La solidarietà continua ad impoverire il terzo mondo

Durante la sua visita ufficiale in Tunisia lo scorso Ottobre, il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani ha proposto di attivare un “piano Marshall” per l’Africa. Rievocando il piano di sussidi che gli Stati Uniti concessero ai Paesi dell’Europa occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale, Tajani ha stimato il costo di un analogo piano per l’Africa a 40 miliardi di €.

L’obiettivo di questi investimenti sarà la costruzione di nuove infrastrutture, il supporto alle piccole e medie imprese (SME in inglese), l’incoraggiamento all’imprenditoria giovanile e all’occupazione, nelle nazioni del continente africano.

Inoltre, Tajani ha sottolineato come senza una soluzione a questi problemi “migliaia, e in futuro saranno milioni, di persone potrebbero lasciare il proprio Paese.”

Nondimeno, il fine del libero mercato non giustifica i mezzi del trasferimento di risorse da parte del governo. La mia natia Spagna, che ha il secondo tasso di disoccupazione più alto fra i 28 Paesi della UE, lo prova.

Fra le regioni europee con maggior disoccupazione e minor PIL, ce ne sono due spagnole: Estremadura e Andalusia. Ma nonostante i sussidi del governo nazionale e regionale per “promuovere la creazione di nuove imprese”, la Spagna pone più ostacoli a fare impresa di tutti gli altri Paesi OCSE, secondo il Fondo Monetario Internazionale.

L’Africa è ancora il continente più povero al mondo. Il suo PIL pro capite è di quasi 8.500 $ inferiore alla media mondiale. Ma ci sono segnali di speranza: le carestie sono quasi scomparse al di fuori delle zone di guerra; l’aspettativa di vita è cresciuta dai 50,3 anni del 2000 ai 50,9 del 2015. Tutto questo progresso si è verificato grazie a riforme economiche pro-mercato.

Secondo la Heritage Foundation, lo score complessivo in libertà economica dell’Africa sub-Sahariana è pari al 55%, quasi 3 punti più alto che al principio del secolo. La libertà di commercio, in particolare, è cresciuta di 18 punti; il carico fiscale sembra essere in diminuzione.

Eppure, nessun Paese africano si posiziona fra le 20 economie più libere al mondo. Lo Stato di diritto latita e la repressione del dissenso prevale troppo spesso.

Nel lungo periodo, riforme economiche in direzione laissez-faire sono l’unica strada per la prosperità. Allo stesso tempo, la corruzione deve essere combattuta efficientemente. Il Botswana è un modello, in questo senso: è uno dei Paesi più ricchi in Africa, il meno corrotto, e fra le 34 economie più libere del pianeta (nonché la seconda più libera nel continente).

Non esistono, invece, casi di Paesi usciti dalla miseria grazie ad aiuti umanitari e sussidi allo sviluppo. I fondi di questo tipo sono solo trasferimenti da un apparato di governo ad un altro.

La Singapore post-coloniale era ben lungi dall’essere un Paese ricco pochi decenni fa, ma è oggi un caso di studio per i sostenitori di economie aperte. Politiche orientate verso il libero mercato e l’attrazione di investimenti esteri l’hanno aiutata a crescere e prosperare.

Il Parlamento Europeo non ha alcuna competenza, né responsabilità, al di fuori della propria giurisdizione. Ma questo non significa che non possa fare nulla per migliorare la condizione economica dell’Africa.

Più nello specifico, vi sono alcune politiche Europee che stanno ponendo ostacoli allo sviluppo degli imprenditori e commercianti del Terzo Mondo. La famosa Politica Agricola Comune (PAC) rende più complicato per i Paesi in via di sviluppo esportare i propri prodotti verso la UE, perché applica una discriminazione economica particolarmente rilevante verso gli agricoltori non Europei.

Queste politiche protezioniste non hanno portato l’agricoltura a diventare una forza economica trainante per la UE. Nonostante un budget annuale di 59 miliardi di euro (utilizzato per supportare il reddito dei contadini e finanziare programmi di sviluppo rurale, che Paesi meno sviluppati non possono permettersi), l’agricoltura contribuisce a meno del 2% del PIL della UE.

Esiste un modello per il tipo di transizione che la UE dovrebbe avviare, per concedere un accesso più libero ai mercati europei da parte dell’Africa: La Nuova Zelanda, il cui settore rurale era simile a quello Europeo 3 decenni fa, ha condotto un processo di liberalizzazione economica.

C’erano diffusi timori sul rischio di vedere molte aziende agricole fallire, ma alla fine solo circa 800 dovettero chiudere. Gli agricoltori che speravano di competere cominciarono a cooperare in maniera più efficiente e innovativa sulla base di condizioni di mercato. Ad oggi, l’agricoltura contribuisce ancora per il circa 7-10% al PIL della Nuova Zelanda.

Indubbiamente, la soppressione delle misure agricole protezioniste condurrebbe a feroci proteste a Bruxelles e nelle altre capitali: gli Europei sono abituati all’interventismo statale.

Perfino gli Euroscettici mostrerebbero la propria indignazione. Nonostante tale rischio, però, i politici dovrebbero cercare di spiegare questi cambiamenti di policy in una maniera più precisa, tale che sia più efficace, tanto da far presa da un punto di vista sia morale che logico.

In una ipotetica campagna per la liberalizzazione del mercato agricolo, i politici e i sostenitori della libertà non dovrebbero focalizzarsi solo su statistiche del PIL e altri dati macroeconomici.

Dovrebbero invece sottolineare che i cittadini europei potranno comprare prodotti più economici, dato che al momento pagano i costi dei sussidi e delle regolamentazioni, e che potranno effettuare scambi commerciali con un numero più ampio di Paesi non Europei.

Ancora più importante, da un punto di vista etico così come nella vita reale, è facile comprendere come il commercio sia un modo per beneficiare sé stessi e i propri vicini: prezzi più bassi lasciano alle famiglie più risorse a disposizione per le loro altre priorità.

Allo stesso tempo, gli Africani possono cominciare a espandere i loro mercati di esportazione e avere più denaro per le loro necessità di base. Ognuno ne trae beneficio: il commercio è un modo di donare vita ad altri. Dall’altra parte, i boicottaggi commerciali sono invece un modo per eliminare i punti di vista che non vogliamo riconoscere.

I miei compatrioti Europei devono giungere a vedere la liberalizzazione del commercio come un modo di esprimere solidarietà ai lavoratori del Terzo Mondo, di risollevare la parte di Africani in miseria e di ottenere benefici per se stessi grazie a prezzi più convenienti e mercati più ampi.

Devono vedere questa decisione come giusta e morale perché “Quando l’etica è messa in primo piano, l’umanità fiorisce”. [1]

[1] Traduzione dall’inglese dell’articolo apparso di recente su Acton.org, a firma di Ángel Manuel García Carmona, cfr.: https://acton.org/publications/transatlantic/2017/11/20/marshall-plan-africa-wont-help-africans-free-trade-will

È veramente tutta colpa del capitalismo?

