Perché il mondo ha bisogno di libertà economica

Immaginate di svegliarvi una mattina in un letto diverso dal vostro; tutti si rivolgono a voi chiamandovi Presidente e chiedendovi di risolvere i più disparati problemi nazionali: migliorare le condizioni di vita, creare posti di lavoro, ridurre l’inquinamento, e così via.

Sono indubbiamente questioni molto complesse e non sapreste gestirle nemmeno singolarmente, figurarsi tutte insieme. Tuttavia, uno dei vostri consiglieri si fa avanti e suggerisce che, in realtà, tali problematiche possono essere affrontate in contemporanea tramite una particolare strategia politica: aumentare la libertà economica.

Chiunque sarebbe scettico. Il mondo è complicato, e non esiste una soluzione universale a tutti i dilemmi moderni. Eppure, i dati suggeriscono il contrario.

CHE COS’È LA LIBERTÀ ECONOMICA?

A livello concettuale, la libertà economica è definita come “il diritto fondamentale di ogni essere umano di controllare il suo lavoro e la sua proprietà”. Una società economicamente libera è quella in cui: 

  • gli individui sono liberi di lavorare, produrre, consumare e investire in qualsiasi modo preferiscano;
  • i governi permettono che lavoro, capitali e beni si muovano liberamente, ed evitano coercizioni o limitazioni della libertà oltre a quelle necessarie per proteggere e mantenere la libertà stessa.

Ogni anno The Heritage Foundation, un influente think tank statunitense, compila l’Indice di Libertà Economica, assegnando ad ogni paese del mondo un punteggio indicativo di quanto sia libera la sua economia; tale punteggio è calcolato a partire da 12 fattori raggruppati in 4 macro aree.

Tale indice, data la sua natura numerica, risulta particolarmente efficace per effettuare analisi statistiche di correlazione con altre variabili.

IL POTERE DELLA LIBERTÀ ECONOMICA

Il libero mercato arricchisce tutte le parti coinvolte. Questo è l’assunto su cui si basa l’ideologia liberista, e l’analisi di correlazione tra libertà economica e PIL pro capite (per potere d’acquisto) ne dimostra la validità. Il PIL pro capite, misura del reddito medio dei cittadini di un paese, risulta infatti essere fortemente connesso con l’indice di libertà economica. 

Il grafico di seguito, comprendente tutti i paesi del mondo, mostra la relazione tra libertà economica e PIL pro capite, rappresentate rispettivamente sull’asse X e sull’asse Y; ogni punto rappresenta un paese.

Come si nota, nel mondo vi è una correlazione fortemente positiva tra libertà economica e PIL pro capite, al punto che la linea di tendenza assume andamento esponenziale. Il coefficiente di correlazione è di 0,65, e il coefficiente R2 è di 0,43; tali valori significano che l’indice di libertà economica riesce, da solo, a spiegare il 43% delle variazioni nel PIL pro capite.  

In generale, risulta chiaro come i paesi liberi riescano a raggiungere livelli di ricchezza enormemente superiori a quelli non liberi.

L’Italia si posiziona appena sopra la linea di demarcazione tra paesi non liberi e paesi liberi, classificandosi come “moderatamente libera”. La libertà economica italiana risulta infatti una delle più basse in tutta Europa e ultima in Europa occidentale: peggio di noi solo la Grecia e alcuni paesi dell’Ex Unione Sovietica e dell’Ex Jugoslavia.

Il grafico mondiale risulta comunque avere molto rumore, con paesi che deviano notevolmente dalla linea di tendenza. Generalmente, tali anomalie possono essere spiegate piuttosto facilmente: i paesi eccessivamente più ricchi del previsto sono tipicamente paesi petroliferi oppure paradisi fiscali, mentre i paesi eccessivamente al di sotto della linea di tendenza hanno raggiunto buoni livelli di libertà economica solo in tempi recenti e non hanno quindi ancora avuto modo di raccoglierne i frutti.

Ulteriori informazioni emergono dall’analisi regione per regione:

Ad eccezione dell’Europa, vi è sempre una relazione esponenziale tra libertà economica e ricchezza media. La correlazione, pur oscillando tra lo 0,43 dell’Africa Sub-Sahariana e lo 0,73 dell’Asia Pacific, rimane sempre positiva: 

all’aumentare della libertà economica, la ricchezza aumenta SEMPRE.

Tuttavia, tale meccanismo risulta essere più debole nelle Americhe e in Africa Sub-Sahariana. Non è certo una sorpresa: le due regioni sono le più pericolose del pianeta, con altissimi tassi di violenza dovuti a narcotraffico e guerriglie; tale assenza delle sicurezze essenziali, unita a instabilità politica, corruzione diffusa e scarsità di infrastrutture, scoraggia gli investimenti in attività produttive, limitando fortemente il potere della libertà economica. Ciò non significa comunque che essa sia inefficace: in America Centro-Meridionale -ad eccezione di Trinidad e Tobago, piccolo paese insulare ricco di petrolio, e le Bahamas, centro finanziario offshore- il paese più libero, il Cile, risulta essere anche quello più ricco.

SI potrebbe argomentare che, se effettivamente tali problematiche fossero sufficienti a spiegare una relazione più debole, il coefficiente di correlazione del Medio Oriente e Nord Africa, una delle regioni più travagliate del globo, dovrebbe avere un valore ben più basso di 0,62, addirittura superiore a quello europeo. Ancora una volta, la spiegazione è semplice: i dati non tengono conto di ben 4 paesi (Libia, Siria, Iraq, Yemen) attualmente scossi da lunghe guerre e per cui non è possibile calcolare l’indice di libertà economica. 

In sintesi, quando si prendono in considerazione solo paesi (relativamente) stabili, la forte relazione tra libertà economica e PIL pro capite è ripristinata.

La libertà economica risulta particolarmente potente nella regione Asia Pacific (Subcontinente Indiano, Estremo Oriente, Oceania), dove la curva esponenziale è molto ripida e seguita quasi perfettamente dai paesi; le uniche anomalie sono Macao, principale hub del gioco d’azzardo (e del riciclaggio) del Pacifico, e il Brunei, micro stato ricchissimo di petrolio. Qualora non si considerino tali due eccezioni, la correlazione raggiunge addirittura un impressionante 0,86.

Non vi sono dubbi: se una mattina vi risvegliaste nei panni del presidente di un paese di questa regione, aumentare la libertà economica sarebbe il modo più rapido ed efficace per arricchire i vostri cittadini.

A questo punto, avrete sicuramente già pensato all’obiezione più ovvia: correlation is not causation, ossia correlazione non implica causalità. La presenza di una forte correlazione tra libertà economica e reddito medio non significa che le variazioni di quest’ultimo siano causate dalle variazioni nella libertà: potrebbe esserci una causa comune a monte che spinge le due variabili a comportarsi nello stesso modo, oppure la relazione potrebbe essere inversa, e sarebbe la maggiore ricchezza a spingere i governi a liberalizzare l’economia. 

La seconda ipotesi può essere facilmente smentita, dal momento che, in tutti i grafici, vi sono molte più anomalie al di sopra della linea di tendenza che non al di sotto; ossia, è molto più comune che un paese già ricco (grazie alle sue risorse naturali o a particolari condizioni storiche, legali o fiscali) decida di mantenere un’economia più chiusa che non di aprirla. E, soprattutto, se un paese senza particolari risorse fosse comunque in grado di arricchirsi senza aumentare la libertà economica, che motivo avrebbe per farlo?

Rimane quindi l’ipotesi della causa comune. Ma quale potrebbe essere tale causa? Risposta breve: nessuna. Non esiste nessuna ragione a monte che riesca a spiegare una relazione così forte e onnipresente nel mondo. Al contrario, le teorie economiche e i numerosi paesi che hanno avuto notevoli percorsi di sviluppo dopo aver cominciato ad aprire le loro economie dimostrano chiaramente che, in questo caso, non si tratta di semplice correlazione, ma di vera e propria causalità: liberalizzare l’economia porta ad uno standard di vita più alto.

Non si può abolire la povertà con una legge. Ciò che la legge può fare è creare opportunità, e non c’è opportunità più grande della libertà.

Ma il potere della libertà economica non si ferma qui. paesi più liberi hanno maggiore mobilità sociale ascendente, con correlazione di 0,74. 

In parole povere, in un paese più libero, è più facile che il figlio riesca a diventare più ricco dei genitori.

Inoltre, paesi a economia libera hanno migliori performance ambientali, con correlazione di 0,66, risultando quindi più sostenibili. 

La libertà economica non migliora solo le condizioni dei cittadini, ma anche quelle dell’ambiente.

SI potrebbe proseguire a lungo: la pagina The Power of Economic Freedom, del sito di Heritage Foundation, mostra come la libertà economica influenzi positivamente l’imprenditorialità, la crescita economica, lo sviluppo umano, l’innovazione e molto altro.

I dati non mentono. L’umanità è sulla strada giusta, il mondo non è mai stato un posto migliore e non possiamo permetterci di fermarci ora. 

