L’orgoglio di essere borghesi secondo Sergio Ricossa

La crisi economico-finanziaria che si è abbattuta prima sugli Stati Uniti e poi sul Vecchio Continente ha avuto diverse ripercussioni globali, ma c’è però un aspetto che colpisce in maniera particolare. Da allora, gran parte della borghesia è scomparsa.

Scomparsa o quasi: il ceto medio è stato il più colpito dalla crisi e, a grandi numeri, si è andato a riposizionare in una fascia sociale inferiore. Dal 1990 al 2013, le persone sotto la soglia di povertà nel mondo sono passate da due miliardi a 767 milioni, cioè dal trentacinque per cento a poco più del dieci: a uscire “vincitori” dalla globalizzazione sembrerebbero dunque i più ricchi e i più poveri. E la borghesia? I perdenti sono le fasce intermedie che hanno perso il lavoro, il reddito, ma soprattutto lo status sociale. Ceto medio vuol dire anche borghesia e borghesia vuol dire anche ceto medio. In Straborghese, libricino di quarant’anni fa, Sergio Ricossa individuò – tra filosofia e goliardia, tra paradosso e polemica – le caratteristiche essenziali del borghese, un dinosauro semi-estinto al giorno d’oggi.

La borghesia, ovvero lo strato sociale entro cui il borghese interagisce, secondo Ricossa è un carattere; innato o da coltivare. Un atteggiamento e un’attitudine. «Non contano i soldi e la posizione sociale», spiega il professore torinese; «si può nascere mezzo borghesi in una famiglia contadina od operaia»: borghesi lo si è nell’anima/o, in sostanza.

L’essere borghesi è uno stile di vita: è l’individuo che, con personale etica e rigore, sceglie questa “modalità” per portare avanti i propri interessi. Nella sua vita il borghese sperimenta, crea, innova: cerca di migliorare l’ambiente attorno a sé e di migliorarsi interiormente; due elementi che renderanno le sue azioni più proficue. Insomma: fa di testa sua, tocca con mano, sperimenta, rischia.

Ricossa mette in guardia chiunque voglia diventare borghese, perché «la borghesia trasforma la vita in una continua competizione». È dunque chiaro che il borghese sia un essere irrequieto: non è calmo, non conosce riposo.

«Il borghese è essenzialmente chi vuole farsi da sé.» Colui che crede nel libero mercato e nella libera competizione tra gli individui, animati dalla voglia di fare, produrre ed inventare.

Il borghese lo si riconosce per l’individualismo, «lo spirito di indipendenza, l’anticonformismo, l’orgoglio e l’ambizione, la volontà di emergere, la tenacia, la voglia di competere, il senso critico, il gusto della vita.» “Gusto della vita” che non vuol dire sprecare o scialacquare le risorse a propria disposizione (il borghese ha rispetto del denaro); «la borghesia odia […] che si sprechi anche solo una briciola.» Specialmente perché sa quanto ci vuole per guadagnarsi ogni singolo centesimo. Il borghese è l’homo ludens, «cioè chi ama vincere, in gara con gli altri o con se stesso.»

Continua Ricossa: «il borghese ha fede in se stesso e poco altro», non si fida molto degli altri, tuttavia non è sospettoso di principio e soprattutto non è in malafede.

Egli «si studia intensamente, si conosce senza ipocrisie, vede le sue debolezze.» Non mente di fronte allo specchio. Il borghese non “si” racconta bugie: cerca di non essere ipocrita – aborrisce l’ipocrisia imperante nella società dei teatrini e dei costumi delle (finte) “buone maniere” –; ha dunque ha un “suo” orgoglio.

Il borghese «morirebbe di fame pur di non chiedere l’elemosina. Perciò il mendicante non lo impietosisce oltremisura» così come «il fallimento altrui non lo disturba» più di tanto. Ben lontano dall’immagine dell’egoismo che gli viene affibbiata dagli invidiosi di turno, il borghese basa la propria etica e convinzione eco-social-politica «sulla responsabilità individuale, sulla colpa individuale e sulla punizione individuale». Il borghese si autoregola ed ha un forte senso del dovere: sa che ad ogni azione o parola corrisponde inevitabilmente una conseguenza; e non fa finta di credere che non sia così.

Il borghese riconosce ed ama il rischio: di far successo e di fallire dopo tanto lavoro, «ma disprezza chi è avanti senza merito, per privilegio, o chi dà via l’indipendenza per avere protezione». In soldoni: adora la meritocrazia e cerca di promuoverla; forte è il suo disprezzo per ciò che è immeritato.

Il borghese «giustifica la sua avidità col merito individuale, [mentre] il collettivista deve inventare il merito collettivo, di razza, di nazionalità, di classe, di corporazione». Il borghese non è razzista, perché non crea classi: crede solo nell’uomo e nel suo potenziale individuale a discapito dello stato sociale, della religione, dell’etnia, del credo politico. Contrariamente a quanto è stato predicato per anni, specialmente a sinistra, il borghese non ha buoni rapporti con l’aristocrazia. Il borghese non è un aristocratico. De facto, non sopporta la nobiltà; l’aristocrazia, dal canto suo, disprezza il borghese perché ha paura di essere spodestata dall’operosità di chi fa la gavetta.

Il borghese è tirchio ed avido? Nient’affatto! A parte che crede nel merito individuale, egli «sente poco la solidarietà in generale, perché pensa che se egli si fa da sé, senza aiuti, tutti debbano farsi da sé. Lottatore, nega tuttavia la “lotta di classe”». Il borghese è un solitario, individualista; «si trova aggredito da ogni parte. Non ha alleati fuori della famiglia, fuori da una piccola cerchia di amici.» Per questo è totalmente un individuo a sé: fondamentalmente è solo.

Il borghese crede nel miglioramento individuale; non è bellicoso e pertanto non è marxisticamente invidioso di chi ha più di lui. «Il borghese è scarsamente missionario: la gente faccia quel che vuole, purché non dia fastidio.» Secondo lui, la tanto celebrata “gente” deve essere quanto più diversificata; gli individui sono tutti diversi ed eterogenei.

Il borghese spende liberamente il danaro che si è conquistato con fatica e sudore, senza dover rendere conto a nessuno; «non agli invidiosi, non ai conformisti, non ai filistei, non agli innumerevoli che pretenderebbero di vivere alle sue spalle.» Inoltre, il borghese pensa che il mercato debba essere fondato sul laissez-faire; un sistema molto democratico per la conquista individuale dei beni: molto più “equo” ed efficiente di uno Stato-imprenditore assistenzialista che concede il razionamento al suddito.

Il borghese, ovviamente, disprezza la burocrazia improduttiva: in questo senso, per lui lo Stato non esiste più di tanto e deve fare poco; tra cui regolare la sicurezza e amministrare la giustizia. Infine, «non è vero che tutti i lavoratori abbiano i medesimi interessi e che il sindacato tuteli gl’interessi di tutti i lavoratori. Un contratto collettivo di lavoro, che trattando tutti allo stesso modo indiscriminato favorisce di fatto i meno produttivi, danneggia i più produttivi.» Il borghese, lo stra-borghese di Sergio Ricossa, conosce e predilige la libertà all’uguaglianza.

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

Modello a capitalizzazione o a ripartizione? Come funziona un sistema pensionistico equo

La truffa del sistema pensionistico italiano

In Italia pensiamo che alla fine della nostra vita lavorativa lo Stato benevolo ci restituirà parte delle tasse che abbiamo versato (i contributi) sotto forma di pensioni… grave errore! In realtà lo Stato, che è tutto fuorché benevolo, rischia di non restituire agli italiani un bel niente, a causa del crollo demografico e della natura stessa del nostro sistema pensionistico, contributivo a ripartizione.

Siamo quindi spacciati? A noi giovani toccherà lavorare fino alla tomba? Beh una via di salvezza c’è – ma ovviamente la soluzione verrà dal mercato, non dallo Stato. Si tratta di cambiare il sistema pensionistico verso un modello a capitalizzazione: ossia un sistema dove i contributi che noi lavoratori versiamo finiscono in fondi pensione privati, che li investono e generano dei rendimenti. Questi rendimenti si sommeranno ai contributi versati, permettendo all’individuo di accrescere la propria ricchezza nel corso degli anni. 

Un’obiezione classica ai sistemi pensionistici privati è che investire in un fondo rende il futuro pensionato soggetto al rischio di non percepire la pensione, o di percepirla in una percentuale minore, qualora il fondo fallisca o effettui investimenti errati. 

Quello che quasi tutti dimenticano di spiegare è che anche la pensione erogata dallo Stato sottintende un rischio. Prendiamo il caso dell’Italia. Il nostro Paese ha conti pubblici distrutti da anni di mala gestione finanziaria ed è in profonda crisi demografica (sempre più anziani e sempre meno giovani): quante volte sono stati cambiati i requisiti per andare in pensione negli ultimi decenni? E quante volte perfino gli importi sono stati modificati? Come possiamo fidarci che un giorno restituirà ai lavoratori, soprattutto ai più giovani, quanto versato?

