PCC dispone di sofisticati sistemi tecnologici per tenere a bada il malcontento popolare, e stroncare sul nascere qualsiasi seria opposizione.

Tuttavia, il tempo non sembra essere dalla sua parte. La sua gestione del Covid in generale, e gli ultimi lockdown in particolare, hanno disilluso molti cittadini in merito ai vantaggi della vita sotto il regime comunista.

Senza dubbio, questa non è l’ultima crisi che Xi Jinping ed i suoi successori si ritroveranno ad affrontare. Forse il lockdown di Shanghai sta per finire, ma è facile che in futuro il PCC sarà costretto a prendere altre decisioni impopolari, per non ammettere i suoi fallimenti.

Ad ogni crisi, sempre più cittadini resteranno disillusi, ed arriveranno alla conclusione che i benefici offerti dal sistema non superano più gli svantaggi.

In questo scenario, chissà per quanto ancora il PCC riuscirà a preservare il suo “Mandato del Cielo”.

FONTI

1) https://www.vox.com/future-perfect/23057000/beijing-covid-zero-lockdown-china-pandemic

2) https://www.bbc.com/news/world-asia-china-61023811

3) https://www.reuters.com/world/china/shanghai-inches-towards-covid-lockdown-exit-beijing-plays-defence-2022-05-21/

4) https://www.ilpost.it/2022/03/30/cina-zero-covid-omicron-coronavirus/

5) https://www.afr.com/world/asia/worse-than-wuhan-shanghai-suffers-as-xi-doubles-down-20220505-p5aiun

Sul pensiero di Bastiat

Innamoratevi della libertà. Amare la libertà significa, tra le altre cose, interiorizzare il pensiero di Frèdèric Bastiat (1801-1850), economista, filosofo e giornalista francese. La filosofia economica di Bastiat è controcorrente e molto attuale: l’economista francese fu un liberale, un libertario e un liberista ante litteram.

In una società italiana oppressa dallo statalismo più soffocante, le riflessioni di Bastiat sono uno spiraglio di luce. 

Bastiat ha il pregio di essere attuale senza mai sbiadire nel tempo; non si conformò al pensiero economico o filosofico accademico e mainstream, basato su assunti (totalmente fallaci) come il progressismo, la giustizia sociale o il politicamente corretto. Il suo stile di scrittura fu limpido e chiaro, ispirato al giornalismo. Non è un caso che Schumpeter lo definì come il più grande giornalista economico del suo tempo.

 

La prima lezione di Bastiat, che dobbiamo rivendicare ancora con più forza ai giorni nostri, è la teoria della difesa dell’individuo.

Nella sua opera “La legge”, Bastiat difese la concezione del diritto naturale (Ius naturae), ereditata da Grozio e Locke. L’individuo unico e irripetibile della tradizione cristiana e liberale possiede dei diritti inalienabili, come la vita, la proprietà e la libertà, che derivano direttamente da Dio. Bastiat operò una sforbiciata alla “Ockham” e ribaltò la concezione negativa di Bentham sui diritti naturali o individuali.

I reali “nonsensi sui trampoli” (secondo un’espressione dello stesso Bentham) sono il diritto statale e le sue norme positive e arbitrarie vigenti in un determinato territorio.

 

La seconda straordinaria lezione che possiamo ricavare da Bastiat è la critica dello statalismo. Con il suo inchiostro limpido, il pensatore francese smontò i pregiudizi cristallizzati degli statalisti e le loro opinioni fittizie. Pensiamo solo alla politica economica. L’intervento dello Stato in economia non solo produce inefficienze e disfunzionalità, ma apporta “storture” all’equilibrio del mercato e alla libera iniziativa privata.

La teoria dominante ed in voga nei dipartimenti economici – ovvero la teoria keynesiana – concepisce lo Stato come una sorta di pianificatore retto e morale, guidato dall’intervento dei policy maker, degli ingegneri sociali, ovvero i politici (e i tecnici loro amici). Questa concezione non è solo falsa ma è anche smentita dalla realtà dei fatti.

Bastiat ci mise in guardia in “Quello che si vede e quello che non si vede” sui rischi dell’interventismo statale (con il famoso racconto della “Finestra Rotta”). Inoltre, criticò il monopolio pubblico su certe merci e prodotti, così come sulla moneta e sull’istruzione.

 

Bastiat non fu solo un ottimo pensatore; egli applicò sul campo le sue idee. Pensiamo solo alla politica fiscale. Bastiat fu un apologeta del libero commercio, del laissez faire, dell’ordine spontaneo del mercato e dei suoi meccanismi interni (a partire dalla “mano invisibile” che guida le scelte degli operatori economici). Per questo motivo attaccò senza sosta la politica fiscale francese dell’epoca.

Lo Stato, per l’economista francese, non solo non produce nulla, non solo offre sul mercato, rispetto ai concorrenti privati, servizi o beni costosi e scadenti; ma soprattutto lo Stato non possiede risorse proprie ed è per questo motivo che ambisce a detenere un “patrimonio preda” attraverso la spoliazione legale dei contribuenti.