La crisi del 2008, i cambiamenti climatici, il lavoro sempre più asfissiante, lo stress in aumento, i poveri sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi, insomma, per qualsiasi male di questo mondo la colpa è del capitalismo . È il nuovo morbo del ventunesimo secolo, tutti gli danno la caccia, ma nessuno sa cosa sia. 

Una parola che ormai ha perso il suo vero significato, un orpello ideologico a cui dare la colpa se qualcosa non funziona. Ma cerchiamo di capirne qualcosa.

Il capitalismo è l’attuazione di quell’ideologia chiamata “liberismo”. Ma il liberismo in realtà non esiste, non è mai esistito e non esisterà mai. É semplicemente la libera cooperazione di individui, che senza aver bisogno di un “progettista”, lo stato o il dittatore che sia, fanno fronte alle difficoltà installando relazioni l’un l’altro per trovare la soluzione ai problemi. 

L’unica regola da accettare per un sistema capitalista è la seguente: lasciare gli individui liberi di approcciarsi alla propria vita e ai propri beni come vogliono, a patto di non danneggiare gli altri.  John Locke, John Stuart Mill, Immanuel Kant, Karl Popper, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, tutti questi pensatori si sono battuti per enunciare qualcosa di fondamentale alla società: la libertà personale non produce caos, povertà e iniquità ma bensì armonia, progresso e benessere.

Se qualsiasi sistema sociale non ha mai funzionato, se controllato da qualcuno o da qualcosa, il motivo è semplice: la realtà è estremamente complessa per capirla. In un sistema liberista, non c’è nessuna presunzione di conoscere la realtà in quanto tale, ed è proprio per questo che il capitalismo ha creato un benessere esponenziale.

Basti pensare ai grandi obbiettivi raggiunti negli ultimi anni. In cinquant’anni la popolazione mondiale è raddoppiata[1], sintomo che il benessere è aumentato e le malattie mortali diminuite.

Infatti è grazie alla cooperazione internazionale di menti di tutto il mondo che abbiamo debellato malattie un tempo endemiche come la meningite e il vaiolo. Inoltre la penuria non è più un problema, e le morti per incidenza di omicidi sono al di sotto del 1%.[2]

In soli cento anni abbiamo avuto, l’iPhone, la lavatrice, il PC, internet, l’aria condizionata e un aumento della ricchezza generale di ogni individuo. 

Secondo i critici del capitalismo, la crescita della popolazione non è una giustificazione, infatti, dicono, le diseguaglianze sono aumentate rendendo i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Se si analizzano i dati, però, si nota come se ne 1820 l’84 % delle popolazione mondiale viveva ancora in condizioni di estrema povertà, oggi la percentuale è scesa al di sotto del 10 per cento e continuare ad andare giù!

I decessi per carestia sono infimi rispetto al passato, il reddito pro capite è oggi il decuplo di quanto fosse nel 1850 e l’italiano medio è quindici volte più ricco che nel 1880. [3]

Per i più scettici, osserviamo l’esempio della Cina: da quanto si è aperta al capitalismo, 700 milioni di cinesi sono stati sottrarti alla povertà estrema. [4]

In poche parole, oggi, grazie al capitalismo tanto odiato; viviamo più a lungo, siamo pieni di cibo, le malattie non sono più un problema e siamo tutti più ricchi.

Ma di fronte questo benessere allora perché il capitalismo ci sta antipatico? Dietro i giudizi più drastici e negativi sul sistema capitalista ci sono in realtà umanissimi bisogni di trovare un ordine nelle cose e cercare un colpevole per i nostri problemi personali: e c’è la furbizia tutta politica di attribuirli alle forze impersonali dell’economia.

Il bias della negatività è non è mai stato più forte; tendiamo ad esagerare l’importanza delle cose che vanno male dimenticando quelle che invece vanno bene. Il liberismo è il capro espiatorio, il colpevole a cui attribuire ogni complicazione della vita.

La società moderna ha ancora molti problemi da affrontare, ma se oggi abbiamo raggiunto gli obbiettivi così ambiti in passato, è grazie a quel capitalismo che tutti odiano.

[1] https://ourworldindata.org/world-population-growth

[2] Yuval Noah Harari, “Homo Deus”, p. 19-20, Ediz. Bompiani

[3] Rutger Bregman, “Utopia per realisti”, p 2-3-4 Ediz. Feltrinelli

[4] Rutger Bregman “Utopia per realisti”, p 7 Ediz. Feltrinelli

 

 

 

Perché essere liberali

È dura essere liberali in Italia. Tanto per cominciare, di solito nessuno sa neanche cosa sia o a cosa creda un liberale. I pochi che lo sanno ti collegano subito a qualche personaggio o partito politico ed è difficile spiegargli che il liberalismo non è esattamente quella cosa lì. Va pure peggio se ti dichiari liberista. Lì sì che capiscono… e ti chiedono subito perché odi i poveri o se godi a sfruttare i bambini (questo è all’incirca il pensiero medio); se poi va proprio male li senti pontificare sulla necessità dello Stato e l’importanza degli stimoli alla domanda (“non sai che Keynes ha risolto la crisi del ’29??[1]”). A quel punto la reazione tipica è tirare un sospiro e provare a spiegare con calma che liberismo non significa né Far West né sfruttamento. Il liberalismo è molto di più: è un’ideologia politica ancor prima che economica.

Non starò qui a raccontare cosa è il liberalismo, tante persone l’hanno già fatto prima e meglio di me. Voglio spiegare invece cosa significa per me essere liberale. Io questa ideologia sono arrivato per caso, ero liberale prima ancora di sapere cosa volesse dire. Ci sono arrivato partendo da una cultura di sinistra (e tuttora continuo a considerarmi di sinistra)e votare tendenzialmente di là), per gradi, a partire da riflessioni personali. Ho scoperto solo in seguito che ciò che sentivo e pensavo era già esposto in brillanti opere scritte molto prima che io nascessi.

Sono diventato liberale perché non mi piacevano le risposte semplici (“noi siamo bravi e intelligenti e potremmo sistemare il mondo, purtroppo il popolo è stupido e non ci capisce”), perché ho un forte senso di giustizia (con che diritto si può obbligare un individuo a essere “solidale” con un altro, ad esempio?), perché non sopporto il group thinking, perché mi fanno ridere coloro che credono di avere tutte le risposte e di poter decidere cosa è meglio per gli altri – anche nella mia vita privata sono così: non amo dare giudizi sulle vite altrui e do consigli solo quando esplicitamente richiesti.

Ma soprattutto sono liberale perché detesto l’idea che qualcuno abbia il diritto di controllarmi e dirmi cosa posso o non posso fare. Voglio poter vivere la vita a modo mio, senza essere obbligato a seguire regole decise da chissà chi. E l’unica ideologia politica che ti propone ciò è il liberalismo. Socialisti, fascisti, fanatici di varie religioni, tutti loro pretendono di insegnarti qual è il giusto modo di vivere, cosa puoi o non puoi leggere e ascoltare, chi devi ammirare e chi odiare, chi puoi e non puoi amare. Al liberalismo tutto ciò non interessa perché sa che ognuno di noi è un individuo unico, diverso da ogni altro: non esistono regole di vita valide per tutti. Siamo delle eccezioni, ognuno di noi. E dobbiamo liberamente cercare la nostra strada.