Il sistema a capitalizzazione permette di scegliere…

La differenza tra i due rischi corsi dal contribuente è che il singolo individuo ha molto più controllo sul successo di un investimento privato rispetto a quello che ha sugli andamenti demografici e finanziari di uno Stato. Inoltre, diversificare il proprio portafoglio, scegliendo più fondi pensione o più investimenti, è una strategia che può permettere una diminuzione sostanziale del rischio. Introdurre un sistema del genere genererebbe una responsabilizzazione dei cittadini, che dovrebbero scegliere oculatamente come investire i propri soldi e, per farlo, si impegnerebbero a migliorare la propria alfabetizzazione economica.

Stiamo parlando di dare alle persone la libertà di scegliere. Scegliere quanto, dove e come investire. Scegliere quando uscire dal mondo del lavoro. Si tratta di essere liberi di fare ciò che si ritiene più opportuno per la propria vita. Non credo che, potendo scegliere, gli italiani investirebbero in Alitalia; eppure questo è ciò che fa puntualmente il governo con le tasse dei cittadini. Perché non dovremmo essere noi a scegliere per noi stessi?

Lo statalista di turno potrebbe obiettare che in questo sistema verrebbero penalizzate le categorie a basso e bassissimo reddito. Ma è un’obiezione facilmente smontabile: per queste categorie potrebbe rimanere una pensione minima erogata dallo Stato, similmente a quanto accade ora, finanziata con le tasse dei cittadini. 

…mentre il sistema a ripartizione finisce per creare inequità e distorsioni

José Pinera, economista cileno responsabile di una riforma pensionistica fondamentale per il suo Paese (e che approfondiremo in uno dei nostri prossimi articoli), definiva il sistema “pay as you go”, come quello italiano odierno, “un sistema innegabilmente regressivo, che blocca i lavoratori più poveri nella fascia inferiore dello schema piramidale, aumentando i privilegi per i lavoratori più politicamente potenti e più ricchi che si trovano più in alto”. Questo perché i lavoratori più poveri, nonostante entrino nel mondo del lavoro in età più giovane, ricevono comunque un semplice assegno minimo e non possono ambire a riceverne uno più sostanzioso. E per quanto riguarda i privilegi per i lavoratori politicamente potenti, in Italia abbiamo l’esempio perfetto: le baby pensioni, costruite per favorire i dipendenti pubblici a scapito di tutti gli altri (vedi immagine sottostante). 

Come si può considerare equo un sistema del genere?

Affermare che in un sistema pensionistico a capitalizzazione non possa esistere una rete di protezione dei più poveri è una menzogna buona solo per mantenere il consenso delle fasce di popolazione meno abbienti.

La nostra vita, il nostro lavoro e, in ultima istanza, la nostra pensione devono dipendere in massima parte dalla responsabilità individuale; dobbiamo rifiutare il paternalismo di chi crede di sapere cosa è meglio per noi, salvo poi buttare puntualmente i nostri soldi (vedi Alitalia e simili). Impegnarsi per far rendere al meglio il frutto del nostro sudore è una battaglia di civiltà, ancor prima che di libertà.

a cura di:

Leonardo Accardi;

Gianmaria Dinaro;

Tommaso Caruti;

Francesco Chevallard.

Perché non sarai mai ricco se hai una mentalità socialista

Tra Filosofia e Comportamento

Prima di leggere è bene spiegare che nell’articolo non si andrà ad indagare su quelle che sono le ideologie, le dottrine o i pensieri degli esponenti delle diverse correnti, ma si andrà a valutare il comportamento delle persone, le loro scelte di vita e quindi la loro mentalità.

Mentalità Socialista ed Ideologia Socialista

Bisogna mettere in chiaro che avere una mentalità socialista è ben diverso da essere socialista. L’ideologia politica, purtroppo o per fortuna, non sempre combacia con la mentalità che si ha. Questo per via dell’ignoranza della popolazione sulle grandi dottrine economiche oppure perché si crede romanticamente a un’idea, salvo poi avere una mentalità totalmente diversa nella pratica.

Pertanto, esistono comunisti e socialisti con una mentalità individualista e liberali con una mentalità socialista, sebbene questi ultimi siano un po’ più difficili da trovare.

Cos’è la Mentalità Socialista?

La mentalità socialista si distingue dalla mentalità individualista per la responsabilità. Una persona dalla mentalità socialista tende a spostare verso l’esterno le cause dei mali che egli vive, delle condizioni in cui versa. Chi ha una mentalità socialista dà la colpa allo Stato, chiede più Stato o chiede che sia lo Stato ad occuparsi di lui.

Una persona con una tale mentalità la riconoscete perché tende con facilità a scaricare la responsabilità verso terzi, ad autoassolversi da ogni responsabilità. Egli è vittima delle circostanze, spesso perché dimenticato dalle istituzioni, come ama ripetersi.

Chi condivide la mentalità socialista ha sempre bisogno di qualcosa o qualcuno che si debba occupare di lui, il perenne bisogno di un padre che risolva i suoi problemi e lo salvi dalle sue disgrazie.

Con questa definizione riusciamo subito a capire che molti imprenditori hanno una mentalità socialista, ossia aprono un negozio/impresa o una partita Iva per crearsi un lavoro libero da “padrone”, si assumono responsabilità da imprenditore, ma poi sono pronti a scaricare ogni responsabilità se le cose vanno male (la crisi, lo stato, i cinesi, l’Europa, le tasse etc..) con una perenne aria di vittimismo.

La mentalità socialista è parte integrante della società italiana. La potete trovare anche in coloro che si professano anticomunisti, specie in quelli più aggressivi che attaccano direttamente i comunisti non risparmiando insulti, salvo poi essere, molte volte, più comunisti dei comunisti stessi. Ma anche tra sedicenti liberali c’è una forte mentalità socialista ed ora sapete come individuarla con facilità.

I politici sono i primi a diffondere questa mentalità scaricando le proprie colpe sull’Europa, l’Euro e gli altri Paesi, piuttosto che assumersi la responsabilità delle scelte fatte fino a quel momento. Scaricare la propria responsabilità su terzi è da una parte comodo e dall’altra parte un po’ da codardi.

I partiti socialisti (o comunisti) sono soliti prendersela con gli imprenditori, senza capire che la gran parte del tessuto imprenditoriale italiano ha una mentalità socialista. Non è il lavoro che si svolge o il partito a cui si è iscritti a determinate il tipo di mentalità che si ha.

La Mentalità Individualista

Dalla parte opposta dello spettro c’è la mentalità individualista. Essa, innanzitutto, si distingue dall’egoismo, pertanto è bene fare una prima distinzione. Chi è egoista pensa solo alla soddisfazione del sé. La soddisfazione del sé non è un atto di responsabilità, ma piuttosto la ricerca di un vantaggio che sia solo a proprio beneficio o della cerchia più ristretta.

Pertanto l’egoista potrebbe anche avere una mentalità socialista, basti pensare a quegli imprenditori che chiedono aiuti allo Stato, per poi evadere o sfruttare il lavoro in nero per pagare il meno possibile i propri operai, oppure a quegli imprenditori che si battono per evitare di far aprire concorrenti nella loro zona d’influenza chiedendo allo Stato maggiori regolamentazioni a danno dei consumatori, ma a loro preciso beneficio.

Dall’altro lato sono molti gli esempi, invece, di individualisti (o capitalisti come vengono definiti dai più) che hanno donato milioni a fondazioni benefiche o hanno costruito ospedali e scuole in luoghi disastrati[1].

La mentalità individualista si contrappone alla mentalità socialista per il suo approccio alla responsabilità. Mentre la mentalità socialista scarica verso l’esterno la responsabilità, la mentalità individualista si assume la responsabilità delle sue scelte e delle conseguenti condizioni.

Non importa quanto sia svantaggiata la sua condizione di partenza o gli effetti che le sue scelte abbiano provocato, chi ha una mentalità individualista cerca un modo per migliorare la propria vita assumendosi la responsabilità della sua futura condizione o dei problemi che egli stesso ha creato, anche se ciò comporta immani sacrifici.

Condizione di Partenza e Paese d’origine

Se parliamo di solo successo economico, è chiaro che il Paese di origine possa influenzare molto le possibilità di ottenerlo, non a caso nei paesi più liberali e liberisti diventare/essere ricchi è più facile, rispetto ai paesi più socialisti e meno aperti al libero mercato.

Un’eccezione è costituita dalla Cina, che sebbene non sia liberale è comunque liberista. Un secondo fattore che può influenzare il successo è la condizione di partenza, è chiaro che chi ha una famiglia più agiata abbia meno difficoltà, ma è davvero così? Uno studio rivela che il 78% dei nuovi milionari è partito da una condizione di povertà o di classe media[2].