La libertà economica non è una certo una panacea universale a tutti i mali del mondo, ma è uno degli strumenti più potenti in nostro possesso.

Non sprechiamolo.

Perché non sarai mai ricco se hai una mentalità socialista

Tra Filosofia e Comportamento

Prima di leggere è bene spiegare che nell’articolo non si andrà ad indagare su quelle che sono le ideologie, le dottrine o i pensieri degli esponenti delle diverse correnti, ma si andrà a valutare il comportamento delle persone, le loro scelte di vita e quindi la loro mentalità.

Mentalità Socialista ed Ideologia Socialista

Bisogna mettere in chiaro che avere una mentalità socialista è ben diverso da essere socialista. L’ideologia politica, purtroppo o per fortuna, non sempre combacia con la mentalità che si ha. Questo per via dell’ignoranza della popolazione sulle grandi dottrine economiche oppure perché si crede romanticamente a un’idea, salvo poi avere una mentalità totalmente diversa nella pratica.

Pertanto, esistono comunisti e socialisti con una mentalità individualista e liberali con una mentalità socialista, sebbene questi ultimi siano un po’ più difficili da trovare.

Cos’è la Mentalità Socialista?

La mentalità socialista si distingue dalla mentalità individualista per la responsabilità. Una persona dalla mentalità socialista tende a spostare verso l’esterno le cause dei mali che egli vive, delle condizioni in cui versa. Chi ha una mentalità socialista dà la colpa allo Stato, chiede più Stato o chiede che sia lo Stato ad occuparsi di lui.

Una persona con una tale mentalità la riconoscete perché tende con facilità a scaricare la responsabilità verso terzi, ad autoassolversi da ogni responsabilità. Egli è vittima delle circostanze, spesso perché dimenticato dalle istituzioni, come ama ripetersi.

Chi condivide la mentalità socialista ha sempre bisogno di qualcosa o qualcuno che si debba occupare di lui, il perenne bisogno di un padre che risolva i suoi problemi e lo salvi dalle sue disgrazie.

Con questa definizione riusciamo subito a capire che molti imprenditori hanno una mentalità socialista, ossia aprono un negozio/impresa o una partita Iva per crearsi un lavoro libero da “padrone”, si assumono responsabilità da imprenditore, ma poi sono pronti a scaricare ogni responsabilità se le cose vanno male (la crisi, lo stato, i cinesi, l’Europa, le tasse etc..) con una perenne aria di vittimismo.

La mentalità socialista è parte integrante della società italiana. La potete trovare anche in coloro che si professano anticomunisti, specie in quelli più aggressivi che attaccano direttamente i comunisti non risparmiando insulti, salvo poi essere, molte volte, più comunisti dei comunisti stessi. Ma anche tra sedicenti liberali c’è una forte mentalità socialista ed ora sapete come individuarla con facilità.

I politici sono i primi a diffondere questa mentalità scaricando le proprie colpe sull’Europa, l’Euro e gli altri Paesi, piuttosto che assumersi la responsabilità delle scelte fatte fino a quel momento. Scaricare la propria responsabilità su terzi è da una parte comodo e dall’altra parte un po’ da codardi.

I partiti socialisti (o comunisti) sono soliti prendersela con gli imprenditori, senza capire che la gran parte del tessuto imprenditoriale italiano ha una mentalità socialista. Non è il lavoro che si svolge o il partito a cui si è iscritti a determinate il tipo di mentalità che si ha.

La Mentalità Individualista

Dalla parte opposta dello spettro c’è la mentalità individualista. Essa, innanzitutto, si distingue dall’egoismo, pertanto è bene fare una prima distinzione. Chi è egoista pensa solo alla soddisfazione del sé. La soddisfazione del sé non è un atto di responsabilità, ma piuttosto la ricerca di un vantaggio che sia solo a proprio beneficio o della cerchia più ristretta.

Pertanto l’egoista potrebbe anche avere una mentalità socialista, basti pensare a quegli imprenditori che chiedono aiuti allo Stato, per poi evadere o sfruttare il lavoro in nero per pagare il meno possibile i propri operai, oppure a quegli imprenditori che si battono per evitare di far aprire concorrenti nella loro zona d’influenza chiedendo allo Stato maggiori regolamentazioni a danno dei consumatori, ma a loro preciso beneficio.

Dall’altro lato sono molti gli esempi, invece, di individualisti (o capitalisti come vengono definiti dai più) che hanno donato milioni a fondazioni benefiche o hanno costruito ospedali e scuole in luoghi disastrati[1].

La mentalità individualista si contrappone alla mentalità socialista per il suo approccio alla responsabilità. Mentre la mentalità socialista scarica verso l’esterno la responsabilità, la mentalità individualista si assume la responsabilità delle sue scelte e delle conseguenti condizioni.

Non importa quanto sia svantaggiata la sua condizione di partenza o gli effetti che le sue scelte abbiano provocato, chi ha una mentalità individualista cerca un modo per migliorare la propria vita assumendosi la responsabilità della sua futura condizione o dei problemi che egli stesso ha creato, anche se ciò comporta immani sacrifici.

Condizione di Partenza e Paese d’origine

Se parliamo di solo successo economico, è chiaro che il Paese di origine possa influenzare molto le possibilità di ottenerlo, non a caso nei paesi più liberali e liberisti diventare/essere ricchi è più facile, rispetto ai paesi più socialisti e meno aperti al libero mercato.

Un’eccezione è costituita dalla Cina, che sebbene non sia liberale è comunque liberista. Un secondo fattore che può influenzare il successo è la condizione di partenza, è chiaro che chi ha una famiglia più agiata abbia meno difficoltà, ma è davvero così? Uno studio rivela che il 78% dei nuovi milionari è partito da una condizione di povertà o di classe media[2].

Mentalità Individualista Vs Mentalità Socialista

Essere consci che si è artefici del proprio destino è il primo passo per poter migliorare la propria vita. Riflettete, perché una persona, il cui pensiero è che le cose non possano cambiare perché dipendono dall’esterno, dovrebbe mai impegnarsi in qualcosa?

Sarebbe uno sforzo inutile, al pari di voler abbattere una sequoia secolare a mani nude. Perché una persona in sovrappeso, che pensa che siano le sue “ossa grosse” a farlo essere in sovrappeso, dovrebbe mai impegnarsi per andare in palestra o a correre?

Perché una persona povera, il cui pensiero è quello che lo Stato debba prendersi cura di lui, e che se è povero è solo colpa dello Stato, dovrebbe mai impegnarsi per migliorare la sua condizione economica?

Una persona con una mentalità individualista, invece, sa che la sua vita dipende maggiormente dalle sue scelte, tutto dipende dalle sue azioni, ecco che quindi si opera per migliorare la propria condizione. Alla fine, se siamo principalmente noi artefici del nostro destino, è meglio muoversi fin da subito.

Ovviamente è molto difficile trovare una persona con una mentalità totalmente socialista o totalmente individualista, il più delle volte si tende da una parte o dall’altra.

In conclusione, voi che tipo di mentalità avete? Tendete ad assumervi la responsabilità individuale delle vostre scelte oppure a scaricarla sugli altri?

 

 

[1] – https://www.businessinsider.com/most-generous-people-in-the-world-2015-10?IR=T
[2] – https://millionairefoundry.com/millionaire-statistics/

Il curioso caso del capitalismo (nord)coreano

Se mai arriverà il giorno in cui i cittadini della Corea del Nord conosceranno libertà, prosperità e modernità, probabilmente non sarà grazie ad un dittatore illuminato, ad una rivoluzione violenta o ai missili americani. La loro salvezza, infatti, potrebbe provenire dalla più improbabile delle direzioni: questo è il curioso caso del capitalismo nordcoreano.

Con tutta probabilità, quando si pensa alla Corea del Nord la prima cosa che viene in mente è il suo programma nucleare, non le sue fiorenti attività imprenditoriali. Tuttavia, lentamente ma inesorabilmente, le cose stanno cambiando.

Soprattutto negli ultimi anni, il regime dei Kim sembra aver cambiato idea sulla desiderabilità dello shopping e della libera iniziativa: oggi, infatti, il Paese conta ben 436 imprese private, che fruttano circa 60 milioni di dollari in tasse al governo nordcoreano[1].

Carestia e mercato nero

Naturalmente, questo nuovo atteggiamento del regime verso il capitalismo non nasce dal nulla, e di certo non dalla bontà personale di Kim Jong-un.

In passato, era lo Stato a provvedere ai bisogni della popolazione, ridistribuendo i prodotti della sua economia ai cittadini tramite un “Public Distribution System”, o PDS[2]. Per un certo periodo, grazie soprattutto agli aiuti economici dell’URSS, il sistema funzionò. Questo, fino agli anni Novanta.

Il disastro umanitario che colpì il Paese dal 1994 al 1998 non ha bisogno di molte descrizioni. La perdita degli aiuti sovietici, unita ad una serie d’inondazioni e ad una grave siccità, condannò dai due ai tre milioni di nordcoreani alla morte per carestia[3]. Il PDS crollò, ed il regime dei Kim non poté, o non volle, venire in aiuto dei suoi cittadini.

