La puerilità del dibattito politico economico in Italia

Sfido i lettori a indovinare chi ha pronunciato le frasi di seguito (trovate le risposte in nota):

  1. “Le imprese si reggono sui consumi: perciò sui consumatori dobbiamo fare leva”;
  2. “La manovra ha un piano di investimenti pubblici e di sostegno alle imprese che non ha precedenti rispetto a tutte le altre manovre economiche”;
  3. “È evidente che si può sforare [la regola del 3%]: si tratta di un vincolo anacronistico che risale a 20 anni fa”;
  4. “Dare una mano agli ultimi è anche il miglior modo per rilanciare i consumi”[1]

Viviamo in un Paese dove la polarizzazione politica è sempre più forte e gli elettori si dividono in tifoserie che si guardano con odio reciproco.

Questo rende ancora più sorprendente l’uniformità del dibattito economico italiano. Con pochissime eccezioni, tutti i grandi partiti italiani concordano sulla ricetta da somministrare al Paese: spesa a deficit per rilanciare la domanda interna.

Le citazioni di cui sopra lo dimostrano perfettamente e quasi nessuno propone altre soluzioni. Poi certo, ci sono gradazioni diverse: chi propone più investimenti pubblici, chi sovvenzioni alle imprese, chi minori tasse o sussidi alle fasce più povere, ma la sostanza non cambia.

Tralasciando la propaganda, il ragionamento economico alla base delle proposte è all’incirca il seguente: maggiore spesa pubblica e/o minori tasse significano maggiori consumi; maggiori consumi, grazie al moltiplicatore keynesiano[2], significano maggiore crescita, più che sufficiente a ripagare il deficit accumulato.

Questo ragionamento è prova della profonda ignoranza (o malafede?) dei politici italiani in materia economica. Il moltiplicatore keynesiano non è una bacchetta magica e ha grosse incognite: punto primo, il denaro preso a prestito per finanziare il deficit ha un costo sulle casse dello Stato, in termini di interesse; punto secondo, se il denaro viene prestato allo Stato non può essere prestato ai privati, i cui investimenti dunque si riducono; punto terzo, il moltiplicatore keynesiano si basa sull’aspettativa che il maggior denaro a disposizione dei cittadini sia speso e messo in circolazione nell’economia, ma potrebbe anche essere risparmiato (in effetti è sempre parte speso e parte risparmiato, con proporzioni variabili); punto quarto, chi consuma potrebbe acquistare prodotti importati, diminuendo i benefici per le imprese locali; ed infine, senza investimenti dal lato dell’offerta la produzione non può aumentare né di quantità né di qualità[3].

Insomma, l’effetto positivo, di lungo termine, del moltiplicatore keynesiano non è affatto scontato. A questo aggiungiamo che secondo gli studi più recenti solo raramente, in tempi di recessione profonda, il moltiplicatore è maggiore di 1; più abitualmente non supera lo 0,6[4].

Tradotto, significa che per ogni euro speso, il PIL del Paese cresce di 60 centesimi circa: la strada maestra per accumulare sempre più debito fino ad un inevitabile default.

Ciò che manca nel dibattito politico italiano sono i problemi di fondo dell’economia italiana, riassumibili in un paio di statistiche: siamo all’80° posto per il livello di libertà economica e al 51° per la facilità di fare impresa.

Siamo così in basso[5] perché abbiamo un sistema giudiziario dai tempi lunghissimi e incerti, una tassazione eccessivamente alta, una burocrazia opprimente e una legislazione contorta e difficile da affrontare. Sono tutti problemi ben noti nel nostro Paese e che non si risolveranno certo con altri 2 o 3 punti percentuali di deficit; la domanda allora è un’altra: perché non se ne parla durante il dibattito politico?


[1] 1) Silvio Berlusconi, parlando della futura manovra finanziaria nel Novembre 2008 https://aostasera.it/notizie/news-nazionali/berlusconi-piu-consumi-per-evitare-crisi-finanziaria-estrema/

2) Matteo Salvini, parlando della manovra finanziaria nel Dicembre 2018 https://www.ilmessaggero.it/politica/salvini_diretta_facebook_basta_insulti_minacce-4150917.html

3) Matteo Renzi, Gennaio 2014, proponendo un’alleanza al Movimento 5 Stelle https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/02/renzi-richiama-grillo-caro-beppe-insieme-faremmo-grandi-cose/829856/

4) Alessandro Di Battista, parlando della manovra finanziaria nell’Ottobre 2018 https://www.fanpage.it/politica/di-battista-manovra-di-sinistra-pronto-ad-andarla-a-spiegare-nelle-piazze-italiane/.

[2] Il “moltiplicatore” è un concetto elaborato dal celebre economista inglese John Maynard Keynes, in base al quale un incremento della domanda aggregata porterebbe a un incremento più che proporzionale del reddito nazionale (PIL).

[3] Per approfondimenti, ad esempio http://vonmises.it/2018/06/01/il-moltiplicatore-keynesiano-e-unillusione/; https://www.adamsmith.org/blog/tax-spending/for-every-multiplier-there-is-a-de-multiplier; https://www.cato.org/publications/commentary/faithbased-economics.

[4] Ad esempio si vedano https://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/scpwps/ecbwp1267.pdf?5ed52b5ab649fecb6236f72c090252f3; https://www.imf.org/external/pubs/ft/tnm/2014/tnm1404.pdf; https://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2013/wp1301.pdf;

[5] Per capire meglio la sconfortante situazione, nel confronto con i soli Paesi OCSE (l’organizzazione che raggruppa gli Stati più sviluppati al mondo) siamo rispettivamente 36° e 32° su 37 (fonti: https://www.doingbusiness.org/en/rankings; https://www.heritage.org/index/ranking)

Facebook e i limiti della libertà di parola

Pochi giorni fa Mark Zuckerberg si è presentato di fronte al Congresso americano per rispondere alle domande dei parlamentari statunitensi sul suo progetto di cripto-valuta, Libra[1]. 60 fra deputati e senatori hanno avuto a disposizione 5 minuti a testa per interrogare il CEO di Facebook; e nonostante la causa ufficiale della convocazione, gran parte delle domande si è concentrata su tutt’altro, dallo scandalo Cambridge Analytica[2] alla discriminazione razziale nell’azienda.

La parte più interessante è stata per me la discussione che Zuckerberg ha avuto con alcuni deputati democratici (Rashida Tlaib, Jim Himes, Alexandra Ocasio-Cortez) sul tema della libertà di parola[3]. Tlaib ha accusato Facebook di non fare abbastanza contro i messaggi di odio condivisi sulla piattaforma e di non censurare i politici che usano linguaggio violento e discriminatorio; Ocasio-Cortez si è invece soffermata sulla questione fake news, chiedendo se Facebook interverrebbe per rimuovere palesi bugie postate da un politico; Himes, infine, ha chiesto a Zuckerberg cosa intende fare per promuovere una migliore consapevolezza negli utenti e una maggiore attenzione alla qualità del discorso pubblico.