Mentalità Individualista Vs Mentalità Socialista

Essere consci che si è artefici del proprio destino è il primo passo per poter migliorare la propria vita. Riflettete, perché una persona, il cui pensiero è che le cose non possano cambiare perché dipendono dall’esterno, dovrebbe mai impegnarsi in qualcosa?

Sarebbe uno sforzo inutile, al pari di voler abbattere una sequoia secolare a mani nude. Perché una persona in sovrappeso, che pensa che siano le sue “ossa grosse” a farlo essere in sovrappeso, dovrebbe mai impegnarsi per andare in palestra o a correre?

Perché una persona povera, il cui pensiero è quello che lo Stato debba prendersi cura di lui, e che se è povero è solo colpa dello Stato, dovrebbe mai impegnarsi per migliorare la sua condizione economica?

Una persona con una mentalità individualista, invece, sa che la sua vita dipende maggiormente dalle sue scelte, tutto dipende dalle sue azioni, ecco che quindi si opera per migliorare la propria condizione. Alla fine, se siamo principalmente noi artefici del nostro destino, è meglio muoversi fin da subito.

Ovviamente è molto difficile trovare una persona con una mentalità totalmente socialista o totalmente individualista, il più delle volte si tende da una parte o dall’altra.

In conclusione, voi che tipo di mentalità avete? Tendete ad assumervi la responsabilità individuale delle vostre scelte oppure a scaricarla sugli altri?

 

 

[1] – https://www.businessinsider.com/most-generous-people-in-the-world-2015-10?IR=T
[2] – https://millionairefoundry.com/millionaire-statistics/

Il curioso caso del capitalismo (nord)coreano

Se mai arriverà il giorno in cui i cittadini della Corea del Nord conosceranno libertà, prosperità e modernità, probabilmente non sarà grazie ad un dittatore illuminato, ad una rivoluzione violenta o ai missili americani. La loro salvezza, infatti, potrebbe provenire dalla più improbabile delle direzioni: questo è il curioso caso del capitalismo nordcoreano.

Con tutta probabilità, quando si pensa alla Corea del Nord la prima cosa che viene in mente è il suo programma nucleare, non le sue fiorenti attività imprenditoriali. Tuttavia, lentamente ma inesorabilmente, le cose stanno cambiando.

Soprattutto negli ultimi anni, il regime dei Kim sembra aver cambiato idea sulla desiderabilità dello shopping e della libera iniziativa: oggi, infatti, il Paese conta ben 436 imprese private, che fruttano circa 60 milioni di dollari in tasse al governo nordcoreano[1].

Carestia e mercato nero

Naturalmente, questo nuovo atteggiamento del regime verso il capitalismo non nasce dal nulla, e di certo non dalla bontà personale di Kim Jong-un.

In passato, era lo Stato a provvedere ai bisogni della popolazione, ridistribuendo i prodotti della sua economia ai cittadini tramite un “Public Distribution System”, o PDS[2]. Per un certo periodo, grazie soprattutto agli aiuti economici dell’URSS, il sistema funzionò. Questo, fino agli anni Novanta.

Il disastro umanitario che colpì il Paese dal 1994 al 1998 non ha bisogno di molte descrizioni. La perdita degli aiuti sovietici, unita ad una serie d’inondazioni e ad una grave siccità, condannò dai due ai tre milioni di nordcoreani alla morte per carestia[3]. Il PDS crollò, ed il regime dei Kim non poté, o non volle, venire in aiuto dei suoi cittadini.

Il bilancio sarebbe stato ancora più devastante, se non fosse stato per il mercato nero: lasciati da soli, i cittadini nordcoreani riuscirono a sopravvivere, tramite lo scambio di beni e servizi in mercati clandestini (su cui comunque il governo chiuse un occhio, comprendendo quanto fossero necessari)[4].

Alla lunga, però, il volume delle transazioni all’interno di questi mercati raggiunse dimensioni tali che il regime comunista non poté più far finta d’ignorarle; bisogna poi considerare che, dopo i disastrosi anni Novanta, la produzione agricola non si è mai veramente ripresa.

Il regime, quindi, si trovò davanti ad una scelta: restare fedele ai principi della Juche (comunismo di stampo nordcoreano), e di conseguenza eliminare con la forza questi mercati illegali, oppure venire a patti con la situazione.

Dato che la prima opzione avrebbe privato di qualsiasi mezzo di sopravvivenza gran parte della popolazione, portando potenzialmente il Paese (e quindi il regime) al collasso, Kim Jong-il (il dittatore di allora) scelse la seconda opzione: a partire dal 2002-2003, il governo ha regolarizzato alcuni di questi mercati originariamente clandestini[5].

Shopping a Pyongyang

Oggi, a quasi trent’anni dalla tragedia umanitaria che ha fatto da grimaldello per l’ingresso del capitalismo nel Paese, la Corea del Nord è un’economia ricca di sfumature, ben più complicata di quanto si ritiene nell’immaginario popolare.

Certo, in linea di massima il Paese è quello che il grande pubblico conosce attraverso i media: una nazione governata da un regime totalitario, un’economia pianificata dove tutto, dai salari ai prezzi, è deciso dallo Stato. Ma c’è anche di più.

Infatti, sebbene ufficialmente tanto la proprietà privata quanto il commercio siano illegali in Corea del Nord, in realtà il capitalismo permea l’intera società, dai più poveri dei contadini fino agli alti esponenti del regime. I primi cercano solo di sopravvivere, i secondi desiderano standard di vita più alti, ma entrambi per raggiungere il loro obiettivo ricorrono al capitalismo.

Fra i ceti medio-bassi, per esempio, è prassi comune che gli uomini abbiano un impiego statale, mentre le donne sposate hanno la possibilità di registrarsi come “casalinghe a tempo pieno”. Sembra controintuitivo, ma proprio per questo spesso le donne sposate guadagnano molto di più dei loro mariti. Com’è possibile?

Proprio in quanto esentate dall’impiego statale, queste donne sono libere di avviare un’attività in proprio. Per la maggior parte si tratta d’imprese molto piccole, coinvolte nella vendita di street-food o di beni importati come sigarette russe o birra cinese[6].

Sebbene si tratti di attività commerciali piuttosto modeste, sono sufficienti per garantire alle donne sposate guadagni diverse volte superiori a quelli dei loro mariti. Proprio per questo loro peso economico, le donne in Corea del Nord godono di diritti che non ci si aspetterebbe di ritrovare in un Paese simile[7].

Persino fra i ranghi dell’amministrazione statale, molti dirigenti pubblici, per necessità o per guadagno personale, si sono improvvisati imprenditori. In Corea del Nord, infatti, anche il settore pubblico si ritrova spesso senza finanziamenti adeguati da parte del governo, e di conseguenza è costretto a trovare fondi in un altro modo.

Per questo, non di rado chiunque goda di una posizione di potere all’interno dell’apparato statale usa la propria influenza per avviare un’attività, talvolta persino utilizzando le Forze Armate come manodopera a basso costo[8].

In questo modo è possibile diventare molto ricchi, anche per gli standard occidentali. Oggi, in Corea del Nord, si è formata così una nuova élite, che comprende questi funzionari/imprenditori e le loro famiglie.

Mentre la maggior parte della popolazione vive ad un passo dalla povertà estrema, questi pochi privilegiati guidano auto di lusso, possiedono smartphone ed affollano le strade ed i negozi della “Pyongyang bene”, che alcuni definiscono ironicamente “la Dubai della Corea del Nord”[9].

Un altro esempio molto interessante di come il regime dei Kim sia venuto a patti con la nuova situazione è la “August 3rd Rule”. In base a questa legge, esiste la possibilità per un cittadino nordcoreano di essere esonerato dal proprio impiego statale, a patto di versare una quota mensile di 50000 Won (circa 7 dollari) al governo[10].

In questo modo, il cittadino è libero di dedicarsi ad una propria attività, i cui guadagni (grazie alla August 3rd Rule, che quindi costituisce una vera e propria tassa) andranno a beneficiare anche il regime.

Un futuro migliore?

Quello della Corea del Nord non è certo il primo caso di un Paese comunista che, prima o poi, ha dovuto concedere maggiore libertà economica ai suoi cittadini per sopravvivere. Questo è già successo nell’Unione Sovietica, in Cina, in Vietnam, con diversi livelli di successo.

In alcuni casi, come in Cina, il regime comunista è riuscito a prosperare grazie alla ricchezza generata da un’economia più competitiva, ed allo stesso tempo a salvaguardare la propria stabilità (ancora oggi, sebbene moltissimo sia cambiato dai tempi di Mao, il PCC resta saldamente al potere).