Il bilancio sarebbe stato ancora più devastante, se non fosse stato per il mercato nero: lasciati da soli, i cittadini nordcoreani riuscirono a sopravvivere, tramite lo scambio di beni e servizi in mercati clandestini (su cui comunque il governo chiuse un occhio, comprendendo quanto fossero necessari)[4].

Alla lunga, però, il volume delle transazioni all’interno di questi mercati raggiunse dimensioni tali che il regime comunista non poté più far finta d’ignorarle; bisogna poi considerare che, dopo i disastrosi anni Novanta, la produzione agricola non si è mai veramente ripresa.

Il regime, quindi, si trovò davanti ad una scelta: restare fedele ai principi della Juche (comunismo di stampo nordcoreano), e di conseguenza eliminare con la forza questi mercati illegali, oppure venire a patti con la situazione.

Dato che la prima opzione avrebbe privato di qualsiasi mezzo di sopravvivenza gran parte della popolazione, portando potenzialmente il Paese (e quindi il regime) al collasso, Kim Jong-il (il dittatore di allora) scelse la seconda opzione: a partire dal 2002-2003, il governo ha regolarizzato alcuni di questi mercati originariamente clandestini[5].

Shopping a Pyongyang

Oggi, a quasi trent’anni dalla tragedia umanitaria che ha fatto da grimaldello per l’ingresso del capitalismo nel Paese, la Corea del Nord è un’economia ricca di sfumature, ben più complicata di quanto si ritiene nell’immaginario popolare.

Certo, in linea di massima il Paese è quello che il grande pubblico conosce attraverso i media: una nazione governata da un regime totalitario, un’economia pianificata dove tutto, dai salari ai prezzi, è deciso dallo Stato. Ma c’è anche di più.

Infatti, sebbene ufficialmente tanto la proprietà privata quanto il commercio siano illegali in Corea del Nord, in realtà il capitalismo permea l’intera società, dai più poveri dei contadini fino agli alti esponenti del regime. I primi cercano solo di sopravvivere, i secondi desiderano standard di vita più alti, ma entrambi per raggiungere il loro obiettivo ricorrono al capitalismo.

Fra i ceti medio-bassi, per esempio, è prassi comune che gli uomini abbiano un impiego statale, mentre le donne sposate hanno la possibilità di registrarsi come “casalinghe a tempo pieno”. Sembra controintuitivo, ma proprio per questo spesso le donne sposate guadagnano molto di più dei loro mariti. Com’è possibile?

Proprio in quanto esentate dall’impiego statale, queste donne sono libere di avviare un’attività in proprio. Per la maggior parte si tratta d’imprese molto piccole, coinvolte nella vendita di street-food o di beni importati come sigarette russe o birra cinese[6].

Sebbene si tratti di attività commerciali piuttosto modeste, sono sufficienti per garantire alle donne sposate guadagni diverse volte superiori a quelli dei loro mariti. Proprio per questo loro peso economico, le donne in Corea del Nord godono di diritti che non ci si aspetterebbe di ritrovare in un Paese simile[7].

Persino fra i ranghi dell’amministrazione statale, molti dirigenti pubblici, per necessità o per guadagno personale, si sono improvvisati imprenditori. In Corea del Nord, infatti, anche il settore pubblico si ritrova spesso senza finanziamenti adeguati da parte del governo, e di conseguenza è costretto a trovare fondi in un altro modo.

Per questo, non di rado chiunque goda di una posizione di potere all’interno dell’apparato statale usa la propria influenza per avviare un’attività, talvolta persino utilizzando le Forze Armate come manodopera a basso costo[8].

In questo modo è possibile diventare molto ricchi, anche per gli standard occidentali. Oggi, in Corea del Nord, si è formata così una nuova élite, che comprende questi funzionari/imprenditori e le loro famiglie.

Mentre la maggior parte della popolazione vive ad un passo dalla povertà estrema, questi pochi privilegiati guidano auto di lusso, possiedono smartphone ed affollano le strade ed i negozi della “Pyongyang bene”, che alcuni definiscono ironicamente “la Dubai della Corea del Nord”[9].

Un altro esempio molto interessante di come il regime dei Kim sia venuto a patti con la nuova situazione è la “August 3rd Rule”. In base a questa legge, esiste la possibilità per un cittadino nordcoreano di essere esonerato dal proprio impiego statale, a patto di versare una quota mensile di 50000 Won (circa 7 dollari) al governo[10].

In questo modo, il cittadino è libero di dedicarsi ad una propria attività, i cui guadagni (grazie alla August 3rd Rule, che quindi costituisce una vera e propria tassa) andranno a beneficiare anche il regime.

Un futuro migliore?

Quello della Corea del Nord non è certo il primo caso di un Paese comunista che, prima o poi, ha dovuto concedere maggiore libertà economica ai suoi cittadini per sopravvivere. Questo è già successo nell’Unione Sovietica, in Cina, in Vietnam, con diversi livelli di successo.

In alcuni casi, come in Cina, il regime comunista è riuscito a prosperare grazie alla ricchezza generata da un’economia più competitiva, ed allo stesso tempo a salvaguardare la propria stabilità (ancora oggi, sebbene moltissimo sia cambiato dai tempi di Mao, il PCC resta saldamente al potere).

In altri casi, come nell’Unione Sovietica, la maggiore libertà economica ha agito da grimaldello per le rivendicazioni politiche della popolazione: una volta in grado di comparare il loro stile di vita con quello dei Paesi dall’altro lato della Cortina di Ferro, i cittadini sovietici hanno iniziato a protestare contro il loro governo, ed il resto è storia.

Al momento è difficile, se non impossibile, determinare quale strada seguirà la Corea del Nord. Alla fine, il regime dei Kim potrebbe riuscire ad incanalare queste nuove forze a suo vantaggio, stabilendo un capitalismo di Stato simile a quello cinese.

In alternativa, come prospettato all’inizio dell’articolo, alle liberalizzazioni economiche potrebbero seguire quelle politiche, fino alla caduta più o meno pacifica del regime comunista. Ad oggi, tutto è possibile.

Tuttavia, già adesso è possibile trarre una lezione dal curioso caso del capitalismo nordcoreano, vale a dire la resilienza del capitalismo stesso.

Nell’Unione Sovietica, con tutte le risorse umane e materiali a sua disposizione, il comunismo è sopravvissuto meno di settant’anni. In Corea del Nord, neanche uno degli ultimi regimi totalitari esistenti è riuscito ad impedire il naturale sviluppo del sistema capitalistico.

[1]https://www.google.com/amp/s/qz.com/1370347/capitalism-in-north-korea-private-markets-bring-in-57-million-a-year/amp/

[2][4][5]https://beyondparallel.csis.org/markets-private-economy-capitalism-north-korea/

[3]https://www.nytimes.com/1999/08/20/world/korean-famine-toll-more-than-2-million.html

[6][7][8][9]https://youtu.be/YDvXOHjV4UM

[10]https://books.google.it/books?id=l-1pBgAAQBAJ&pg=PA27&lpg=PA27&dq=august+3rd+rule+north+korea&source=bl&ots=16iNGhlmYu&sig=ACfU3U0hqqbY08qYuxtUTztpXjvaZ1BWXQ&hl=en&sa=X&ved=2ahUKEwj1tKeHnpDqAhX68KYKHfQWB9UQ6AEwC3oECAEQAQ#v=onepage&q=august%203rd%20rule%20north%20korea&f=false

Il liberismo, il sistema economico di Adam Smith

 

Esistono uomini che lasciano il segno, individui che condizionano con il loro sistema di pensiero un’epoca intera, per non dire secoli di storia sociale e globale. Lo spirito dei tempi, la genialità umana, la cultura e il sapere hanno prodotto menti lucidissime, intelligenze ineguagliabili, studiosi che hanno dato il loro contributo a forgiare un sistema capace di resistere allo scorrere dei tempi, all’erosione del ticchettio delle lancette.

Adam Smith (1723-1790) è stato uno di questi. Egli ha dato un contributo eccezionale allo sviluppo di una disciplina che condiziona la vita di tutti i giorni: l’economia. Fu il primo che riuscì  a sganciare dalla filosofia e, in particolare, dalla filosofia morale, la scienza economica. Egli fu il primo economista classico, il pensatore sistematico che fondò una nuova disciplina: l’economia politica, intesa in senso stretto, come studio e analisi del sistema economico capitalistico oppure-in termini microeconomici-come scienza sociale che indaga il comportamento umano in maniera razionale per allocare in maniera ottimale le poche risorse disponibili.

 

Dopo Smith l’Occidente si è diviso in due agguerrite categorie: i sostenitori radicali del suo sistema, come la scuola austriaca, gli anarco-capitalisti-, i neoclassici, i liberali, liberisti, i libertariani, i minimalisti, e i critici più polemici del suo pensiero come gli statalisti, i marxisti, i collettivisti, i Keynesiani, i sovranisti e i protezionisti. Quali sono, quindi, le idee principali di Adam Smith?