Il CEO di Facebook ha provato a difendersi, sottolineando le difficoltà tecniche di fare ciò che i politici chiedono: la sua azienda non produce materiale giornalistico in proprio e non pone un filtro preventivo ai contenuti postati dagli utenti, per cui messaggi contrari alle policies della piattaforma possono non essere individuati immediatamente.

Zuckerberg ha poi allargato il suo ragionamento, spiegando che i discorsi dei politici sono di interesse pubblico e per questo non sono censurati (eccezioni a parte[4]) e concludendo con una frase che mi ha colpito: “I believe that people should be able to […] judge [politicians’] characters for themselves” (“Io credo che le persone dovrebbero giudicare i personaggi politici per conto proprio”)[5].

Nella maggior parte dei media (italiani[6] e stranieri[7]), l’audizione è stata vista come una severa e giusta “fustigazione pubblica” di Zuckerberg, colpevole di lasciare impunita, per pura avidità di denaro, la fascia di utenza che utilizza deliberatamente la piattaforma per promulgare idee di odio, violenza e bugie.

Pochi hanno preso sul serio e riflettuto sulle risposte del CEO di Facebook, che pure ha sollevato delle questioni molto importanti e delicate.

Al di là degli aspetti tecnici e legali (Facebook non è un giornale né può permettersi di censurare dei rappresentanti politici senza rischiare conseguenze), è profondamente sbagliato chiedere a un’azienda privata di controllare come si svolge il discorso pubblico.

Facebook è una piattaforma social, che permette agli utenti di condividere contenuti. Stop. Non è, e non deve essere, una “macchina della verità” che stabilisce cosa è vero e cosa è falso; tantomeno il suo compito è quello di “educare” i cittadini al pensiero critico.

È molto grave che dei rappresentanti del Congresso USA non si rendano conto di quanto siano pericolose le loro stesse proposte. Forse è ancor più grave che non se ne rendano conto i giornali. Gran parte delle dichiarazioni di politici possono essere considerate come false, o quantomeno imprecise: Facebook dovrebbe censurarle tutte?

Alexandra Ocasio-Cortez potrebbe diffondere il suo Green New Deal[8] in base a queste regole? Cosa significa chiedere alla piattaforma di promuovere una maggiore qualità del discorso pubblico? Significa censurare articoli e giornali in base al linguaggio utilizzato?

Tutti coloro che criticano l’eccesso di libertà di parola lo fanno sempre pensando alle opinioni che li disturbano o li preoccupano. Il problema è che una volta autorizzata la censura è molto difficile stabilirne il limite.


[1] Nelle intenzioni dei suoi proponenti (Facebook è solo una, anche se la principale, delle società coinvolte), Libra sarebbe una cripto-valuta per tutti coloro che non hanno accesso al sistema bancario, in tutto il mondo, agganciata ad un set di valute nazionali per garantirne la stabilità

[2] Lo scandalo Cambridge Analytica esplose all’inizio del 2018, quando si scoprì che l’omonima società inglese aveva raccolto illegalmente su Facebook i dati di milioni di utenti, a cui aveva successivamente inviato messaggi di propaganda elettorale

[3] L’audizione (sia in video che in trascrizione) può essere rivista integralmente a questo indirizzo: https://www.c-span.org/video/?465293-1/facebook-ceo-testimony-house-financial-services-committee&start=7914

[4] Rispondendo a Ocasio-Cortez, Zuckerberg ha dichiarato che Facebook censurerebbe incitamenti a violenza o dichiarazioni che impedirebbero l’effettivo esercizio del diritto di voto

[5] La risposta per esteso la si può trovare a questo link: https://www.youtube.com/watch?time_continue=1&v=8KFQx-mc2Ao, a partire dal minuto 3.30 circa

[6] Ad esempio:
https://www.bbc.com/news/technology-50152062;
https://www.cnet.com/news/congress-pillories-zuckerberg-over-libra-cryptocurrency/;
https://www.wired.com/story/mark-zuckerberg-endures-another-grilling-capitol-hill/

[7] Ad esempio:
https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/10/25/facebook-la-deputata-usa-ocasio-cortez-incalza-zuckerberg-durante-laudizione-al-congresso-il-video-fa-il-giro-del-mondo/5532310/;
https://www.ilsole24ore.com/art/facebook-ocasio-cortez-fa-pezzi-zuckerberg-congresso-ACqyTIu
https://www.giornalettismo.com/ocasio-cortez-zuckergberg-video/

[8] Il Green New Deal è un ambizioso programma di riconversione ecologica del sistema economico statunitense (qui la versione ufficiale presentata al Congresso: https://ocasio-cortez.house.gov/sites/ocasio-cortez.house.gov/files/Resolution%20on%20a%20Green%20New%20Deal.pdf) Molti critici lo considerano irrealistico e ritengono il suo costo pesantemente sottostimato (es. https://www.cato.org/publications/commentary/why-us-cant-afford-green-new-deal)

Liberalismo e fiducia negli esseri umani

Il concetto di lotta di classe è ormai quasi scomparso dal discorso pubblico. Oggi i politici e gli intellettuali che si rifanno a ideologie stataliste non parlano più di abolire la proprietà privata o di sterminare la borghesia; parlano invece della miseria ed infelicità dei poveri e degli emarginati, sostengono di avere a cuore la comunità, di voler aiutare e proteggere le persone.

Non spiegano mai, però, per quale ragione pensano di dover intervenire.  Non rispondono mai a una semplice domanda: perché credete che gli esseri umani non siano in grado di cavarsela con le proprie forze (o aiutandosi volontariamente a vicenda)?

La realtà è che alla base di questi discorsi c’è una profonda sfiducia nei confronti della bontà e dell’intelligenza degli esseri umani.

La convinzione che gli individui siano incapaci di provvedere a sé stessi e che serva una mano benevola dall’alto a guidarli. La mano è ovviamente la loro, quella di una saggia élite in grado di comprendere le esigenze del popolo ignorante e meschino e di guidarlo verso destini migliori.

Questo atteggiamento di sfiducia verso il genere umano, è ciò che differenzia profondamente collettivisti e individualisti.

I liberali guardano il mondo odierno con gioia e stupore. Vedono un mondo dove il capitalismo e il libero mercato hanno condotto l’umanità a livelli di benessere mai sperimentati prima nella nostra storia.

Ciò è stato possibile grazie alla libera interazione di esseri umani, che hanno collaborato volontariamente portando ciascuno le proprie capacità e le proprie energie.

Questo risultato, se si guarda alla storia della nostra specie dalle origini fino all’età contemporanea, è tanto sorprendente da essere quasi miracoloso. Per quale ragione dovremmo affidarci a una guida dall’alto quando la cooperazione dal basso funziona così bene?  

Negli ultimi anni l’attacco al liberalismo è stato condotto sfruttando l’ascesa della Behavioral Economics[1] e la diffusione della psicologia cognitiva e delle neuroscienze[2].

Ricercatori premi Nobel come Kahneman o Thaler[3] hanno dimostrato quanto spesso gli esseri umani prendano decisioni sulla base di bias, cioè di rapidi e pre-determinati meccanismi mentali, senza effettuare veri ragionamenti logici.