In altri casi, come nell’Unione Sovietica, la maggiore libertà economica ha agito da grimaldello per le rivendicazioni politiche della popolazione: una volta in grado di comparare il loro stile di vita con quello dei Paesi dall’altro lato della Cortina di Ferro, i cittadini sovietici hanno iniziato a protestare contro il loro governo, ed il resto è storia.

Al momento è difficile, se non impossibile, determinare quale strada seguirà la Corea del Nord. Alla fine, il regime dei Kim potrebbe riuscire ad incanalare queste nuove forze a suo vantaggio, stabilendo un capitalismo di Stato simile a quello cinese.

In alternativa, come prospettato all’inizio dell’articolo, alle liberalizzazioni economiche potrebbero seguire quelle politiche, fino alla caduta più o meno pacifica del regime comunista. Ad oggi, tutto è possibile.

Tuttavia, già adesso è possibile trarre una lezione dal curioso caso del capitalismo nordcoreano, vale a dire la resilienza del capitalismo stesso.

Nell’Unione Sovietica, con tutte le risorse umane e materiali a sua disposizione, il comunismo è sopravvissuto meno di settant’anni. In Corea del Nord, neanche uno degli ultimi regimi totalitari esistenti è riuscito ad impedire il naturale sviluppo del sistema capitalistico.

[1]https://www.google.com/amp/s/qz.com/1370347/capitalism-in-north-korea-private-markets-bring-in-57-million-a-year/amp/

[2][4][5]https://beyondparallel.csis.org/markets-private-economy-capitalism-north-korea/

[3]https://www.nytimes.com/1999/08/20/world/korean-famine-toll-more-than-2-million.html

[6][7][8][9]https://youtu.be/YDvXOHjV4UM

[10]https://books.google.it/books?id=l-1pBgAAQBAJ&pg=PA27&lpg=PA27&dq=august+3rd+rule+north+korea&source=bl&ots=16iNGhlmYu&sig=ACfU3U0hqqbY08qYuxtUTztpXjvaZ1BWXQ&hl=en&sa=X&ved=2ahUKEwj1tKeHnpDqAhX68KYKHfQWB9UQ6AEwC3oECAEQAQ#v=onepage&q=august%203rd%20rule%20north%20korea&f=false

Il revisionismo iconoclasta: siete uomini o bestie infantili?

La morte di George Floyd ci consente di riflettere sull’incapacità di alcune persone di metabolizzare il nostro passato, un’opportunità di osservare ancora una volta il lato oscuro della nostra natura umana.

Se egli in vita è stato infatti vittima dell’abuso di potere, in morte è oggetto di sfruttamento da parte della giustizia morale promossa dalla distorta cultura marxista della lotta di classe.

Guardate a tal proposito chi sono i nuovi bersagli della furia dei manifestanti, ovvero delle decisioni emotive di alcune imprese: si spazia da personaggi storici come Frank Rizzo, il generale Lee e le statue dei soldati confederati, Colombo, Churchill, Cecil Rhodes, Francis Drake, Gandhi, Vittorio Emanuele II, Montanelli ecc, a film come “Via col Vento”, cartoni di Pippo e Paperino, piuttosto che dolciumi come i cioccolatini moretti.

Che cosa c’entra tutto questo con la morte di un afroamericano? Meno di zero.

La verità è che dell’uomo chiamato George Floyd non gliene frega più niente a nessuno; il dibattitto – come sempre accade – trascende il singolo episodio per spostarsi ai temi dei massimi sistemi, agli scontri tra civiltà e barbarie contro cui chiunque non solo si ritenga essere umano (e quindi uomo di civiltà e coscienza): il revisionismo storico fondato sulla morale contemporanea.

Statue, film, documenti ecc non sono solo cose, ma bensì le testimonianze del nostro passato, di quello che è il nostro retaggio culturale e l’evoluzione della società che noi costituiamo.

La violenza della distruzione e della censura è una minaccia per ognuno di noi e il progresso della nostra civiltà, un nuovo “terrore”, una nuova damnatio memoriae, un’operazione totalitaria (Cesario, Atlantico – 11/06/2020) figlia della confusione tra metodo di studio e diritto d’opinione, un errore questo così rilevante che su di esso si è implicitamente espresso uno dei nostri massimi esponenti nel suo (forse) più importante testo: Ludwig Von Mises in Human Action.

Appoggiare tale revisionismo significa voler ignorare tre questioni fondamentali:

1) cos’è la storia;
2) la metodologia rispetto ad essa;
3) la distinzione tra comprensione e approvazione, ovvero giustificazione.

La storia non è una scienza, ma bensì la disciplina che raccoglie e riordina tutti i dati dell’esperienza relativa all’azione umana, dalla quale è infatti scritta; dunque essa considera quelli che sono gli atti e fatti dovuti alla nostra scelta dei mezzi con cui perseguire le nostre finalità.

Tuttavia, tale decisione è in realtà condizionata da due fattori: eredità e ambiente.

Ogni nostra azione (dalla più semplice scelta di cosa mangiare, al come relazionarci con le altre persone) dipende infatti sia dalle “qualità biologiche” ereditate dalla nostra famiglia che dall’influenza esercitata dall’ambiente che ci circonda: ognuno di noi non vive come uomo in abstracto, ma bensì come figlio della sua famiglia, della sua razza, del suo popolo e della sua età […] come seguace di talune idee (pur potendo farsene di proprie totalmente nuove).

Cosa c’entra tutto questo con il revisionismo e la furia iconoclasta? C’entra il fatto che sono proprio le nostre radici (e quindi il nostro futuro) ad esserne minacciate da tale agire.

Il compito della storia è di mostrare quanto è accaduto in passato, consentendoci di divenire più saggi e giudiziosi nonostante l’impossibilità a priori di avere resoconti fedeli, completi e imparziali dei fatti.

Lo studio del passato si avvale infatti di tutti gli strumenti forniti dalle scienze sociali e naturali, ma nel momento in cui si giunge ai c.d. “dati ultimi” ( cioè non spiegabili dall’odierno stato della tecnica) ecco subentrare il giudizio di valore dello storico che è si condizionato dalla sua formazione ed idee, ma si tratta pur sempre di mera discrezionalità tecnica, non morale!

Nei testi di storia non vi è mai una corretta rappresentazione integrale e approfondita di ogni singolo fatto, poiché uno storico non riporta i fatti come sono accaduti, ma bensì seleziona questo insieme di altrui giudizi di valore sulla base della sua visione del mondo: lo storico non agisce sulla base di pregiudizi, ma puntando ad acquisire la conoscenza (fine ultimo della ricerca).
Chi considera gli eventi come arsenale di armi per esprimere la propria ostilità di parte con l’esclusione di tutto ciò che non accetta, è un mero apologeta, un semplice pappagallo al servizio della propaganda della corrente di turno.

E questo vale tanto per l’accademia che per noi poveri mortali profani nella nostra vita di ogni giorno!

Perché? Perché distruggere, censura e/o revisionare la storia significa non volerla studiare nell’unico modo corretto per farlo: la comprensione.

Attenzione però: il significato delle parole di scienza e accademia non coincide necessariamente con quello che ordinariamente intendiamo; e questo è proprio uno di quei casi.

La storia è una catena di eventi dalle caratteristiche specifiche uniche e individuali; volerla conoscere significa apprendere, analizzare e accertare che un individuo (ovvero un gruppo) è stato impegnato in una data azione che discende da certi giudizi di valore e da scelte che mirano al conseguimento di determinati fini.

Tradotto? Comprendere significa acquisire delle informazioni (specie quelle di contesto) senza travisarle, modificarle o ometterle in forza di qualsivoglia giudizio morale o etico!

Comprendere non è sinonimo di giustificare, sminuire o esaltare i fatti!
Se vogliamo conoscere il passato dobbiamo allora accettare che un evento storico non può essere descritto senza riferimento alle persone coinvolte, al luogo e alla data in cui esso avviene, per quanto poi questo ci possa portare a dare dei giudizi negativi delle vicende esaminate: dobbiamo accettare che le metriche di giudizio non sono uguali nei secoli!

È infatti diritto di ognuno di noi avere un’opinione su un determinato personaggio o vicenda, nessuno può pretendere che la comprensione storica produca risultati che debbano essere accettati da tutti gli uomini (Mises, p. 101); tuttavia questo non legittima distruzione, distorsione e violenza contro persone ed oggetti: la storia non la si apprende solo sui libri, ma anche dallo studio dei resti, dall’ascolto delle testimonianze orali, dalla visione di opere e monumenti.

