Libertà personale e libertà economica

Nella nostra società diamo grande importanza alla nostra libertà personale e ai nostri diritti: dalla libertà di parola a quella di movimento, fino al poter esprimere la nostra sessualità liberamente. Molto più dura è la vita per la libertà economica. Ad ogni angolo, dai talk show alle interviste di politici e intellettuali ai discorsi da bar che si possono fare con i nostri amici, si sente invocare la necessità di difenderci dalla concorrenza straniera, di porre limiti all’avidità degli imprenditori, di combattere il “liberismo selvaggio” o la “finanziarizzazione dell’economia”. In sostanza: di limitare la libertà economica. Quello che non è chiaro a molti, però, è che la libertà personale e quella economica non sono separabili.

Partiamo dai dati: il Cato Institute, un istituto di ricerca americano, pubblica ogni anno un indice sulla libertà umana, che è a sua volta suddiviso nelle dimensioni di libertà personale ed economica (con scala da 1 a 10); anche da un’occhiata veloce si nota facilmente quanto le due dimensioni siano collegate fra loro[1]. Se si prendono ad esempio tutti i Paesi “sufficienti” (quindi con score dal 6 in su) sul piano della libertà economica, solo 16 su 122[2] sono insufficienti sul piano della libertà personale. E risultati analoghi si ottengono facendo la prova inversa[3].

Ovviamente ci sono Paesi riescono a scindere le due dimensioni, ma di solito non per lungo tempo. Nel 2008, ad esempio, vi erano 18 Stati che avevano libertà economica positiva e personale negativa: nel 2015 tutti quei Paesi tranne 4 avevano o incrementato il proprio score sulla libertà personale o diminuito la libertà economica[4].

Abbiamo dunque visto che una correlazione c’è, e molto forte, ma perché è così? Cosa lega il peso della burocrazia su un’attività imprenditoriale a, per esempio, la censura della libertà di parola? La prima ragione, più immediata, è che la libertà economica è il singolo fattore più importante per la crescita economica di una nazione.

Opprimerla significa mandare in crisi l’economia e in nessun posto i cittadini premiano i governanti che peggiorano le loro condizioni di vita. I potenti che vogliono mantenere il controllo su un Paese che si sta impoverendo devono necessariamente farlo con la forza: se si vuole un esempio recente, basti pensare al Venezuela.

Ma la libertà economica ha anche un valore meno astratto, più pratico. Pensiamo a una storia semplice, ma possibile. Un giorno, leggendo un articolo su un blog, un ragazzo si imbatte in una meravigliosa descrizione dell’antica arte della miniatura in legno; subito decide che gli piacerebbe saperne di più impararla e piano piano, a forza di tutorial su YouTube e di ore e ore di esercizi, diventa un maestro in questa difficile disciplina. Ormai ha scoperto che nulla gli darebbe più soddisfazione che fare solo questo lavoro tutto il giorno, e già alcuni suoi amici e conoscenti gli hanno chiesto di poter comprare una sua creazione.

A quel punto, l’idea: aprirà un piccolo negozietto e venderà lì quello che crea; vivrà della mia arte, facendo ciò che ama. Ora poniamo che il nostro povero artista viva in uno Stato in cui la libertà economica è calpestata. Appena comincia a mettere in pratica la sua idea, subito è travolto da mille regole e restrizioni, mentre fisco e burocrati continuano a chiedergli sempre più soldi in tasse e balzelli di vario genere; alla fine, scoraggiato, decide di abbandonare il suo sogno. Lavorerà per il resto della sua vita in un ufficio o fabbrica, dopo aver detto addio alle sue speranze.

Non è questa una privazione della libertà? Non si prova a leggere una storiella come questa una sensazione di ingiustizia fortissima? Certo, questa storiella è inventata, ma ha basi reali, è la realtà quotidiana in molti Paesi dove la libertà economica è repressa e dove chi vuole realizzare i propri sogni è spesso obbligato a corrompere e scendere a compromessi con burocrati e agenti del fisco.

Reprimere la libertà economica significa distruggere le nostre possibilità di realizzare ciò che sogniamo. Certo, non tutti vogliamo aprire un negozietto per vendere miniature di legno; ma tutti sogniamo di migliorare la nostra vita ed è questo che ci tolgono i governi oppressivi: la possibilità di costruirci un futuro migliore.