Per fare qualche esempio: fornite un campione di controllo di un numero di riferimento: anche se casuale, le persone tenderanno a usarlo come base per le loro stime (“bias di ancoraggio”); ed è molto forte l’abitudine degli individui di accettare solo informazioni che confermano una loro teoria precedente, trascurando i dati contrari (“bias di conferma”)[4]. La nostra tanto vantata razionalità non è utilizzata poi così spesso!

Tutto ciò mette davvero in crisi l’impianto politico ed economico liberale? La risposta è no, per tre semplici ragioni: la prima è che decidere se un’azione sia razionale o meno dipende molto dal punto di vista e dal sistema di valori del singolo individuo; per fare un esempio, il suicidio è considerato abitualmente una decisione irrazionale, ma quando è compiuto per ragioni patriottiche (come dai kamikaze giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale) si può ancora considerare tale? E chi lo decide?

La seconda è che gli stessi bias affliggono coloro che dovrebbero correggere e guidare gli altri esseri umani; e gli errori di chi è al potere sono ben più pericolosi di quelli della gente comune. La terza è che gli esseri umani sono molto bravi ad imparare ad agire con razionalità.

Vorrei in particolare approfondire quest’ultima osservazione. Molti degli esempi di irrazionalità dimostrati dagli psicologi cognitivi riguardano casi in cui gli individui devono affrontare situazioni nuove e prendere rapide decisioni; in questi casi è facile commettere errori, anche grossolani.

Le cose cambiano, però, quando si osserva il mondo reale: gli esseri umani si dimostrano sorprendentemente adattabili e capaci di modificare opinioni e comportamenti, quando hanno sufficiente tempo per riflettere e tentativi per guadagnare esperienza.

Un esempio perfetto in questo senso fu condotto in laboratorio nel 2004, simulando il funzionamento di un mercato competitivo in asimmetria informativa[5]; dopo appena una decina di interazioni i partecipanti ricrearono in maniera quasi perfetta l’andamento del mercato previsto dalla teoria economica, smentendo chi si aspetterebbe decisioni completamente irrazionali e basate su calcoli irrealistici.

Basti pensare, in scala più breve, a come siamo in grado di risolvere piccoli problemi della nostra vita quotidiana, quando impieghiamo le nostre capacità di ragionamento (dove spendere meno per i nostri acquisti, che strada seguire per evitare il traffico, ecc. ecc.).

La realtà è che l’essere umano ha capacità di apprendimento e adattamento impressionanti; e dispone di grande fantasia e immaginazione.

Queste qualità vanno sfruttate e incoraggiate, perché ci hanno già portato a livelli di benessere elevati e possono portarci ancora più in alto. Accettare una direzione dall’alto significa rinunciare alla nostra intelligenza e alla nostra capacità di coordinarci e aiutarci a vicenda, come liberi individui.


[1] La Behavioral Economics o economia comportamentale è una branca dell’economia che studia gli effetti di fattori sociali, psicologici e culturali sulle decisioni economiche degli individui

[2] Le neuroscienze e la psicologia cognitiva studiano rispettivamente il funzionamento del sistema nervoso e il modo in cui gli esseri umani formulano pensieri e ragionamenti

[3] Daniel Kahneman è uno psicologo israelo-americano, vincitore del Premio Nobel all’Economia nel 2002; Richard Thaler è un’economista americano, vincitore del Premio Nobel all’Economia nel 2017

[4] Per approfondimenti: Kahneman D., Thinking, Fast and Slow, 2011;Thaler R. e Sunstein C., Nudge: Improving Decisions about Health, Wealth and Happiness, 2008

[5] Esempio tratto da Levine D., Is Behavioral Economics Doomed?, 2012, capitolo 2

La democrazia è un sistema superato?

La recente intervista di Putin al Financial Times[1] ha rilanciato un tema parecchio dibattuto negli ultimi anni: il liberalismo è destinato a essere ancora il modello politico di riferimento nell’epoca a venire? O, per dirla con le parole del presidente russo, “il liberalismo è diventato obsoleto”?

L’analisi di Putin, condivisa da diversi altri leader politici e intellettuali (Viktor Orban e Steve Bannon, ad esempio), si basa sull’idea che il liberalismo sia fallito politicamente per colpa del multiculturalismo e della globalizzazione e che l’unica via percorribile sia il ritorno a identità nazionali/culturali/religiose forti.

Il principio stesso della democrazia liberale (e rappresentativa) è messo in dubbio, perché i tempi di crisi richiederebbero leader determinati e con ampi poteri[2]; leader che non possono essere vincolati al rispetto dei diritti delle minoranze o al principio della separazione dei poteri.

Curiosamente, il presidente russo, e molti dei suoi epigoni[3], non si oppongono però alla globalizzazione come fenomeno economico, riconoscendone invece i vantaggi per il proprio Paese.

Per rispondere a queste tesi bisogna per prima cosa fare chiarezza. È davvero così in crisi il liberalismo? La risposta è: dipende.

Certo, in alcuni Paesi recenti avvenimenti sembrano confermare la tesi putiniana: negli Stati Uniti, in Italia, nel Regno Unito i movimenti populisti hanno ottenuto successi straordinari, mettendo in difficoltà i partiti tradizionali.

Ma in molti altri (Australia, Canada, ma anche i Paesi del Nord Europa, o la Spagna) il modello della democrazia liberale continua a funzionare più che bene, pur con i normali problemi politici che ogni Stato può avere.

Ed infine, nei Paesi dell’ex-blocco sovietico il miglioramento dei diritti civili negli ultimi 30 anni è stato sostanziale; e a parte l’Ungheria, in nessuno di questi Paesi è davvero in crisi il modello democratico. Il quadro che emerge, insomma, è parecchio più sfumato di quanto il presidente russo vorrebbe farci credere. Ma non è questo il punto più importante.

Il vero punto è: qual è il modello alternativo? Prima di dare per morto e superato il liberalismo, ricordiamoci cosa ha portato all’umanità l’adesione a politiche democratiche: negli ultimi 2 secoli e mezzo, la popolazione umana è aumentata di quasi 10 volte, il reddito medio pro capite è più che decuplicato, la mortalità infantile è scesa dal 40% circa a meno del 3%, l’aspettativa di vita media è passata da 30-35 anni circa a oltre 70[4]… e la lista potrebbe continuare a lungo. Non c’è nulla di paragonabile a un miglioramento così generalizzato e radicale nella storia dell’umanità – forse solo la scoperta del fuoco può aver avuto un impatto simile per la nostra specie.

Come si può buttare a mare un sistema politico ed economico capace di ciò? Perché, siamo chiari: il capitalismo e il metodo scientifico moderni sono stati resi possibili dall’emergere di un sistema politico incentrato sulla libertà.

La libertà è l’ingrediente fondamentale per una civiltà capace di crescere e di raggiungere e mantenere alti livelli di benessere diffuso. E la libertà, contrariamente a quanto pensano Putin, Orban o Xi Jinping, non può essere solo economica.

