“Il romanzo che si vende di più è quello del liberismo cattivo. Un liberismo che non c’è mai stato” – Intervista ad Alberto Mingardi

Alberto Mingardi, giornalista scrittore e divulgatore liberale italiano, ha fondato con Carlo Lottieri e Carlo Stagnaro, all’Istituto Bruno Leoni, un centro-studi di cui ora è Direttore Generale, che promuove le idee liberali. È scrittore di diversi libri tra cui “L’intelligenza del denaro” e “La verità, vi prego sul neoliberismo (trovate i link in fondo all’articolo). Ha collaborato per diverse riviste come “The Wall Street Journal” e “Washington Post”.

Prima di iniziare con l’intervista tengo a ringraziare Alberto per la sua collaborazione e pazienza.

Ecco l’intervista:


D: Secondo te, quello nei confronti del liberismo, è odio, paura, o entrambi?

R: Non credo si tratti necessariamente di odio o paura. E non credo neppure che il problema sia il “liberismo”, nel senso di un “sistema”, di una precisa costellazione di idee e proposte. Mi sembra che ci sia una generale avversione verso il libero mercato, un po’ perché “mercato” ma soprattutto perché “libero”. Siamo tutti abituati a pensare che, affinché una cosa sia “ordinata”, debba esserci qualcuno che mette ordine. Se questo qualcuno non c’è, se manca una autorità pronta a mettere “ciascuna al suo posto” risorse e persone, tendiamo a pensare che il risultato debba essere non un ordine spontaneo, ma un caos. Per questo avversiamo il mercato e chiediamo a gran voce l’intervento di qualcuno che dica a tutti quanto debbono guadagnare, se e quando debbono tenere aperto il loro negozio, che cosa debbono o non debbono vendere, eccetera.

 

 

D: Come mai, secondo te questa avversione nei confronti liberismo è presente più in Italia o anche in altri paesi?

R: Non so se questa avversione nei confronti del libero mercato sia più forte in Italia che altrove. Certo in Italia è più sorprendente: in alcune aree della penisola italica esiste una vocazione all’imprenditoria diffusa, ben radicata, di straordinario successo nel nostro Paese ed altrove. Gli italiani tutti sono molto cinici e non venerano le istituzioni pubbliche: anche se sono prontissimi a trarne vantaggio quando possibile. Questo è un Paese in cui, da anni, la classe politica gode di scarsa stima della popolazione nel suo complesso. E in passato svariati tentativi di orientare “dall’alto” e “dal centro” lo sviluppo sono naufragati miseramente. Insomma, che lo Stato mamma non sia la soluzione, e che lo Stato “innovatore” sia una contraddizione in termini, dovremmo averlo imparato. E invece…

 

D: Questo odio non ti sembra sia causato, in buona percentuale, dal malessere italiano derivato dalle pessime politiche italiane degli ultimi quarant’anni?

R: Saranno state pessime queste politiche, ma certamente non sono state né liberiste né liberali. A maggior ragione, di fondo, dovremmo aver sviluppato una certa domanda di liberismo. Invece nel ricordo si esagerano i pretesi disastri di alcune fra le pochissime scelte che andavano nella riduzione del perimetro pubblico (dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia alla privatizzazione delle autostrade) e si costruisce una mistica dei bei tempi andati, dei successi del debito, dell’epica delle partecipazioni statali. Le persone sono inclini a considerare con favore gli anni della propria gioventù, e fra il ripianto della prima automobile e della prima fidanzata e la nostalgia del Pentapartito il passo è strepitosamente breve. C’è ben poco di razionale, in tutto questo. E a ragione: le persone normali dedicano alle questioni pubbliche un’attenzione minima, le considerano (giustamente) assai remote e lontane dagli ambiti nei quali la loro volontà ha un peso e sui quali possono esercitare influenza, vi si avvicinano con il gusto di ascoltare una storia e oggi la narrazione dominante, il romanzo che si vende di più, è quello dello statalismo buono e del liberismo cattivo. Un liberismo che non c’è mai stato, ma questo è un dettaglio.

D: Basta leggere un libro, come l’ultimo che hai scritto tu ad esempio, per dimostrare che il liberismo ha portato ad un enorme miglioramento nella qualità della vita degli individui (sotto tutti gli aspetti, economico, sociale, culturale ecc…). Ma allora perché c’è così tanta disinformazione in questo tema?

N. Se tutti sono diffidenti nei confronti un ordine non pianificato, per gli intellettuali un ordine non pianificato è un’opportunità sprecata: perché credono di sapere bene chi saprebbe porre ordine nel caos, chi ha le idee giuste su come impiegare le risorse, chi dispone di criteri chiari e meditati sul prezzo che deve avere un certo bene, sul valore di un’opera d’arte, sul senso di un romanzo, sull’importanza di un’invenzione. A loro basta guardarsi allo specchio: gli intellettuali, a parte quei pochi che tradiscono la tribù e che per questo sono marchiati come servi del capitale o peggio, sono convinti che la società dev’essere diretta, e dev’essere diretta da loro, altrimenti saranno guai.

D: “Per odiare qualcosa bisogna conoscerla. Scendere pure in piazza contro il libero mercato. Ma, prima, cercate di capire di che si tratta”. Questa è la frase che più mi è rimasta impressa del tuo libro. Come dovremmo fare, però, secondo te, a divulgare il liberismo in maniera oggettiva cercando di far capire alle persone “di che si tratta”?

R: Le maniere oggettive non esistono. Non solo le risposte che diamo ma prima ancora le domande che ci facciamo sono profondamente condizionate dal nostro modo di pensare la società, da ciò che noi riteniamo sia importante, dalla nostra preferenza per la libertà o per l’ordine, per il progresso economico o per la giustizia sociale. Ma un conto è essere partigiani, che è inevitabile, un altro è essere bugiardi, scorretti o faziosi nel dar conto dei dati. Bisogna essere intellettualmente onesti, non pensare di poter dare tutte le risposte, attenti alla realtà e rigorosi nell’interpretarla. Oggi, la priorità mi sembra sia soprattutto fornire una lettura diversa, più realistica, della situazione in cui ci troviamo, soprattutto rispetto a due temi: progresso tecnologico e diseguaglianze. L’una cosa e l’altra vengono utilizzati per cucinare una storia nella quale il mercato è diabolico e mai come oggi c’è bisogno di Stato per salvarci da un futuro alla Blade Runner. A me pare che siano paure ingiustificate, ma questi sono i temi sui quali, con pacatezza e pazienza, con correttezza intellettuale e senza forzature, bisogna costruire una narrazione alternativa, che racconti e spieghi meglio quanto accade nel mondo in cui viviamo.

D: Il liberismo si basa sul ragionamento di “Laissez-les faire et laissez-les passer”, lasciare fare agli altri della propria vita ciò che vogliano finché non nuocciano nessuno. Perché, anche questo concetto, oramai così scontato e, l’unico per costruire una società civile e felice, fa così fatica ad entrare nella mente degli italiani?