Egli riuscì a sintetizzare come in un mosaico gli elementi cardine del capitalismo, nella sua opera principale: “La ricchezza delle nazioni”, pubblicato nel 1776.  Il primo principio che permette un aumento dello sviluppo e della produttività è la divisione del lavoro. Questa divisione porta i suoi benefici all’interno dell’intero sistema economico garantendo la supremazia dello scambio e del mercato; un’entità libera da dogane, dazi e protezionismi interni. Un altro principio, leitmotiv del liberismo, è la superiorità del libero mercato , della libera iniziativa economica. Ogni intervento dello Stato nell’economia  è considerato- da Smith-inopportuno, scandaloso e inefficiente. Smith a tal proposito per limitare lo strapotere della pianificazione statale, dramma odierno della burocrazia italiana, ipotizzò l’esistenza della cosiddetta “Mano invisibile”. La presenza della mano invisibile permette di realizzare un ordine sociale che soddisfa l’interesse generale e la convergenza spontanea degli interessi personali verso il benessere collettivo.

Demonizzando l’intervento dell’autorità statale, la mano invisibile permette un equilibro solido e duraturo dei mercati: Domanda e offerta di un bene o di una merce su differenti mercati tendono ad uguagliarsi e a rimanere in equilibrio. Quali sono le lezioni più importanti che possiamo ricavare dalle teorie di Smith? La libertà dell’individuo, la sua priorità rispetto alla collettività, la necessità di un capitalismo che non sia solo esorcizzato ma valorizzato: attraverso il capitale, nonostante crisi e incertezze generali, attraverso investimenti razionali, con una ridotta tassazione, attraverso la libera iniziativa è stato possibile creare ricchezza, comfort e benessere su larga scala.

È stato il capitalismo che ha fornito, nei paesi liberali, la possibilità di mettersi in gioco. È grazie al libero mercato che è stato possibile evitare qualsiasi deriva autoritaria e dittatoriale. Lo scrisse anche Friedrich Von Hayek, economista liberista, ad affermarlo nella sua opera “Verso la schiavitù “: il capitalismo teorico legittimato da Smith ci ha salvato più volte dalla “dittatura” dei nazionalismi, dei protezionismi, e dalle demagogie insite nel pensiero populista. 

 

 

 

Rialzati, Imprenditore!

Caro imprenditore,

chi scrive è uno della tua stessa specie. 

Uno di quei folli che ha deciso di fare impresa in Italia, rinunciando a qualsiasi tipo di sicurezza per provare a realizzare un sogno.

Come te sono partito da sotto zero, armato solo di ciò che sapevo fare e consapevole che non avrei mai fatto un 9-17 e poi tutti a fare aperitivo sul divano.

Ma come te amo il mio lavoro: ogni cliente che aiuto mi dà la sensazione di aver spostato l’ago della bilancia verso il bene, anche solo di poco.

Tuttavia, devo lottare ogni giorno per tenere accesa la fiamma di questo amore, perché c’è una cosa che succede in Italia che ogni tanto mi porta a chiedermi: “ma ne vale davvero la pena”?

Di cosa sto parlando?

Non è il sapere che una fetta consistente del mio fatturato va nelle mani di un governo che lo spreca nei modi più immorali possibili.1

Non è neanche sapere che, a causa di politiche assistenzialiste assurde, assumere un dipendente può costare anche più di 35mila euro annui.2

Impedendomi così di assumere lavoratori talentuosi, far crescere velocemente la mia impresa e diventare competitivo nel mercato internazionale.

E no, non è neanche sapere che le continue riforme economiche italiane rendono il paese più instabile di un tavolo con due gambe

cosa che mi obbliga a buttare tempo e risorse preziose per non morire soffocato nelle sabbie mobili dalla burocrazia italiana. 3

Quello che davvero mi manda il sangue al cervello è la considerazione pari a zero nei confronti degli imprenditori.

Siamo stigmatizzati e trattati alla stregua di fuorilegge che sfruttano degli onesti lavoratori.

Le forze politiche non ci considerano perché siamo pochi: secondo i dati ISTAT siamo meno di 5 milioni tra imprese e liberi professionisti su 60 milioni di abitanti.4

Questo significa che per le forze politiche, che prendono decisioni non in base al bene della nazione, ma in base a dove c’è il maggior numero di elettori, non esistiamo nemmeno.

Lo ripeto: per loro non esistiamo.

Dimentica che qualche politico, inserito in quella srl senza rischio di impresa che è il nostro governo, avrà mai interesse a fare delle manovre economiche DAVVERO a nostro favore.

Vorrebbe dire inimicarsi i rimanenti 55 milioni di italiani che, come disse una volta Frank Merenda, noto imprenditore e divulgatore italiano, sentono in cuor loro di avere diritto a una specie di “lavoro di cittadinanza”.

Peccato che l’economia di un paese non la crei lo Stato dal nulla.

La VERA economia del paese la crei TU, imprenditore.

È solo grazie al profitto che crei con il tuo lavoro che si crea l’economia del paese perché, a differenza di quello che molta gente crede, lo Stato NON può creare ricchezza dal nulla.

Lo Stato ha in cassa solo i soldi che, gira e rigira, gli dai tu: 

  • I pensionati ricevono soldi raccolti con le tasse di oggi;
  • I dipendenti ricevono gli stipendi che hai pagato tu;
  • I dipendenti statali vivono con soldi dei contribuenti, visto che i sistemi burocratici non producono alcun tipo di valore;

Insomma, non solo abbiamo 55 milioni di italiani sulle nostre spalle, un governo che brucia costantemente soldi per salvare Alitalia e una tassazione vergognosa.

Ma siamo anche stigmatizzati dall’opinione pubblica.5

La mia parte più ribelle sogna che tutti gli imprenditori italiani si mettano d’accordo e decidano di dare in tasse il vero corrispettivo di quello che vale questo governo: 2 centesimi.

Ma so che questo è solo il sogno di un ragazzo che vorrebbe dare la giusta dignità all’imprenditoria e al nostro paese.

Dignità che ogni giorno viene dilaniata da un governo che si nutre del nostro lavoro e in cambio ci restituisce servizi scadenti, sprechi e corruzione.

Dignità che ci viene strappata in questo “tutti contro tutti” mediatico che ci porta ad essere in lotta con i nemici sbagliati:

  • Dipendenti contro imprenditori;
  • Destra contro sinistra;
  • Sovranisti contro europeisti;
  • Cittadino contro cittadino.

Combattendo una guerra tra poveri che non fa altro che nutrire il Leviatano che ci sta divorando davvero: lo Stato.

Lo stato che non ti permette di investire i frutti del tuo lavoro nella crescita della tua azienda.

A quante persone potresti dare lavoro se solo non fosse così difficile assumere e licenziare persone all’occorrenza?

Moltissime. E probabilmente potresti pagarle tutte senza problemi.

Quanto aumenterebbe la tua produttività se avessi più forza lavoro?

Non lo puoi neanche immaginare.

E questo è un altro problema enorme: questa economia stagnante gestita da burocrati ignoranti in materia economica, ci ha privato anche della libertà di sognare un mondo del lavoro migliore e più sano.

Lo vedo quando, parlando con amici e parenti e mostrando loro che in altri paesi è già presente una cultura della libertà imprenditoriale, mi sento rispondere “in Italia questo non accadrà mai. Siamo un popolo di disonesti e di corrotti”.

Non andremo da nessuna parte con questa mentalità.

Non c’è nessuna dignità nel denigrare il proprio stesso popolo.

Nessuna.

Non solo ci hanno privato della capacità di sognare un paese migliore, ma ci hanno persino privato del desiderio di partecipare alla vita politica.

Perché so che anche tu, come me, hai la sensazione che sia che si scelga la destra, la sinistra o il centro, alla fine non cambi poi molto.

Se pensi questo, sappi che non ti sbagli.

Muoversi sull’asse destra-sinistra è un pensiero tanto vecchio quanto limitante.

Non a caso l’orientamento politico, oggi, è infatti possibile collocarlo in un doppio asse:

  • Destra/sinistra economica
  • Liberale/autoritario

Andando a comporre un quadrante chiamato Political Compass

Dove i vari elementi che strutturano lo schema possono essere così definiti:

Destra economica/Economic Right: è un sistema economico fondato sull’individuo, sulla competenza e sul libero mercato.6

Sinistra economica/Economic Left: è un sistema economico fondato sulle esigenze collettive, sulla giustizia sociale e sul socialismo.7

Liberalismo/Libertarian: atteggiamento politico fondato sulla libertà individuale, sulla protezione dei cittadini dalla coercizione e sui limiti del potere statale.8

Autoritarismo/Authoritarian: atteggiamento politico che antepone lo Stato all’individuo.9

Questo cambia totalmente le carte in tavola e mostra chiaramente come nessun partito politico sia davvero favorevole al libero mercato

Anzi, procede verso un sempre maggiore controllo statale e verso l’annientamento del tessuto imprenditoriale.