Per citare Milton Friedman, “Historical evidence speaks with a single voice on the relation between political freedom and a free market” (“La storia è concorde nell’illustrare la relazione diretta tra libertà politica e libero mercato”)[5].

Le ragioni sono molteplici e qui mi limiterò ad accennarle: un sistema economico libero presuppone leggi chiare e certe, applicate a tutti indiscriminatamente; forti interessi economici contrapposti possono essere riconciliati più facilmente in un sistema dove tutti possono esprimere le proprie opinioni; e l’abitudine allo scambio alla pari nel mercato mal si concilia con una relazione rigidamente gerarchica nell’ambito politico.

 

Il sistema politico ed economico liberale ha condotto
l’umanità a livelli di progresso e benessere mai neanche lontanamente
avvicinati nella storia della nostra specie. Non sarà un piccolo gruppo di
autocrati e loro ammiratori a porvi fine.

 


[1] https://www.ft.com/content/670039ec-98f3-11e9-9573-ee5cbb98ed36

[2] Da cui
il concetto di democrazia illiberale esposto da Orban: https://budapestbeacon.com/full-text-of-viktor-orbans-speech-at-baile-tusnad-tusnadfurdo-of-26-july-2014/
(qui un’analisi in italiano https://www.internazionale.it/opinione/gwynne-dyer/2015/02/24/la-democrazia-illiberale-di-viktor-orban)

[3] Si
vedano ad esempio le posizioni della Polonia sull’apertura della UE ai trattati
di libero mercato con altri Paesi, https://polandin.com/41508617/poland-heads-promarket-coalition-in-eu

[4] I dati sono tratti da Our
World in Data, World Bank, Groningen Growth and Development Centre

[5] Milton Friedman, Capitalism and Freedom, chap. 1 “The
Relation Between Economic Freedom and Political Freedom”, 1962

 

La solidarietà continua ad impoverire il terzo mondo

Durante la sua visita ufficiale in Tunisia lo scorso Ottobre, il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani ha proposto di attivare un “piano Marshall” per l’Africa. Rievocando il piano di sussidi che gli Stati Uniti concessero ai Paesi dell’Europa occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale, Tajani ha stimato il costo di un analogo piano per l’Africa a 40 miliardi di €.

L’obiettivo di questi investimenti sarà la costruzione di nuove infrastrutture, il supporto alle piccole e medie imprese (SME in inglese), l’incoraggiamento all’imprenditoria giovanile e all’occupazione, nelle nazioni del continente africano.

Inoltre, Tajani ha sottolineato come senza una soluzione a questi problemi “migliaia, e in futuro saranno milioni, di persone potrebbero lasciare il proprio Paese.”

Nondimeno, il fine del libero mercato non giustifica i mezzi del trasferimento di risorse da parte del governo. La mia natia Spagna, che ha il secondo tasso di disoccupazione più alto fra i 28 Paesi della UE, lo prova.

Fra le regioni europee con maggior disoccupazione e minor PIL, ce ne sono due spagnole: Estremadura e Andalusia. Ma nonostante i sussidi del governo nazionale e regionale per “promuovere la creazione di nuove imprese”, la Spagna pone più ostacoli a fare impresa di tutti gli altri Paesi OCSE, secondo il Fondo Monetario Internazionale.

L’Africa è ancora il continente più povero al mondo. Il suo PIL pro capite è di quasi 8.500 $ inferiore alla media mondiale. Ma ci sono segnali di speranza: le carestie sono quasi scomparse al di fuori delle zone di guerra; l’aspettativa di vita è cresciuta dai 50,3 anni del 2000 ai 50,9 del 2015. Tutto questo progresso si è verificato grazie a riforme economiche pro-mercato.

Secondo la Heritage Foundation, lo score complessivo in libertà economica dell’Africa sub-Sahariana è pari al 55%, quasi 3 punti più alto che al principio del secolo. La libertà di commercio, in particolare, è cresciuta di 18 punti; il carico fiscale sembra essere in diminuzione.

Eppure, nessun Paese africano si posiziona fra le 20 economie più libere al mondo. Lo Stato di diritto latita e la repressione del dissenso prevale troppo spesso.

Nel lungo periodo, riforme economiche in direzione laissez-faire sono l’unica strada per la prosperità. Allo stesso tempo, la corruzione deve essere combattuta efficientemente. Il Botswana è un modello, in questo senso: è uno dei Paesi più ricchi in Africa, il meno corrotto, e fra le 34 economie più libere del pianeta (nonché la seconda più libera nel continente).

Non esistono, invece, casi di Paesi usciti dalla miseria grazie ad aiuti umanitari e sussidi allo sviluppo. I fondi di questo tipo sono solo trasferimenti da un apparato di governo ad un altro.

La Singapore post-coloniale era ben lungi dall’essere un Paese ricco pochi decenni fa, ma è oggi un caso di studio per i sostenitori di economie aperte. Politiche orientate verso il libero mercato e l’attrazione di investimenti esteri l’hanno aiutata a crescere e prosperare.

Il Parlamento Europeo non ha alcuna competenza, né responsabilità, al di fuori della propria giurisdizione. Ma questo non significa che non possa fare nulla per migliorare la condizione economica dell’Africa.

Più nello specifico, vi sono alcune politiche Europee che stanno ponendo ostacoli allo sviluppo degli imprenditori e commercianti del Terzo Mondo. La famosa Politica Agricola Comune (PAC) rende più complicato per i Paesi in via di sviluppo esportare i propri prodotti verso la UE, perché applica una discriminazione economica particolarmente rilevante verso gli agricoltori non Europei.

Queste politiche protezioniste non hanno portato l’agricoltura a diventare una forza economica trainante per la UE. Nonostante un budget annuale di 59 miliardi di euro (utilizzato per supportare il reddito dei contadini e finanziare programmi di sviluppo rurale, che Paesi meno sviluppati non possono permettersi), l’agricoltura contribuisce a meno del 2% del PIL della UE.

Esiste un modello per il tipo di transizione che la UE dovrebbe avviare, per concedere un accesso più libero ai mercati europei da parte dell’Africa: La Nuova Zelanda, il cui settore rurale era simile a quello Europeo 3 decenni fa, ha condotto un processo di liberalizzazione economica.

C’erano diffusi timori sul rischio di vedere molte aziende agricole fallire, ma alla fine solo circa 800 dovettero chiudere. Gli agricoltori che speravano di competere cominciarono a cooperare in maniera più efficiente e innovativa sulla base di condizioni di mercato. Ad oggi, l’agricoltura contribuisce ancora per il circa 7-10% al PIL della Nuova Zelanda.

Indubbiamente, la soppressione delle misure agricole protezioniste condurrebbe a feroci proteste a Bruxelles e nelle altre capitali: gli Europei sono abituati all’interventismo statale.

Perfino gli Euroscettici mostrerebbero la propria indignazione. Nonostante tale rischio, però, i politici dovrebbero cercare di spiegare questi cambiamenti di policy in una maniera più precisa, tale che sia più efficace, tanto da far presa da un punto di vista sia morale che logico.