[1] Per gli amanti della statistica, l’indice di correlazione è 0,64 per gli indici del 2015

[2] Dati del 2015

[3] Per la precisione, 8 su 119

[4] Tutti i dati sono disponibili al sito https://www.cato.org/human-freedom-index

Perché non possiamo essere comunisti (nè socialisti)

Pochi giorni fa è ricorso l’anniversario della nascita di Karl Marx, un evento che è stato ampiamente celebrato in tutto il mondo occidentale, con citazioni, nuovi saggi, film e approfondimenti di vario genere. Al di là dell’aspetto ironicamente consumistico che hanno assunto molte di queste iniziative, l’occasione è stata utile per mostrare quanto il comunismo eserciti tuttora un fascino notevole e attiri proseliti e sostenitori. Sembra quasi che i fallimenti delle esperienze del socialismo reale siano stati dimenticati ed è impossibile non esserne preoccupati.

Personalmente, comprendo benissimo il fascino del marxismo. Cresciuto in una tradizione politica e culturale di sinistra, il comunismo e il socialismo sono stati per anni un mio punto di riferimento ideale pur avendone una conoscenza, in fondo, piuttosto superficiale. A 14 o 15 anni già sapevo che il socialismo reale si era rivelato un fallimento costoso e sanguinoso, ma non riuscivo a confutarne i principi: come si può ritenere sbagliata un’ideologia che vuole mettere fine all’ingiustizia che si osserva tutti i giorni nella società? Che spiega di mirare a un mondo diverso, dove nessuno soffra il freddo o la fame e dove l’aspettativa e la speranza di una vita migliore non siano condizionate dal Paese e dal ceto sociale in cui si nasce?

Sono arrivato per gradi a capire cosa c’era che non funzionava. Tanto per cominciare, lo studio della storia mi insegnava che l’umanità non aveva mai vissuto lunghi periodi di pace e benessere, sotto qualunque tipo di regime; e che gli episodi più feroci di ingiustizia o di violenza non erano per forza legati a dinamiche economiche, ma anche a divisioni etniche, politiche, religiose, ecc. Guardando poi alla storia del Novecento, la brutalità dello stalinismo o del maoismo rendevano evidente che l’ingiustizia in quei regimi non era stato affatto eliminata, anzi! Ed anche i Paesi socialisti meno violenti avevano una lunga storia di corruzione e di repressione della libertà. Se il marxismo funzionava, perché i regimi socialisti erano teatro di violenze e prevaricazioni? Ci si sarebbe aspettato che eliminando le disuguaglianze economiche la società sarebbe stata più giusta e libera, ma non sembrava che così fosse.

Ci doveva quindi essere, alla base dell’ingiustizia, qualcosa che andava oltre le differenze economiche. E l’osservazione della realtà intorno a me (anche solo la scuola e le sue dinamiche) ha fornito l’ultimo tassello: l’ingiustizia deriva dalla disparità di potere. Basta concedere una goccia di autorità a un individuo per generare oppressione e violenza, fisica o verbale che sia. Le disuguaglianze economiche o sociali possono contribuire, ma non sono il cuore del problema.

Marx non era uno sciocco e comprendeva il dilemma che ponevano gerarchia e potere; secondo la sua dottrina, dopo una fase iniziale di dittatura del proletariato l’umanità sarebbe passata allo stadio finale di società comunista, dove non ci sarebbero state più classi sociali né disparità economiche e di potere, e dove sarebbero state cancellate tutte le forme di ingiustizia.

Ci sono un paio di cose che non tornano in tutto ciò: punto primo, perché una tale società non è mai esistita? E poi, perché mai si dovrebbe passare da una dittatura per raggiungere questo felice stadio? Alla prima domanda, Marx rispondeva parlando delle sovrastrutture ideologiche, create dalla classe dominante, che dividevano o assopivano gli individui (“la religione oppio dei popoli”, come da famosa citazione). Alla seconda, con la necessità di eliminare appunto tale classe dominante e tutti i suoi ideologi e difensori, per livellare la società e cancellare ogni sovrastruttura.