Attraverso la tassazione lo Stato nutre se stesso e le proprie “élite”, danneggiando in questo modo i produttori della ricchezza, spogliati “legalmente” del frutto del proprio lavoro e delle proprie fatiche. Per Bastiat tutto questo è ingiusto e intollerabile.

 

Il suo lavoro mina le false certezze che contraddistinguono la nostra atmosfera culturale, frutto dell’egemonia di una ristretta minoranza astiosa verso il lavoro, la responsabilità e le fatiche. Una delle opere fondamentali del suo sterminato pantheon economico porta il titolo di “Sofismi economici”. I sofismi sono frutto di un errore della ragione e della logica umana. Al posto della verità si mettono simulacri tanto sbagliati quanto pericolosi. Ed ecco che in economia come in filosofia, nella letteratura come nel giornalismo, dominano opinioni prive di qualunque fondamento. Bastiat ci insegna ad usare la logica e a fare a meno di queste idee false e obsolete.

 

Bastiat è stato un precursore di molti dei concetti espressi in seguito da un grande gruppo di economisti: la Scuola Economica Austriaca. La linfa vitale di questo approccio economico è la libertà, il rigore analitico e la critica di tutti quei substrati che si oppongono al mercato (in primis il marxismo). Accanto al collettivismo sono messi in stato d’accusa i principi della pianificazione centrale. Gli austriaci rivendicano la libertà economica, contro socialisti e statalisti vari.

Leggete quindi Bastiat, per non perdere mai la speranza nemmeno nei momenti difficili che sono parte integrante della storia. Siate dei “Bastiat contrari”, per non adeguare la vostra mentalità al conformismo della nostra epoca.

Scuola libertaria, e dopo il voucher?

Ho pubblicato articoli sul tema istruzione dal mio punto di vista liberale classico, e mi è sempre dispiaciuto non potervi offrire anche la visione dei libertari. Fortunatamente ora, grazie a Mises.org, posso proporvi la traduzione di un articolo libertario del 2000 a cura di William Anderson sul lasciare l’istruzione al mercato. Pur non condividendone totalmente i contenuti l’ho trovata una lettura interessante che vi lascio volentieri.

I voucher scuola sono un punto caldo dell’attuale campagna elettorale e mettono contro democratici e repubblicani, con i primi che sostengono che danneggerebbero la scuola pubblica e i secondi che credono siano necessari per migliorare l’istruzione, specie per i più poveri. Come normale nel nostro panorama politico, sbagliano entrambi i lati.

I contrari ai voucher cadono quasi sempre in due categorie: i primi temono che siano una minaccia allo status quo della pubblica istruzione, visto che sempre più genitori iscriverebbero i propri figli nelle scuole private avendo i fondi per farlo, i secondi vedono invece nei voucher un cavallo di Troia che permetterebbe al governo di regolare le scuole private.

Essendo convinto che le scuole pubbliche siano viziate ogni oltre possibile sistemazione, per me è benvenuto ogni cambiamento che possa favorire la fine di questo mostro che danneggia le nostre libertà mentre svuota i nostri portafogli. Quindi, se credessi che i voucher fossero effettivamente capaci di danneggiare l’establishment delle scuole pubbliche, li sosterrei nonostante i miei timori.

In ogni caso, chi vede i voucher come un cavallo di Troia ha ragione, ma si perde un punto importante: i voucher non sono altro che una forma di “socialismo di mercato”. Vogliono giocare al mercato usando hardware socialista, una cosa che però in URSS ha mostrato di non funzionare e che quindi fallirebbe anche qui.

Il primo campione dei voucher fu Milton Friedman che li propose nel suo libro del 1962 “Capitalismo e Libertà” come maniera per migliorare l’istruzione per i giovani. Li ha poi riproposti nel suo “Liberi di Scegliere”, un best-seller, divenuto poi una serie di successo sulla televisione pubblica americana. I voucher, argomentava, creerebbero un mercato competititvo in un settore oggi dominato dal governo.

Le sue critiche della scuola pubblica sono fondamentalmente accurate. Le scuole pubbliche sono un monopolio intrusivo e ingombrante, come tutti i monopoli statali, e dunque falliscono quando si tratta di istruire bambini e ragazzi. Contro il monopolio Friedman e altri, soprattutto vari editorialisti neoconservatori del Wall Street Journal, propongono il già citato modello a voucher. A detta loro permettere ad ogni famiglia di usare il voucher per pagare la retta di una scuola privata darebbe ai figli l’opportunità di frequentare una scuola di qualità al posto di una decadente scuola pubblica.

L’idea sembra essere meritoria a prima vista, ma in verità ha vari problemi. Prima di tutto, come fatto notare da molti critici conservatori e libertari, i voucher – essendo finanziati dalle tasse – permetterebbero allo Stato di regolare le scuole private nella stessa maniera in cui regola gli istituti che, già oggi, ricevono sussidi statali. Dunque, il settore potrebbe trovarsi paralizzato e schiacciato molto presto dal governo. 