In una ipotetica campagna per la liberalizzazione del mercato agricolo, i politici e i sostenitori della libertà non dovrebbero focalizzarsi solo su statistiche del PIL e altri dati macroeconomici.

Dovrebbero invece sottolineare che i cittadini europei potranno comprare prodotti più economici, dato che al momento pagano i costi dei sussidi e delle regolamentazioni, e che potranno effettuare scambi commerciali con un numero più ampio di Paesi non Europei.

Ancora più importante, da un punto di vista etico così come nella vita reale, è facile comprendere come il commercio sia un modo per beneficiare sé stessi e i propri vicini: prezzi più bassi lasciano alle famiglie più risorse a disposizione per le loro altre priorità.

Allo stesso tempo, gli Africani possono cominciare a espandere i loro mercati di esportazione e avere più denaro per le loro necessità di base. Ognuno ne trae beneficio: il commercio è un modo di donare vita ad altri. Dall’altra parte, i boicottaggi commerciali sono invece un modo per eliminare i punti di vista che non vogliamo riconoscere.

I miei compatrioti Europei devono giungere a vedere la liberalizzazione del commercio come un modo di esprimere solidarietà ai lavoratori del Terzo Mondo, di risollevare la parte di Africani in miseria e di ottenere benefici per se stessi grazie a prezzi più convenienti e mercati più ampi.

Devono vedere questa decisione come giusta e morale perché “Quando l’etica è messa in primo piano, l’umanità fiorisce”. [1]

[1] Traduzione dall’inglese dell’articolo apparso di recente su Acton.org, a firma di Ángel Manuel García Carmona, cfr.: https://acton.org/publications/transatlantic/2017/11/20/marshall-plan-africa-wont-help-africans-free-trade-will

Perché in Italia i comuni non falliscono?

La notizia è fresca[1]: il governo ha deciso di intervenire a salvezza di Roma, dicendosi disponibile ad addossarsi i debiti del comune a partire dal 2021. Non che sia una novità[2], o tantomeno l’unico caso[3]; lo Stato italiano ha una lunga tradizione di interventi a tutela di comuni falliti. E, per essere chiari, la ragione di questi interventi non è solo la convenienza politica di togliere dagli impicci i propri compagni di partito (anche se questo motivo esiste, ovvio); a livello più profondo, deriva dalla concezione dello Stato presente in questo Paese e nella sua classe dirigente.

In Italia gli enti locali sono ancora visti come branche dello Stato centrale, che se ne serve per controllare meglio il territorio ed i cittadini. Anche quando concede, come nel caso delle Regioni, un certo grado di autonomia di spesa e decisione, mantiene comunque il diritto di intervenire sulla maggior parte delle materie su cui ha, a malincuore, ceduto il potere[4]; e non si sogna minimamente di creare un vero sistema decentrato, con poteri amministrativi e decisionali esclusi dagli ambiti più importanti.

I comuni soffrono in particolare questa situazione, perché da un lato ricevono sempre meno soldi dallo Stato (e non hanno sufficiente autonomia per procurarsi altri fondi) mentre dall’altro devono garantire una serie di servizi che i loro cittadini (ed elettori…) si aspettano.

Il risultato è che molti finiscono soffocati di debiti; e a quel punto interviene lo Stato con i suoi commissari e i suoi lunghi e complessi piani di rientro – che ovviamente non funzionano mai. La città finisce così per attraversare una crisi finanziaria dietro l’altra e rimane in uno stato di sovranità limitata per anni, a volte decenni.

Il punto è che ad essere sbagliata è proprio la concezione dello Stato che ha la nostra classe dirigente.

Il comune non dovrebbe essere visto come un organo dello Stato centrale, a cui si distribuisce denaro dall’alto per poi salvarlo quando le cose vanno male. Così non si crea una cultura della responsabilità, né presso gli amministratori locali né presso i cittadini; è solo un modo per mantenere il predominio del governo centrale e della sua classe di burocrati e politici.

Il comune dovrebbe invece essere un singolo ente autonomo, che si auto-finanzia presso i suoi residenti ed è responsabile di fronte a loro della sua condotta finanziaria. Se un ente del genere fallisce, a pagarne le spese saranno i suoi residenti, e solo loro; e non perché li si debba punire; ma perché solo commettendo errori e vedendone le conseguenze gli individui possono capire dove hanno sbagliato ed effettuare scelte migliori.

Del resto, non vediamola solo negativamente: un comune autonomo e ben amministrato potrebbe fornire servizi migliori ai cittadini – o addirittura abbassare le loro tasse!

I fallimenti sono importanti sia per un individuo che per un sistema (politico ed economico): permettono di individuare gli errori e di migliorare la qualità delle decisioni successive. Per quale ragione i comuni non dovrebbero poter fallire?

 

 

[1] Fonte: https://quifinanza.it/finanza/governo-paga-debiti-di-roma/267699/

[2] Dal 2009 l’enorme debito accumulato dalla capitale viene pagato al 60% con fondi prelevati dalla contabilità nazionale – soldi di tutti gli italiani dunque.
Fonte: https://www.nextquotidiano.it/debito-di-roma-chi-paga/

[3] Ad esempio Catania, nel 2008, cfr: http://www.repubblica.it/2008/10/sezioni/politica/cavaliere-salva-catania/cavaliere-salva-catania/cavaliere-salva-catania.html

[4] Per come funziona il sistema delle competenze “condivise” e “residuali” fra Stato e Regioni, cfr: https://it.wikipedia.org/wiki/Potest%C3%A0_legislativa_in_Italia

La Svezia e l’equivoco socialdemocratico

In Italia si parla spesso dei Paesi scandinavi come modelli alternativi, esempi di successo di politiche socialdemocratiche o addirittura socialiste; e recentemente questa moda ha preso piede perfino negli Stati Uniti[1]. Alla base di questi riferimenti c’è sempre la ricerca della mitica “terza via”, che permetterebbe di superare il capitalismo senza gli eccessi e i fallimenti del comunismo[2].

La Svezia, in particolare, è il Paese a cui tutti costoro guardano. “Ecco”, si dice, “una nazione che riesce a crescere e creare benessere per tutti con politiche sociali e attente ai poveri, rifiutando il perfido neoliberismo. Questo è l’esempio che dovremmo seguire. Freghiamocene di austerità, libertà economica e tassazione, a salvarci sarà la spesa pubblica!”.

Ovviamente, la realtà è un po’ diversa: la Svezia non cresce per via della sua alta spesa pubblica, ma al contrario si può permettere quel livello di spesa perché cresce. Sembra un gioco retorico, ma non lo è: la Svezia basa la sua crescita su un modello economico liberale, non su una fantomatica “terza via”.

Gli svedesi hanno dovuto capirlo e impararlo sulla loro pelle. Negli anni ’70 e ’80 la Svezia aveva creato un esteso sistema di welfare, che ancora adesso è in piedi (seppure ridotto). Ma in quegli anni i governi socialdemocratici utilizzarono anche politiche che definiremo per comodità keynesiane, utilizzando regolarmente la spesa pubblica per spingere la propria economia.