Il problema è che le due risposte sono in realtà in contraddizione fra loro: la prima presuppone che gli uomini siano essenzialmente buoni e pronti a vivere in perfetta armonia ed uguaglianza; la seconda insegna che una parte degli uomini è assolutamente malvagia e decisa ad opprimere i propri simili. Se la prima risposta fosse vera, come potrebbero esistere disuguaglianze e ingiustizia? Perché la società umana non vive già in perfetta pace e fratellanza? Se fosse vera la seconda, come si concilia con la prima? E, più pragmaticamente, come si impedisce a questa minoranza di “malvagi” di sfruttare il resto dell’umanità?

Per rispettare le premesse logiche del marxismo, l’umanità deve essere composta di una massa di uomini buoni ma stupidi e di una minoranza di uomini intelligenti, alcuni cattivi e altri buoni. Solo in questo modo si può spiegare l’oppressione delle classi popolari e le possibilità di successo di una rivoluzione comunista. Il marxismo propone una visione estremamente elitista del mondo, ed incompatibile con la democrazia (o con l’anarchia).

L’unico modo, in una visione simile, di evitare che i “malvagi” opprimano i buoni è tenere i primi sempre sotto controllo. La società dovrà dunque essere dominata da una élite di uomini intelligenti e buoni, che soli possono proteggere la massa dai malvagi e garantire che la loro stessa stupidità non li danneggi: non vi potrà essere libertà, né uguaglianza di potere; ma, come abbiamo visto, in questo caso non potrà esservi neanche giustizia. E infatti i socialismi reali sono sempre state dittature, oppressive e corrotte come tutte le dittature.

Marx è stato un ottimo storico, ed un critico acuto del sistema capitalistico. Ma la sua visione politica è piena di contraddizioni e fallacie logiche e pone le basi per ingiustizia e oppressione; ed è per questo che deve essere rigettata interamente, anche a sinistra.

Un approccio empirico e liberale alla corruzione (1 di 2)

L’Italia è un Paese dove la tradizione ed il pensiero liberali sono sempre trascurati quando non attaccati. E questa tendenza emerge ancora più fortemente quando si parla di giustizia e sistema legale. Prendiamo un tema “caldo” e di forte impatto emotivo come la corruzione: scorrendo Facebook ed i principali siti di informazione, negli ultimi tempi emerge un quadro molto cupo della situazione nel nostro Paese.

Regolarmente scoppiano nuovi scandali e la sensazione generale è che le cose stiano peggiorando col passare del tempo. Tempo fa un sondaggio di un grosso giornale mostrava come quasi metà degli italiani ritenga la corruzione più diffusa oggi che ai tempi di Tangentopoli. A questo punto, le domande da farsi sono due: ci troviamo effettivamente di fronte a un’emergenza? E soprattutto, qual è il modo migliore di affrontarla, da un punto di vista sia pratico che liberale?

Alla prima domanda è difficile rispondere: mancano dati e numeri certi sulla corruzione – può solo essere stimata – e sulla sua evoluzione nel tempo. Un’indicazione può venire tuttavia dal paragone con altri Stati. Guardando al Corruption Perception Index, elaborato da Transparency International, e prendendo in esame solo i 41 Paesi analizzati nel 1995 (anno della prima rilevazione), possiamo notare come negli ultimi vent’anni circa siamo passati dal 33° al 25° posto; e le ultime 6 rilevazioni (2012-2017) ci hanno visto costantemente guadagnare posizioni e migliorare il nostro score.

Siamo sempre molto indietro rispetto alla media dei Paesi avanzati, ma non c’è prova di un trend peggiorativo. È pur vero come, di fronte ad una situazione non ottimale, conti soprattutto la percezione dei cittadini, che sentono con forza il problema ed esigono venga affrontato e risolto. Qui arriviamo alla seconda domanda.