La storia può essere riscritta solo se vi è stato un aggiornamento di quelle tecniche delle scienze naturali e sociali che utilizziamo per studiare gli eventi; il resto è solo un tentativo di damnatio memorie, un’attività simbolo dei periodi più bui della nostra civiltà con cui:

1) si vuole negare ciò che siamo stati (vi ricordate del processo di innocentizzazione di Zeno?);

2) rigettiamo la natura umana stessa e la sua debolezza: nella nostra mente vi sono tutti i sentimenti umani; tutti noi abbiamo una componente razzista, omofoba, avversa al diverso ecc. Ciò che ci differenzia è quale lato scegliamo di far emergere, una possibilità condizionata anche dal contesto ambientale (lo stato della tecnica di oggi è quello di 600 anni fa?);

3) si commette a propria volta un atto di razzismo/negazionismo/autoritarismo verso ciò che reputiamo tale: l’unica cosa che cambia è il bersaglio, mentre i nostri sensi di colpa sono annichiliti dal nostro presunto senso di superiorità morale che nessuno di noi avrà mai.

Decidere la storia attraverso il giudizio morale è sbagliato e pericoloso, nonché ipocrita e senza una fine: oggi noi siamo giudici, domani saremo i giudicati.
La morale è figlia del tempo e dei pensieri di parte: lasciarla andare fuori controllo significa impedire qualsiasi progressione, condannandoci ad un eterno e stagnante presente, figlio della regressione che da tali atti scaturisce, così descritto da Orwell in 1984:

Ogni disco è stato distrutto o falsificato, ogni libro è stato riscritto, ogni immagine è stata ridipinta, ogni statua e ogni edificio è stato rinominato, ogni data è stata modificata. E il processo continua giorno per giorno e minuto per minuto. La storia si è fermata. Nulla esiste tranne il presente senza fine in cui il Partito ha sempre ragione.”

Perché tali parole?
Perché la verità di fondo è che nessuno di noi può reputarsi onnisciente: siamo tutti degli esseri imperfetti, con colpe e responsabilità che se non lo sono considerate oggi, lo saranno dai nostri discendenti domani che invero avranno perso la possibilità di conoscere correttamente ciò che siamo stati, anche negli aspetti più brutali.
Volete un esempio della pericolosità di tale processo? Giusto per citare alcuni personaggi:

  • Marx ed Engels erano omofobi e sessisti;
  • Keynes era un bissessuale pedofilo;
  • Dante avrebbe espresso (secondo alcuni) sentimenti antisemiti e islamofobi nella Divina Commedia;
  • Aristotele riteneva la schiavitù una legge naturale, scrivendo frasi come “è evidente che taluni sono per natura liberi, altri, schiavi, e che per costoro è giusto essere schiavi”(Politica, Libro I);
  • Voltaire e Wagner erano antisemiti;
  • Gramsci considerava il jazz “musica da negri”

Vogliamo passare ai monumenti? Ok: siete pronti a perdere qualsiasi resto della civiltà romana?
Pensate alla sola area di Roma che si estende tra l’Anfiteatro Flavio e Piazza Venezia: nel Colosseo sono morte migliaia di persone (gladiatori, schiavi, cristiani ecc) per divertimenti che oggi consideriamo barbari; la Colonna Traiana mostra la conquista della Dacia da parte di Traiano, con i vinti raffigurati in catene; l’Altare della Patria celebra la carneficina della I° Guerra Mondiale (non sarebbe forse offensivo per austriaci e tedeschi?), mentre Palazzo Venezia con il balcone di Mussolini è lì davanti. Eppure sono ancora tutti lì.

Dunque lo capite ora che la furia iconoclasta della giustizia morale non risparmia niente e nessuno? Che nessuno di noi è moralmente superiore per fare ciò?
Lo sapevate che se durante la Rivoluzione francese furono distrutte 28 statue di re biblici a Notre Dame perché scambiati per re di Francia, oggi nell’assalto alla statua di Churchill vi era chi sbandierava bandiere con la faccia del terrorista omofobo Ernesto Guevara della Sierna, alias Il Che?

Lo capite quindi che abbattere monumenti, distruggere libri o rimuovere film e serie tv (a quanto pare vogliono rimuovere persino la serie tv Hazzard per l’ambientazione sudista) è regressivo e pericoloso, nonché demenziale e pretestuoso?

Come si è passati infatti dalle statue di Colombo e Churchill ad attaccare la Kellog’s perché i Rice Krispies hanno tre ragazzi bianchi a rappresentare il marchio mentre i Coco Pops hanno una scimmia ?

Invero cosa differenzia tali azioni da quella dei talebani contro i Buddha di Bamiyan, dei terroristi dell’ISIS contro le rovine di Ninive, Nimrud e Palmira, ovvero del regime di Hitler nel tracciare la falsa storia della superiorità ariana?
La mera convinzione dell’essere nel giusto secondo la propria visione valoriale? È davvero questa la differenza legittimante? Loro cattivi, noi no?

La storia deve essere studiata, perché solo così possiamo comprendere ciò che eravamo e siamo divenuti; in tal senso Mises ci indica due aspetti metodologici fondamentali:

1) un evento storico non può essere descritto senza riferimento alle persone coinvolte, al luogo e alla data in cui esso avviene, altrimenti sarebbe qualcosa che ricade nell’ambito oggettivo delle scienze naturali;

2) lo scontro di gruppi in conflitto può essere trattato dal punto di vista delle idee, dei motivi e degli scopi che determinano gli atti dell’una e dell’altra parte […] per comprendere le loro azioni, lo storico deve tuttavia tentare di vedere le cose come esse sono apparse agli uomini che hanno agito in quel contesto, non soltanto come noi le vediamo ora sulla base della nostra conoscenza attuale; tale aspetto è soprattutto utile su casi come quelli di Cristoforo Colombo (il quale non può essere accusato dei successivi crimini dei conquistadores).

Senza passato non vi è futuro, senza conoscenza non vi è libertà, risoluzione dei problemi umani, progresso e civiltà: signore e signori non esisterà mai il giudizio morale definitivo della storia: nessuno è salvo, nessuno è innocente.

Noi dobbiamo accettare il fatto che ogni epoca storica ha i propri valori e forma mentis: ciò che per noi oggi è legittimo ed etico, domani o ieri non era considerato tale e viceversa; dobbiamo accettare che noi siamo figli anche di atti violenti e criminali, che alla nostra attuale realtà hanno contributo anche esseri criminali e disumani.

Accettate ciò che siamo stati e rispettate il metodo: negare ciò che è stato perché non ci piace favorisce il suo sostanziale ritorno; cambiano le idee e i simboli, ma gli atti disumani restano.
È nostro dovere comprendere, lasciando ogni giudizio morale al successivo dibattito: gli stessi principi fondanti della civiltà quali la libertà e la responsabilità sono emanazione di tale violenza.

La razza umana è tutto ciò: questa è la nostra realtà, questo è il nostro retaggio.
Siete esseri senzienti o bestie infantili che pensano ancora di risolvere i problemi chiudendo gli occhi perché il mostro è sotto il letto e se non lo vedi tu, lui non vede te?

 

Fonti:

Aristotele, Politica.

Cesario, M. (2020), Historia magistra vitae: come nel passato, la furia iconoclasta di oggi lascia presagire solo un nuovo “terrore”, Atlantico, 11/06/2020

Nepi, M. (2020), I cereali Coco Pops accusati di razzismo: “Perché una scimmia come mascotte?”, TPI, 16/06/2020

Redazione (2020), L’iconoclastia antirazzista è inutile e pericolosa, dice un’antirazzista militante, AGI, 11/06/2020

Von Mises, L (2016), L’azione umana. Trattato di economia, Rubettino.

Il liberismo, il sistema economico di Adam Smith

 

Esistono uomini che lasciano il segno, individui che condizionano con il loro sistema di pensiero un’epoca intera, per non dire secoli di storia sociale e globale. Lo spirito dei tempi, la genialità umana, la cultura e il sapere hanno prodotto menti lucidissime, intelligenze ineguagliabili, studiosi che hanno dato il loro contributo a forgiare un sistema capace di resistere allo scorrere dei tempi, all’erosione del ticchettio delle lancette.

Adam Smith (1723-1790) è stato uno di questi. Egli ha dato un contributo eccezionale allo sviluppo di una disciplina che condiziona la vita di tutti i giorni: l’economia. Fu il primo che riuscì  a sganciare dalla filosofia e, in particolare, dalla filosofia morale, la scienza economica. Egli fu il primo economista classico, il pensatore sistematico che fondò una nuova disciplina: l’economia politica, intesa in senso stretto, come studio e analisi del sistema economico capitalistico oppure-in termini microeconomici-come scienza sociale che indaga il comportamento umano in maniera razionale per allocare in maniera ottimale le poche risorse disponibili.

 

Dopo Smith l’Occidente si è diviso in due agguerrite categorie: i sostenitori radicali del suo sistema, come la scuola austriaca, gli anarco-capitalisti-, i neoclassici, i liberali, liberisti, i libertariani, i minimalisti, e i critici più polemici del suo pensiero come gli statalisti, i marxisti, i collettivisti, i Keynesiani, i sovranisti e i protezionisti. Quali sono, quindi, le idee principali di Adam Smith?