Fu in quegli anni che la tassazione svedese crebbe fino a livelli mai raggiunti nel mondo occidentale[3], mentre lo Stato acquistava centinaia di aziende private in crisi e cercava di rilanciarle con soldi pubblici. Nel corso degli anni ’80 lo Stato svedese era arrivato a pesare per oltre il 60% sul PIL del Paese; si sarebbe mantenuto su quei livelli fino a metà anni ‘90.

E quale fu il risultato? Negli anni ‘50 e ‘60 la Svezia aveva conosciuto una rapida e sostenuta crescita economica, fino a diventare il 4° Paese occidentale più ricco, per PIL pro capite, nel 1970. Vent’anni dopo, il Paese scandinavo era invece in profonda crisi: la Svezia era cresciuta di circa la metà rispetto alla media OCSE per tutti gli anni ‘80 e il suo PIL pro capite era ormai il 14° nel mondo occidentale. Il Paese era entrato in una spirale apparentemente irreversibile di spesa pubblica e tassazione crescenti e crescita asfittica.

Quale fu la soluzione del governo Bildt (il primo non socialdemocratico dopo decenni)? Proprio quella indicata dal pensiero liberista standard: privatizzazioni, de-regolamentazioni, calo delle tasse e della spesa pubblica[4].

L’impatto iniziale fu ovviamente molto pesante per la società svedese: disoccupazione e debito pubblico salirono rapidamente, mentre la crescita restava bassa e l’inflazione non accennava a diminuire; il nuovo esecutivo non volle comunque tornare indietro, convinto della correttezza del rimedio.

E in effetti la situazione economica stava cominciando a migliorare quando nel 1994 il governo conservatore cadde e tornarono al potere i socialdemocratici. Quel che successe dopo illustra chiaramente la qualità del dibattito pubblico svedese: il fallimento delle politiche keynesiane dei precedenti decenni era ormai talmente accettato e riconosciuto che il nuovo esecutivo non pensò neanche per un istante di invertire la rotta.

Da allora, le riforme pro-mercato sono proseguite fino ad oggi, sotto governi di ogni colore, creando una delle economie più business friendly al mondo: oggi l’indice Doing Business della Banca Mondiale considera la Svezia come il 12° Paese al mondo dove è più semplice fare impresa[5].

“Miracolosamente”, in seguito a queste riforme la Svezia è tornata a crescere e ad essere il Paese ricco e prospero che già era stato. I suoi tassi di crescita sono regolarmente intorno al 2-3%, quando non più alti, la produttività del lavoro cresce più della media OCSE, disoccupazione e inflazione si mantengono basse[6].

Cosa ci insegna questa storia? Che non esistono ricette speciali o magiche per far crescere un Paese; tutto quello che serve è non soffocarlo di tasse e regole e lasciare libertà di azione agli individui. Questa è la rivoluzione culturale che la Svezia effettuò trent’anni fa – e che noi ci auguriamo anche per il nostro Paese.

 

[1] https://www.huffingtonpost.com/bernie-sanders/what-can-we-learn-from-denmark; https://www.bloomberg.com/news/articles/2019-01-06/ocasio-cortez

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Terza_via

[3] http://www.reforminstitutet.se/wp/wp-content/uploads/2014/03/Twentyfiveyearsofreform140301.pdf

[4] http://www.reforminstitutet.se/wp/wp-content/uploads/2014/03/Twentyfiveyearsofreform140301.pdf

[5] http://www.doingbusiness.org/en/rankings

[6] Dati ricavati da archivi World Bank

Perché essere liberali

È dura essere liberali in Italia. Tanto per cominciare, di solito nessuno sa neanche cosa sia o a cosa creda un liberale. I pochi che lo sanno ti collegano subito a qualche personaggio o partito politico ed è difficile spiegargli che il liberalismo non è esattamente quella cosa lì. Va pure peggio se ti dichiari liberista. Lì sì che capiscono… e ti chiedono subito perché odi i poveri o se godi a sfruttare i bambini (questo è all’incirca il pensiero medio); se poi va proprio male li senti pontificare sulla necessità dello Stato e l’importanza degli stimoli alla domanda (“non sai che Keynes ha risolto la crisi del ’29??[1]”). A quel punto la reazione tipica è tirare un sospiro e provare a spiegare con calma che liberismo non significa né Far West né sfruttamento. Il liberalismo è molto di più: è un’ideologia politica ancor prima che economica.

Non starò qui a raccontare cosa è il liberalismo, tante persone l’hanno già fatto prima e meglio di me. Voglio spiegare invece cosa significa per me essere liberale. Io questa ideologia sono arrivato per caso, ero liberale prima ancora di sapere cosa volesse dire. Ci sono arrivato partendo da una cultura di sinistra (e tuttora continuo a considerarmi di sinistra)e votare tendenzialmente di là), per gradi, a partire da riflessioni personali. Ho scoperto solo in seguito che ciò che sentivo e pensavo era già esposto in brillanti opere scritte molto prima che io nascessi.

Sono diventato liberale perché non mi piacevano le risposte semplici (“noi siamo bravi e intelligenti e potremmo sistemare il mondo, purtroppo il popolo è stupido e non ci capisce”), perché ho un forte senso di giustizia (con che diritto si può obbligare un individuo a essere “solidale” con un altro, ad esempio?), perché non sopporto il group thinking, perché mi fanno ridere coloro che credono di avere tutte le risposte e di poter decidere cosa è meglio per gli altri – anche nella mia vita privata sono così: non amo dare giudizi sulle vite altrui e do consigli solo quando esplicitamente richiesti.

Ma soprattutto sono liberale perché detesto l’idea che qualcuno abbia il diritto di controllarmi e dirmi cosa posso o non posso fare. Voglio poter vivere la vita a modo mio, senza essere obbligato a seguire regole decise da chissà chi. E l’unica ideologia politica che ti propone ciò è il liberalismo. Socialisti, fascisti, fanatici di varie religioni, tutti loro pretendono di insegnarti qual è il giusto modo di vivere, cosa puoi o non puoi leggere e ascoltare, chi devi ammirare e chi odiare, chi puoi e non puoi amare. Al liberalismo tutto ciò non interessa perché sa che ognuno di noi è un individuo unico, diverso da ogni altro: non esistono regole di vita valide per tutti. Siamo delle eccezioni, ognuno di noi. E dobbiamo liberamente cercare la nostra strada.

Il liberalismo è ottimista, ha fiducia nel genere umano e nelle sue capacità. Ritiene gli uomini generalmente buoni e intelligenti, capaci di aiutarsi a vicenda e di inventare continuamente modi per migliorare la condizione della nostra specie. Per questo non ama le regole (se non quelle di base necessarie per una convivenza pacifica): servono solo a controllare e tenere a freno gli esseri umani e la loro naturale bontà e intraprendenza. Lasciati liberi, gli uomini riescono a ottenere risultati straordinari, e la storia degli ultimi 250 anni è lì per dimostrarlo. Non bisogna avere paura della libertà.