R: L’espressione “laissez faire” è stata trasformata in una caricatura e molto spesso viene considerata alla stregua di una invocazione all’anarchia. In realtà il liberismo è fatto di regole, il libero mercato è un contesto nel quale chi rompe paga, e le sanzioni di mercato sono severissime e inappellabili. Al contrario gli statalisti invocano regole per tutti, ma queste regole non fanno che certificare la discrezionalità dell’attore pubblico, che deve poter fare ogni e qualsiasi cosa desideri. Forse ad apprezzare l’idea è soprattutto chi è sempre alla ricerca di un “santo in paradiso” ma, come già detto, non credo sia questo il caso. Se fossero stataliste solo le persone cui davvero lo statalismo conviene, avremmo molti più liberisti in circolazione. Ciò che conta è la nostra diffidenza verso tutto ciò che non è pianificato.

D: In una parte del tuo libro evidenzi come la spesa sociale stia aumentando sempre di più arrivando a circa il 30% del PIL. Secondo te, un sistema meritocratico all’interno del lavoro pubblico, può aiutare ad una riduzione della spesa? O sarebbe ideale l’abolizione totale o parziale del welfare-state?

R: Non mi è ben chiaro cosa significhi un sistema meritocratico all’interno del lavoro pubblico. All’interno della pubblica amministrazione, gli incentivi sono diversi  a quelli che ci sono nel settore privato, e non può essere altrimenti. La cosa da fare è ragionare su quanto esteso deve essere il perimetro dello Stato, su quali sono i beni e servizi che lo Stato deve fornire direttamente organizzandone l’erogazione, su quali sono i beni e servizi che al contrario esso può acquistare da privati in concorrenza. Se ci dà fastidio che i primari abbiano bisogno di un padrino politico, la soluzione è restituire al settore privato gli ospedali, pagando semmai le prestazioni che erogano. Non è una soluzione perfetta, ci saranno sempre truffe e truffatori, perché siamo tutti esseri umani, sia che lavoriamo nel pubblico sia che lavoriamo nel privato, ma almeno mette una intercapedine fra la politica e, appunto, il lavoro dei medici. Ma se una certa funzione resta all’interno del perimetro pubblico non possiamo stupirci se obbedisce a esigenze e necessità politiche.

D: Noi italiani siamo sempre stati un popolo egocentrico, anzi culturocentrico. Riteniamo la nostra cultura e mentalità superiore a quella di tutte le altre nazioni. Pensi questo sia una delle cause che permettono oggi cosi tanta disinformazione su questo tema?

R: No. E non mi sembra sia questo il caso. Gli italiani pensano di solito abbastanza male di se stessi, anche perché si conoscono. Uno dei loro passatempi preferiti è biasimare tizio o caio perché hanno conquistato una certa posizione non in virtù dei propri meriti, ma in ragione dei favori e delle protezioni che sono riusciti a lucrare. Gli italiani in realtà i loro limiti li conoscono benissimo e fino a qualche anno fa, pur di malavoglia, erano convinti di doverli superare. Si pensi al fatto che la riforma Fornero è stata fatta solo come quattro ore di sciopero generale: se non è senso di responsabilità quello! Poi è cominciata una stagione diversa. I bassi tassi d’interesse hanno convinto i decisori che non si dovesse pigiare l’acceleratore sulle riforme, perché continuare a indebitarsi costava poco. Questo ha fomentato una forte ostilità alle, peraltro poche, riforme del periodo precedente: come se si trattasse di macchinazioni di una “élite” arcigna e cattiva. I due partiti oggi al governo hanno estremizzato questo atteggiamento e, forse per la prima volta nella nostra storia, non dicono agli italiani che è necessario fare riforme, che bisogna cambiare passo, che dobbiamo stare agganciati all’Europa. Dicono loro che va tutto bene così com’è, che sono migliori le banche in cui non si parla inglese, che c’è un sentimento anti-italiano che abita l’Europa mentre le nostre istituzioni e le nostre prassi vanno bene così come sono. Non è che pensiamo che la nostra cultura e le nostre istituzioni siano migliori: non lo pensiamo affatto. Ma ci stiamo convincendo, ci stanno convincendo, che la faremo sempre franca in ogni caso.

D: In generale il liberismo è sempre più respinto dalle nazioni, perché?

R: Oggi perché il discorso politico è tutto incentrato sulla politica dell’identità e nel discorso caro alla politica dell’identità le politiche economiche, liberiste o meno, hanno poco peso. Anche in Italia. Le questioni che suscitano entusiasmo e attenzione sono che cos’è una famiglia, quanti e quali immigrati possiamo accogliere senza “snaturare” la nostra cultura, quali sono i “diritti” di cui debbano godere questo o quel gruppo. La politica dell’identità annulla l’individuo, ci riporta a uno scontro fra tribù, bianchi contro neri, etero contro gay, uomini contro donne e quant’altro. La politica dell’identità è intrinsecamente anti-individualista mentre, al contrario, una discussione politica nella quale le politiche economiche hanno spazio abbraccia una prospettiva sostanzialmente individualista: consente al cittadino di interrogarsi su costi e benefici per lui, non su simboli che confortano questo o quel clan.

D: Tre testi che consigli ad una persona che vuole cominciare a studiare e capire le dinamiche del liberismo.

R: I due libri di Milton e Rose Friedman, Capitalismo e libertà (https://www.amazon.it/Capitalismo-libert%C3%A0-Milton-Friedman/dp/8864400230/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&keywords=capitalismo+e+libert%C3%A0&qid=1556949922&s=gateway&sr=8-1) e Liberi di scegliere (https://www.amazon.it/Liberi-scegliere-Una-prospettiva-personale/dp/8864401601/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&keywords=liberi+di+scegliere&qid=1556949939&s=gateway&sr=8-1), sono testi che hanno avuto una straordinaria fortuna, proprio perché riescono a spiegare con un linguaggio semplice, ma non per questo impreciso o poco rigoroso, come funziona quel tanto o quel poco di libero mercato che sopravvive nei nostri Paesi, e come invece lo statalismo prova a inquinarne gli esiti. Più di recente, Eamonn Butler, il direttore dell’Adam Smith Institute (https://www.adamsmith.org/), ha scritto dei libretti molto veloci ma chiarissimi, alcuni tradotti anche da IBL Libri, per avvicinare a queste idee persone che non le hanno mai frequentate (https://www.amazon.it/ricchezza-nazioni-pillole-distillato-sentimenti-ebook/dp/B00TVLMWDC/ref=sr_1_fkmrnull_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&keywords=la+ricchezza+delle+nazioni+pillole&qid=1556949965&s=gateway&sr=8-1-fkmrnull o https://www.amazon.it/Liberalismo-classico-Unintroduzione-Eamonn-Butler-ebook/dp/B07BQQHM25/ref=sr_1_1?qid=1556949983&refinements=p_27%3AEamonn+Butler&s=digital-text&sr=1-1&text=Eamonn+Butler). In queste occasioni di norma non si fa, perché è poco elegante, ma consiglio anche i miei libri, La verità, vi prego, sul neoliberismo (https://www.amazon.it/Neoliberismo-Alberto-Mingardi/dp/883174299X/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&keywords=mingardi+neoliberismo&qid=1556950027&s=gateway&sr=8-1) e il precedente L’intelligenza del denaro (sempre Marsilio, 2013 https://www.amazon.it/Lintelligenza-del-denaro-Alberto-Mingardi/dp/8831713310/ref=sr_1_fkmrnull_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&keywords=mingardi+intelligenza&qid=1556950005&s=gateway&sr=8-1-fkmrnull), perché lo ho scritti proprio pensando a un lettore scettico e diffidente, cercando di rispondere come meglio potevo ai suoi dubbi e alle sue perplessità sul libero mercato.