Ma passiamo alla seconda obiezione: l’obiettivo del voucher è quello di “creare un mercato” dove tale mercato non esiste. Purtroppo, come fatto notare molte volte da Murray Rothbard e da Ludwig von Mises, un mercato è impossibile senza veri diritti di proprietà. I voucher sono finanziati dallo Stato, coi soldi dei contribuenti. Non sono più privati di un’autostrada o del Ponte di Brooklyn.

Il problema della proprietà privata è importante: senza tali diritti il programma a voucher opererebbe a volontà degli enti statali, che potrebbero cambiarne i termini a loro piacimento. Un governo potrebbe dare un voucher senza farsi troppe domande, quello dopo potrebbe chiedere “responsabilità” o abolire direttamente il programma, se così chiedesse il sindacato dei docenti.

In sostanza, a differenza dell’apparato attuale, dove il governo fa pagare delle tasse per l’istruzione ma lascia comunque liberi di utilizzare quanto risparmiato per un’istruzione privata (d’altronde, miei soldi = mia proprietà), in un sistema del genere sarebbe lo Stato a pagare. Uno Stato che potrebbe limitarne l’uso su pressione di gruppi di interesse che non sono certamente interessati ai diritti delle famiglie.

Come fatto presente sempre da Rothbard e Mises, senza diritti di proprietà, il calcolo economico è una simpatica commedia degli errori. Ciò porterebbe a tre probabili scenari:

  1. La nuova domanda nel settore delle scuole private porterebbe ad un aumento delle rette, impedendo comunque a molte famiglie di mandare i figli nella scuola preferita e con politici che possono usare gli eventi per parlare di speculazione e proporre nuove regolamentazioni, spesso non necessarie e non sagge
  2. La nuova domanda porterebbe a varie start-up dell’istruzione: alcune assolutamente legittime, altre losche, i cui crimini porterebbero i politici a colpire duro sul settore privato, anche quello legittimo
  3. L’oligopolio: come mostrato da vari economisti le aziende già presenti sul mercato sono in grado di prendere in mano rapidamente il processo regolatorio, lasciando fuori i piccoli concorrenti. 

L’ultimo scenario è molto probabile in caso di adozione massiccia dei voucher: in principio scuole pubbliche e sindacati resisterebbero all’introduzione, ma prima o poi si renderebbero conto che i flussi di danaro permettono loro di avere più potere sulle operazioni delle scuole private.

Così, sorgerebbero alleanze tra questi ultimi e le scuole private più importanti, che non desiderano competere con piccole istituzioni, portando a regolamentazioni in grado di danneggiarle o portarle al fallimento.

In altre parole, il voucher sembra un’ottima idea ed è proposto in buona fede da chi vuole davvero mettere in discussione il monopolio statale sull’istruzione, ma i programmi a voucher hanno troppi problemi intrinseci. Non creano vere condizioni di mercato perché non sono proprietà privata. Esattamente come il socialismo di mercato di Lange sono misure a metà che, alla fine, metterebbero in trappola le scuole private più di quanto lo siano oggi.

 

Putin ed i suoi oligarchi: breve storia della cleptocrazia russa

La Russia di Putin, come qualsiasi altro Stato di polizia, è uno Stato governato da criminali. I crimini qui discussi, però, non sono quelli che stanno venendo alla luce in questi giorni a Bucha, Irpin, Hostomel.

Si tratta di crimini altrettanto disgustosi, ma un po’ meno sanguinari. Questa è la storia della cricca decadente, corrotta e megalomane di oligarchi che fa capo a Putin, e che ha reso possibile tutti gli orrori che vediamo oggi.

Le origini

Lo Stato ereditato da Putin vent’anni fa era una nazione in crisi. I cittadini russi non solo avevano visto il loro Paese ridotto da superpotenza a potenza regionale, si erano anche ritrovati grandemente impoveriti sotto Yeltsin.

Durante il suo governo, beni statali vennero privatizzati in massa, ufficialmente allo scopo di aprire la Russia all’economia di mercato e di generare fondi per il nuovo governo post-sovietico.

Quello che accadde in realtà, però, fu che pochi politici e burocrati si arricchirono, svendendo proprietà dello Stato ad una stretta cerchia di uomini politicamente ben collegati. Oggi li conosciamo come oligarchi.

Gli oligarchi ed i loro amici prosperarono, ma il cittadino russo medio rimase povero ed amareggiato. In questi anni, circa un terzo della popolazione russa viveva sotto la soglia di povertà[1].

Per via della carenza di fondi (dato che il ricavato delle privatizzazioni era andato perso in corruzione), il governo dovette tagliare pesantemente il welfare ed i servizi come scuola e sanità, esacerbando il malcontento popolare.

A tutto ciò bisogna poi aggiungere l’inflazione galoppante, che dopo il “martedì nero” del 1994 raggiunse livelli critici (in questo periodo, un dollaro americano valeva circa 4000 rubli)[2].