Il liberalismo mi ha conquistato perché mi comunica leggerezza e serenità, ottimismo e fiducia. Okay, può essere un po’ naive nel suo credere alla bontà e intelligenza degli uomini. Ma non è meglio un’ideologia che ci insegna a stimare e confidare negli altri esseri umani, piuttosto di quelle che ci vogliono divisi in gruppi e categorie e destinati a odiarci l’un l’altro? Per me la scelta è facile, ed è la scelta della libertà.

[1] Leggersi Rothbard, Friedman et alia per capire perché non è affatto vero

Cina e la libertà: una strada senza ritorno

Quando pensiamo alla Cina come Paese, due immagini subito ci vengono in mente: lo stato totalitario e la superpotenza economica. Ed è questa doppia dimensione che continua a sconcertare politici e intellettuali in tutto l’Occidente, abituati a vedere unite libertà e progresso economico. E ad inquietare molti di noi, davanti alla prospettiva di uno Stato ricco e autoritario come mai si è visto prima.

Quando 40 anni fa la Cina decise di aprirsi progressivamente al libero commercio e alla proprietà privata, molti analisti pensarono che fosse solo questione di tempo prima che l’Impero di Mezzo diventasse una democrazia. La repressione operata dopo le rivolte di piazza Tienanmen raffreddò gli animi, ma a lungo restò un ottimismo di fondo. Eppure, con il passare degli anni il controllo del Partito Comunista Cinese (PCC) restò saldissimo e l’entusiasmo si affievolì fino a spegnersi, anche tra i sinologi più esperti.

Cosa pensare dunque? La Cina sembra sfuggire alle nostre categorizzazioni e alle nostre idee preconcette; siamo di fronte a un nuovo modello politico, in grado di coniugare stabilmente autoritarismo politico e libertà economica? Nel mondo accademico molti ne sono oramai convinti; la Cina, dicono, non può essere analizzata con le nostre categorie “occidentali” e deve essere considerata un modello a parte. Si parla delle specificità cinesi, della sua cultura millenaria, per spiegare come mai non segua i comportamenti attesi; e ci si chiede se lo stesso valga per i Paesi arabi e africani. Siamo, insomma, di fronte alla relativizzazione della democrazia e della libertà. Il punto è che tutto questo è completamente errato. Oltre ad essere molto pericoloso.

La visione che in Occidente si ha della Cina è falsata da due pregiudizi: il primo è che in Cina non esista alcuna libertà personale, o comunque che sia molto limitata; il secondo è che il PCC abbia un controllo totale sul Paese. Entrambe queste idee sono infondate.

Partiamo dalla prima: nel 1976, alla morte di Mao, la Cina era uno stato totalitario, dove non esisteva neanche il concetto di libertà individuale o proprietà privata. Oggigiorno, è un Paese con una classe media in forte espansione, dove le persone possono vivere e lavorare in maniera del tutto analoga a quanto facciamo noi; per molti occidentali che vi si trasferiscono, la differenza con gli Stati Uniti o l’Europa è trascurabile. La ragione è che da molti anni a questa parte il Partito Comunista ha rinunciato all’idea di dominare ogni aspetto della vita dei propri cittadini, puntando invece a mantenere un saldo controllo sul potere politico. I cittadini cinesi sanno che non saranno disturbati in alcun modo fintanto che si terranno fuori dall’agone politico, ma che subiranno pesanti conseguenze se dovessero violare questo “patto[1].

Le stesse strategie di repressione si sono evolute e sono diventate molto più raffinate: i dissidenti affrontano esili, incarcerazioni, licenziamenti, ostracismo sociale, con l’obiettivo di isolarli e renderli inoffensivi; ma non sono più fucilati in massa, né vi sono stragi di piazza come nel 1989. Il regime permette e incoraggia anzi un certo livello di confronto sui media e nell’opinione pubblica, fintanto che non si mettono in discussione il sistema stesso o i massimi esponenti del Partito: in questo modo offre una valvola di sfogo ai critici e ottiene una migliore comprensione su dove intervenire nel Paese.

Passiamo ora al secondo punto. Come detto, il PCC ha affrontato una profonda trasformazione negli ultimi 40 anni e ha totalmente cambiato fisionomia, dimostrando la propria flessibilità. Non controlla più direttamente tutto il sistema economico, ma si accontenta di influenzarlo cooptando dirigenti e imprenditori e imponendo membri del partito in punti chiave delle grandi aziende. Il sistema giudiziario è teoricamente indipendente, ma i giudici possono essere rimossi o spostati a piacimento dal regime, che indirizza come vuole le sentenze. I media sono pesantemente censurati, un esteso sistema di sorveglianza fisico e digitale monitora la cittadinanza e tutti i membri del Partito stesso sono a loro volta controllati da un onnipotente organismo chiamato Dipartimento Organizzazione, che ne valuta la fedeltà e dispone ricompense e punizioni.

Agli occhi dell’Occidente, sembra spesso un moloch impossibile da abbattere, un mostro tentacolare capace di controllare e soffocare ogni possibile rivale politico… ma non è così.

Il PCC ha invece diverse grosse difficoltà: la corruzione continua a essere molto alta ed è ormai impossibile fermare la diffusione di notizie sugli scandali; coniugare gli interessi divergenti di industrie e province è sempre più complesso ed è causa di forti dissidi interni; ultimamente, poi, è diventato complesso tenere a bada il nazionalismo dell’opinione pubblica. Ma, soprattutto, il Partito affronta una “crisi di vocazione” senza precedenti: coloro che entrano a farne parte e raggiungono posizioni di vertice provengono da classi sociali elevate, poco rappresentative della popolazione, e hanno scarsa fede nella dottrina socialista; alcuni hanno un generico nazionalismo, altri sono puramente interessati al potere e alla ricchezza che l’adesione al PCC offre.

Sotto il suo aspetto minaccioso, il regime cinese è molto fragile e si tiene in piedi grazie a due fattori: il favore popolare dovuto al continuo progresso economico e la paura – sia della repressione che della libertà. E tutto questo non può durare in eterno. Ad un certo punto vi sarà una crisi economica importante e il regime sarà messo in discussione; o forse crollerà dall’interno, a causa di lotte intestine ormai fuori controllo. Il fatto è che il PCC non può più ignorare le forze economiche e sociali all’interno del Paese, che sono cresciute grazie alla svolta di Deng Xiaoping: la strada verso la libertà è senza ritorno.

[1] Fanno eccezione le comunità religiose, che in molti casi continuano ad essere perseguitate.

Serena Williams e l’eguaglianza nel tennis

La finale femminile degli US Open di tennis vedeva contrapposte Serena Williams, americana di 36 anni, contro una ventenne giapponese (ma cresciuta negli States), Naomi Osaka. Per chi non seguisse il tennis, Serena Williams è unanimemente considerata fra le più grandi giocatrici della storia, se non la più grande. Era la ovvia favorita, nonostante fosse tornata a giocare solo da pochi mesi dopo aver portato a termine la sua prima gravidanza.