 

Perché abbiamo bisogno di Hayek oggi

Centoventi anni fa oggi, l’8 Maggio 1899, Friedrich August von Hayek nasceva a Vienna. Il Premio Nobel per l’economia del 1974 ha vissuto, come Peter Boettke scrive nella sua recente edizione di “Great Thinkers“, una vita per niente banale.
… ha vissuto la disumanità della Prima Guerra Mondiale, la rovina economica della Grande Depressione, e il gioco pericoloso all’interno della stessa civiltà occidentale, con l’avvento del fascismo e del comunismo negli anni 30′ e 40′.

Alla fine sarebbe diventato uno dei pensatori più influenti del secolo, fornendo i mezzi intellettuali per persone come Margaret Thatcher, Ronald Reagan, e Ludwig Erhard e fungendo da eroi per liberali classici e conservatori di tutto il mondo. Allo stesso modo, fu uno dei principali artefici di un movimento in favore delle tesi classico-liberali, cercando di riunire scuole di pensiero antagoniste, come quella austriaca, qulla di Chicago, e quella tedesca degli ordoliberisti, grazie alla creazione della Mont Pelerin Society.

Eppure, oggi, la maggior parte delle persone non sa nemmeno chi sia Hayek o quali siano i suoi principali insegnamenti. Ancora più scandaloso, alcune parti del movimento che ha aiutato a creare vede in lui, nel caso peggiore, “un socialista” – forse un buon economista monetario, ma di nessuna utilità su altre questioni – e nel caso migliore, un piccolo Ludwig von Mises, una brutta copia che alla fine ha rubato il Premio Nobel destinato al suo mentore. Tutto ciò è piuttosto tragico. Sopratutto considerando il nostro mondo odierno – con minacce alle nostre libertà che si ergono da destra a sinistra (letteralmente) – l’incredibilmente complesso sistema di pensiero di Hayek, che attraversa economia, legge, cultura, politica, e filosofia, è cruciale.

Le idee di centralizzazione sono ancora più in voga oggi in Occidente rispetto a qualsiasi altro punto della storia successivamente alla caduta dell’ultimo stato ultra-centralizzato, l’Unione Sovietica, nel 1989. Si potrebbe forse pensare che il ventesimo secolo abbia mostrato abbondantemente che i mega-stati e il collettivismo di ogni tipo non possano funzionare. Tuttavia, questi sogni utopisti sono tornati negli anni recenti.

LA CENTRALIZZAZIONE NON FUNZIONA


Da sinistra, Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez negli USA, Jeremy Corbyn in Inghilterra, e molti attivisti in tutta Europa inneggiano al sogno del socialismo, mentre il suo esempio più prominente, il Venezuela, sta bruciando davanti i loro stessi occhi. Il giovane leader del centro-sinistra Social Democratico in Germania ha proposto la settimana scorsa che le aziende come la BMW dovrebbero essere nazionalizzate nonostante il fatto che un altro esperimento socialista, la Germania dell’Est, ha fallito proprio davanti ai suoi stessi occhi (è nato a Berlino est!). Tutti questi disastri non eranovero” socialismo, certo (non lo è mai), ma il prossimo tentativo funzionerà di certo. Per sconfiggere l’avarizia del libero mercato, c’è bisogno che sia sostituito da un governo autorevole.

Anche la destra non è molto meglio. I nazionalisti europei, da Marine Le Pen in Francia a Matteo Salvini in Italia, attaccano il capitalismo con la stessa ferocia della sinistra. Ma a differenza del socialismo, l’economia non è così importante. La nazione stessa è in ballo, e tutto deve essere messo da parte per la sua sopravvivenza -a prescindere che si tratti di libero scambio, immigrati, o persino Rule of Law, come in Ungheria.

In tutto ciò, è facile dimenticare che lo status quo – l’attuale establishment politico- non è, anch’esso, in favore delle libertà individuali o dell’economia di mercato. Nelle istituzioni Europee di Bruxelles, ma anche lontano dalla capitale Belga, un’opzione ancora più centralizzata è molto popolare. Un governo autorevole è nuovamente la risposta.

Il lavoro di Hayek offre una potente risposta a tutte queste domande diverse che suonano tuttora pericolosamente simili. Più centralizzazione non può essere la risposta, a prescindere da chi la proponga. Jonah Goldeberg ha centrato il punto in un recente articolo, quando ha chiesto ai conservatori di leggere Hayek nuovamente: sulla destra,
“I nuovi fautori del nazionalismo economico, non pensano più che le elites non siano in grado di mettere mano all’economia -ma solo che le elite liberal, o i globalisti, non possano farlo. Parte di ciò ha origine dalla convinzione spesso paranoica che le elite liberal abbiano brillantemente manovrato il sistema in loro favore. Quindi il pensiero che segue è, se possono farlo loro, possiamo farlo anche noi. Ma non funziona così.”

IL POTERE DEL VERO LIBERALISMO


Le richieste di un governo autorevole, responsabile di tutte le area della vita, stanno malinterpretando il mondo in cui viviamo. Per secoli, da quando l’industrializzazione ha messo il liberismo pienamente in gioco, il nostro mondo sta diventando sempre più complesso. Le economie largamente organizzate a livello locale sono cresciute nell’economia globale di oggi, dove ciascuno può scambiare liberamente con gli altri (fino a che il governo non interferisce).

Hayek ha chiamato questo mondo internazionale la “Grande Società“. E sebbene la diffusione di questo ordine ha certamente portato con se grandi fratture nelle comunità e nelle identità e ha sempre causato (temporanei) effetti economici negativi per alcuni, ha anche portato alla immensa ricchezza e prosperità che viviamo oggi.

Ciò che può risultare difficile da capire è che tale ordine è talmente complesso che nessuna singola mente è in grado di dirigerlo. Con miliardi di persone che interagiscono fra loro attraverso migliaia di chilometri ogni giorno, coinvolti in processi economici i cui prodotti sono creati da milioni di individui senza che nessuno conosca gli altri, questo ordine è difficile da comprendere. Ma è la nostra realtà quotidiana.

Chi potrebbe mai prendersi cura di ciò da solo senza distruggere la struttura stessa? Chi potrebbe conoscere ogni singolo dettaglio, conoscere cosa ogni individuo, dal contadino all’operaio all’ingegnere della Silicon Valley, pensa e fa in ogni momento? Questo ordine complesso, se lasciato a sé stesso, può pensare al proprio funzionamento. Tutte le piccole parti di questa fabbrica lavorano insieme, e se una cade a pezzi sarà presto sostituita da un’altra. Ma può un essere umano qualsiasi prendersi cura di tutto ciò (o anche solo produrre qualcosa di semplice come una matita allo stesso modo)?

Un buon dittatore -o presidente o anche parlamento- in carica potrebbe provare ad organizzare tutte queste attività. Ma fallirebbe. E con lui morirebbe l’ordine complesso in sé. Sarebbe impossibile funzionare da solo, essendo costantemente messo in difficoltà. Gli individui non potrebbero più dedicarsi a ciò che vogliono. Sarebbe solo l’uomo o la donna saggia a prendere le decisioni. I risultati sarebbero povertà e significativa perdita in libertà individuali.