Per proteggersi da tale malcontento, gli oligarchi si affidarono al braccio destro di Yeltsin, favorendone l’ascesa. Costui era un politico fino a quel momento semi-sconosciuto, un certo Vladimir Putin.

Gli anni d’oro

La scommessa degli oligarchi si rivelò, all’inizio, un successo. Dal 1999 (inizio del primo mandato di Putin come presidente) al 2014 (annessione della Crimea), l’economia russa prosperò.

Questo soprattutto grazie ad un fattore esterno a Putin, cioè il massiccio aumento dei prezzi degli idrocarburi, che la Russia produce ed esporta in grandi quantità.

Fra il 1998 ed il 2008, l’economia russa crebbe del 7-8% ogni anno[3]. In seguito, con la grande recessione ed il conseguente crollo del prezzo di gas e petrolio, tale crescita rallentò, ma la Russia soffrì meno per la crisi rispetto ai Paesi occidentali.

Complessivamente, questo periodo fu molto piacevole per il cittadino medio russo, infatti il numero di persone sotto la soglia di povertà scese al 10%, ed il potere d’acquisto dei russi (malgrado l’inflazione) aumentò di quasi dieci volte[4].

Risulta facile capire come mai Putin non abbia avuto grandi difficoltà nel farsi rieleggere una volta dopo l’altra.

Certo, per andare sul sicuro il suo governo ha perseguitato, imprigionato o assassinato chiunque minacciasse il suo potere, ma in ogni caso i consensi necessari non mancavano.

Non bisogna però lasciarsi trarre in inganno da questa prosperità apparente. La vendita dei combustibili fossili russi ha generato enormi profitti, non c’è dubbio, ma di tali profitti ai cittadini sono andate solo le briciole.

La parte più consistente, infatti, è rimasta nelle mani degli oligarchi e dello stesso Putin, il quale ne ha approfittato, tra le altre cose, per farsi costruire una gigantesca villa sul mar Nero da 1.4 miliardi di dollari (a spese dei contribuenti)[5].

Le prime sconfitte

La luna di miele fra Putin e l’economia non durò a lungo. Dal 2014 in poi, per via delle sanzioni occidentali dovute all’annessione della Crimea e del calo nel prezzo degli idrocarburi, la Russia è entrata in una grave recessione, che ha spazzato via gran parte dei risultati economici conseguiti nei primi anni Duemila.

Come ai tempi di Yeltsin, il governo russo si è ritrovato a corto di fondi, e sempre come allora ha dovuto tagliare welfare e servizi.

La strategia di Putin per mantenere il consenso popolare, quindi, è cambiata. Per distrarre i cittadini dal peggioramento dei loro standard di vita, il governo si è affidato sempre di più ai successi militari[6].

Con le avventure militari in Crimea, Donbass e Siria, il presidente russo ha potuto “dimostrare” ai suoi concittadini di aver restaurato il prestigio nazionale all’estero. Grazie al controllo dei media da parte del governo, tale strategia si è rivelata complessivamente un successo nel preservare la popolarità di Putin.

Il suo regime, tuttavia, non è più stabile come una volta, e questo ha avuto profonde conseguenze. Negli ultimi otto anni, le ultime tracce di democrazia e legalità sono state spazzate via.

Nuove riforme autoritarie hanno indebolito il sistema giudiziario ed il Parlamento, concentrando il potere nelle mani del presidente. Emendamenti alla Costituzione hanno aperto a Putin la possibilità di restare al governo per altri due mandati, fino al 2036[7].

L’evoluzione sempre più marcatamente dittatoriale della scena politica russa non ha colpito solo i cittadini comuni. Stavolta, neanche gli oligarchi stessi sono stati risparmiati dal mostro che hanno contribuito a creare.

Quale futuro?

Un esempio di come il rapporto fra Putin e gli oligarchi sia cambiato è dato dal “caso Bashneft”.

Nel 2014 l’oligarca Vladimir Evtushenkov venne inaspettatamente arrestato, e la sua compagnia petrolifera (Bashneft) venne statalizzata[8].

Tempo dopo, il governo russo mise in vendita la compagnia, e molti oligarchi si mostrarono interessati ad acquistarla. Tra questi spiccava Igor Sechin, CEO di Rosneft (la più grande compagnia petrolifera russa), probabile istigatore della caduta in disgrazia di Evtushenkov.

Sechin, però, era già considerato da molti come il secondo uomo più potente in Russia dopo Putin, di conseguenza il presidente intimò a Sechin di rinunciare ai suoi progetti.

Inizialmente Sechin si rifiutò, ed arrivò perfino a cercare il sostegno di altri oligarchi, ma venne ben presto messo all’angolo.

Nel 2015, di punto in bianco, Putin obbligò il potente Vladimir Yakunin, oligarca a capo delle Ferrovie dello Stato russe, a dimettersi. In questo modo, gli altri oligarchi capirono che nessuno di loro era intoccabile. Sechin tornò sui propri passi e rinunciò ai suoi piani[9].