Il liberalismo è ottimista, ha fiducia nel genere umano e nelle sue capacità. Ritiene gli uomini generalmente buoni e intelligenti, capaci di aiutarsi a vicenda e di inventare continuamente modi per migliorare la condizione della nostra specie. Per questo non ama le regole (se non quelle di base necessarie per una convivenza pacifica): servono solo a controllare e tenere a freno gli esseri umani e la loro naturale bontà e intraprendenza. Lasciati liberi, gli uomini riescono a ottenere risultati straordinari, e la storia degli ultimi 250 anni è lì per dimostrarlo. Non bisogna avere paura della libertà.

Il liberalismo mi ha conquistato perché mi comunica leggerezza e serenità, ottimismo e fiducia. Okay, può essere un po’ naive nel suo credere alla bontà e intelligenza degli uomini. Ma non è meglio un’ideologia che ci insegna a stimare e confidare negli altri esseri umani, piuttosto di quelle che ci vogliono divisi in gruppi e categorie e destinati a odiarci l’un l’altro? Per me la scelta è facile, ed è la scelta della libertà.

[1] Leggersi Rothbard, Friedman et alia per capire perché non è affatto vero

Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien: un inno al Liberalismo

J. R. R. TOLKIEN E IL LIBERALISMO

 

Il Signore degli Anelli, di John Ronald Reuel Tolkien, è considerato l’opera fantasy più acclamata del XX secolo, con circa 150 milioni di lettori in tutto il mondo. Nella prefazione, Tolkien, che sentiva la necessità di spiegare in maniera più dettagliata l’obiettivo della sua opera, scrisse che:

Il motivo primo è stato il desiderio di un narratore di provare a cimentarsi in una storia veramente lunga che potesse attirare l’attenzione dei lettori, divertirli, deliziarli e a tratti anche eccitarli o commuoverli.

Per Tolkien, dunque, l’obiettivo principale dell’opera era dilettare e divertire se stesso e, come ogni autore che si rispetti, desiderava che la sua storia fosse divertente da leggere quanto lo era stato per lui scriverla. Diede vita alla Terra di Mezzo solo perché sentiva la necessità di dare un contesto ai propri piacevoli esercizi linguistici – adorava creare nuove lingue, grammatiche, ortografie, etc. – e successivamente si innamorò di questo nuovo mondo, che continuava a crescere in profondità ed estensione.

La Terra di Mezzo di Tolkien è, in fin dei conti, un prodotto eminentemente individuale, specchio del proprio essere. Ed egli prende la felice decisione di condividere una parte di questa sua visione del mondo con i suoi lettori, ossia, con tutti noi: la sua opera riflette tutto ciò che l’autore considera buono, spregevole, gradevole, sgradevole, morale, immorale. Ed è proprio la particolare visione del mondo di Tolkien, satura di profonde e personali impressioni filosofiche, teologiche e politiche, che ha finito per regalarci una delle opere più meravigliose del suo genere. Un’opera repleta del più puro liberalismo e della più sincera difesa dell’individuo!

È possibile analizzare l’opera di Tolkien attraverso diverse “chiavi di lettura”, ma mi atterrò, per ovvie ragioni, alla chiave di lettura politica.

Nella prima opera pubblicata, Tolkien dà i natali a una razza molto particolare: gli Hobbit. Questi sono un riflesso dell’autore stesso, della sua visione del mondo e dell’importanza che egli dava alle cose: l’Hobbit è un piccolo-borghese, avvezzo alla vita nei campi, attaccato alle piccole comodità domestiche (come i 6 pasti quotidiani), che, improvvisamente, viene chiamato ad essere protagonista dei grandi eventi della propria epoca, e non si nega a tale ruolo.

Tolkien era un umile professore universitario che all’improvviso si vide catapultato nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Bilbo era un Hobbit semplice e mite che inaspettatamente si ritrovò alla ricerca dei tesori nascosti nella Montagna Solitaria, che era stata saccheggiata e conquistata dal terribile drago Smaug, responsabile della sottomissione del più grande regno dei Nani dell’epoca.

La storia di Bilbo Baggins, in tal senso, mostra la fede di Tolkien nella capacità dell’individuo – anche del più semplice e pacato, anzi, talvolta proprio del più semplice e pacato – di realizzare grandi sacrifici, di uscire dalla propria comfort zone, di prendere in mano le redini del proprio destino e di essere capace di grandi atti di coraggio ed eroismo in nome di una giusta causa.

Ma Lo Hobbit – mi perdonino i fan più appassionati dell’opera prima di Tolkien – è un semplice assaggio rispetto alla grandezza che ci aspetta ne Il Signore degli Anelli. Ivi veniamo a contatto, grazie alla genialità di Tolkien, con il liberalismo nella sua forma più pura: la diffidenza nei confronti del Potere.

Lord Acton, il celebre storiografo britannico, affermò una volta, giustamente, che:

Il potere tende a corrompere, il potere assoluto corrompe in modo assoluto. I grandi uomini sono quasi sempre malvagi.

Tale visione del mondo rappresenta l’essenza stessa de Il Signore degli Anelli, com’è possibile percepire in diversi momenti dell’opera. Cercherò di raccontarvi gli episodi che considero più rivelatori, giacché, data la vastità dell’opera, la sua densità e la ricchezza di dettagli, non mi sarebbe possibile esaurire l’argomento in un breve articolo.

L’Unico Anello, l’Anello del Potere, rappresenta il fulcro del libro e si configura come la rappresentazione più esplicita del “Potere”, appunto, che può essere assimilato al concetto di “Stato”. Il dialogo tra Boromir e Aragorn ne La Compagnia dell’Anello è, in tal senso, rivelatore. Quando a Gran Burrone Boromir scopre che Gandalf e Frodo possiedono l’Anello, propone, con molta naturalezza, che venga utilizzato per combattere Sauron, ossia, per combattere il Male[1].

Per Boromir, chi è in possesso del “Potere”, ha davanti a sé un immenso ventaglio di opportunità: è possibile usare il Potere per correggere – magari addirittura sconfiggere – il Male. Il Potere Assoluto, chiaramente, potrebbe addirittura annientare il Male Assoluto: potrebbe concederci “il Paradiso in Terra”. Boromir è un costruttivista, crede che sia possibile la disgregazione dello status quo in favore della costruzione di un futuro migliore, ideale, perfetto, dove il Male non esista. Ritiene che sia possibile costruire, in maniera premeditata, il Paradiso in Terra. Come? È sufficiente usare l’Anello, riunire nelle proprie mani il Potere Assoluto con buone intenzioni e l’obiettivo di fare del bene. Boromir è, purtroppo, la rappresentazione della mentalità maggioritaria dei nostri giorni, della fede puerile nella capacità di riscrivere tutto da zero. La convinzione che, con le persone giuste, si possa raggiungere qualsiasi obiettivo.