RISULTATI, NON INTENZIONI


Sì, le intenzioni dei rappresentanti del popolo potrebbero essere ottime, ma le loro azioni sarebbero disastrose. Bernie Sanders, nel tentativo di aiutare i poveri in USA, li impoverirebbe, insieme al fantomatico 1%, portandogli via ogni modo di prosperare.

Marine Le Pen, tentando di proteggere la nazione francese, genererebbe una totalmente differente, Francia autarchica, che non farebbe altro, da quel punto in poi, che seguire la propria strada per la schiavitù verso un governo pienamente autoritario, perché tutto ciò che non sta aiutando la francia, nella sua mente, deve essere eliminato.

Come scrive Hayek,
Quando ammetti che l’individuo non è altro che un mezzo per il conseguimento del fine di una entità più alta chiamata società o nazione, la maggior parte dei metodi dei regimi totalitari che ci terrorizzano, sono necessariamente da mettere in atto.

Invece, Hayek sostiene, che dobbiamo abbandonare questi sogni. Dovremmo invece abbracciare l’idea di una società basata sulla libertà dei propri membri per trovare da soli lo scopo della loro vita.
Sulla pianificazione centralizzata di uno solo prevarrà la pianificazione individuale di tutti i membri della società, in collaborazione l’uno con l’altro. Hayek vede il ruolo del governo come quello di un giardiniere inglese: qualcuno che getta le basi del disegno e previene ogni chiara e pericolosa frattura della struttura generale ma non interferisce attivamente nei suoi processi – o tenta di pianificarli da solo.

Ciò non vuol dire che l’economia possa fare qualsiasi cosa voglia. Certamente, come Hayek sostiene, una economia libera avrebbe bisogno di fondamenta morali che possano sorreggerla e evitare che faccia di testa sua. Saranno istituzioni sociali, costumi, tradizioni, e abitudini, che si sono sviluppate attraverso i decenni e i secoli non grazie al governo ma attraverso le azioni degli stessi individui che interagiscono gli uni con gli altri, a fare da argine agli effetti indesiderati del mercato. Ecco perché una libera società avrebbe bisogno di una società sana al fianco di una economia libera.

Ed è da qui che molti dei Liberali Classici di oggi possano ancora una volta imparare da Hayek. Una società che non permette di esaminare criticamente alcun risultato del reame economico, anche se ci sono chiaramente conseguenze indesiderate in altri ordini della società, come un indebolimento aggiuntivo delle istituzioni sociali, fallirebbe anch’essa -e forse sta fallendo oggi stesso.

Non deve andare così. Il liberalismo può sopravvivere. Hayek ha coniato il “vero individualismo”, basato sulla visione che i liberi individui nascono in una società, una famiglia, e in altre istituzioni e che le relazioni umane influenzino gli individui in ogni punto della loro vita allo stesso modo in cui gli individui influenzano ciò che è nelle loro vicinanze. Gli esseri umani sono animali sociali, non animali razionalisti che aspirano al massimo guadagno economico.

Questo individualismo è basato sul presupposto che gli ordini sono creati spontaneamente, non centralizzati, e che le tradizioni, le regole sociali e le istituzioni -che determinerebbero la cultura- hanno importanza. E che gli esseri umani proprio perché sono animali sociali, a volte danno la priorità a cose diverse dalla semplice economia. Che hanno un innato bisogno di un senso di appartenenza, di un’identità che va oltre loro stessi, e di forti comunità che possano aiutarli in periodi crisi personali. E che comunque è basato sulla realizzazione di un’economia libera, al sicuro dalla costante pressione del governo, ciò può essere puro dinamismo per una singola comunità o nazione ma anche per tutta l’umanità -e per ogni membro della società.

La decentralizzazione e il localismo da un lato, il mercato e il globo dall’altro. Potrebbero sembrare in contraddizione a primo impatto. Ma ciò che Hayek ci ha mostrato è che con il giusto bilanciamento dei due, il successo è assicurato. Un genere di liberalismo che è attraente e sostenibile. Il genere di liberalismo di cui abbiamo bisogno oggi.

Liberamente tradotto dall’articolo di Kai Weiss.

È veramente tutta colpa del capitalismo?

La crisi del 2008, i cambiamenti climatici, il lavoro sempre più asfissiante, lo stress in aumento, i poveri sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi, insomma, per qualsiasi male di questo mondo la colpa è del capitalismo . È il nuovo morbo del ventunesimo secolo, tutti gli danno la caccia, ma nessuno sa cosa sia. 

Una parola che ormai ha perso il suo vero significato, un orpello ideologico a cui dare la colpa se qualcosa non funziona. Ma cerchiamo di capirne qualcosa.

Il capitalismo è l’attuazione di quell’ideologia chiamata “liberismo”. Ma il liberismo in realtà non esiste, non è mai esistito e non esisterà mai. É semplicemente la libera cooperazione di individui, che senza aver bisogno di un “progettista”, lo stato o il dittatore che sia, fanno fronte alle difficoltà installando relazioni l’un l’altro per trovare la soluzione ai problemi. 

L’unica regola da accettare per un sistema capitalista è la seguente: lasciare gli individui liberi di approcciarsi alla propria vita e ai propri beni come vogliono, a patto di non danneggiare gli altri.  John Locke, John Stuart Mill, Immanuel Kant, Karl Popper, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, tutti questi pensatori si sono battuti per enunciare qualcosa di fondamentale alla società: la libertà personale non produce caos, povertà e iniquità ma bensì armonia, progresso e benessere.

Se qualsiasi sistema sociale non ha mai funzionato, se controllato da qualcuno o da qualcosa, il motivo è semplice: la realtà è estremamente complessa per capirla. In un sistema liberista, non c’è nessuna presunzione di conoscere la realtà in quanto tale, ed è proprio per questo che il capitalismo ha creato un benessere esponenziale.

Basti pensare ai grandi obbiettivi raggiunti negli ultimi anni. In cinquant’anni la popolazione mondiale è raddoppiata[1], sintomo che il benessere è aumentato e le malattie mortali diminuite.

Infatti è grazie alla cooperazione internazionale di menti di tutto il mondo che abbiamo debellato malattie un tempo endemiche come la meningite e il vaiolo. Inoltre la penuria non è più un problema, e le morti per incidenza di omicidi sono al di sotto del 1%.[2]

In soli cento anni abbiamo avuto, l’iPhone, la lavatrice, il PC, internet, l’aria condizionata e un aumento della ricchezza generale di ogni individuo. 

Secondo i critici del capitalismo, la crescita della popolazione non è una giustificazione, infatti, dicono, le diseguaglianze sono aumentate rendendo i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Se si analizzano i dati, però, si nota come se ne 1820 l’84 % delle popolazione mondiale viveva ancora in condizioni di estrema povertà, oggi la percentuale è scesa al di sotto del 10 per cento e continuare ad andare giù!

I decessi per carestia sono infimi rispetto al passato, il reddito pro capite è oggi il decuplo di quanto fosse nel 1850 e l’italiano medio è quindici volte più ricco che nel 1880. [3]

Per i più scettici, osserviamo l’esempio della Cina: da quanto si è aperta al capitalismo, 700 milioni di cinesi sono stati sottrarti alla povertà estrema. [4]

In poche parole, oggi, grazie al capitalismo tanto odiato; viviamo più a lungo, siamo pieni di cibo, le malattie non sono più un problema e siamo tutti più ricchi.