Di corruzione parlano tutti, continuamente. Si citano scandali, ci si indigna, si lanciano accuse agli avversari politici. Si sente discutere poco, però, di come risolvere il problema concretamente. Il dibattito su social network, televisioni e giornali, si limita, di solito, a esporre due tesi, apparentemente consequenziali: la prima sostiene che la corruzione sia un problema di moralità; la seconda che si possa risolvere con leggi più severe. Lasciando da un lato per il momento le implicazioni da un punto di vista liberale, a prima vista il discorso ha una sua logica: se i controlli non bastano ad individuare i corrotti, né le pene a spaventarli, occorre aumentare entrambi. Invece non è così, perché in realtà le due tesi sono in contraddizione.

Se infatti il problema dell’Italia fosse davvero l’immoralità diffusa “per cultura”, allora non si capisce a cosa potrebbero servire altre norme. Non si può imporre l’onestà per legge, e la storia, anche recente, ci insegna come chi voglia frodare trovi sempre il modo di farlo. Per essere ancora più chiari: se l’immoralità di un comportamento deriva da fattori culturali, è solo cambiando questi ultimi che si otterranno risultati.

Oltretutto, è ormai ben noto e provato come neanche la pena più severa, quella capitale, si sia mai dimostrata essere un deterrente efficace nella lotta al crimine. Coprire buchi normativi è sicuramente utile, ma legiferare in continuazione sugli stessi temi non può portare a risultati diversi da quelli ottenuti in passato; servirà piuttosto ad aumentare la confusione in materia.

Meglio puntare su più controlli allora? Neanche questa sembra una soluzione convincente. Moltiplicare i controlli significa anche moltiplicare i tempi degli iter burocratici, aumentando gli incentivi a “oliare” il meccanismo per velocizzarlo e aumentando quindi il numero di soggetti sensibili ad azioni corruttive. Inoltre, più controlli significa responsabilità più diffuse, con maggiore difficoltà nell’identificare chi decide cosa (e chi se ne debba assumere l’eventuale colpa o merito). Più in generale, i controlli servono solo se sono sostanziali e non formali, e concentrarsi su di un aumento del numero, piuttosto che sulla loro efficacia, non sembra la strada giusta.

Cosa si può fare allora? La risposta potrebbe essere allargare il nostro orizzonte a ciò che succede nel resto del mondo, cercando di capire i motivi alla base di una corruzione diffusa. Un rapido confronto tra il ranking Doing Business della Banca Mondiale ed il Corruption Perception Index, mostra come la corruzione sia direttamente proporzionale alla difficoltà di fare affari in un Paese. Una ricerca comparsa sul Journal of Business Ethics nel 2002 mostrava una forte correlazione tra sovrabbondanza regolatoria e alto tasso di corruzione.

Insomma, più si complica il sistema normativo e si moltiplicano gli ostacoli per chi vuole fare impresa, più aumenta la corruzione in un Paese. La strada per combattere il fenomeno potrebbe dunque essere tracciata: velocizzare i tempi della giustizia, rendere più rapidi gli iter burocratici, valorizzare la responsabilità individuale tra la dirigenza pubblica e migliorare l’efficienza della nostra burocrazia. Scegliendo di agire su questi fronti, si vedranno risultati positivi nel lungo periodo.

Un approccio empirico e liberale alla corruzione (2 di 2)

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Abbiamo già mostrato come maggiori controlli e pene più severe non solo non siano un efficace strumento di lotta alla corruzione, ma anzi vadano a detrimento della stessa. A supporto di questa tesi è stata mostrata la forte correlazione tra la classifica Doing Business (che misura la facilità di fare impresa in un Paese) e il Corruption Perception Index (che rileva il livello di corruzione percepita).

Prima di tutto, un paio di precisazioni. La prima: la corruzione ha molte facce. Quando si parla di essa, non si deve immaginare solo il funzionario o il politico che pilotano gli appalti a favore di amici, ma anche i “contributi” richiesti per accelerare una pratica o al contrario per eliminare un ostacolo o la concessione di sovvenzioni improprie; e si potrebbero fare molti altri esempi. Chiaramente, diversi tipi di corruzione richiedono diversi strumenti di prevenzione e repressione. La seconda precisazione, forse più importante, è che correlazione non significa causalità.