Questa storia, come tante altre, mostra come il rapporto di potere fra Putin e la sua vecchia cerchia si sia capovolto nel corso degli anni.

Un tempo, lui era il politico semi-sconosciuto, scelto dagli oligarchi come burattino per proteggere i loro interessi. Oggi, lui è lo zar indiscusso di tutta la Russia, davanti al quale perfino i più ricchi fra loro devono piegarsi.

Come accadde in Germania all’epoca di Hitler, i ricchi e potenti che ne hanno appoggiato l’ascesa al potere sono stati messi da parte e ora non possono più contrastarlo, neanche quando i suoi piani vanno contro i loro interessi. La guerra criminale in Ucraina è solo l’ennesima dimostrazione della loro impotenza.

Quale futuro attende Putin, i suoi oligarchi e la cleptocrazia che hanno creato? Difficile da prevedere. Una cosa, però, è certa: ancora una volta, il russo medio finirà per pagare gli errori e gli eccessi dei suoi governanti.

[1][2] https://www.crf-usa.org/bill-of-rights-in-action/bria-8-1-c-on-the-road-to-revolution-with-boris-yeltsin

[3][4] https://www.youtube.com/watch?v=2F4x2-rVkIk&t=585s

[5] https://fortune.com/2022/03/02/vladimir-putin-net-worth-2022/

[6] https://www.youtube.com/watch?v=ZAMz5kgb7V4

[7] https://www.institutmontaigne.org/en/blog/putins-grip-power-beginning-end

[8][9] https://www.youtube.com/watch?v=BT4sK36cU3Y&t=598s

Keynes e la falsa fine del laissez faire – di Ludwig von Mises

Questo testo critica un discorso tenuto dall’economista inglese John Maynard Keynes il 23 giugno 1926 all’Università di Berlino. Egli faceva una tagliente critica al liberalismo e al capitalismo; rifiutava la libera proprietà privata dei mezzi di produzione, pur non volendo essere socialista. Raccomandava invece, come soluzione, una via di mezzo tra proprietà privata dei mezzi di produzione, da un lato, e proprietà sociale, dall’altro; che non è altro che la proprietà privata regolata attraverso il controllo sociale. Non sarebbe lo Stato ad assumersi questo controllo; lo farebbero invece ‘organismi societari semi-autonomi inseriti nel sistema statale’, da cui si arriverebbe ad ‘un ritorno ad autonomie indipendenti di stampo medievale’.

Keynes non propone altro che ciò che per decenni, soprattutto in terra tedesca, è stato promosso dalla scienza ufficiale e da tutta l’opinione pubblica come “soluzione alla questione sociale”. Non ci sarebbe motivo di preoccuparsi di questo piccolo opuscolo, perché tutto ciò che presenta è già stato trattato nella letteratura tedesca centinaia di volte, e, se non in miglior modo, sicuramente non peggiore, e comunque più approfonditamente. Ma il titolo che Keynes ha dato alla sua opera (La Fine del Laissez Faire) e le sue seccature epigrammatiche necessitano di una nota critica.

La famosa massima recita, per esteso, laissez faire et laissez passer. Essa si riferiva quindi – innegabilmente senza una coincidenza totale fra esperienza storica e massima – al “faire” (fare) per quanto riguarda la gestione delle merci, ad eccezione del loro spostamento fisico, e al “passer” (passare) per quanto riguarda la libera circolazione di uomini e di merci. In realtà questi due tipi di impresa sono inscindibili, e non è legittimo separarli a piacimento, essendo queste le ramificazioni della stessa ideologia sociale.

Keynes, tuttavia, parla deliberatamente solo di laissez faire. Egli menziona il protezionismo solo di sfuggita (p. 26); sorvolando interamente sulla libera circolazione. È facile capire le basi per una tale autolimitazione. La protezione e l’intralcio al libero scambio internazionale sono, sicuramente, graziosamente medievali, ma i loro pessimi effetti sono oggigiorno così chiari che un riformatore sociale, nel combattere il liberalismo, fa solo che bene a tacere su di essi. Specialmente un anglosassone, che vuole opporsi al liberalismo a Berlino, deve evitare di sollevare tali delicate questioni.

Certamente si trovavano tra coloro che lo hanno ascoltato alcuni che negli ultimi anni sono stati cacciati dalle terre in cui questi avevano vissuto e lavorato; ed altri che desiderano emigrare da un’Europa centrale sovrappopolata e non possono perché i lavoratori delle terre meno popolose si difendono dall’arrivo di concorrenti. E Keynes saprà inoltre certamente che è proprio il protezionismo ad aver messo la Germania e l’Inghilterra in una situazione economica di tale difficoltà.

Se Keynes avesse parlato (veramente) della fine del laissez faire et laissez passer, allora non avrebbe potuto non vedere come il mondo di oggi è malato proprio perché, per decenni, le cose non sono state regolate da questa massima. Chi si rallegra che i popoli si allontanino dal liberalismo, non deve dimenticare che la guerra e la rivoluzione, la miseria e la disoccupazione di massa, la tirannia e la dittatura non sono compagni casuali, ma sono i risultati necessari dell’antiliberalismo che oggi governa il mondo.