Ma di fronte questo benessere allora perché il capitalismo ci sta antipatico? Dietro i giudizi più drastici e negativi sul sistema capitalista ci sono in realtà umanissimi bisogni di trovare un ordine nelle cose e cercare un colpevole per i nostri problemi personali: e c’è la furbizia tutta politica di attribuirli alle forze impersonali dell’economia.

Il bias della negatività è non è mai stato più forte; tendiamo ad esagerare l’importanza delle cose che vanno male dimenticando quelle che invece vanno bene. Il liberismo è il capro espiatorio, il colpevole a cui attribuire ogni complicazione della vita.

La società moderna ha ancora molti problemi da affrontare, ma se oggi abbiamo raggiunto gli obbiettivi così ambiti in passato, è grazie a quel capitalismo che tutti odiano.

[1] https://ourworldindata.org/world-population-growth

[2] Yuval Noah Harari, “Homo Deus”, p. 19-20, Ediz. Bompiani

[3] Rutger Bregman, “Utopia per realisti”, p 2-3-4 Ediz. Feltrinelli

[4] Rutger Bregman “Utopia per realisti”, p 7 Ediz. Feltrinelli

 

 

 

Libertà individuale. Quanto viene sottovalutata?

“L’indipendenza individuale è il primo bisogno dei moderni (…) la vera libertà moderna. La libertà politica che ne è garante, è perciò indispensabile. Ma chiedere ai popoli di oggi di sacrificare come facevano quelli di una volta, la totalità della libertà individuale alla libertà politica è il mezzo più sicuro per staccarli dalla prima, per poi, raggiunto questo risultato, privarli anche dell’altra.”

Così affermava un grande promotore del pensiero liberale, Henri-B. Constant de Rebecque, in una sua celebre conferenza a Parigi. Constant, in questo suo breve pensiero, concentra tutta la sua attenzione su una questione che forse, oggi, si dà per scontata o ancor più, si tende a sottovalutare; la libertà individuale.

L’uomo “moderno”, può infatti definirsi tale, proprio perché titolare di una serie di diritti individuali che gli “antichi” certamente non vantavano.

Per diritto individuale si intende una insieme di prerogative, “innate” ma garantite anche costituzionalmente, di cui nessuno, astrattamente, potrebbe o dovrebbe essere privato. Il presupposto indispensabile per poter godere di queste prerogative risiede nel concetto di indipendenza, sinonimo a sua volta di auotodeterminazione.

Può definirsi moderno l’individuo italiano?

Considerando che attualmente, vige una visione secondo cui lo Stato, e non l’individuo, debba essere al centro della libertà politica, la risposta non può che essere negativa.

Legittimando lo Stato alla totale disciplina dei diritti individuali non si fa che aumentare il suo potere di regolamentazione e dunque, di “disposizione” degli stessi, lasciando all’individuo un esiguo margine di libertà.
Lo Stato si fa, così, garante delle masse ma nemico del singolo.

Constant, riaffermava ancora,

Il dispotismo statale non ha alcun diritto su ciò che è individuale, che non dovrebbe essere sottomesso al potere sociale”

Un chiaro esempio di quanto detto si raffronta nella questione dei diritti individuali concernenti la c.d. comunità LGBT, soggetta alla continua “demonizzazione” di una determinata espressione sessuale umana, considerata non su base volontaria e individualista ma su base collettivista.

Ancora una volta, collegandoci alle normativa sulle unioni civili, centro di molteplici discussioni e probabili rivisitazioni, le masse, e dunque lo Stato che se ne fa rappresentate, tendono ad imporre un dettame sociale dato per unico su una libertà individuale, limitando di fatto il potere del singolo sul proprio io e sulla propria vita privata. Si viola, cioè, l’essenza dell’intimità umana.

La libertà politica, in poche parole, nel contesto sopracitato, e in generale nel più ampio contesto italiano, non tutela più quella individuale ma la sacrifica e la assorbe piegandola a proprio piacimento.

Ma il diritto individuale non può per sua stessa natura discendere da una decisione autoritaria e, il più delle volte, anche arbitraria, non può essere alla mercé della maggioranza, della quale bisogna certo tenere conto ma senza assurde assolutizzazioni.

L’uomo moderno deve, in conclusione, riappropriarsi della propria “modernità” ossia, della propria indipendenza e ciò può farlo solo ponendo il diritto all’individualità come perno principale su cui basare il sostrato sociale, perché così facendo, non solo non si annienta il singolo ma si preserva anche l’idea stessa di collettività, rielaborata, appunto, come insieme di singoli differenti tra loro e non semplicemente come insieme omogeneo e standardizzato.

La libertà, dunque, di scegliere per sé piuttosto che quella di scegliere per gli altri.

La libertà di essere “io” tra gli “altri” piuttosto che la libertà di essere “io, come gli altri.”

 

Anna Faiola

1945-1955: Quando Einaudi impediva le riforme socialiste

11 maggio 1955. Apparentemente una data normalissima, priva di significato. In realtà, questo fu l’ultimo giorno da Presidente della Repubblica di Luigi Einaudi (1874-1961). In questa data, morì quel poco di liberalismo che influenzava, o almeno tentava, le politiche, che tentava di influenzare i governi. Quel Liberalismo che aveva fondato l’Italia, morì. Morì naturalmente, che sia chiaro. Il problema era – come accadde anche all’indomani della morte di Cavour – l’assenza di eredi che potessero mantenere alta la bandiera del liberalismo anche dopo l’uscita di un grandissimo come Einaudi. Per usucapione, l’Italia venne prese dai cattolici e dai comunisti.

La presenza di Einaudi fu fondamentale nel decennio 1945-1955, sia prima come Governatore della Banca d’Italia, sia come ministro del Bilancio e sia dopo come presidente della Repubblica. Non si trovava nel’ambiente adatto. Era il periodo della convivenza tra liberali, cattolici e comunisti; in particolare, i comunisti chiedevano procedimenti di epurazione per chiunque, Agnelli, Valletta e Pirelli in primis; gli stessi comunisti scioperano e chiedevano a gran voce, occupando le prefetture, le dimissioni e l’allontanamento dello stesso Einaudi. Se vogliamo essere chiari e onesti, potremmo dire che Einaudi è stato protagonista attivo fino al 1948 e fino al 1955 è stato protagonista passivo. Se prima di diventare presidente della Repubblica riusciva ad adottare misure liberali, durante la presidenza, almeno in parte, riuscì ad evitare qualche misura statalista di troppo.

La situazione migliorò nel 1947. Alcide De Gasperi, (1881-1954) nel suo quarto governo, decise di scaricare i comunisti e di coinvolgere i liberali. Luigi Einaudi diventò Ministro del Bilancio e Giuseppe Grassi Ministro Grazia e Giustizia. In meno di dodici mesi, Luigi Einaudi riuscì a salvare la Lira, grazie anche a misure anti-inflazionistiche e anche alla fiducia dei risparmiatori. E’ un momento straordinario per il liberalismo: lo stesso Einaudi è il simbolo della parsimonia ed è amato dai cittadini. Il lavoro compiuto da Einaudi era sostenuto da Donato Menichella, governatore di fatto della Banca d’Italia, e da Mario Scelba, ministro dell’Interno, che ebbe il merito di mantenere l’ordine pubblico.