Le più autorevoli ricerche in materia di corruzione ne legano la diffusione al grado di povertà in un Paese (misurato tramite il PIL pro capite), alla scarsa istruzione della popolazione, all’inefficienza delle istituzioni politiche presenti e a fattori storico-culturali; il ruolo della sovra-regolamentazione è al più marginale, inserito nel più ampio contesto politico-istituzionale. Il punto non è sostenere che l’unica causa della corruzione sia la proliferazione di leggi e regole, ma confutare il ragionamento opposto, fallace e molto pericoloso, più controlli = meno corruzione. Sia i dati empirici sia la logica indicano che non è così ed anzi una eccessiva regolamentazione, invece di contrastare il fenomeno, lo alimenta.

Partiamo dai dati (del 2015). Della forte correlazione tra gli indici Doing Business (sviluppato dalla World Bank) e Corruption Perception (elaborato da Transparency International) si è già detto, ma allargando l’analisi ad altri indicatori si può evidenziare meglio il rapporto tra corruzione e sovra-regolamentazione:

– L’indice Business Freedom elaborato dalla Heritage Foundation misura i tempi e i costi per aprire/chiudere un’attività o richiedere una licenza; la sua correlazione con il Corruption Perception Index è molto alta, pari a 0,77;

– Il Worldwide Governance Indicator, sviluppato dalla World Bank, analizza la qualità della governance negli Stati, facendo riferimento a 6 dimensioni (a loro volta costruite aggregando dati di vari indicatori e ricerche): Voice and AccountabilityPolitical Stability and Absence of ViolenceGovernment EffectivenessRegulatory QualityRule of LawControl of Corruption. Queste dimensioni sono tutte fortemente correlate tra loro e tra le due che più ci interessano, Control of Corruption e Regulatory Quality, l’indice di correlazione è molto elevato, essendo pari a 0,83;

– La dimensione Regulatory Quality aggrega vari indicatori, tra cui quello sul peso della regolamentazione governativa (Burden of Government Regulation) elaborato dal World Economic Forum; anche questo indice più specifico presenta una correlazione statistica positiva, seppure minore (0,34), con la dimensione Control of Corruption.

I dati concreti, insomma, non confermano affatto la tesi che servano maggiori regole, anzi sembrano suggerire la tesi opposta. Come spiegarlo? Vi sono fondamentalmente due ordini di cause: i maggiori incentivi alla corruzione e la maggiore difficoltà nell’individuare le responsabilità individuali.

La lunghezza e la complessità delle procedure burocratiche rappresentano infatti un costo ed un rischio per le imprese, che spesso sono costrette a operare “al buio” senza sapere se e quando il proprio progetto imprenditoriale avrà successo o meno; in questa situazione di incertezza sui tempi e sugli esiti, aumenta inevitabilmente la propensione a cercare di ottenere certezza sul ritorno dal proprio investimento tramite scorciatoie illegali. Questo per i corruttori. Per quanto riguarda i potenziali corrotti, la ragione è ancora più semplice: aumentando il numero di burocrati con poteri di controllo, aumenta la probabilità che qualcuno tra questi sfrutti il proprio ruolo per negoziare vantaggi privati con l’impresa o il cittadino coinvolti; ancor più se si è inseriti in un sistema che ricompensa poco il merito come l’amministrazione pubblica italiana.

Un numero eccessivo di regole e controlli rende inoltre più difficile individuare chi abbia preso una decisione. Il burocrate disonesto riesce a nascondersi alla vista molto più facilmente in mezzo a una folla di altri decisori e se poi riesce a far sanzionare una pratica illegittima da altri funzionari sarà al riparo da azioni giudiziarie.

L’Italia soffre ancora di un livello di corruzione inaccettabile per un Paese sviluppato e le solite ricette di repressione e regolamentazione non possono ottenere che risultati parziali, quando non sono controproducenti. Come si può affrontare invece il problema in un’ottica liberale? Riconoscendo che la corruzione non è una questione morale, ma bensì di costi/benefici; che più regole e restrizioni si mettono, più i cittadini e le imprese cercheranno di evaderle; e che la responsabilità individuale è fondamentale e deve essere chiaramente identificabile in ogni decisione pubblica.
Solo cambiando il nostro modo di vedere il fenomeno della corruzione, riusciremo a comprenderlo e combatterlo efficacemente.