Aragorn controbatte con fermezza che è da ingenui pensare che l’Anello possa rispondere a qualcuno al di fuori di Sauron – ossia, che il Potere possa rispondere a qualcosa di diverso dal Male. In altre parole, non è possibile fare del bene attraverso il Potere, per quanto buone possano essere le intenzioni di chi lo adopera. Infatti, è evidente come Aragorn non dubiti della purezza e della virtù degli intenti di Boromir, ma semplicemente nutra una profonda diffidenza nella possibilità di usare il Potere per (ri)costruire qualcosa di positivo – e la sua storia familiare, ossia la morte del Dùnedain Isildur ai Campi Iridati, rappresentava per lui il più fulgido ricordo dei risultati di questo tipo di fede.

Tolkien, come il buon liberale che era e in virtù della naturale sfiducia che nutriva nei confronti del Potere, si servì di altri due momenti e di due personaggi totalmente distinti per dimostrare la fallacia e l’ingenuità del raziocinio costruttivista, oltre alla necessità di una fortissima convinzione e di principi ben radicati per resistere alla soluzione più semplice (e catastrofica).

Il primo personaggio è Gandalf.

Quando Frodo, all’inizio de La Compagnia dell’Anello, atterrito dall’immensa responsabilità che rappresentava l’Anello di Bilbo appena ricevuto, decide di offrirlo a Gandalf, il mago, personificazione della prudenza e della saggezza, nonché della coscienza stessa di Tolkien, risponde:

“No!” gridò Gandalf, saltando in piedi […] “Non mi tentare! Non desidero eguagliare l’Oscuro Signore. Se il mio cuore lo desidera, è solo per pietà, pietà per i deboli e bisogno di forza per compiere il bene. Ma non mi tentare! Non oso prenderlo, nemmeno per custodirlo senza adoperarlo”[2].

Per Frodo, Gandalf è un uomo molto più saggio e assennato di quanto egli stesso potrebbe mai sognare di essere, per cui decide, in nome della prudenza, di affidargli l’Anello. E Gandalf, proprio per essere un uomo tanto saggio e assennato, riconosce l’Anello come un oggetto oscuro, degno del più profondo timore, e non osa toccarlo neanche per un solo istante, riconoscendo la tentazione irresistibile che esso rappresenta.

L’Anello (o il Potere) ci si offre come la soluzione più semplice a tutti i nostri intenti, anche ai più puri, lodevoli e irreprensibili, come la pietà verso i deboli, la misericordia e la necessità premente di fare del bene. La risposta dell’Unico Anello ai nostri più profondi desideri è ciò che vi è di più tentatore: “il mondo è una successione infinita di ingiustizie, ma, se mi terrai con te, avrai nelle tue mani tutto il Potere che occorre per correggerle e sanarle. Io ti darò il Potere di aggiustare tutto. Ti basta mettermi al dito”.

La tentazione dell’Anello – o la tentazione del Potere, ai giorni nostri – è in grado di corrompere anche i migliori di noi e nel buio incatenarli. E Gandalf, il liberale, ne era consapevole.

Il secondo personaggio è Faramir, fratello di Boromir.

Frodo e Sam, nel loro viaggio verso il Monte Fato per distruggere l’Anello, lo incontrano insieme ai suoi soldati, di pattuglia nel territorio di Gondor. Il prudente e lungimirante Faramir, prima di eseguire i rigidi ordini del Signore di Gondor (sentenziare a morte qualsiasi individuo si aggirasse per il regno senza autorizzazione), decide di ascoltare ciò che i due piccoli uomini sconosciuti – che successivamente scopre essere “Hobbit” – hanno da dire.

Faramir viene così a sapere che Frodo e Sam fanno parte della Società dell’Anello insieme a suo fratello Boromir e finisce per ricevere la conferma della morte di questi. Frodo e Sam, visibilmente a disagio una volta saputa la parentela di Faramir e Boromir, dal momento che quest’ultimo aveva cercato di convincerli con la forza a consegnargli l’Anello proprio prima di morire in un’imboscata degli Orchi, rimangono sorpresi dalla schiettezza e dalla cautela di Faramir, che sembra “meno ambizioso e orgoglioso, e al tempo stesso più saggio e severo”[3] del fratello:

“Che cosa sia in realtà tale Oggetto, ancora non saprei dire; ma deve trattarsi di qualcosa di assai potente e periglioso. Un’arma crudele forse […] Se questo oggetto poteva procurare vantaggi a un guerriero, comprendo bene come Boromir, fiero e spericolato, sovente avventato, sempre ansioso di vedere la vittoria di Minas Tirith (e con essa la propria gloria), potesse desiderarlo ed esserne attratto. Ahimè, perché partì lui per quella missione? Mio padre e gli anziani avrebbero dovuto scegliere me, ma egli si fece avanti, essendo il maggiore e il più ardito, e non si lasciò distogliere da nessuno”[4].

E, vedendo come gli Hobbit siano ancora molto timorosi e sospettosi, Faramir conclude, in uno dei momenti più profondi e intrisi di significato dell’opera:

Ma non avere più timore! Io non m’impadronirei di codesto oggetto, neppure se lo trovassi lungo la strada, neppure se Minas Tirith stesse cadendo in rovina e io solo potessi salvarla, usando così l’arma dell’Oscuro Signore per il bene della mia città”.

Con queste parole e con questo esempio, Faramir, che ha Sam e Frodo sotto custodia militare e può benissimo impadronirsi dell’Anello (il Potere Massimo e Assoluto) e servirsene (per raggiungere il bene comune) a proprio piacimento, rappresenta per la seconda volta e in una circostanza critica del libro l’atteggiamento di un autentico liberale.

Faramir, come Gandalf, come Aragorn e come lo stesso Tolkien, diffida del Potere. E tale diffidenza lo conduce attraverso un sentiero etico e morale talmente solido da portarlo ad affermare che non si servirebbe del Potere neanche se ne entrasse in possesso per caso (cioè se lo ottenesse senza sforzo e senza coercizione) o se rappresentasse l’unica possibilità di salvezza e di fare del bene per il proprio regno in rovina.

E, considerando la situazione in cui fa tale affermazione, Faramir non sta solo pronunciando belle parole prive di significato.

In quel momento, mentre le proferisce, ha appena incontrato per caso il Potere Assoluto e, per quanto ne sa, l’Anello rappresenta l’unica possibilità di salvare Gondor dalla rovina causata dalle orde quasi infinite del Signore Oscuro. Ciononostante, non se ne appropria. Pronunciando quelle parole, Faramir le mette in pratica: parla e agisce in accordo con i propri principi di libertà.

Con tale affermazione, Faramir si configura come un gigante liberale. In tale contesto, si dimostra più grande di quanto il più grande guerriero di Gondor, suo fratello Boromir, sia mai stato. Perché la cautela di Faramir è la risposta giusta, non l’ansia di salvare tutto e tutti, costi quel che costi, di Boromir.

Nell’ansia di salvare Gondor, Boromir quasi la distrugge. Mentre, in un momento di cautela liberale – che sembra anticipare i brillanti insegnamenti di Hayek [5] – Faramir la salva.