Egli riuscì a sintetizzare come in un mosaico gli elementi cardine del capitalismo, nella sua opera principale: “La ricchezza delle nazioni”, pubblicato nel 1776.  Il primo principio che permette un aumento dello sviluppo e della produttività è la divisione del lavoro. Questa divisione porta i suoi benefici all’interno dell’intero sistema economico garantendo la supremazia dello scambio e del mercato; un’entità libera da dogane, dazi e protezionismi interni. Un altro principio, leitmotiv del liberismo, è la superiorità del libero mercato , della libera iniziativa economica. Ogni intervento dello Stato nell’economia  è considerato- da Smith-inopportuno, scandaloso e inefficiente. Smith a tal proposito per limitare lo strapotere della pianificazione statale, dramma odierno della burocrazia italiana, ipotizzò l’esistenza della cosiddetta “Mano invisibile”. La presenza della mano invisibile permette di realizzare un ordine sociale che soddisfa l’interesse generale e la convergenza spontanea degli interessi personali verso il benessere collettivo.

Demonizzando l’intervento dell’autorità statale, la mano invisibile permette un equilibro solido e duraturo dei mercati: Domanda e offerta di un bene o di una merce su differenti mercati tendono ad uguagliarsi e a rimanere in equilibrio. Quali sono le lezioni più importanti che possiamo ricavare dalle teorie di Smith? La libertà dell’individuo, la sua priorità rispetto alla collettività, la necessità di un capitalismo che non sia solo esorcizzato ma valorizzato: attraverso il capitale, nonostante crisi e incertezze generali, attraverso investimenti razionali, con una ridotta tassazione, attraverso la libera iniziativa è stato possibile creare ricchezza, comfort e benessere su larga scala.

È stato il capitalismo che ha fornito, nei paesi liberali, la possibilità di mettersi in gioco. È grazie al libero mercato che è stato possibile evitare qualsiasi deriva autoritaria e dittatoriale. Lo scrisse anche Friedrich Von Hayek, economista liberista, ad affermarlo nella sua opera “Verso la schiavitù “: il capitalismo teorico legittimato da Smith ci ha salvato più volte dalla “dittatura” dei nazionalismi, dei protezionismi, e dalle demagogie insite nel pensiero populista. 

 

 

 

George Floyd ed il Principio di Libertà violato

L’uccisione per soffocamento di George Floyd da parte di alcuni agenti di polizia di Minneapolis ha scatenato forti proteste in tutti gli Stati Uniti e non solo.

E’ un fatto che riguarda tutti noi, senza distinzione di razza, di religione, di sesso o di età. Un agente, il cui compito sarebbe dovuto essere quello di garantire la sicurezza e la libertà dell’individuo, ha esattamente commesso l’azione opposta. Quella di abusare dei propri poteri conferitigli dalla legge per soffocare la libertà di un individuo.

I can’t breathe“. Letteralmente “Non riesco a respirare“, sono state le ultime parole pronunciate dall’afroamericano di 46 anni prima di essere ucciso.

Questo avvenimento ci porta a riflettere su noi stessi perché ancora una volta abbiamo assistito alla soppressione di una fondamentale libertà individuale: quella di non subire discriminazioni in base al colore della pelle, come quella di vivere la propria vita e di pensare in modo diverso.

Uno studio della School of Public Health di Harvard sulla discriminazione negli Stati Uniti riporta alla luce la percezione della discriminazione in base all’etnia e gruppi sociali. Si evince che in termini percentuali una persona di colore percepisce la discriminazione del 37% in più rispetto ad una persona bianca. Tali percezioni trovano una notevole differenza anche tra uomini, con il 44% di discriminazione percepita e donne con il 68 per cento.

Sempre lo stesso studio evidenza come tali percezioni siano presenti anche nel mercato del lavoro. Ad esempio, una persona di colore verrebbe discriminata il 44% in più rispetto ad un persona bianca sull’equità di remunerazione e promozioni. Sempre in quest’ambito lo studio evidenzia una marcata differenza in merito alla discriminazione percepita sul lavoro tra uomini (18%) e le donne (41%).

In termini economici, tutto questo si pone in contrasto con i principi del libero mercato, che prediligono l’individuo e la propria libertà di essere. Il mercato, per essere efficiente ed efficace, deve essere messo nelle condizioni di premiare le competenze ed il talento della singola persona e non il proprio gruppo sociale o etnico di appartenenza. Come affermava il celebre economista e pensatore liberale Ludwig von Mises, il mercato libero da interferenze statali non guarda il ceto sociale, il colore della pelle, il livello di istruzione, l’orientamento sessuale o l’identità di genere.

“Ciò che la democrazia capitalistica del mercato produce non è ricompensare le persone secondo i loro “veri” meriti, il valore instrinseco e la loro eminenza morale. Ciò che rende un uomo più o meno propenso non è la valutazione del suo contributo da un qualsiasi principio “assoluto” di giustizia, ma la valutazione da parte dei suoi simili che applicano esclusivamente il metro dei propri bisogni, desideri e fini personali”

Ludwig Von Mises – La mentalità anticapitalista

Questo è ciò che Mises ha definito come il sistema democratico del libero mercato. Ma affinché avvenga, il nostro afferma che è necessario non solo “un mercato non sabotato da restrizioni imposte dal governo“, ma anche il rispetto dell’uguaglianza di fronte alla legge.

Nel rispetto di queste due condizioni fondamentali, “è esclusivamente colpa tua se non superi il re del cioccolato, la star del cinema e il campione di pugilato.”

E allora, dovremmo domandarci: quante volte ci siamo sentiti discriminati e soffocati da leggi e restrizioni imposte dal governo? Quante volte abbiamo urlato tra le mura della nostra mente “I can’t breathe”, “Non riesco a respirare”, perché non ci siamo sentiti liberi di essere intraprendenti e attivi nella società a causa della burocrazia?

Garantire la libertà in tutte le sue forme nel rispetto della libertà altrui è il primo passo fondamentale per respirare e far respirare gli altri.

La legalizzazione della cocaina spiegata dal Principe del Liechtenstein

Nella politica ordinaria, quando si parla di legalizzazione delle droghe leggere, la risposta tipica dei contrari è “ah sì, dopo la marijuana cosa legalizzeremo, la cocaina?”.

Solitamente, a tal punto, si parte su un dibattito sul danno fattuale degli stupefacenti, sul fatto che le droghe leggere facciano questo e quello mentre le droghe pesanti siano peggiori, che vi sia una differenza e così via.

Eppure la risposta alla domanda iniziale dovrebbe tranquillamente essere “sì”. Esistono vari motivi per cui certe sostanze siano molto meno dannose dentro la legge e non fuori.

Per esempio la Svizzera ha portato l’eroina dentro la legge, offrendola gratuitamente ai dipendenti. Ciò da un lato ha enormemente ridotto i tassi di infezioni e morti e dall’altro ha anche mandato fuori mercato lo spaccio: nessuno creerebbe un mercato per quelle decine di persone che magari vorrebbero provare.

Ma tra l’eroina, che è tristemente nota per i suoi effetti, e la marijuana, che è ormai socialmente paragonabile all’alcol e tollerata e legalizzata in vari paesi, c’è tutto un mondo di droghe chiamate pesanti ma che sono meno dannose dell’eroina, tra cui la cocaina.

Questa droga è infatti poco spesso analizzata nelle proposte di legalizzazione: non ha particolari usi medici, chi la usa non è sempre un derelitto come con l’eroina e spesso è anche considerata una droga altolocata.

Perché legalizzare la cocaina?

Eppure esistono ottime ragioni per legalizzarla. La ragione è semplice: il proibizionismo ha fallito e le persone continuano a drogarsi allegramente, portando i politici a chiedere più guerra alla droga, che fallirà, portando i politici a fare più guerra alla droga. Ok.

L’illegalizzazione delle droghe porta a pessime situazioni sociali quali:

  • La possibilità di accedere al mercato solo per grandi organizzazioni criminali, che spesso usano i proventi per azioni terroristiche o per infiltrarsi nei governi
  • Nessuna garanzia sul contenuto e sulla qualità delle sostanze, portando a pericoli sanitari ben maggiori rispetto a quelli che darebbe la sostanza di qualità
  • Creazione di aree sotto il controllo dello spaccio dove le forze dell’ordine e i comuni cittadini non possono accedere senza correre grandi rischi
  • Aumento delle dipendenze e favorire, nei fatti, un legame spacciatore- dipendente

Come legalizzare la cocaina?

Nel suo “lo Stato nel Terzo Millennio” il Principe del Liechtenstein parte dal presupposto che lo Stato, con le sue politiche completamente slegate dalle logiche di mercato, abbia fatto più danni che altro sulle droghe, addirittura favorendo le dipendenze e il malessere della comunità.