Si è visto nella gestione della crisi da Coronavirus dove siamo stati totalmente abbandonati a noi stessi con 600 miseri euro in tasca che ad alcuni non sono nemmeno arrivati.

Dove la “sanità migliore del mondo” ha mostrato il suo vero volto: l’ennesimo colabrodo iper burocraticizzato dove chi lavora al suo interno viene spremuto come un limone in cambio del nulla più assoluto.

Dove una Task Force di più di 450 persone (tutte regolarmente pagate con i soldi dei contribuenti) non è riuscita né a salvare vite, né a salvare l’economia.

Dove sono riusciti a mettere in ginocchio la distribuzione delle mascherine grazie alla calmierazione dei prezzi, pratica che ogni studente del primo anno di economia sa essere dannosa. perché distrugge la filiera produttiva e crea in automatico scarsità.

Spacciando questo scempio per un grande trionfo su giornali e telegiornali, quando per la verità è che non sono riusciti né a salvare vite, né a salvare l’economia.

Nonostante tutto questo, la propaganda mediatica continua a invocare una maggiore presenza statale, credendo che questo sia l’unico modo per risolvere le cose.

Ma come possiamo pensare di tirarci fuori da questo pantano chiedendo una soluzione alla stessa entità che ci ha portati in questo inferno?

Cosa possiamo fare DAVVERO per uscire da questa schifezza?

Ho una brutta notizia per te: non esiste una bacchetta magica capace di mettere tutto a posto in un secondo.

La storia insegna che anche la più grande rivoluzione è controproducente se non c’è un sostanziale cambiamento culturale alla base.

Nessuna grande manovra economica potrà salvarci finché continueremo a:

  • Pensare solo in termini di destra e sinistra come se fossero squadre di calcio;
  • Rimanere totalmente ignoranti in materia di cultura economica di base;
  • Sostenere partiti politici che non fanno altro che spartirsi i nostri soldi;
  • Accontentarci del “male minore” in politica;
  • Sacrificare la nostra libertà economica e individuale in nome di uno Stato che ci vede come delle vacche da mungere fino alla morte;

Abbiamo solo una via di uscita: imparare il linguaggio della libertà.

Imparando che alcune soluzioni, per quanto distanti dalla situazione attuale, sono possibili.

Ed è esattamente quello che facciamo noi dell’Istituto Liberale.

In pochi anni siamo diventati il più grande Think Tank liberale italiano, riunendo sotto la nostra ala migliaia di persone che prima di conoscerci odiavano la politica.

Ora, invece, via via che diffondiamo questa cultura, migliaia di persone sentono finalmente di far parte di qualcosa che ha davvero la possibilità di cambiare l’opinione pubblica.

“Ma cos’è un think tank? E in che modo potrà cambiare il nostro paese?” ti starai chiedendo.

Un think tank è un’organizzazione che si occupa di un determinato tema.

Nel concreto, come puoi notare dai nostri canali, ci impegnamo a diffondere la cultura liberale.

Ecco gli strumenti con cui la diffondiamo e che sono a disposizione di tutti:

  • Video su youtube con approfondimenti di temi di attualità;
  • Interviste a personaggi di spicco in ambito economico, filosofico e sociale;
  • Post di approfondimento su Facebook;
  • Infografiche su Instagram;
  • Pubblichiamo 3 articoli ogni settimana sul nostro blog;
  • Traduciamo libri che in Italia non si trovano;
  • Organizziamo eventi di sensibilizzazione alla libertà in tutta Italia;
  • Organizziamo dei gruppi di studio locali creando dibattiti sui temi più disparati;

Insomma, forniamo a chi ci segue delle Armi di Istruzione di Massa.

Armi per difendere la tua libertà individuale, troppo spesso sacrificata sull’altare della collettività in cambio di politiche economiche inadeguate.

Armi per poterti liberare dall’ipnosi della propaganda pubblica che ci mette costantemente tutti contro tutti.

Armi per poter difendere le persone che ami dalle idee velenose distillate con l’odio che ci vengono fatte ingoiare a forza ogni giorno da telegiornali e media nazionali.

Tutto questo è possibile grazie a chi ci ha sostenuto finora iscrivendosi.

La stragrande maggioranza sono ragazzi tra 16 e 30 anni che, malgrado non abbiano un reddito come me e te, hanno deciso di investire parte delle loro finanze per far parte di questo progetto.

E, solo con loro, siamo già riusciti ad ottenere dei risultati straordinari, triplicando la nostra potenza di fuoco in una manciata di anni, arrivando ad essere ospitati persino dalla Rai.

Poi dicono che in questo paese i giovani pensano solo alla movida e a divertirsi.

La verità è ben diversa.

La verità è che ci sono moltissimi ragazzi in questo paese che si sono uniti per cambiare la direzione dell’opinione pubblica.

Sono gli stessi giovani che in un vicinissimo futuro potranno votare, partecipare alla vita politica e dare una vera svolta a questo paese.

E che hanno realizzato tutto questo da soli, unendo le loro forze in nome di un futuro migliore.

Infatti non siamo affiliati a nessun partito politico, non abbiamo “le mani in pasta” e non abbiamo neanche interesse ad averle.

L’unica cosa che ci preme è continuare a diffondere la cultura della libertà. 

Per questo, oggi ti diciamo: “Rialzati, imprenditore!”

Rialzati e lotta per la libertà di poter generare ricchezza dalla tua capacità di aiutare la società con i tuoi prodotti e servizi.

Rialzati e guardati allo specchio con fierezza, perché è grazie al tuo sacrificio se questo paese è ancora in piedi.

Rialzati e sii fiero di te per aver dato un lavoro a persone meritevoli che oggi mettono sul tavolo del cibo per sé stessi e i loro cari.

Rialzati e smetti di accettare silenziosamente le ingiustizie perpetrate da questo governo e dalla sua propaganda.

Rialzati, imprenditore, e aiutaci ad aiutarti!

Aiutaci a continuare a diffondere la cultura dell’imprenditorialità, del libero mercato e della libertà individuale.

Se in pochi anni e solo con l’aiuto dei giovani italiani siamo riusciti a diventare il più grande think tank italiana, cosa potremmo raggiungere con il tuo aiuto?

  • Investiremo nella formazione di nuovi articolisti, designer e ricercatori, aumentando esponenzialmente la qualità della nostra divulgazione;
  • Tradurremo sempre più libri sul pensiero liberale;
  • Raggiungeremo dei player mediatici sempre più grossi e importanti, arrivando nelle case di sempre più italiani;
  • Metteremo a disposizione tua e delle persone che ami sempre più strumenti di educazione alla libertà;

E se tutto andrà bene, arriverà un giorno in cui questo paese tornerà a risplendere, in cui lo spirito imprenditoriale italiano, la sua genialità e la sua creatività otterranno finalmente il posto che meritano.

Un giorno in cui gli altri paesi guarderanno con ammirazione la qualità della vita nello Stivale.

Un giorno in cui la politica non si approfitterà delle nostre paure per fare false promesse in cambio di voti.

Un giorno in cui ci vergogneremo un po’ di noi stessi per aver accettato silenziosamente di sacrificare la nostra libertà in cambio di un governo mediocre.

Quindi rialzati, imprenditore, e aiutaci ad aiutarti!

Come?

Non devi fare altro che cliccare sul pulsante rosso qui sotto.

Come vedrai, abbiamo diversi tipo di tesseramento, pensati per le tasche di tutti.

 

 

Moltissimi ragazzi che potrebbero avere l’età di tuo figlio si sono già iscritti, iniziando a ricevere libri e materiali esclusivi sulla cultura liberale.

Tra loro tantissimi hanno persino fatto la tessera gold, cosa che ci ha riempito il cuore di orgoglio e di onore, spingendoci ad aumentare sempre di più la qualità dei materiali divulgativi.

Non serve che tu faccia lo stesso: sappiamo bene che questo è un momento economicamente delicato per le imprese.

Tuttavia anche il più piccolo aiuto per noi è fondamentale: ci permette di stampare nuovi materiali, pagare i servizi legati al sito, organizzare eventi, tradurre libri, etc.

Tutti modi con cui ci impegniamo a diffondere la tua voce e a difendere il libero mercato.

Clicca sul pulsante qui sotto e aiutaci ad aiutarti!

 

 

La libertà ha bisogno di te.

Rialzati, imprenditore!

Fonti:

1 https://www.theitaliantimes.it/economia/contratto-tempo-indeterminato-costo-azienda_140220/

2 https://24plus.ilsole24ore.com/art/decreto-rilancio-ad-alitalia-3-miliardi-quanto-ospedali-ADfbBfR

3 https://www.assolombarda.it/centro-studi/quanto-costa-la-burocrazia#:~:text=Il%20costo%20della%20burocrazia%20%C3%A8%20stimato%20variare%20dai%20108%20mila,parte%20di%20un%20collaboratore%20dedicato.