Il 18 aprile 1948 ci fu la storica sconfitta elettorale dei socialisti e dei comunisti.  Luigi Einaudi diventò il presidente della Repubblica, il primo eletto dal parlamento repubblicano. Da questo momento in poi, per il liberismo di Einaudi iniziò il declino. Il keynesismo americano, come dimostrato dal Progetto di Salvataggio Marshall, era dominante negli ambienti del governo De Gasperi V. Proprio Roberto Tremelloni, esponente del Partito Socialdemocratico Italiano, venne nominato ministro delegato alla presidenza del Comitato Interministeriale per la Ricostruzione, nato per gestire e per ottimizzare il Piano Marshall.

Alcide De Gasperi non era un liberale, ma nemmeno il classico statalista puro. Da denunciare, almeno da parte di noi liberali, l’istituzione del Piano Cassa del Mezzogiorno (1950). Con la Cassa del Mezzogiorno, lo stato italiano inizia con lo spreco di miliardi e miliardi di lire, ingrassando i notabili presenti nei territori meridionali. In ogni caso, l’inizio spropositato e inefficiente dello Stato inizierà proprio dopo la fine del Governo De Gasperi del 1953, ma soprattutto dopo la fine della presidenza di Einaudi del 1955. Chiuso il capitolo Einaudiano, iniziò il capitolo di Giovanni Gronchi, nuovo presidente della Repubblica. Questo nuovo capitolo è l’inizio del dominio delle politiche stataliste e socialiste, che prevede uno Stato super-interventista, dando massimo sviluppo e sfogo al Piano IRI, fregandosene di eventuali debiti. Con lui inizia il motto “Privatizzare gli utili, Socializzare le perdite“.

D’altronde, riferendosi all’Industria Pubblica, il presidente della Repubblica Gronchi ebbe il coraggio di dire:

L’industria privata non sopravvive senza profitti, l’industria pubblica sì

Più chiaro di così…

Breve apologia dell’individualismo

Sentir usare la parola individualismo in senso positivo fa storcere il naso a molti. Essa è una parola che ha assunto un valore negativo per la maggior parte delle persone, basti pensare alla dicotomia individuo-società, dove il polo positivo è rappresentato, nel senso comune, dal secondo termine. Per i più questa è una opposizione binaria perfetta che riesce a descrivere la realtà. Però, dal punto di vista liberale, le cose sono leggermente diverse.

Innanzitutto, partiamo dal presupposto che il termine individualismo può assumere diverse sfumature in base al contesto in cui è usata e da chi ne fa uso.  Queste sfumature sono molto diverse tra loro e parlare di individualismo senza aver ben chiaro di cosa si parla può portare a cadere in luoghi comuni e banalità.

Senza pretese di alcun tipo, questo articolo si propone di illustrare alcuni dei significati del termine individualismo, con l’auspicio di essere un incipit per una riflessione sul tema stesso.

In primo luogo, l’individualismo è un approccio metodologico ben preciso. Esso è il principio di indagine alla base della riflessione sulla società e l’economia di Mises, poi ripreso anche da Rothbard. Utilizzando le parole del pensatore newyorkese, questo approccio metodologico può essere così sintetizzato: «solo gli individui hanno fini e possono agire per perseguirli. Non esistono fini delle azioni imputabili a “gruppi”, “collettività” o “Stati” che non possano essere ricondotti ad azioni di specifici individui».[1] Ciò significa utilizzare un certo filtro nel leggere i fenomeni economico-sociali, nell’analisi del diritto e così discorrendo. In questa maniera è possibile vedere cosa c’è alla base della società: essa non è altro che l’insieme degli individui e delle loro relazioni reciproche.

Questa analisi può sembrare banale, ma essa demistifica una visione della società che ha avuto enorme fortuna, ovvero l’idea di una società organica che viene prima dell’individuo e anzi ne è il fondamento. È sostanzialmente la concezione platonico-aristotelica, ripresa poi da Hegel. La dicotomia individuo-società è importante, ma bisogna capovolgere il rapporto rispetto a come comunemente viene inteso. Inoltre, non si può attribuire un valore morale negativo o positivo ad uno dei due termini. Semmai sono le azioni degli individui a poter essere biasimate o lodate. La società, se intesa alla maniera comune, diviene una sorta di ente metafisico che “tiene all’essere l’individuo” il quale, fuori di essa, non può esistere. In realtà, quest’ultima affermazione non è del tutto sbagliata se si prescinde dall’utilizzo dei vari termini attinenti alla metafisica. L’individuo ha bisogno della società. Non può vivere senza di essa, è veramente animale sociale. Ma non è la società ad essere alla base dell’individuo, semmai è il contrario e questo è un punto fermo da tenere a mente.

Quindi, una volta preso atto di ciò, non si può rimproverare ad un individualista di voler essere contrario alla società, di essere una mina vagante. Un individualista non cerca di recidere i legami che tengono insieme il tessuto sociale, ha soltanto preso atto dell’importanza della sua posizione all’interno di quel reticolo.

Individualismo significa anche autonomia, ovvero la capacità di darsi fini liberamente posti e di perseguirli; significa scegliere liberamente cosa fare e come portare avanti le proprie iniziative; significa cercare di realizzarsi il più possibile. Tutto questo non può avvenire al di fuori della società.

Spesso si cerca di descrivere negativamente gli individualisti ricorrendo al concetto di monade o di atomo. Infatti, si rimprovera agli individualisti di essere chiusi in sé stessi, senza finestre sul mondo esterno, egoisticamente arroccati nel proprio rifugio mettendo a repentaglio la società. Ma, come insegna la chimica, gli atomi hanno delle configurazioni elettroniche che li portano a legarsi con altri atomi in maniera da avere una situazione più favorevole ad entrambi. Così si formano molecole via via sempre più grandi fino ad arrivare agli oggetti della quotidianità. Non è forse così che si forma una società? Sono gli interessi individuali ad essere la linfa della società stessa.

[1] Rothbard (1962), p.2.

La Cina è ancora comunista?

La Cina è ancora comunista? La risposta a questa domanda è complessa ed è possibile scinderla in due parti distinte, che rispondono alla dimensione sociale e alla dimensione economica. La “Repubblica” Popolare Cinese è tutt’ora guidata da una dittatura comunista a partito unico, nella quale il dissenso viene represso anche violentemente.

Società

La situazione dei diritti umani in Cina continua a subire numerose critiche da parte della maggior parte delle associazioni internazionali che si occupano di diritti umani, le quali riportano numerose testimonianze di abusi ben documentati in violazione delle norme internazionali. Il sistema legale è stato spesso criticato come arbitrario, corrotto e incapace di fornire la salvaguardia delle libertà e dei diritti fondamentali.