Dunque, alla fine del libro, tocca al piccolo Frodo Baggins compiere la difficile missione che nessun uomo, per quanto grande e nobile fosse, era stato fino ad allora in grado di portare a termine: lanciare l’Anello tra le fiamme del Monte Fato, spazzando via per sempre il Potere Assoluto dalla Terra di Mezzo. Se neanche il leggendario Dùnedain Isildur ci era riuscito, come può Gandalf affidare una missione così difficile a Frodo? Come può un piccolo uomo riuscire dove anche i più grandi uomini hanno fallito?

Per Tolkien, non vi è di che sorprendersi. Nella sua visione del mondo, la domanda si inverte: come potrebbe l’umile e semplice Frodo non farcela? E, pensandola come Tolkien (o pensandola come un liberale, che è lo stesso), si comprende molto facilmente la scelta di Gandalf.

Mi spiego: mentre Saruman è ossessionato dalle antiche pergamene, dagli affari della Corte di Gondor, dal Regno degli Uomini, dalla grandezza e dalla gloria di Númenor (insomma, dalla storia dei “grandi uomini” di Lord Acton), Gandalf si è sempre interessato agli Hobbit. Interesse estremamente indicativo della visione del mondo del mago.

In uno dei pochi momenti in cui la trilogia The Hobbit di Peter Jackson riesce a captare con profondità la visione del mondo di Tolkien, Gandalf, interrogato da Galadriel sulla ragione per la quale ha scelto proprio un Hobbit per compiere quella missione, afferma:

Saruman ritiene che soltanto un grande potere riesca a tenere il male sotto scacco. Ma non è ciò che ho scoperto io. Ho scoperto che sono le piccole cose… le azioni quotidiane della gente comune che tengono a bada l’oscurità. Semplici atti di gentilezza e amore.

Ed è ciò che Frodo, nella storia, rappresenta per Tolkien. Egli è un medio termine tra l’uomo con common sense di Chesterton e l’introspezione liberale, con un pizzico di rassegnazione stoica. È proprio in virtù del suo essere piccolo, del suo non essere superbo, che riesce a non cedere, per tutto il suo lungo viaggio, alle tentazioni del Potere. È il suo essere piccolo, umile, che lo spinge a distruggerlo, anziché a usarlo. Frodo riconosce i propri limiti umani e, così facendo, riconosce i limiti dell’intera umanità. Pertanto, egli sa che nessuno sarebbe capace di fare un buon uso di un Potere così grande.

Egli non vuole a tutti i costi risolvere tutti i problemi del mondo, è pienamente cosciente del fatto di non conoscere il metodo infallibile per risolvere e correggere tutto – o per cercare di attuare lo stesso piano di sempre, fallendo per la millesima volta (“perché stavolta andrà tutto bene, lo giuro!”). Frodo è Hayek che afferma che il curioso compito dell’economia è insegnarci quanto poco sappiamo riguardo a ciò che crediamo di sapere. Frodo è Tolkien, che sostiene:

My political opinions lean more and more to Anarchy (philosophically understood, meaning abolition of control not whiskered men with bombs) – or to ‘unconstitutional’ Monarchy.  […] Anyway, the proper study of Man is anything but Man; and the most improper job of any man, even saints (who at any rate were at least unwilling to take it on), is bossing other men. Not one in a million is fit for it, and least of all those who seek the opportunity. And at least it is done only to a small group of men who know who their master is. The medievals were only too right in taking “nolo episcopari” as the best reason a man could give to others for making him a bishop. [6].

E, come previsto da Gandalf, questo piccolo uomo riesce laddove tutti prima di lui hanno fallito: porta l’Unico Anello al Monte Fato, a Mordor, e lo distrugge tra le fiamme.

Tutta l’opera letteraria di Tolkien è straordinaria e incredibile, e spero quanto prima di poter scrivere un articolo riguardo a Il Silmarillion. Per il momento, mi piacerebbe reiterare quanto ho affermato all’inizio, con la speranza che questa chiave di lettura politica sia stata utile per tutti i lettori giunti fino alla conclusione di questo articolo.

Il Signore degli Anelli è un’opera grandiosa, dotata di un’intensità e di una ricchezza di dettagli impareggiabili. Ma soprattutto, in diversi momenti, sembra rivolgersi direttamente a noi, sembra dialogare intimamente con noi riguardo a diverse questioni contemporanee. Mi piace pensare che ciò si debba all’essenza profondamente liberale dell’opera, che fa sì che non invecchi mai, conservando sempre la sua innata freschezza e genuinità.

Mi sembra evidente che in Tolkien scorgiamo la soluzione a molti dei nostri problemi. Egli ci insegna a riconoscere i nostri limiti e, in tal modo, a riconoscere i limiti delle altre persone. Egli ci dice che un individuo, anche il più piccolo, è capace di atti di coraggio ed eroismo. E questo individuo non ha bisogno e mai avrà bisogno dell’Anello per salvare se stesso e gli altri dalla rovina – e non deve mai cadere nella tentazione di pensare il contrario. Questa è la lezione che dobbiamo imparare da Tolkien.

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[1] Il Male, che nel libro viene impersonificato da Sauron, ex-generale di Morgoth, può (e deve) essere inteso, in tale analisi politica, non come qualcosa di astratto, ma come qualcosa di molto concreto. Il Male è tutto ciò che si considera sbagliato, come la miseria, la disuguaglianza, la mancanza di opportunità, l’ingiustizia, le istituzioni imperfette, etc. Il male è tutto ciò che non dovrebbe essere, ma che, purtroppo, è.

[2] TOLKIEN, J. R. R. La Compagnia dell’Anello, Bompiani, p. 135.

[3] TOLKIEN, J. R. R. Le Due Torri, Bompiani, p. 415.

[4] TOLKIEN, J. R. R. Le Due Torri, Bompiani, p. 424/425.

[5] Discorso di Hayek in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel per l’Economia del 1974: “Agire nella convinzione di avere la conoscenza e il potere che ci permettono di modellare i processi della società interamente a nostro piacere, conoscenza che in realtà non possediamo, probabilmente ci porterà ad arrecare molti danni. Nelle scienze fisiche ci possono essere poche obiezioni al tentativo di fare l’impossibile; si potrebbe persino pensare che non si debba scoraggiare il presuntuoso o l’arrogante, perché i suoi esperimenti potrebbero, dopotutto, produrre qualche nuova intuizione. Ma nel campo sociale, la convinzione errata secondo cui esercitare un certo potere avrebbe conseguenze favorevoli, è probabile porti all’affidare a una certa autorità un nuovo potere di coercizione sugli uomini. Anche se tale potere non è in sé cattivo, il suo esercizio è probabile impedisca il funzionamento di quelle forze d’ordine spontaneo da cui, senza capirle, l’uomo è, in effetti, è aiutato tantissimo nel perseguimento dei suoi obiettivi. […] Se l’uomo non deve fare più male che bene nei suoi sforzi per migliorare l’ordine sociale, dovrà imparare che in questo, come in tutti gli altri campi in cui la complessità essenziale di un genere organizzato prevale, non può acquisire la conoscenza completa che permette la padronanza degli eventi. Quindi dovrà usare la conoscenza che può ottenere, non per modellare i risultati come l’artigiano modella i suoi oggetti, ma per coltivare una crescita fornendo l’ambiente adatto, così come fa il giardiniere per le sue piante. C’è un pericolo, nell’esuberante sensazione di sempre maggiore potere che il progresso delle scienze fisiche ha generato e che tenta l’uomo, ‘ubriaco di successo’ per usare una frase caratteristica del primo comunismo, a cercare di soggiogare al controllo della volontà umana non solo il nostro ambiente naturale ma anche quello umano. Il riconoscimento dei limiti insormontabili alla sua conoscenza deve, effettivamente, insegnare allo studioso della società una lezione di umiltà, la quale dovrebbe impedirgli di diventare complice nel fatale tentativo di controllare la società – un tentativo tale da renderlo non solo un tiranno dei suoi compagni, ma il distruttore di una civiltà non progettata da nessun cervello, ma nata dagli sforzi liberi di milioni di individui”.