Il Principe, da buon cattolico, ritiene un fenomeno negativo la dipendenza da stupefacenti. Ma, anche se non ci piace, esiste e va affrontato secondo le regole che regolano quasi tutta la nostra vita: quelle del mercato.

Ed ecco come Giovanni Adamo II legalizzerebbe la cocaina.

Coltivazione e Stati in via di sviluppo

Nei Paesi dove si coltiva la coca esistono moltissimi coltivatori ma solo un acquirente: il cartello della zona, che è libero di fare il prezzo che vuole. Con gli enormi profitti della vendita poi si infiltrano nel governo e aumentano il proprio controllo territoriale.

Ma se noi pagassimo di più questi coltivatori? Il Principe fa l’esempio dicendo “il doppio”, ma ovviamente ci sarebbe un naturale processo di mercato sul prezzo. La possibilità di acquistare legalmente la coca indebolirebbe molto il ruolo territoriale del cartello e aiuterebbe migliaia di persone a divenire indipendenti dalla criminalità. Chiaramente non eliminerebbe totalmente il cartello e tale misura andrebbe affiancata da aiuti per rafforzare lo Stato di Diritto in questi Paesi, ma iniziare a togliere il finanziamento e l’armata di schiavi di tale sistema è il primo passo per sconfiggerlo.

Prezzi e produzione

Tanti dicono che è impossibile legalizzare la cocaina perché “se costa 50€ al grammo e ci metti le tasse e tutto nessuno la comprerebbe a 100€ al grammo”. Peccato che il prezzo della cocaina non sia di certo un prezzo di mercato: i cartelli sono anche venditori unici e possono fissare i prezzi come desiderano per avere i profitti che vogliono: Pablo Escobar non girava con una Lada.

Inoltre l’illegalità della sostanza aumenta i suoi costi: bisogna trasportare tutto in segreto, con significative perdite, e ungere le persone giuste ai giusti livelli. Un business legale non ha bisogno di sottomarini o Cessna né di regalare un’auto al capo della Polizia di Frontiera per far passare il carico, detta semplice.

Un business legale semplicemente acquisterebbe le foglie di coca, le porterebbe da qualche parte dove vengono elaborate, magari in Paesi in via di sviluppo così da strappare altra manovalanza al cartello, e legalmente e senza sotterfugi lo porterebbe nel Paese di vendita.

Vendita ed effetti sulla popolazione

La vendita di cocaina può essere regolamentata, ovviamente, ad esempio vendendola solo in determinati locali che forniscono informazioni e assistenza a chi ne ha bisogno.

Inoltre, se si vuole mantenere una sanità base per tutti può essere una misura di buonsenso far pagare i costi della dipendenza a chi fa uso delle droghe. Non amo i discorsi del tipo “legalizzare le droghe per dare più soldi allo Stato”: lo Stato stesso ha bisogno di una cura al SERT contro la sua dipendenza dalla spesa pubblica, ma esiste ampio spazio per restare concorrenziali col nero e avere una tassa sugli stupefacenti che vada a finanziare la sanità, magari direttamente il fondo malati adottando un sistema ispirato a Bismarck.

Riguardo gli utenti è ben chiaro che avrebbero benefici tutte le categorie.

Chi ha veramente una dipendenza può procurarsi la sostanza in modo controllato e chiedere aiuto e informazioni a professionisti.

Chi è un utilizzatore occasionale ha la certezza di procurarsi una sostanza sicura, con dosi certe e che non pone rischi ulteriori rispetto alla sostanza per se.

Chi magari vuole provare la prima volta, invece di trovare uno spacciatore che dalla vendita di quella dose potrebbe potenzialmente guadagnarci molto, troverà professionisti che lo consiglieranno e potranno digli di evitare e, se proprio vuole, di farlo in sicurezza.

Qualcuno argomenterebbe che nemmeno dovrebbero comprarle queste sostanze. Ma tanto lo fanno, ed è preferibile che il profitto vada nell’economia legale e non alla mafia che sta comperando il tritolo per far saltare qualche magistrato.

Ma il beneficio è anche sociale: ridurremmo nettamente i detenuti per reati di droga, con ogni detenuto ci costa 150 Euro al giorno. Ci riprenderemmo zone della città che oggi sono chiuse e in mano allo spaccio.

Non c’è, in sostanza, una ragione che sia una per mantenere il proibizionismo.

Ma sconfiggerebbe la mafia?

Certo che no, non per questo non va fatto. Così come la mafia si infiltra nei ristoranti, nell’edilizia e in qualunque settore si infiltrerà anche nella vendita di droga.

Semplicemente, è completamente idiota non fare un qualcosa che lascerebbe, per esempio, il 20% del mercato alla mafia quando con l’attuale sistema… la mafia ha il 100% del mercato.

Anche la mafia dovrebbe competere nel mercato e dovrebbe quindi ridurre i propri profitti, alle volte azzerandoli o andando addirittura in perdita. Unito ad un controllo adeguato sulle imprese, beh, non avrà la vita semplice che ha oggi.

Poi, sicuramente, potrebbero esistere fenomeni di contrabbando, visto che la malavita ha già oggi una sua rete. Ma se lo Stato non vedrà la droga come l’ennesima vacca da mungere ma come un settore strategico per ridurre la malavita e il suo potere e terrà i prezzi bassi, beh, sarà un mercato molto, molto piccolo.

[INTERVISTA] Il liberalismo visto dal Professor Lorenzo Infantino

Per il blog dell’Istituto Liberale ho il grande piacere e l’onore di intervistare Lorenzo Infantino, Professore di Filosofia delle Scienze Sociali presso la LUISS Guido Carli e autore di numerose pubblicazioni tradotte in inglese e spagnolo. La sua più recente fatica, Cercatori di Libertà, è stata pubblicata dall’Editore Rubbettino.

D. Professor Infantino, grazie mille per la Sua disponibilità. Noi tutti le siamo grati per il suo instancabile lavoro di divulgazione del liberalismo di stampo evoluzionistico che dai moralisti scozzesi arriva fino alla Scuola Austriaca di Economia. Ci parli del “legislatore onnisciente” e di come David Hume e Adam Smith abbiano sferrato un attacco mortale sul piano gnoseologico a questo mito.

R. Duncan Forbes ci ha lasciato degli scritti molto acuti sull’Illuminismo scozzese. Nella sua introduzione a una ristampa del noto saggio di Adam Ferguson sulla “storia della società civile”, Forbes ha esattamente scritto che il “più originale e audace coup della scienza sociale dell’Illuminismo scozzese” è costituito dall’abbattimento del mito del Grande Legislatore.

Forbes si è in realtà giovato di un’affermazione di Émile Durkheim, secondo cui nulla ha ritardato la nascita della scienza sociale più dell’idea che attribuisce l’origine delle istituzioni alla volontà di un qualche legislatore, “dotato di un potere quasi illimitato”. Nella sua opera, Durkheim non è stato sempre fedele a ciò che dalla sua affermazione discende. Ma quanto sostenuto da Forbes con riferimento all’Illuminismo scozzese coglie nel segno. E Friedrich A. von Hayek lo ha riconosciuto.

Per citare i due maggiori esponenti della cultura scozzese del Settecento, direi che nel repertorio di David Hume e di Adam Smith si trovano gli strumenti con cui colpire mortalmente il mito del Grande Legislatore. Con la legge che porta il suo nome, Hume ha mostrato che non è logicamente possibile derivare proposizioni prescrittive da proposizioni descrittive. Bisogna perciò separare i fatti dai valori.

Non c’è una scienza del Bene e del Male, perché le regole morali “non sono conclusioni della ragione”, bensì il prodotto inintenzionale dei rapporti di convivenza. Com’è noto la legge di Hume sta alla base della libertà di coscienza. E nessun Leviatano, “Dio mortale” che pretenda di esprimere la volontà del “Dio immortale”, può imporci alcuna credenza.

Da parte sua, Smith si è soffermato su quello che possiamo oggi chiamare teorema della dispersione della conoscenza. Le nostre conoscenze di tempo e di luogo sono infinite; e, di conseguenza, non sono centralizzabili. “Nella propria condizione locale”, ognuno sa più di ogni legislatore, senato o assemblea. È un’idea che è stata letteralmente copiata da Edmund Burke e che, nel corso del Novecento, è stata posta da Hayek al centro della propria riflessione e, fra le altre cose, della critica all’economia pianificata.   

D. Ci può spiegare in che senso quello degli scozzesi è un liberalismo evoluzionistico?

R. Sir Friedrick Pollock ha scritto che Montesquieu, Burke e Savigny devono essere considerati dei “darwiniani prima di Darwin”. Ma tale appellativo spetta senza dubbio anche a Bernard de Mandeville, Hume e Smith. Attraverso il nonno Erasmus, Charles Darwin è stato influenzato da Hume. Egli è stato anche influenzato dalla lettura dei testi smithiani.