La Cina è il Paese al mondo in cui si eseguono più condanne a morte, sebbene le autorità si rifiutino di rendere pubblica alcuna statistica ufficiale. Riguardo le condanne eseguite nel 2007, Amnesty International  ha raccolto notizie su 470 esecuzioni, ma ne stima un totale di almeno 6000 nell’arco dell’anno. Nessuno tocchi Caino stima una cifra simile di almeno 5000 esecuzioni nello stesso periodo, con un’incidenza dell’85,4% sul totale mondiale. Entrambe le associazioni riconoscono però che c’è stata una diminuzione nel numero delle esecuzioni, dopo che è stata reintrodotta la norma per cui tutte le condanne a morte devono essere confermate dalla Corte suprema del popolo: ciò consente di attutire la piaga delle condanne a morte comminate dopo processi sommari e iniqui. Alcune stime, tuttavia, sono ben più pessimistiche: un esponente politico cinese, Chen Zhonglin, delegato della municipalità di Chongqing, giurista e preside della facoltà di legge dell’Università Sudorientale Cinese, in un’intervista al China Youth Daily ha parlato di 10.000 esecuzioni l’anno. In quell’occasione Chen dichiarava la sua intenzione di lavorare per migliorare la situazione dei diritti umani in Cina.

Secondo quanto rivelato dal viceministro della salute Huang Jiefu nel corso del 2005, è dai condannati a morte che proviene la maggioranza degli organi espiantati in Cina, spesso senza che il donatore abbia dato il suo consenso, sebbene la legge lo esiga. L’espianto non consensuale pare che venga praticato sistematicamente ai condannati appartenenti al movimento spirituale del Falun Gong, perseguitato dal regime di Pechino ufficialmente dal 20 Luglio 1999, quando l’allora leader del PCC mobilitò le forze di Stato per sradicare il Falun Gong e i suoi praticanti. Questo fenomeno, che ha determinato di fatto un traffico illegale di organi umani, ha generato il sospetto che le condanne vengano eseguite quando c’è richiesta di organi compatibili con il condannato.

Nel 2006 l’avvocato per i diritti umani David Matas e l’ex segretario di Stato canadese David Kilgour, hanno condotto in un’indagine indipendente dimostrando che il personale militare e sanitario nelle carceri e negli ospedali cinesi rimuove forzatamente gli organi dei praticanti del Falun Gong ancora in vita per scopo di lucro. Secondo il loro rapporto, denominato “Bloody Harvest”, tra il 2000 e il 2005 quasi 41.500 praticanti sono morti per questo motivo, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto. Il governo cinese si è frequentemente macchiato di violazioni dei diritti umani nei confronti di minoranze etniche e religiose e dissidenti politici: l’esempio più celebre, per l’opera di sensibilizzazione mondiale in cui si è prodigato il Dalai Lama, è l’occupazione armata del suolo tibetano, oltre che il sopracitato esempio della pratica di qigong del Falun Gong.

Il governo cinese assicura di dispensare la pena capitale solo in caso di gravi reati (omicidio, strage, terrorismo…), escludendo reati politici o di qualsiasi altro genere, e ha pubblicato sul web una copia del proprio codice penale che conferma questa versione. Tuttavia Amnesty International afferma che in Cina sono 68 i crimini punibili con la pena di morte, inclusi reati non violenti come l’evasione fiscale, l’appropriazione indebita, l’incasso di tangenti e alcuni reati connessi al traffico di droga.

In Cina vengono applicate gravi limitazioni alla libertà di informazione, alla libertà religiosa, quella di parola e persino alla libertà di movimento dei cittadini. L’evento più conosciuto in occidente delle azioni di forza perpetrate dalla Cina nei confronti dei dissidenti politici è rappresentato dalla repressione della Protesta di piazza Tiananmen il 4 giugno 1989, in cui perse la vita un numero imprecisato di manifestanti e soldati (200 secondo il governo cinese, tra 2 e 7 mila secondo alcuni dissidenti).

In Cina non esistono sindacati indipendenti, ma solo quello governativo ed è severamente vietato lo sciopero. Lo stato, almeno sulla carta, assicura i diritti dei lavoratori, ma la quantità annua di morti sul lavoro ha destato molte preoccupazioni e parecchie critiche e denunce non solo da organizzazioni umanitarie, ma anche dall’interno degli stessi organi di governo cinesi.

Un’altra accusa di lesione dei diritti umani rivolta al governo cinese è la pianificazione familiare obbligatoria, voluta dallo stesso Mao Zedong e tutt’ora impiegata. La legge che la regola, in vigore dal 1979, è la “Legge eugenetica e protezione della salute”, altrimenti detta ‘’Legge del figlio minore” che si è successivamente evoluta nella cosiddetta “Legge del Figlio Unico“, introdotta nel 2002 e abrogata dalla Corte Suprema cinese nel 2013. Secondo le fonti governative, grazie all’introduzione di questa pratica le nascite evitate nella Repubblica Popolare Cinese sono state 300 milioni. La legge prevedeva che una coppia potesse avere un figlio nelle zone urbane, e due in quelle rurali. I trasgressori potevano portare a termine un’eventuale gravidanza dietro pagamento di un’ingente multa, oppure erano obbligati a rinunciare al figlio.

Le accuse verso questo progetto sono molto pesanti: la lesione della libertà dei genitori; l’uso massiccio e obbligatorio dell’aborto, per di più in modi particolarmente dolorosi; le dure repressioni contro i cittadini che, specialmente in zone rurali o povere, opponevano resistenza al progetto; la violenza verso le donne, visti i casi certificati di sterilizzazioni forzate, operate in molti casi ai danni delle colpevoli; discriminazione verso le donne; in moltissime famiglie (dato anche il divieto di diagnosticare il sesso del nascituro), specialmente nelle zone rurali, le neonate sarebbero uccise, oppure non registrate all’anagrafe (costringendole alla totale assenza di diritti politici e alla rinuncia di istruzione e di qualunque assistenza sanitaria); discriminazioni sociali, perché il sistema fa in modo che i più facoltosi possano “pagarsi” il diritto al secondo (o al terzo) figlio pagando la sanzione corrispondente (in genere di 50.000 yuan, circa 7.700 dollari, 6.400 euro).

Da questi semplici esempi è possibile vedere che il tanto osannato paradiso socialista Cinese esiste solo nella mente dei suoi ignoranti sostenitori.

Economia

Dal punto di vista economico, invece, la situazione è ben diversa. Da circa 40 anni, il PCC ha progressivamente abbandonato il Comunismo Maoista, il quale si rivelò fallimentare e lesivo della società (gli storici stimano che “il Grande Balzo in Avanti”, cioè le riforme economiche volute da Mao per un’industrializzazione forzata della Cina fra il 1958 e il 1961, abbia causato una gravissima carestia nel 1960 che provocò fra i 14 e i 43 milioni di morti, a seconda delle fonti).

Nel 1976, a seguito della morte di Mao Zedong, Deng Xiaoping assurse a leader de facto del PCC. Deng era consapevole che la politica economica attuata dal suo predecessore non avrebbe portato alla crescita, e perciò una volta ottenuto il potere si prodigò per riformare l’economia cinese. Archiviata definitivamente la lotta di classe come elemento fondamentale della società, insieme alla Rivoluzione Culturale voluta da Mao, Deng pose, come obiettivo del governo cinese, lo sviluppo economico del paese.

Nel 1978 Deng presentò al congresso del PCC la riforma delle “Quattro Modernizzazioni”, una riforma destinata cioè a modernizzare quattro settori: agricoltura, scienza e tecnologia, industria e difesa nazionale. Alla base della riforma c’era il cambiamento degli obiettivi strategici dei piani di sviluppo: l’industria pesante, che fino ad allora era stato il settore trainante dell’economia, cedette il posto ad agricoltura ed industria leggera. In particolare il settore agricolo fu profondamente riformato in quanto non più in grado di soddisfare le necessità della popolazione: il problema principale stava nelle tecniche agricole arcaiche utilizzate, rimase immutate per secoli, che il piano economico di Mao non aveva neanche lontanamente pensato di modernizzare.