[6] The Letters of J. R. R. Tolkien; Lettera 52.

Dall’economia alla cultura: l’evoluzione del Marxismo

Spesso da oltreoceano arrivano neologismi come “marxismo culturale”, tradotti nel nostro Paese con espressioni come “radical chic” o anche “buonisti”.
Ci si riferisce con questi epiteti a personaggi come Roberto Saviano, Laura Boldrini e, più recentemente, Domenico Lucano, il discusso sindaco di Riace.

Un elemento che però non viene mai discusso da questi esponenti culturali/politici è l’economia, stessa cosa per i loro corrispondenti d’oltreoceano: le battaglie che li vedono protagonisti sono quelle sociali, tanto da dare via al fenomeno del “social justice warrior” negli Stati Uniti e in Italia dei “buonisti del politicamente corretto”.

Ma l’espressione “marxismo culturale” è vista come invenzione delle destre populiste per giustificare il loro razzismo, sessismo ed omofobia.
Eppure, i leader socialisti scrivono di questa strategia da decenni ormai.

Per esempio, il il libro scritto dai teorici socialisti Ernesto Laclau e Chantal Mouffe del 1985 intitolato “Egemonia e strategia socialista”,
ispirato dall’articolo da loro scritto nel 1981 con il titolo “strategia socialista, e ora?”. Ma cosa scrissero in questo articolo? Per gli autori la “lotta politica socialista” era entrata in una nuova era:
la tradizionale lotta di classe e l’analisi delle contraddizioni economiche del capitalismo hanno avuto difficoltà ad affermarsi (visti anche gli orrori delle dittature comuniste).
Pertanto, la nozione di lotta di classe doveva essere modificata, includendo gruppi non classificabili in una classe economica.

Il loro desiderio era dunque di incorporare donne, minoranze etniche, omosessuali e movimenti anti-istituzionali in un movimento socialista modificando oppressi ed oppressori: non più proletari oppressi da borghesi ma donne oppresse da uomini, neri oppressi da bianchi, omosessuali oppressi da eterosessuali e così via; perché la società ora non era solo più capitalista, era anche sessista e patriarcale, oltre che razzista ed omofoba.

La sfida per Laclau e Mouffe era riunire tutte queste categorie con obiettivi differenti sotto l’egida del socialismo, sviluppando un’ideologia organica: non è un caso che il socialismo si sia allineato negli ultimi trent’anni al movimento femminista ed in esso si sia sviluppato il concetto di intersezionalità per descrivere la sovrapposizione (o “intersezione”) di diverse identità sociali e le relative possibili particolari discriminazioni, oppressioni o dominazioni.

Il nuovo obiettivo del marxismo diventa dunque, secondo questa nuova ideologia, la soppressione di tutte le relazioni di dominazione e di creare “un’uguaglianza genuina e partecipazione a tutti i livelli della società”.

Ovviamente un’uguaglianza di risultato come nella vecchia teoria socialista di Marx: “da ognuno secondo le proprie capacità, ad ognuno secondo i propri bisogni”.
Il risultato? Il virus del socialismo, implicitamente desiderato da tutte le sinistre, ha contagiato importanti battaglie sociali, snaturandole.

Pur essendo stato sconfessato in tutti i modi dalla storia, il nuovo obiettivo del Marxismo è responsabile delle divisioni in Occidente, creando politiche d’identità che mettono in contrapposizione diversi sessi e diverse razze, frammentando la società. Se vi chiedete da cosa sia scaturita questa divisione così profonda nella società (tanto da dare risalto alle destre populiste), ora avete la risposta.

Il fenomeno del marxismo culturale è quindi tutt’altro che un’invenzione: è una vera e propria strategia di rebranding del socialismo.

Liberismo e Liberalismo: Benedetto Croce si sbagliava

Nel 1927 Benedetto Croce pubblicò alcuni scritti, fra cui il noto Liberismo e Liberalismo, nel quale non negava certamente la necessità del libero mercato, ma asseriva che non fosse condizione necessaria per giungere ad una società capace di mantenere salde le libertà politiche e individuali.

Nel corso del lungo dibattito, che spaziava dalla filosofia alla sociologia, sostenuto con l’amico e avversario Luigi Einaudi, altri autori e ricercatori hanno detto la propria, con alcune basi storiografiche e scientifiche talvolta più solide: parliamo di Karl Polanyi (il quale nonostante fosse ostile al libero mercato, diede un contributo positivo al dibattito), Eduard Meyer, Karl Popper e Friedrich Von Hayek.

Il metodo da loro utilizzato è consistito nell’osservare l’evoluzione delle società del passato, traendone i caratteri che potessero rivelare informazioni sulla correlazione fra libertà individuali e libertà economiche [1] ; è chiaramente un metodo induttivo e in quanto tale non se ne può dedurre una legge universalmente valida, tuttavia i risultati hanno portato ad evidenze interessanti: la libertà individuale si è presentata in modo indipendente dal sovrano solamente quando si è potuto contare sul libero scambio di merci e idee.

Eduard Meyer fu uno dei primi a mettere in discussione l’idea -rafforzatasi nel periodo hegeliano- che l’economia greca fosse ristretta a quella dell’Oikos ( οἶκος ), ossia un’economia di tipo familiare, di auto-sussistenza. Sostenne che quando Atene incominciò «a partecipare sempre più vividamente alla lotta della concorrenza»[2] ed i capitali e le idee di diversi popoli iniziarono ad affluire nella città, la popolazione riuscì ad emanciparsi dalla sussistenza e dai privilegi, entrando in un clima di benessere economico e libertà politica, quest’ultima sviluppatasi attraverso la democrazia.

La democrazia greca, però, era di una forma molto particolare: essa «richiedeva salvaguardie materiali per impedire ai ricchi di mantenere quella parte di popolo politicamente attiva»[3] in modo tale da evitare il clientelismo, ma imponeva anche che la polis si facesse carico della distribuzione degli alimenti per il popolo, seppur senza burocrazia; sembrerebbe un paradosso, eppure i greci trovarono una soluzione geniale: il mercato, il quale distribuiva gli alimenti molto meglio dei pianificatori, dei burocrati e degli aristocratici desiderosi di corrompere gli elettori. Ovviamente, ciò poteva funzionare per via della ricchezza fornita dal fiorente commercio, grazie alla quale ogni cittadino poteva emanciparsi dai lavori di sussistenza per poter guadagnare molto di più servendo le necessità altrui tramite il mercato.