4 http://dati.istat.it/

5http://www.confapi.padova.it/notizie/archivio/luglio-agosto-settembre-2019/questo-paese-demonizza-ancora-gli-imprenditori-difficile-essere-ottimista-sul-nuovo-governo/

7http://temi.repubblica.it/micromega-online/che-significa-essere-di-sinistra/

8http://www.treccani.it/enciclopedia/liberalismo_res-8e96f266-87f0-11dc-8e9d-0016357eee51_%28Enciclopedia-del-Novecento%29/

9http://www.sapere.it/enciclopedia/collettivismo.html

https://www.linkiesta.it/2020/01/italia-pil-crescita-declino/

Il protezionismo è un errore – Adam Smith e David Ricardo

Il protezionismo è fallace e logicamente insostenibile. La filosofia economica protezionista è ritornata in voga con la politica economica di Trump negli Stati Uniti e con gli slogan artati dei movimenti sovranisti e populisti in Italia e nell’intera Europa.

Quante volte abbiamo sentito frasi come “consumate italiano”, “mangiate italiano”, “comprate italiano”? Troppe volte, specialmente nelle battaglie di due politici nostrani come Giorgia Meloni o Matteo Salvini. Ovviamente i prodotti italiani sono delle eccellenze, ma è giusto che nella logica del libero scambio, nel mercato aperto, entrino in concorrenza con altri prodotti esteri.

Prendiamo come naturale l’attitudine dell’uomo al libero scambio. Da questo postulato ne consegue che il protezionismo è innaturale, disumano e deleterio.

La dimensione del libero mercato si adegua al meglio alla struttura naturale dell’essere umano. In questa struttura economica estremamente raffinata ciò che ha una priorità ontologica e reale è la mutua interazione tra produttore e consumatore, tra acquirente e venditore. Gli effetti aggregati delle decisioni (decisionismo) dei singoli individui sono descritti dalla Legge della Domanda e dell’Offerta. Un mercato lasciato libero a se stesso, nonostante i tentativi della manipolazione statale, può garantire dei risultati ed allocazioni di beni estremamente proficui. Cooperazione, libertà, capacità di scelta, interazione, principio di non aggressione, rispetto reciproco… sono questi i principi base su cui si basano le libere transazioni economiche. È il principio morale della “simpatia”, già descritto da Adam Smith nella sua “Teoria dei sentimenti morali”, che valorizza appieno i rapporti tra gli uomini. All’opposto, a livello economico, troviamo Il protezionismo. Questo “demone” deve la sua compiuta strutturazione teorica con il mercantilismo del XVII e XVIII secolo.

Al mercantilismo, si affianca il rafforzamento degli apparati militari dei singoli stati nazionali. I protezionisti ritengono che l’economia può essere salvaguardata attraverso la tutela di prodotti e aziende nazionali e con un poderoso intervento dello Stato pianificatore, l’applicazione di dazi protettivi ai prodotti importati o alle materie prime esportate e il controllo nazionale o internazionale dei cambi, delle monete e del movimento dei capitali (protezionismo non doganale).

Adam Smith, a cui più di ogni altro si deve la prima vera teorizzazione del libero mercato e del libero scambio (liberismo economico), diede il colpo di grazia all’indirizzo di politica economica protezionista. Nella sua opera principale, che segnò l’avvio dell’indipendenza della scienza economica moderna e l’avvio dell’economia politica classica – “La ricchezza delle Nazioni” del 1776 – affermava che è una regola valida per ogni famiglia, così come per una Comunità, non tentare mai di produrre all’interno delle mura domestiche ciò che sarebbe più conveniente acquisire all’esterno. Ciò vuol dire che se una merce può essere acquistata all’estero a un prezzo minore di quello che costerebbe produrla nella madrepatria, sarebbe stolto ostacolarne l’importazione, poiché questo spingerebbe l’industria su strade meno profittevoli di quelle che essa potrebbe trovare autonomamente su mercati diversi. 

La stessa idea fu condivisa da David Ricardo con la teoria dei vantaggi comparati. Su Ricardo va fatta una premessa importante. A differenza del suo maestro Smith, il pensatore inglese, non si domandava quali fossero le cause della ricchezza delle nazioni, ma come fosse possibile suddividere il prodotto sociale tra le varie classi esistenti nella società. A chi spettava e come veniva frazionata la ricchezza? La rendita andrà ai rentiers (i proprietari terrieri), il salario ai lavoratori ed il profitto ai capitalisti. David Ricardo, autore di “Principi di economia politica e dell’imposta”, fu un estremo difensore del commercio internazionale. Fu strenuo oppositore delle Corn Laws, provvedimenti aventi valore di legge presenti in Gran Bretagna dal 1815 al 1846 che imponevano dazi all’importazione di cereali. La sua teoria dei vantaggi comparati è l’eredità della teoria dei vantaggi assoluti di Smith. Secondo Ricardo, ogni paese dovrebbe dedicarsi alla produzione di quei beni per i quali ha vantaggi comparati maggiori rispetto ad altri paesi e deve procurarsi con il libero scambio quelli che non ha convenienza a produrre. È il principio del libero mercato, è la regola del commercio internazionale, è il leitmotiv che dona un senso specifico alla nostra realtà economica attuale. 

Così tasse e regolamentazioni statali stanno uccidendo il mercato immobiliare italiano

I bei tempi in cui il mattone rappresentava la principale fonte di investimento delle famiglie italiane sembrano oramai un ricordo. Il mercato immobiliare sembrerebbe destinato a un inesorabile declino. Oltre alle onerose imposte, la spada di Damocle di una patrimoniale e il recente lockdown che ha ucciso definitivamente i leggerissimi segni di ripresa. Un vero disastro, se consideriamo che in Italia le famiglie ad essere proprietarie di un immobile sono il 70%, le quali vedranno, secondo ultime stime, un ulteriore decremento del valore della propria casa.

L’Osservatorio immobiliare della Società di consulenza Strategica e Aziendale Nomisma ha previsto un ulteriore calo dei prezzi del mattone del 16% in tre anni, e un crollo delle compravendite entro il 2021 di un 35%. Le dinamiche del mercato immobiliare, assoggettate a una mano pubblica dissennata, sono un limpido esempio di come le regolamentazioni statali stanno ammazzando un settore dell’immobile e distruggendo il potere di acquisto delle famiglie.

Partiamo con ordine.

Dal 2011 al 2018 l’andamento dei prezzi degli immobili sul territorio italiano ha registrato un costante calo. In netta controtendenza rispetto alla ripresa del mercato degli immobili negli altri paesi verificatosi nel biennio 2013-2014 in Italia il valore degli immobili è continuato a calare.

In un rapporto stilato da Confedilizia e dal professor Andrea Giurcin dell’Università di Milano Bicocca, le cause di questo continuo trend negativo sarebbero da attribuire alla mega patrimoniale che il governo Monti ha varato nel 2011, della quale il settore del mercato dell’immobile ne starebbe ancora pagando i danni devastanti. Come raccontato da Federico Giuliani su IlGiornale.it, “Il governo tecnico montiano approvò infatti un’operazione killer che portò il gettito annuale delle tasse sugli immobili da circa 8 miliardi di euro annui a oltre 25 miliardi. Per immobili si intendono tutti gli immobili: dalle prime case alle seconde, dai negozi ai capannoni, dagli studi professionali alle botteghe artigiane”.

Nonostante i dati sulle transazioni fossero lontani dal periodo di migliore salute del mercato immobiliare, il trend positivo registrato negli ultimi mesi aveva dato segnali di incoraggiamento. L’arrivo del lockdown è stato il definitivo colpo di grazia per il settore, negandogli definitivamente ogni possibilità di ripresa. Il calo del prezzo degli immobili nell’ultimo decennio ha raggiunto addirittura il 50% in alcune zone di periferia e di villeggiatura meno prestigiose. Nonostante il netto calo del valore degli immobili, gli italiani sono ancora costretti a pagare le tasse sul valore della rendita catastale che è rimasto immutato, e come spesso accade in questi casi, a farne le spese sono le famiglie meno abbienti, dacché gli immobili nelle zone più prestigiose stanno resistendo meglio alla crisi.

L’importante imposizione fiscale sull’acquisto di una seconda casa e la tassazione delle plusvalenze per chi acquista e vende un’immobile entro i cinque anni sono le due regolamentazioni che maggiormente disincentivano l’intraprendenza e l’investimento, e di conseguenza la ripresa del mercato. Come se la situazione non fosse già abbastanza drammatica, un’ulteriore pugnalata è arrivata dalla legge di bilancio 2020 dell’attuale governo. Con l’articolo 89 è stato previsto un aumento dell’imposta sostitutiva sulla plusvalenza dal 20% al 26%. In soldoni, chi ha della liquidità e fiuta un buon affare acquistando un’immobile a un prezzo conveniente con l’idea di rivenderlo, eventualmente apportando anche dei lavori di ristrutturazione, per avere avuto una buona intuizione (in favore anche della crescita del mercato) verrà punito attraverso una spoliazione fiscale del 26% sul profitto ottenuto.