La partita ed il suo risultato sarebbero rimasti normalmente confinati nel mondo degli appassionati, se non fosse stato per il feroce litigio fra Williams e Carlos Ramos, arbitro della finale.

La campionessa americana ha ricevuto 3 warning durante il match, finendo penalizzata con un intero game[1], l’ultimo dei quali per aver accusato l’arbitro di essere un ladro. Da appassionato, l’episodio mi era sembrato sul momento poco rilevante: è successo molte volte che giocatori abbiano ricevuto warning e conseguenti sanzioni, e spesso i giocatori le ritengono ingiuste e protestano platealmente a riguardo.

La novità è stata l’accusa di sessismo rivolta all’arbitro, dopo il match, da Serena Williams; l’americana ha sostenuto che Ramos non avrebbe mai punito così severamente un uomo e che il trattamento ricevuto è stato ingiusto. L’accusa sembra francamente incredibile a chi segue lo sport: non solo i maschi vengono abitualmente sanzionati di più (solo in questo US Open, 23 warning a 9), ma lo stesso Ramos, noto per la sua rigidità, si era scontrato in passato anche con grandi campioni maschi come Nadal e Djokovic. In maniera interessante, però, Serena ha ricevuto  l’appoggio sia della USTA (federazione tennistica americana) che della WTA (associazione giocatrici) [2]; la sua querelle in campo è ora diventata una battaglia di equità fra i sessi.

Il tennis è sempre stato all’avanguardia nelle battaglie femministe, ma questo non vuol dire che alcune lotte non siano eccessive e fuori bersaglio. Intendiamoci, il sessismo nel tennis esiste: ad esempio, la giocatrice francese Alizé Cornet è stata sanzionata proprio durante gli US Open per essersi cambiata la maglietta in campo, nonostante i suoi colleghi maschi lo facciano tranquillamente (la sanzione è stata poi cancellata, con le scuse dell’organizzazione); ed anni fa il torneo di Montréal utilizzò manifesti parecchio infelici per promuovere il tennis femminile.

Il problema è che la lotta sotto la bandiera dell’eguaglianza copre ormai ogni cosa: dalle polemiche poco credibili di Serena Williams contro l’arbitro a una questione ben più importante come i montepremi dei principali tornei; su quest’ultimo tema vorrei in particolare concentrarmi.

Il tennis è l’unico grande sport al mondo che prevede un montepremi uguale fra uomini e donne nei grandi tornei, che sono quasi tutti “combined”, cioè ospitano sia una competizione maschile che una femminile. La battaglia per la divisione paritaria dei montepremi cominciò negli anni ’70 grazie alla lotta della celebre tennista Billie Jean King; nei decenni seguenti si è sostanzialmente conclusa con l’adeguamento generalizzato dei montepremi femminili a quelli maschili. La lotta di King è diventata nel tempo un simbolo del femminismo, e tuttavia dobbiamo chiederci: è giusta questa battaglia?

Partiamo con una premessa: i compensi che noi percepiamo non dipendono solo dal tipo di lavoro svolto o dall’impegno che vi profondiamo, ma anche e soprattutto da quanto il mercato è disposto a pagare per il nostro lavoro.

Non è facile avere dati precisi sulla popolarità del tennis maschile rispetto a quello femminile (anche per via dei tornei combined), ma quelli di cui disponiamo forniscono risposte chiare: nel 2014, i ricavi del tour[3] maschile erano più alti di quello femminile di quasi il 50%[4], e nel 2016 l’ATP Tour fu seguito da quasi un miliardo (968 milioni) di spettatori in TV[5], mentre un anno dopo, pur con un trend in crescita, la WTA era seguita da circa 500 milioni[6] (non ho trovato dati per il 2016, ma nel 2015 erano 395 milioni[7]). Gli uomini attirano più spettatori e generano dunque maggiori ricavi, e ci si aspetterebbe che i montepremi vengano divisi su questa base; e invece ciò non avviene.

La divisione equa dei montepremi va a svantaggio degli uomini ed è in effetti un unicum nei grandi sport professionistici: nel calcio, nel basket o nel golf non vi è parità, né vi sono lotte per ottenerla. La situazione oltretutto va a danneggiare principalmente i tennisti di medio-bassa classifica; per un grande giocatore intascare 1 milione di dollari per la vittoria di uno Slam invece che 1,5 o 2 non fa molta differenza, tanto più che i veri guadagni arrivano dagli sponsor.

Molto diversa è invece la situazione per i giocatori di livello minore, per i quali un aumento del 50% dei propri guadagni può fare la differenza fra poter continuare a competere o doversi ritirare: il tennis è uno sport molto costoso e si calcola che solo i primi 150 giocatori al mondo riescano a stare in positivo fra entrate e uscite; per tutti gli altri giocare significa perdere soldi, nella speranza di arrivare un giorno a un livello sufficiente da ripagare l’investimento.

Alcuni giocatori di seconda fascia hanno provato a lamentarsene (Gilles Simon e Sergiy Stakhovsky, per citarne due); il risultato è stato aspri rimproveri aspramente da colleghi/colleghe e opinionisti vari, e nessun seguito è stato dato alle loro proteste.

Al momento, non sembra probabile che vi sarà alcun cambiamento nel breve periodo. Perché le regole di suddivisione vengano cambiate, servirebbe una protesta complessiva di tutto il movimento tennistico maschile, che coinvolga anche e soprattutto i grandi nomi; tuttavia, giocatori come Djokovic, Federer o Nadal sono comprensibilmente restii a capitanare un movimento del genere, visti i potenziali danni d’immagine[8].

Eppure il problema resta e aiuta a comprendere meglio un concetto fondamentale: imporre l’uguaglianza sostanziale significa negare la giustizia.

 

Note:

[1] Per chi non conoscesse bene le regole, nel tennis l’arbitro può comminare dei “warning” ai giocatori che infrangono una norma del regolamento; i warning non portano a sanzioni di per sé, ma per effetto cumulativo: al primo warning non succede nulla, al secondo si perde un punto, al terzo un game, al quarto l’intera partita

[2] L’ITF, federazione internazionale di tennis, e gli stessi US Open hanno invece appoggiato l’arbitro

[3] Il tennis, sia maschile che femminile, è organizzato in tour di durata annuale, con una serie di tornei, in diverse città mondiali, da Gennaio a Ottobre-Novembre

[4] https://www.sportsbusinessdaily.com/Journal/Issues/2015/11/23/Leagues-and-Governing-Bodies/ATP-revenue.aspx

[5] https://www.atpworldtour.com/en/news/atp-world-tour-250-media-rights-2017

[6] http://www.wtatennis.com/ABOUT-WTA

[7] http://www.wtatennis.com/content/wta-global-interest-all-time-high-0

[8] Un paio di anni fa il serbo Novak Djokovic, all’epoca n°1 del mondo, aveva provato ad affrontare timidamente l’argomento, ma aveva fatto quasi subito marcia indietro, dopo le forti polemiche suscitate (https://www.gazzetta.it/Tennis/ATP/23-03-2016/tennis-djokovic-si-scusa-facebook-le-polemiche-sessiste-premi-1401125743847.shtml)