Karl Popper, noto per lo studio della Società Aperta e i suoi nemici, individuò anche i nemici della società chiusa: «l’instaurazione di contatti culturali diede vita a quello che è forse il peggior nemico per la società chiusa, cioè il commercio» [4]. Ecco a noi il punto cruciale del discorso: il commercio favorisce l’incontro fra culture, l’apertura verso di esse e la loro accettazione, lo scambio commerciale diventa uno scambio filosofico, come fece notare anche Nicola Abbagnano, il quale sosteneva che la Filosofia sia nata nelle isole ioniche[5] (e non nella Grecia continentale!) proprio per mezzo del commercio, che ha favorito il logos, il discorso, fra popoli.

Constatato che anche Popper riconosce e sottolinea il legame fra libertà economiche e libertà individuali, troviamo una formulazione ancor più puntuale grazie ad Hayek [6]: «L’autorità che dirige l’intera attività economica non controllerebbe semplicemente un settore della vita umana, che possa essere separato dal resto; controllerebbe l’allocazione di mezzi limitati per tutti i nostri fini. E chiunque abbia l’esclusivo controllo dei mezzi determina quali fini debbano essere perseguiti, quali valori debbano essere considerati superiori e quali inferiori: in breve cosa gli uomini devono credere e a che cosa aspirare.»

Una società in cui vengano garantite le libertà individuali da un ente superiore (e, dunque, privilegiato) che ha il potere discrezionale di decidere come allocare le risorse, avrà direttamente e conseguentemente il potere di decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato; pensare che ci si possa affidare ad un buon legislatore, un Messia politico, o alla burocrazia,  è ingenuità o pura illusione.

Note:

[1]: alcune citazioni di autori in questo articolo sono tratte da Ignoranza e Libertà, 1999, Lorenzo Infantino

[2]: L’evoluzione economica dell’antichità, 1905, Eduard Meyer

[3]: Traffici e mercati negli antichi imperi, 1957, Karl Polanyi

[4]: Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza, 1960, Karl Popper

[5]: Storia della Filosofia, 1946, Nicola Abbagnano

[6] Liberalismo, 1973, Friedrich Von Hayek

Giù le mani da Isacco: la religione del privato cittadino

Dio vive, Isacco è morto.

Il libro della Genesi (22, 1-19) ci offre il racconto ben noto del sacrificio di Isacco da parte di Abramo.

“Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò»”

Meno nota è l’analisi della figura e del gesto di Abramo, portata avanti anche dal filosofo Søren Kierkegaard nel suo capolavoro Timore e Tremore. Abramo infatti rappresenta perfettamente la Religione (e sia chiaro ogni Religione) prima dell’avvento del secolo dei Lumi e in particolar modo della filosofia di Kant. Il patriarca è l’uomo di fede ciecamente devoto alla chiamata di Dio, che non esita a sacrificare nemmeno il suo unico figlio.

Per chiarezza è opportuno ricordare che Abramo divenne padre in tarda età, quando ormai aveva perduto ogni speranza di vedere continuata la sua stirpe. Sua moglie Sara infatti era vecchia e sterile. Quest’unico figlio, Isacco, fu un autentico dono di Dio, e tuttavia, Abramo è pronto ad ucciderlo.

Certamente non vuole, ma accetta di compiere il gesto orrendo, perché Dio glielo ha chiesto. Sarà poi un angelo del Signore a fermare la mano di Abramo prima che cali il pugnale sul corpo inerme del figlio.

Søren Kierkegaard vide in Abramo l’incarnazione del suo ideale dell’uomo religioso, la terza possibilità di esistenza della filosofia del danese (vita estetica – vita etica – vita religiosa). Abramo infatti è l’uomo che vive la sua Fede come esperienza totalizzante. Non è sfiorato dal dubbio, dalla critica morale o etica. Non si interroga sulla “moralità” del suo atto, e non mette in dubbio la richiesta di Dio.

Abramo vive la Religione come un sistema assoluto fuori dalla possibilità di giudizio del Singolo, o della Società, che si impone con forza su qualsiasi sistema etico umano. In questo racconto dunque la volontà di Dio trionfa sulla Legge degli uomini, sui valori della famiglia, e sulla Morale.

 

Dio svanisce, Isacco vive.

Il progetto di vita religiosa di Kierkegaard si rivelò sostanzialmente fallimentare perché questa mentalità era già stata superata da anni grazie all’avvento della filosofia di Immanuel Kant. Dopo Kant nessuno si sognò più di provare a dimostrare l’esistenza di Dio o di principi metafisici, che proprio in quanto tali sono inconoscibili da parte dell’uomo.

Dio dunque, in quanto ente metafisico per eccellenza, è inconoscibile e la sua stessa esistenza non è dimostrabile. Di conseguenza la morale individuale dell’uomo, che è fondata su principi universali e necessari ed è superiore a Dio, trionfa sul precetto religioso.

 

Dio è morto, Isacco vive.

Mostrandoci il predominio della morale individuale sulla religione, Kant diede inconsapevolmente inizio a quel “processo filosofico” che in un secolo porterà Nietzsche ad affermare: “Dio è morto”. Dio è morto perché l’uomo si è trovato nel nulla del nichilismo passivo. L’età della tecnica ha trionfato e qualsiasi velleità di metafisica è stata definitivamente cancellata. Il Dio di Abramo e di Isacco è morto perché l’umanità, stanca del sacrificio del povero Isacco, lo ha ucciso.

È dunque giunto il momento della filosofia del mezzogiorno, il momento degli spiriti liberi e dei giovani leoni, che si liberano dal giogo millenario della Religione, “il drago d’oro che dice all’uomo: «Tu devi»”. Dopo secoli di teocrazia mascherata, l’uomo riconosce la sua Libertà e riconduce Fede e Religione alla sfera privata, accettando il mistero personale che riguarda il metafisico. Forse l’aveva già detto in modo migliore a suo tempo il filosofo Ludwig Wittgenstein:

“Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”

Libertà personale e libertà economica

Nella nostra società diamo grande importanza alla nostra libertà personale e ai nostri diritti: dalla libertà di parola a quella di movimento, fino al poter esprimere la nostra sessualità liberamente. Molto più dura è la vita per la libertà economica. Ad ogni angolo, dai talk show alle interviste di politici e intellettuali ai discorsi da bar che si possono fare con i nostri amici, si sente invocare la necessità di difenderci dalla concorrenza straniera, di porre limiti all’avidità degli imprenditori, di combattere il “liberismo selvaggio” o la “finanziarizzazione dell’economia”. In sostanza: di limitare la libertà economica. Quello che non è chiaro a molti, però, è che la libertà personale e quella economica non sono separabili.