Scuole pubbliche: rendiamole private

Il nostro sistema di istruzione primaria e secondaria dev’essere radicalmente cambiato. Tale necessità deriva soprattutto dai problemi che l’odierno sistema ha, ma è stata rafforzata dalle conseguenze delle rivoluzioni tecnologiche e politiche degli ultimi anni. Rivoluzioni che promettono un futuro migliore per il mondo ma anche un aumento dei conflitti sociali derivanti dall’allargamento della differenza stipendiale tra i più abili e i meno abili.

Una ricostruzione del sistema istruzione ha il potenziale di ridurre nettamente i conflitti sociali e, al contempo, rafforzare la crescita e il miglioramento della qualità di vita reso possibile dalle nuove tecnologie e dall’allargamento del mercato globale.

A mio parere tale cambiamento si può ottenere solo privatizzando larga parte del sistema educativo, ossia permettendo ad un’industria privata e for-profit di svilupparsi e di permetterle di offrire i propri servizi educativi in competizione con i servizi pubblici.

Sicuramente questa transizione non può avvenire dal giorno alla notte, dovrà essere graduale. Il migliore modo per permetterla è instaurare un sistema a voucher che permetta ai genitori di scegliere liberamente la scuola per i propri figli.

Vari tentativi sono stati fatti per introdurre dei voucher, ma nessuno di questi è arrivato ad un sistema voucher universale, soprattutto grazie al potere di lobbying dei sindacati dei docenti, tra i più potenti del Paese.

Il deterioramento dell’istruzione

La qualità dell’istruzione è in netto calo rispetto a qualche decennio fa. Non esiste ambito nel quale gli abitanti delle zone più povere siano svantaggiati quanto quella dell’istruzione. Tra le ragioni, oltre al declino di certi quartieri, il progressivo accentramento delle competenze sull’istruzione che ha permesso ai sindacati di aumentare il proprio potere.

Più è passato il tempo più il sistema è peggiorato accentrandosi. La competenza per le scuole è passata dagli enti locali allo Stato. Ad oggi più del 90% dei nostri ragazzi va in una cosiddetta “scuola pubblica”, che più che pubblica è un feudo privato di burocrati e sindacalisti. I risultati li conosciamo tutti: alcune scuole pubbliche di buona qualità nelle zone ricche, scuole scadenti nelle zone povere, con una crescita di violenza, studenti e docenti demoralizzati e performance in calo.

Questi cambiamenti nel sistema scolastico hanno reso più chiara la necessità di una riforma, ma hanno anche aumentato gli ostacoli verso di essa. I sindacati sono assolutamente contrati a qualunque misura che riduca i loro poteri e sono disposti a moblitare tutte le loro forze contro di esse.

La nuova Rivoluzione Industriale

La ricostruzione del sistema scolastico è resa più urgente dalle ultime due rivoluzioni avvenute nelle passate decadi, quella tecnologica – in particolare di metodi di trasmissione di dati molto più efficienti – e quella politica che ha aumentato la portata di quella tecnologica.

La caduta del Muro di Berlino è stato l’evento più simbolico di questi avvenimenti, ma non è stato il più importante. Per esempio in Cina il comunismo non è né morto né collassato ma dal 1976 il premier Deng Xiaoping avviò delle riforme di mercato che aprirono la Repubblica Popolare al mercato internazionale. Simili accadimenti hanno portato molte più persone nel Sud America a vivere in Paesi definibili come democrazie liberali e non come autocrazie militari. Democrazie che vogliono a tutti i costi entrare nei mercati internazionali.

La rivoluzione tecnologica permette ad una compagnia in una qualsiasi parte del mondo di usare risorse da tutt’altra parte, producendo in un’altra parte ancora e vendendo ancora da un’altra parte. Ormai è impossibile parlare di un’auto americana o di un’auto giapponese, ad esempio, e ciò vale per tantissimi prodotti.

La possibilità di lavoro e capitale di un posto di collaborare con lavoro e capitale di tutt’altro posto ha avuto un enorme effetto anche prima della rivoluzione politica. Ha significato una quantità enorme di capitale di Paesi ricchi disposta a collaborare col lavoro di Paesi più poveri, portando ad una collaborazione non solo economica ma di formazione, di condivisione di conoscenze e anche di tecniche.

Prima della rivoluzione politica il collegamento tra lavoro e capitale in tutto il mondo ha avviato una forte espansione del mercato internazionale, la nascita di nuove multinazionali e una crescita prima inimmaginabile nelle cosiddette Quattro Tigri dell’Asia, mentre in America il primo a beneficiarne fu il Cile, seguito rapidamente da altri paesi.

La rivoluzione politica, però, ha rafforzato quella tecnologica in vari modi. Per prima cosa ha allargato nettamente il lavoro a basso costo – non necessariamente di bassa qualità – che può collaborare con capitale e lavoro dei Paesi più avanzati. La caduta della Cortina di Ferro ha aggiunto a tale mercato mezzo miliardo di persone, la Cina un miliardo, tutte persone ora libere, almeno parzialmente, di intraprendere azioni capitaliste con altri individui in tutto il mondo.

Per seconda cosa questa rivoluzione politica ha squalificato l’idea di pianificazione centrale e ha aumentato la fiducia per i mercati, rafforzando scambi e collaborazione internazionale.

Queste due rivoluzioni hanno portato ad una “seconda rivoluzione industriale” paragonabile a quella avvenuta circa 200 anni fa, avvenuta anch’essa grazie all’avanzamento tecnologico e alla libertà di scambio. In questi 200 anni il mondo è cresciuto più dei precedenti duemila. E il record potrà essere battuto nei prossimi secoli se useremo al massimo le nuove opportunità.

Differenze di stipendi

Queste due rivoluzioni gemelle hanno portato a stipendi maggiori per tutte le classi sociali nei Paesi in via di sviluppo mentre i risultati sono più controversi nei Paesi ricchi. Infatti, per varie ragioni, gli stipendi dei più abili crescono mentre quelli dei meno abili tendono ad avere una pressione sugli stipendi verso il basso. E siamo dunque arrivati ad avere grandi differenze tra gli stipendi di chi guadagna di più e di chi guadagna di meno.

Se lasciamo procedere tutto ciò senza controllo rischiamo di avere gravi conseguenze sociali, con parti del Paese in condizioni da Terzo Mondo e altre in estrema ricchezza. In sostanza è la ricetta per un disastro sociale e le pressioni per impedirlo con mezzi protezionistici e simili saranno sempre più forti.

Istruzione

Ad oggi il nostro sistema scolastico è complice di tale possibile disastro sociale. Eppure è potenzialmente la più grande forza che abbiamo a disposizione per evitarlo.

Sia chiaro: la predisposizione individuale gioca un ruolo importantissimo nel definire le opportunità aperte per ogni individuo. Ma non è nemmeno l’unica cosa che conta, come dimostrano numerosi esempi. Sfortunatamente, però, il nostro sistema scolastico fa poco per permettere sia ad individui predisposti che non predisposti, favorendo dunque i primi per le loro abilità innate e contribuendo a una “stratificazione sociale”.

C’è grande spazio di manovra per migliorare il nostro sistema scolastico, che probabilmente è tra le attività più arretrate in questo Paese. Insegniamo ai ragazzi come lo facevamo 200 anni fa: un docente davanti a un mucchio di studenti in una stanza chiusa. L’arrivo dei computer ha migliorato la situazione, ma molto poco. Non sono praticamente mai usati in modi nuovi e visionari.

Credo che l’unico modo per avere un gran miglioramento del sistema sia quello di privatizzarlo finché una considerevole parte dei servizi di istruzione sia fornita agli individui da imprese private. Solo una mossa del genere indebolirebbe a sufficienza l’attuale establishment educativo in maniera da poter apportare i necessari cambi sostanziali. E nulla costringerebbe le scuole pubbliche a mettersi in ordine più del dover trattenere la propria clientela. Nessuno può predire la direzione che un vero libero mercato educativo prenderà.

Sappiamo però dall’esperienza quanto possa essere creativa la libera impresa, quanti nuovi servizi e prodotti possa introdurre e come abbia come supremo obiettivo la soddisfazione del cliente, ed è ciò che serve nell’istruzione. Ben conosciamo la rivoluzione che ha avuto l’industria telefonica aprendosi alla concorrenza oppure, tornando un po’ indietro nel tempo, come il fax abbia minato così tanto il monopolio della posta di prima classe portando poi alla nascita dei corrieri privati.

Le scuole private frequentate oggi dal 10% sono spesso scuole di élite molto costose che rappresentano una minima porzione della popolazione ma esistono anche molte scuole cattoliche che fanno concorrenza al governo con costi bassi, spesso grazie anche a personale volontario e donazioni di mecenati. Queste scuole danno un’istruzione migliore ad una certa parte della popolazione, ma non sono ancora in grado di portare a cambiamenti innovativi. Per quello serve un sistema privato molto più forte. Il problema è come arrivarci.