Traduzione a cura di Marco Bares

Fonte: https://mises.org/library/mises-keynes-1927

Come nasce uno stato di polizia: lo Schutzhaft nella Germania nazista

PROLOGO

Nel maggio del 1933, nell’ufficio del responsabile prussiano alla detenzione preventiva Hans Mittelbach si presentò una donna brandendo della biancheria intrisa di sangue che suo marito, Erich Mühsam, le aveva spedito dal campo di concentramento di Sonnenburg. Mittelbach era ben consapevole delle condizioni di Mühsam.

Questi era stato arrestato nella notte del 28 febbraio 1933, qualche ora dopo l’incendio del Reichstag. Quella notte, come tanti altri comunisti, socialisti e liberali, era stato sorpreso nel sonno dalla polizia o dai gruppi paramilitari associati al NSDAP e condotto in vari luoghi di detenzione, legale o extralegale, fino al famigerato campo di concentramento di Sonnenburg. Mühsam era un noto anarchico e al suo arrivo a Sonnenburg le SA gli diedero il benvenuto a bastonate.

Le violenze proseguirono anche nei giorni successivi e furono gravi al punto che Mittelbach, nell’aprile del 1933, si recò in visita al campo per chiedere agli ufficiali di evitare maltrattamenti ai prigionieri. La richiesta fu vana.

Dopo le denunce della moglie di Mühsam, Mittelbach si recò di persona a prendere il prigioniero per condurlo nel carcere di stato a Berlino dove il trattamento sarebbe stato sicuramente migliore poiché gestito da uomini della polizia. Purtroppo per Mühsam, la carriera del suo salvatore finì di lì a poco, si crede proprio a causa della sua “indulgenza”.

Mühsam fu spostato al campo di Oranienburg, dove le SS lo strangolarono con una corda da bucato e gettarono il corpo nelle latrine fingendo un suicidio. Era il 9 luglio 1934. La cosa sorprendente di questa storia è che tutto ciò che accadde era perfettamente legale e persino costituzionale. Vediamo come.

«LE EMERGENZE SONO SEMPRE STATE IL PRETESTO CON CUI SONO STATE EROSE LE LIBERTÀ INDIVIDUALI»

L’incendio del Palazzo del Reichstag, l’edificio che ospitava la camera bassa del parlamento tedesco, avvenne la sera del 27 febbraio 1933, a un mese dall’insediamento del governo presieduto da Adolf Hitler. L’attentato, per il quale fu accusato un comunista, fu il pretesto per ricorrere alla decretazione d’emergenza prevista dalla costituzione di Weimar all’articolo 48, comma 2:

Il presidente [del Reich] può prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, quando essi siano turbati o minacciati in modo rilevante, e, se necessario, intervenire con la forza armata. A tale scopo può sospendere in tutto o in parte la efficacia dei diritti fondamentali stabiliti dagli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e 153.

I diritti fondamentali menzionati sono l’inviolabilità della libertà personale e del domicilio, la segretezza delle comunicazioni, la libertà di stampa, di riunione, di associazione, e il diritto alla proprietà privata.

Dopo l’incendio, il governo di Hitler si rivolse immediatamente al presidente del Reich Hindenburg, un vecchio generale in pensione, per chiedergli di approvare quello che passò alla storia come “decreto dell’incendio del Reichstag”, con il quale si disponeva che tutti i diritti fondamentali erano sospesi fino a nuove disposizioni.

Il decreto divenne una sorta di carta costituzionale del Terzo Reich, «giustificando ogni sorta di abuso di potere, compresa la negazione della libertà personale senza supervisione dell’autorità giudiziaria né appello»[1].

SCHUTZHAFT

«Dalla prospettiva del campo non si capiva secondo quale sistema (se poi ce n’era uno) fossero eseguiti gli arresti, ancor meno, in base a che cosa si stabiliva la durata della custodia preventiva e la scelta dei rilasci. […] Questa incertezza […] ha giocato un grosso ruolo e ha reso particolarmente difficile la nostra esistenza. […] Solo il fatto che la custodia preventiva era inflitta senza limitazione di tempo fino a un nuovo riesame dell’arresto fa capire che [essere] oggi in Germania detenuto politico in custodia preventiva è molto, molto peggio che essere qualunque criminale condannato ad una precisa limitazione di libertà, perché questo sa la durata del suo arresto»[2].

Così il socialdemocratico Gerhart Seger descriveva la condizione di totale incertezza in cui versavano i circa 200.000[3] prigionieri politici in “custodia preventiva” nel 1933.  La custodia preventiva (schutzhaft) era uno strumento preventivo-repressivo di polizia per arrestare chi fosse considerato un pericolo senza ricorrere agli strumenti giudiziari.