Partiamo dai dati: il Cato Institute, un istituto di ricerca americano, pubblica ogni anno un indice sulla libertà umana, che è a sua volta suddiviso nelle dimensioni di libertà personale ed economica (con scala da 1 a 10); anche da un’occhiata veloce si nota facilmente quanto le due dimensioni siano collegate fra loro[1]. Se si prendono ad esempio tutti i Paesi “sufficienti” (quindi con score dal 6 in su) sul piano della libertà economica, solo 16 su 122[2] sono insufficienti sul piano della libertà personale. E risultati analoghi si ottengono facendo la prova inversa[3].

Ovviamente ci sono Paesi riescono a scindere le due dimensioni, ma di solito non per lungo tempo. Nel 2008, ad esempio, vi erano 18 Stati che avevano libertà economica positiva e personale negativa: nel 2015 tutti quei Paesi tranne 4 avevano o incrementato il proprio score sulla libertà personale o diminuito la libertà economica[4].

Abbiamo dunque visto che una correlazione c’è, e molto forte, ma perché è così? Cosa lega il peso della burocrazia su un’attività imprenditoriale a, per esempio, la censura della libertà di parola? La prima ragione, più immediata, è che la libertà economica è il singolo fattore più importante per la crescita economica di una nazione.

Opprimerla significa mandare in crisi l’economia e in nessun posto i cittadini premiano i governanti che peggiorano le loro condizioni di vita. I potenti che vogliono mantenere il controllo su un Paese che si sta impoverendo devono necessariamente farlo con la forza: se si vuole un esempio recente, basti pensare al Venezuela.

Ma la libertà economica ha anche un valore meno astratto, più pratico. Pensiamo a una storia semplice, ma possibile. Un giorno, leggendo un articolo su un blog, un ragazzo si imbatte in una meravigliosa descrizione dell’antica arte della miniatura in legno; subito decide che gli piacerebbe saperne di più impararla e piano piano, a forza di tutorial su YouTube e di ore e ore di esercizi, diventa un maestro in questa difficile disciplina. Ormai ha scoperto che nulla gli darebbe più soddisfazione che fare solo questo lavoro tutto il giorno, e già alcuni suoi amici e conoscenti gli hanno chiesto di poter comprare una sua creazione.

A quel punto, l’idea: aprirà un piccolo negozietto e venderà lì quello che crea; vivrà della mia arte, facendo ciò che ama. Ora poniamo che il nostro povero artista viva in uno Stato in cui la libertà economica è calpestata. Appena comincia a mettere in pratica la sua idea, subito è travolto da mille regole e restrizioni, mentre fisco e burocrati continuano a chiedergli sempre più soldi in tasse e balzelli di vario genere; alla fine, scoraggiato, decide di abbandonare il suo sogno. Lavorerà per il resto della sua vita in un ufficio o fabbrica, dopo aver detto addio alle sue speranze.

Non è questa una privazione della libertà? Non si prova a leggere una storiella come questa una sensazione di ingiustizia fortissima? Certo, questa storiella è inventata, ma ha basi reali, è la realtà quotidiana in molti Paesi dove la libertà economica è repressa e dove chi vuole realizzare i propri sogni è spesso obbligato a corrompere e scendere a compromessi con burocrati e agenti del fisco.

Reprimere la libertà economica significa distruggere le nostre possibilità di realizzare ciò che sogniamo. Certo, non tutti vogliamo aprire un negozietto per vendere miniature di legno; ma tutti sogniamo di migliorare la nostra vita ed è questo che ci tolgono i governi oppressivi: la possibilità di costruirci un futuro migliore.

[1] Per gli amanti della statistica, l’indice di correlazione è 0,64 per gli indici del 2015

[2] Dati del 2015

[3] Per la precisione, 8 su 119

[4] Tutti i dati sono disponibili al sito https://www.cato.org/human-freedom-index

“Il debito pubblico non è importante, in fondo siamo noi i nostri stessi debitori” – Perché Krugman e Keynes si sbagliano

I debiti, alla fine, vanno ripagati

Quando i dirigenti d’affari giapponesi hanno messo in discussione la politica del loro governo di sfrenato uso del debito pubblico come strumento risolutore, il premio Nobel Paul Krugman ha immediatamente scritto un articolo sul New York Times intitolato “La saggezza economica – o la sua mancanza – dei dirigenti d’impresa”. Krugman sostiene essenzialmente che il governo può spendere, spendere e spendere. Può continuare ad accumulare debito senza mai preoccuparsi di ripagarlo perché lo dobbiamo a noi stessi. Accenna anche che chiunque non riesca a comprendere questa semplice nozione non è sicuramente del suo livello intellettuale.

Le conclusioni tratte dall’economista fanno sorgere almeno due domande: il debito pubblico è davvero diverso da quello privato? E siamo davvero noi i nostri stessi debitori? A queste domande le risposte, usando lungimiranza ed onestà, sono: non nel lungo periodo e no, ben diverse da quelle prospettate da Krugman.

Analizziamo la prima risposta, in cui sosteniamo che in un’ottica di lungo periodo il debito pubblico sia uguale a quello privato e che, come tale, vada ripagato: nonostante lo Stato abbia il monopolio della forza e possa rifiutarsi di pagare il debito, i creditori hanno memoria e, delusi dall’impossibilità di vedersi ripagati, non erogheranno più credito a tale scopo, costringendo i governi ad aumentare le tasse o la quantità di moneta per mantenere il livello di spesa pubblica. In entrambi i casi i cittadini perderebbero potere d’acquisto, per la minore disponibilità individuale di risorse (tasse) o per un aumento smodato del livello dei prezzi (inflazione). Basti notare gli esempi di Grecia e Argentina e l’attuale crisi inflattiva del Venezuela.

La seconda risposta è una protesta contro la disonestà dell’asserzione: “siamo noi i nostri stessi debitori”. Ovviamente viene esclusa la realtà, che non tutti i creditori sono cittadini della nazione e che non tutti i cittadini della nazione erogano credito. Nel caso di investitori stranieri assistiamo a ciò che è accaduto in Grecia (ossia il debito è stato riscosso con la forza, costringendo il paese a vendere moltissimi beni pubblici ad imprese straniere), mentre nel secondo caso si omette che la maggior parte degli investitori appartiene a ceti medio-alti, di fatto la necessità di ripagare alti debiti tramite tasse costituisce una redistribuzione di ricchezza dai ceti più poveri a quelli più ricchi. Di fatto la spesa pubblica, nata per appianare le disuguaglianze, finisce per accentuarle.

Infine, una considerazione sul capitale: l’individuo genera capitale tramite tentativi e scoperta imprenditoriale, processi che richiedono tempo e mostrano che il valore non è infinito e non è generabile tramite alcun strumento governativo. L’imprenditore è il responsabile per l’accumulo e la creazione di capitale, quindi di valore. Quando questo processo viene distorto con interferenze governative, il meccanismo si interrompe ed è inevitabile che il processo di crescita e benessere si interrompa con esso, e le generazioni successive ne soffriranno.

Per questi motivi il debito pubblico non è, come distopicamente sostenuto da Krugman, diverso da quello privato e l’ipotesi collettivistica del debito è tanto errata e pericolosa come i collettivismi che hanno portato l’umanità ad indicibili sofferenze.