In ogni caso, tutti gli autori che ho appena citato hanno compreso, come farà successivamente Alexis de Tocqueville, che gli uomini sono ovunque soggetti alle stesse imperfezioni e alle stesse miserie. Si affermano coloro i quali adottano le norme sociali che meglio consentono la soluzione dei problemi della convivenza. L’esempio più chiaro è quello della divisione del lavoro.

Le popolazioni che hanno diviso il lavoro hanno realizzato l’allargamento dell’ambito della cooperazione sociale e incrementato il volume degli scambi. Hanno in tal modo conseguito un benessere a cui, in caso contrario, non sarebbero potuti pervenire. Quello degli autori che ho richiamato è un evoluzionismo di carattere culturale, in cui sopravvivono le norme e le istituzioni che maggiormente facilitano la cooperazione sociale. Nulla a che fare col darwinismo sociale, tristemente trasferito dalla biologia alle scienze sociali.

Nel mercato, ciascuno di noi paga ciò che sa fare peggio con quello che sa fare meglio. Se qualcuno non riesce efficacemente a svolgere il proprio compito, egli può occupare una diversa posizione, servire gli altri mediante una differente attività, abbracciando regole professionali più confacenti alle sue capacità e al suo impegno.

D. In che maniera e tramite quali figure la tradizione scozzese si ricollega alla Scuola Austriaca e all’individualismo metodologico?

R. L’evoluzionismo culturale e l’individualismo metodologico sono due aspetti della stessa realtà. Se si abbatte il mito del Grande Legislatore, il processo sociale è necessariamente ateleologico. Sappiamo che ci sarà un ordine sociale: perché il diritto, delimitando i confini fra le azioni, lo rende possibile.

E tuttavia non possiamo sapere quale ordine concretamente si realizzerà. Ossia: lo scambio dei mezzi fra gli attori è di carattere intenzionale, ma la cooperazione ai fini altrui è inintenzionale. E lo è anche il risultato finale, giacché esso non è il frutto della programmazione di una qualche mente ordinatrice. Nelle sue Untersuchungen, Menger ha rivelato i suoi debiti nei confronti di Burke e di Savigny. E ha criticato Smith.

Malgrado ciò, Hayek ha affermato che Menger ha fatto “rivivere” l’individualismo metodologico di Adam Smith. Possiamo afferrare le ragioni di tale diversità di vedute. Pur avendo tutti gli strumenti per respingere la teoria del costo di produzione (la teoria del valore-lavoro ne è una versione), Smith ha fatto a essa delle concessioni. Com’è noto, Menger è stato uno degli artefici della cosiddetta “rivoluzione marginalista”.

È così accaduto che, nel giudicare Smith, si è concentrato sulle concessioni smithiane alla teoria del costo di produzione. Ma ciò lo ha tenuto lontano dal filo che tiene assieme i vari scritti di Smith e che è costituito dalla teoria delle conseguenze inintenzionali. Il che è quanto maggiormente rileva. Condivido pertanto la posizione di Hayek.

D. Hayek è forse il principale esponente del Liberalismo nel Novecento, un vero gigante del pensiero, premio Nobel per l’Economia nel 1974. Qual è secondo Lei il suo più originale contributo alla teoria del liberalismo?

R. Non devo fare alcuno sforzo. Lo stesso Hayek ha dichiarato di ritenere “Economics and Knowledge” il suo più originale contributo alla teoria economica. Basando la sua critica agli schemi dell’equilibrio economico generale sulla divisione (dispersione) della conoscenza, Hayek ha gettato una potente luce sul significato della concorrenza come processo di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori. E ciò gli ha consentito di farci comprendere che, senza libertà individuale di scelta, non è possibile la crescita della nostra razionalità.  

D. Lei ha avuto modo di definire l’ordine spontaneo hayekiano come un “ordine senza piano”. Michael Oakeshott, riferendosi alla celeberrima “the road to serfdom” di Hayek, ha mosso la seguente critica: A plan to resist all planning may be better than its opposite, but it belongs to the same style of politics”. Si sente di difendere Hayek da questa critica?

R. Hayek non ha bisogno di essere difeso da me. Il contributo che egli ha dato alla comprensione della dinamica dei processi sociali lo pone molto al di sopra di ogni piccola disputa. Se teniamo conto di quanto Hayek ha in particolare scritto contro l’abuso della ragione, sulla formazione dell’io e sull’ordine sensoriale, l’affermazione di Oakeshott mi sembra del tutto fuori luogo.

Hayek non ha mai sostenuto la necessità di opporre alla pianificazione centralizzata un piano diversamente concertato. Egli ha semplicemente opposto la libertà individuale di scelta, capace di mobilitare conoscenze e risorse altamente disperse all’interno della società. 

D. Lei è sempre stato molto critico nei confronti della distinzione Liberismo-Liberalismo di Benedetto Croce.  In che maniera possiamo evitare, però, che il liberalismo sfoci in una forma di morale utilitaristica?

R. Bisogna capire che cosa intendiamo per morale utilitaristica. Fra le cose importanti che Hayek ci ha portati a comprendere, c’è l’esigenza di delimitare i confini fra le varie tradizioni di ricerca. Il liberalismo della tradizione scozzese-austriaca non ha nulla da spartire con l’utilitarismo di Jeremy Bentham e dei suoi seguaci.

La teoria delle conseguenze inintenzionali lo pongono su un piano molto diverso, in cui prevale il “governo della legge” e l’utilità delle regole. Si aggiunga che la polemica di Croce, sia detto con tutto il rispetto per il suo antifascismo, volta le spalle all’incontestabile fatto che, senza libertà economica, non è possibile nemmeno la libertà politica. Sin dal Seicento, ci sono stati pensatori che hanno richiamato la nostra attenzione su tale problema.

E Hayek ha sintetizzato nella maniera più efficace quello che possiamo chiamare teorema di François Bernier, il medico francese che, dopo avere visitato alcuni paesi orientali, ha mostrato come la base della libertà individuale di scelta risieda esattamente nella proprietà privata dei mezzi di produzione, perché “chi detiene tutti i mezzi determina tutti i fini”, ideali e materiali (Hayek).    

D. Se il prezzo della libertà è, come Karl R. Popper ha affermato, “l’eterna vigilanza”, quali sono secondo Lei le maggiori minacce alla nostra libertà dalle quali oggigiorno dobbiamo difenderci?

R. Dobbiamo difenderci dalla “democrazia illimitata”, regime politico contro cui già Aristotele ci poneva in guardia. Benjamin Constant ha chiarito molto bene la questione, allorché ha affermato che “l’astratto riconoscimento della sovranità popolare non incrementa di alcunché la libertà di ciascuno di noi.

Se attribuiamo a quella sovranità un’ampiezza che non deve avere, possiamo perdere la libertà nonostante quel principio o anche a causa di esso”. La “democrazia illimitata”, in cui le interferenze e le sistematiche prescrizioni del potere politico hanno il sopravvento sulla cooperazione sociale volontaria, coincide con quella che James M. Buchanan ha chiamato “democrazia in deficit”. Quest’ultima definizione ci dice molto anche con riferimento alle vicende del nostro Paese.

D. Infine una domanda più “personale”: lei è di origine calabrese come anche l’editore Rubbettino, al quale va tutta la nostra gratitudine per il grande lavoro di divulgazione dei testi del liberalismo di ieri e di oggi. Il Sud sembra non riuscire ad affrancarsi dall’idea che la salvezza e lo sviluppo derivino dall’intervento statale. Non ritiene che la mancanza di una diffusa cultura liberale sia tra le cause di questa forma mentis?

R. Come non è nato in Calabria, il liberalismo non è nato nemmeno in Italia. Quale che sia stata la sua origine, le popolazioni che lo hanno abbracciato hanno visto rapidamente cambiare le loro condizioni di vita. Senza attardarci su ciò, possiamo dire che il liberalismo ha cambiato il mondo, perché le sue regole hanno reso possibile la crescita economica e culturale.

Pertanto, gli uomini (l’ho già detto rispondendo a una precedente domanda) sono ovunque soggetti alle stesse imperfezioni e alle stesse miserie. Ma i modelli di vita adottati possono portare benessere e impedire fenomeni degenerativi della convivenza sociale. La nostra classe politica ha pensato che il recupero dei ritardi accumulati da alcune aree del Paese potesse avvenire tramite la logica redistributiva. Il che ha sicuramente allargato la sfera d’intervento dei poteri pubblici, ha alimentato clientele e ha impedito l’affermazione di una diffusa classe imprenditoriale, senza cui lo sviluppo economico e i correlati modelli di comportamento sono impossibili. È stato un naufragio.