La costituzione di Weimar prevedeva che la libertà personale fosse inviolabile, ma il decreto dell’incendio dei Reichstag aveva sospeso quell’articolo della costituzione: nessun cittadino era al sicuro dagli abusi dei vari corpi di polizia o dei gruppi paramilitari del partito nazionalsocialista; nessuno era garantito contro un arresto arbitrario; la libertà aveva smesso di appartenere al singolo cittadino e apparteneva allo Stato.

Era sufficiente che ci fosse un sospetto, una denuncia anonima, e chiunque poteva essere posto in custodia preventiva. Molti degli arresti avvenuti nella notte tra il 27 e il 28 febbraio 1933 colpirono anche persone che non avevano alcun legame con l’attentato al Reichstag. Mühsam fu arrestato soltanto perché era un noto anarchico.

Altri furono arrestati solo perché comunisti o appartenenti ad altri partiti che potevano avere a che fare con l’incendio. «Alla polizia politica fu data la possibilità di agire in modo preventivo contro ogni minaccia allo Stato: in altre parole, agli organi di polizia fu concesso di arrestare e detenere in custodia preventiva, per un tempo di fatto indeterminato, personalità politiche non ancora processate o di assegnarle al confino per un tempo sì determinato, ma facilmente prorogabile»[4].

Le persone sottoposte a questa misura cautelare «non conoscevano i veri motivi in base ai quali era stato deciso il loro destino»[5] né erano messe al corrente di quando (e se) sarebbe mai terminata la loro detenzione. Era loro impedito anche di ricorrere alla giustizia per chiedere un rilascio.

L’intervento di un avvocato fu ammesso «solo per redigere istanze scritte in rappresentanza del colpito, ma non fu permesso ovviamente che gli avvocati o chiunque altro prendessero visione degli atti e delle pratiche della polizia politica. I permessi di visita degli avvocati e a chi incaricato della tutela degli interessi dello Schutzhäfling non erano concessi “se lo scopo politico-poliziesco della custodia preventiva [era] messo a rischio”»[6].

Il ricorso ai tribunali era invece assolutamente inutile, poiché la polizia poteva porre in custodia preventiva anche chi fosse stato assolto, “correggendo” in questo modo ogni decisione “sbagliata” dei tribunali. Nonostante i tribunali fossero quasi del tutto “nazificati”, lo strumento dello schutzhaft era comunque preferibile: offriva una procedura più snella e veloce; era più “silenzioso” rispetto a un processo penale; non aveva bisogno di prove ma poteva colpire virtualmente chiunque con il solo pretesto della prevenzione e della difesa del popolo e dello Stato.

Lo schutzhaft era lo strumento per eccellenza dello stato onnipotente del primo dopoguerra. «La libertà dell’individuo era prevista solo in funzione dello Stato»[7], che aveva il compito di difendere l’unità e la forza vitale del popolo; in altre parole, aveva il compito di epurare chiunque esprimesse opinioni o compisse atti pericolosi per l’unità nazionale.

La scienza giuridica tedesca andò avvicinandosi lentamente alla necessità, «di natura tutta etico-biologica, di difendere la comunità e la sua purezza razziale»[8]. In questa ottica, lo strumento dello schutzhaft non aveva soltanto la funzione di prevenire i reati isolando gli individui pericolosi, ma uno scopo molto più ampio di escludere per sempre dalla società gli individui che non potevano farne parte poiché la loro stessa esistenza biologica poteva minarne le basi.

Slavi, ebrei, zingari, omosessuali, intellettuali dissidenti, disabili, erano tutte persone che potevano anche non aver compiuto alcun reato e violato alcuna legge, ma dovevano essere allontanate dalla comunità perché portatrici di un patrimonio culturale e genetico nocivo.

Non è affatto strano che, fino alla conferenza di Wannsee del 1942, i nazisti non avessero ancora deciso cosa fare con tutti i prigionieri dei campi di concentramento. Alcuni gerarchi, come Hans Frank, appoggiavano addirittura l’idea di deportare tutti gli ebrei sull’isola di Madagascar, purché lasciassero la comunità tedesca.

I luoghi di detenzione degli schutzhäftling erano notoriamente i campi di concentramento, anche se agli inizi del 1933 i nazisti non avevano ancora pianificato la costruzione di un arcipelago di campi. La necessità nacque quando gli arresti divennero così tanti da non poter essere più gestiti dalle carceri di stato, e si dovette ricorrere a stipare i detenuti in altre strutture.

Inizialmente si preferirono strutture preesistenti come ex carceri, ex fabbriche, edifici abbandonati, persino scantinati. Questi luoghi potevano essere gestiti indifferentemente sia da personale carcerario facente capo ai vari ministeri, sia da personale extralegale come le SS o le SA, i due gruppi paramilitari del partito nazionalsocialista.

Il trattamento dei detenuti poteva variare in base al luogo in cui venivano assegnati. Le prigioni statali, almeno nel 1933, erano ritenute i luoghi più sicuri e tollerabili.