I voucher non sono di per sé un fine, sono un mezzo per favorire la transizione dallo Stato al Mercato. E la situazione descritta più volte nell’articolo ne rende l’applicazione urgente.

I voucher, però, possono promuovere una rapida privatizzazione solo se costituiscono un reale incentivo per gli imprenditori ad entrare nel settore. Ciò richiede che il sistema a voucher sia universale, ossia aperto a chiunque oggi abbia diritto a frequentare una scuola statale, e che il costo – seppur potenzialmente minore rispetto a ciò che lo Stato spende oggi – sia sufficiente a coprire le spese di una buona istruzione. Se il voucher è costituito in questo modo ci saranno anche numerose famiglie disposte ad aggiungere qualcosa per avere un’istruzione ancora migliore. Ma, come accade in tutte le industrie, presto l’innovazione del prodotto “premium” arriverà anche al prodotto base.

Perché ciò accada, però, è essenziale che la libertà di impresa non sia minata, che non vi siano limiti alla capacità delle scuole di sperimentare, esplorare e innovare. Se ciò accade tutti, eccetto una piccola percentuale di persone con privilegi acquisiti, vinceranno: studenti, genitori, insegnanti, contribuenti, specie coloro che vivono in grandi città dove l’istruzione privata avrebbe costi esorbitanti mentre quella pubblica è scadente.

La comunità del business ha grande interesse nell’allargare la platea di cittadini ben istruiti e mantenere una società libera con mercati aperti e in espansione in tutto il mondo. Entrambi gli obiettivi verrebbero favoriti da un sistema a voucher.

Per concludere, come in ogni ambito dove vi sia stata una massiccia privatizzazione, la privatizzazione della scuola produrrebbe una nuova impresa capace di tratte profitto e di essere molto attiva dando a molte persone talentuose una vera opportunità di entrare nel mondo dell’insegnamento, persone che oggi sono disincentivate dallo stato pietoso di molte delle nostre scuole.

Questa non dovrebbe essere una questione in mano allo Stato centrale. L’istruzione dovrebbe restare un affare primariamente locale. Il sostegno alla libertà di scelta crescerà e non potrà essere tenuta a bada per sempre dagli interessi dei sindacati e dei burocrati. Penso che prima o poi si arriverà, da qualche parte, a un punto di rottura che porterà ad un percorso generale di voucherizzazione per quanto si dimostrerà efficiente.

Per fare in modo che una maggioranza del pubblico sostenga tali misure dobbiamo strutture la proposta in questo modo:

  • Sia semplice da comprendere per un elettore
  • Garantisca che non aumenti la tassazione ma che, possibilmente, la riduca

Questo articolo è una traduzione di un saggio del 1995 di Milton Friedman a cura di Brian Sciretti. Se ti è sembrato relativo alla situazione italiana non c’è da sorprendersi. Il sistema descritto da Milton Friedman funzionerebbe altrettanto bene anche in Italia.

N.B. Per praticità i nomi delle autonomie americane sono stati tradotti in modo generico.

Il sistema pensionistico italiano: storia di assistenzialismo e statalismo

L’Italia annovera, tra i tanti servizi dello Stato inefficienti, quello pensionistico. Il sistema previdenziale italiano è un sistema vecchio e assistenzialistico; e le risorse spese per finanziarlo sono troppo grandi rispetto alla resa, se comparato a quello di altri Paesi. Come andremo a vedere più avanti in questa campagna, dietro al nostro sistema previdenziale è celata una storia di politiche economiche inutili volte a favorire determinate categorie, allo stesso tempo danneggiando il bilancio statale, incrementando il debito pubblico ed espropriando i risparmi degli italiani. 

In questo primo articolo della nostra serie di approfondimenti sul sistema pensionistico metteremo a confronto la struttura previdenziale italiana con quella di altri Paesi in Europa e nel mondo, evidenziando le principali differenze. I Paesi scelti sono Olanda, Svizzera, Svezia e Germania, tutte nazioni sviluppate e appartenenti al mondo occidentale, e con una struttura demografica simile alla nostra (seppure con una popolazione leggermente più giovane).

UNA COMPARAZIONE DEI COSTI (IN %) RISPETTO AL PIL:

Come è facile notare comparando i dati dell’OCSE, c’è una grossa differenza in merito alla percentuale di spesa pensionistica pubblica  sul PIL di questi Paesi. 

Nel grafico qui sopra si nota subito come nel 2015 lo Stato che spendeva nettamente di più fosse l’Italia, con un rapporto tra Spesa pensionistica pubblica e PIL pari al 16,2%, il doppio rispetto alla media OCSE. Un Paese ricco e considerato “socialdemocratico” come la Svezia spendeva appena il 7,2%, meno della metà di quanto fosse destinato al sistema pensionistico in Italia.

Una cifra oltretutto cresciuta moltissimo negli ultimi decenni, con un +100% circa rispetto al 1980, come si nota dal grafico sottostante. Un incremento casuale? O legato al naturale invecchiamento della popolazione? Non esattamente. Guardando al nostro pool di comparazione, vediamo che il trend di incremento dal 1980 è molto contenuto; Svezia e Svizzera hanno aumentato di meno del 20% la propria spesa, mentre Germania e Olanda spendono addirittura meno adesso rispetto ad allora. Dati in linea, tra l’altro, anche con la media OCSE, per cui risulta un incremento della spesa media dal 5,67% del 1980 che passa all’8,02% nel 2015 (risultando in un +40% circa, rispetto al +100% per l’Italia, nel medesimo periodo). 

La particolarità che contraddistingue questi paesi è l’adozione di sistemi pensionistici discretamente simili tra di loro, basati su una maggiore libertà di scelta da parte dei cittadini e con un sistema di fondi pensionistici privati molto sviluppato. 

UNA COMPARAZIONE VISTA DAGLI ESPERTI:

Per un’analisi più approfondita sul tema della spesa per le pensioni ci vengono incontro i dati del Melbourne Mercer Global Pension Index. L’indice è elaborato da un gruppo di ricerca australiano e ha come obiettivo quello di evidenziare fattori come la sostenibilità (prendendo in considerazione la crescita economica, la copertura pensionistica, la demografia, il debito nazionale e altro ancora), l’adeguatezza (benefici, risparmi, copertura fiscale, assets di crescita) e l’integrità (costi di operazione, protezione, comunicazione, regolamentazione). Una volta presi in analisi questi fattori viene stilata una “classifica” dei migliori sistemi pensionistici, assegnando ai vari stati una valutazione da A (massimo) ad E (minimo) in base all’index value che essi raggiungono. 

Rispetto agli Stati da noi presi in considerazione, il sistema migliore risulta essere quello Olandese, che raggiunge il punteggio di 81 e la valutazione “A”. Seguono i sistemi Svedese, Svizzero e Tedesco, con punteggi rispettivi di 72,3, 66,7 e 66,1, e una fascia di valutazione “B”. Nella fascia di valutazione “C+” troviamo il Regno Unito, con un punteggio di 64,4. L’Italia si trova molto più in basso e con un punteggio di 52,2 prende una C. 

Secondo Mercer il sistema previdenziale italiano è scadente soprattutto nell’ambito della sostenibilità, registrando il valore più basso in assoluto nell’indice, 19; la ragione è che si tratta di un sistema quasi unicamente pubblico e dove non c’è corrispondenza fra quanto versato da ogni cittadino e la sua pensione. I lavoratori italiani non versano i loro contributi in un fondo (pubblico o privato) che restituirà in seguito i loro soldi, ma pagano le pensioni attualmente elargite dall’INPS. Di conseguenza, quando finiranno di lavorare dovranno sperare che il bilancio pubblico sia in condizioni tali da permettersi di versare loro delle pensioni adeguate; il che, dato l’andamento dell’economia italiana e la scarsa crescita demografica nel nostro Paese, è sempre meno probabile. 

CONCLUSIONI

Il Mercer Index ci aiuta a capire quali Paesi hanno un sistema previdenziale più o meno efficiente e ci mostra come i Paesi più virtuosi sono quelli che si basano non solo sul settore pubblico, ma anche su quello privato. La presenza di un settore privato è fondamentale per aumentare le possibilità di scelta del cittadino e rendere più equo un sistema previdenziale. 

I sistemi pubblici obbligano i cittadini a lavorare fino a una data prestabilita dalle autorità e decidono dall’alto quale sarà la cifra ricevuta da ogni pensionato, spesso con criteri arbitrari – questa analoga attitudine ha favorito l’esistenza di accordi previdenziali particolarmente sfavorevoli od in certi casi più favorevoli di quanto il sistema stesso potesse permettersi, quali le baby pensioni italiane di cui parleremo in un prossimo articolo di questa serie.

Un sistema privato permette ai lavoratori di decidere in autonomia quanto versare per la propria pensione futura e quale sarà il momento più adatto per smettere di lavorare, garantendo loro più libertà di scelta ed un maggiore benessere. 

 

Articolo ideato, scritto e curato da:

Francesco Chevallard

Andrea Melcarne

Alessandro Pala

Mattia Maccarone