Ma il vero fulcro della riforma che consentì il boom economico negli anni ’80 e ’90, fu la ristrutturazione dell’apparato statale. In particolare, Deng capì l’importanza di creare un sistema economico nel quale l’industria fosse libera dall’ingerenza dell’amministrazione statale. Per consentire un più stabile collegamento tra imprese locali, statali e collettive e per abbattere le barriere amministrative che ostacolavano la fluidità del processo produttivo, si ricorse alla suddivisione e specializzazione del lavoro. Particolare attenzione fu posta nella preparazione del personale tecnico specializzato e molti studenti cinesi furono mandati all’estero per apprendere le più moderne tecniche produttive. L’attenzione fu focalizzata sulle richieste del mercato, che avrebbe guidato le scelte produttive ed impegnato gli imprenditori a incrementare la competitività e la produzione.

Importanti e decisive furono le iniziative intese a incoraggiare gli investimenti esteri. A questo fine furono istituite le “Zone ad economia speciale“, nel sud-est del Paese, nelle province del Guangdong e del Fujian, Zhuhai, Shenzhen, Shantou e Xiamen, seguite poi, nel 1988, dall’intera isola di Hainan elevata a provincia. In queste zone vennero previsti dei trattamenti preferenziali riservati agli stranieri che avevano intenzione di investire in Cina.

L’apertura verso l’estero e l’introduzione del libero mercato rappresentarono così il cardine del disegno politico voluto da Deng Xiaoping. La dottrina “un Paese, due sistemi”, consentì di giungere tra il 1984 e il 1987 agli accordi fra Pechino e Londra e fra Pechino e Lisbona per il ritorno di Hong Kong e Macao alla madrepatria rispettivamente nel 1997 e nel 1999.I due territori avrebbero avuto lo status di “zone economiche speciali” e un alto grado di autonomia e poteri legislativi e giudiziari indipendenti.

Le riforme messe in atto hanno portato a quella che lo stesso Deng Xiaoping definì “economia socialista di mercato” o “socialismo con caratteristiche cinesi”, una nuova struttura economica che combinava il socialismo, che reggeva la struttura amministrativa ed istituzionale, ad un sistema economico che prevedeva il libero mercato e il libero scambio.

Il concetto di Economia Socialista di Mercato fu portata avanti dai successori di Deng, e la Cina è entrata nel nuovo millennio come attore di primo piano nella politica internazionale. Addirittura nel 1997, il quindicesimo congresso del partito riconobbe l’importanza per l’economia cinese dell’impresa privata, fino ad allora considerata una forza secondaria rispetto alle aziende di stato. Infatti, sebbene le più grandi aziende cinesi siano ancora quelle controllate dallo stato, l’economia è stata trainata dalla crescita del settore privato. Per fare un esempio tra i tanti, secondo un recente rapporto di McKinsey la Cina ha dato vita a un terzo del numero globale di start up tecnologiche “unicorno” (aziende private valutate più di un miliardo di dollari).

Lo stesso Xi Jinping, attuale presidente della Repubblica Popolare Cinese, nel suo discorso in occasione del XIX Congresso del Partito Comunista Cinese, ha parlato esplicitamente di continuazione del processo di liberalizzazione dei cambi e dei tassi d’interesse, assicurando che “la porta della Cina è stata aperta e non sarà chiusa, ma si aprirà di più”.

Tuttavia, ombre si allungano sulla Cina: come in qualsiasi altro Paese caratterizzato da un potere centrale dittatoriale, anche lì è possibile vedere la mano dello Stato smorzare e reprimere le libertà dei cittadini, sia in ambito sociale che in ambito economico:

  • l’indipendenza futura del settore privato è fragile. Negli ultimi mesi il governo cinese ha effettuato un giro di vite su quegli imprenditori che sembrerebbero avviati a diventare degli oligarchi in stile russo. Ha inoltre cercato di frenare le acquisizioni all’estero, oltre che le attività delle principali aziende tecnologiche cinesi, come Alibaba e Tencent;
  • nel 1987, il tredicesimo congresso di partito aveva presentato un ambizioso programma di riforme politiche che secondo Zhao Ziyang, all’epoca Segretario Generale, erano finalizzate a rendere la dirigenza cinese più pluralistica, trasparente e responsabile (pur evitando la democrazia multipartitica, come imposto da Deng Xiaoping). Oggi assistiamo a un indebolimento della società civile dopo anni di repressione politica e ad un rafforzamento dell’autoritarismo. L’obiettivo delle riforme politiche all’interno del partito sembra esser stato soffocato dalla campagna anticorruzione di Xi, che ha effettuato purghe contro funzionari corrotti ma anche contro i suoi avversari politici;
  • nel 1997, il quindicesimo Congresso del Partito ha celebrato il passaggio della sovranità su Hong Kong dal Regno Unito alla Cina: il territorio sarebbe stato amministrato secondo la politica di “un Paese, due sistemi”. Nel 2012 e 2014 sono esplose delle proteste, confluite poi nel “movimento degli ombrelli” del 2014, che ha portato le lotte di Hong Kong all’attenzione del mondo. Eppure, in quegli anni il modello dei “due sistemi” sembrava solido. Oggi, invece, l’elemento più preoccupante della questione di Hong Kong è quanto sia diventato fragile questo stesso modello. Joshua Wong, giovane leader degli attivisti di Hong Kong nel periodo precedente al diciottesimo Congresso del Partito del 2012, oggi è un prigioniero politico. Carrie Lam, succeduta a C.Y. Leung nel ruolo di chief executive di Hong Kong dal luglio di quest’anno (scelta tramite una procedura pilotata in modo da fare emergere una figura gradita a Pechino) ha invitato a enfatizzare i temi patriottici nelle scuole locali. Xi ha chiarito che è determinato a fare tutto quel che potrà per minimizzare le differenze tra le modalità di governo di Hong Kong e quelle delle altre città.

In conclusione, è possibile affermare che l’attuazione di politiche liberiste, seppur molto annacquate dalla pervasiva presenza dello Stato nella vita pubblica, sia stata la principale causa del successo e della prosperità economica cinese. Consapevole che solo un’economia di mercato avrebbe portato allo sviluppo economico, Deng Xiaoping e i suoi successori hanno tacitamente sacrificato l’ideologia all’economia, mantenendo inalterati solo i meccanismi tipici dei regimi totalitari che consentirono a pochi uomini il controllo assoluto della Cina. Ma la prosperità economica non basta, e la Cina potrà definirsi veramente grande solo quando affronterà la “Quinta Modernizzazione”, tanto voluta da Wei Jingsheng e altri riformisti, e cioè la transizione del sistema politico cinese da un regime dittatoriale a una democrazia multi-partitica, nella quale i cittadini cinesi non siano semplici numeri asserviti alla macchina statale, ma uomini con diritti e libertà inalienabili.

A dispetto di quanto dicano molti nostalgici maoisti, la Cina non ha bisogno di una nuova Rivoluzione Culturale, volta alla dittatura del proletariato, ma piuttosto di una vera Rivoluzione Liberale.