«Nonostante le molte difficoltà, la maggioranza dei prigionieri in detenzione preventiva trovava sopportabile la vita all’interno delle prigioni e delle Case di lavoro. Generalmente venivano tenuti separati dal resto della popolazione carceraria, a volte in grandi stanzoni comuni. Le celle singole erano semplici ma non spartane, di solito dotate di letto, tavolo, sedia, scaffale, lavello e un secchio che fungeva da latrina. Il cibo e la sistemazione erano perlopiù adeguati, nonostante il sovraffollamento, e siccome di norma ai prigionieri non veniva chiesto di lavorare, i detenuti trascorrevano il tempo chiacchierando, leggendo, facendo esercizio fisico, lavorando a maglia e giocando a scacchi»[9].

La relativa pace di questi luoghi durò poco, poiché già nel 1934 molte prigioni statali passarono sotto la gestione delle SS, trasformandosi nello stesso inferno che si viveva nei campi. D’altronde, come si è sottolineato, nessuno dei detenuti aveva diritti: anche il magro pasto giornaliero e il secchio da usare come latrina erano su gentile concessione delle autorità

La popolazione locale era consapevole delle violenze che si consumavano nei campi fin dalla loro nascita nel 1933. Non era raro che i prigionieri riuscissero a fuggire e raccontare ciò che avevano subìto, ma l’atteggiamento generale era per lo più di indifferenza o, al massimo, di insofferenza verso la convivenza con gli uomini delle SS e delle SA che raggiungevano le città vicine ai luoghi di detenzione per divertirsi.

Ad esempio, nell’Emsland «I dettagli sugli eccessi delle SS si diffusero fra la popolazione locale e presto raggiunsero il ministero dell’Interno prussiano, che alla fine intervenne. Il 17 ottobre 1933 ordinò che tutti i prigionieri politici di spicco e gli ebrei fossero immediatamente portati fuori dai campi dell’Emsland»[10].

In altri casi, come l’episodio descritto in apertura, i parenti delle vittime apprendevano tramite la corrispondenza degli abusi all’interno dei luoghi di detenzione e protestavano infruttuosamente con le autorità, ma diffondevano anche le storie fra conoscenti e amici. Era raro trovare qualcuno che non avesse udito almeno una storia del genere già nel 1933.

UNA CURIOSA FUGA

Hans Beimler era un attivista del KPD, il Partito Comunista Tedesco, e aveva preso parte a numerosi scontri con i gruppi paramilitari di destra durante i turbolenti anni della repubblica di Weimar.

Era ben noto agli uomini delle SA e delle SS, quindi quando fu condotto nel campo di concentramento di Dachau il 25 aprile 1933, le guardie lo accolsero con bastonate e scudisciate. Poi lo condussero nella sala delle torture, dove per giorni subì violenti pestaggi da parte delle guardie del campo.

Lo scopo era indurre Beimler al suicidio, così da non far ricadere la colpa della sua morte sulle autorità del campo. Ma Beimler era un osso duro, così l’8 maggio 1933 le SS gli insegnarono a fare un cappio con le lenzuola e gli diedero un ultimatum: se non si fosse impiccato da solo, il giorno dopo ci avrebbero pensato loro, e sarebbe stato molto peggio.

Il mattino successivo, le guardie entrarono nella cella di Beimler e trovarono un’amara sorpresa: il prigioniero era scomparso. Non è chiaro come fuggì dal campo, ma riuscì a raggiungere la Cecoslovacchia «da dove mandò una cartolina alle SS di Dachau: “Baciatemi il culo”»[11].

Ma, molto più importante, Beimler scrisse «uno dei primi fra i sempre più numerosi racconti di testimoni oculari riguardo ai campi nazisti come Dachau»[12] che fu pubblicato a puntate su un giornale svizzero e fatto circolare segretamente in Germania.


[1] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016.

[2] CAMILLA POESIO, In balia dell’arbitrio. Il confino fascista e la Schutzhaft nazista, in Paradigma lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, a cura di S. Casilio, L. Guerrieri, A. Cegna, Clueb, Bologna 2010, p. 137

[3] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016, p. 33

[4] CAMILLA POESIO, Il confino di polizia, la «Schutzhaft» e la progressione erosione dello Stato di diritto, in Il diritto del duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, a cura di Luigi Lacchè, Roma 2015, p. 99

[5] CAMILLA POESIO, In balia dell’arbitrio. Il confino fascista e la Schutzhaft nazista, in Paradigma lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, a cura di S. Casilio, L. Guerrieri, A. Cegna, Clueb, Bologna 2010, p. 142

[6] CAMILLA POESIO, Il confino di polizia, la «Schutzhaft» e la progressione erosione dello Stato di diritto, in Il diritto del duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, a cura di Luigi Lacchè, Roma 2015, p. 101

[7] Ibidem, p. 103

[8] Ibidem, p. 104

[9] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016, p. 37

[10] Ibidem, p. 54

[11] Ibidem, p. 27

[12] Ibidem, p. 27