Vivere il capitalismo oggi

Come si può descrivere il capitalismo? Il capitalismo potrebbe avere mille accezioni, positive o negative. Abbiamo però un dato importante a nostra disposizione. Se il comunismo non è mai stato in grado di evolversi, il capitalismo, nel corso dei secoli, ha dimostrato una straordinaria elasticità.

Il capitalismo di oggi non può essere quello del Novecento, non può essere quello dell’Ottocento e tantomeno quello del Settecento. Sergio Ricossa affermò che il capitalismo è stato protagonista di una “trasformazione rivoluzionaria”. Una trasformazione spontanea, inaspettata, inimmaginabile.

Come diceva lo stesso Sergio Ricossa.

“Ancora oggi non sa dove andrà (il capitalismo, aggiunta mia), perché inventa la sua strada ogni giorno”

Anche le stesse critiche di Marx possono tranquillamente essere considerate obsolete, poiché il capitalismo dell’Ottocento era un fenomeno estraneo alla società di quell’epoca. Ma oggi la situazione è differente.

L’Italia ha un’economia capitalista, seppur ostacolata dall’elevata presenza dello Stato. Pertanto il problema dell’Italia non è il capitalismo, ma gli ostacoli imposti dallo Stato.

Da evidenziare come il capitalismo sia in grado di compiere una rivoluzione politica, senza imporsi direttamente sul piano politico. Anche perché se dobbiamo considerare le forze politiche che hanno contraddistinto i governi della Repubblica italiana, con molta probabilità, oggi l’Italia sarebbe vicina al feudalesimo.

Se nell’epoca preborghese esistevano due tipi di ricchezza, quella fornita dalla natura e quella prodotta dall’uomo, quest’ultimo era indirettamente dipendente da ciò che forniva la natura, specie se pensiamo ai raccolti o all’estensione dei campi.

Poi, con il progresso tecnologico, il concetto di capitalismo si estese, come lo stesso concetto di accumulazione della ricchezza. L’accumulazione della ricchezza era, in prima istanza, da considerarsi una vera e propria esigenza pre-borghese, appartenente alla cultura militare dell’epoca medioevale. In Italia il concetto di accumulazione, specie in epoca signorile, era una questione militare e pubblica, funzionale a soddisfare esigenze di sicurezza.

Con il passare dei secoli e con l’avvento della rivoluzione industriale, la questione di accumulazione della ricchezza iniziò ad avere un’accezione differente. Superare la concezione militare, ma andare oltre. Non accumulare per difenderti, ma per investire, per fare “affari”. Attraverso la ricchezza produrre nuova ricchezza. La vera rivoluzione culturale avvenne in quanto il capitalismo non era un statico, ma dinamico.

Ma poi arrivò un certo personaggio, chiamato Karl Marx, il quale sosteneva che il capitalismo si autogenerasse attraverso il plusvalore. Il plusvalore è la differenza tra il capitale investito e il capitale ottenuto dall’investimento.

Ebbene, secondo Marx, questo plusvalore era dovuto allo sfruttamento dell’uomo a opera dell’uomo, del proletario a opera del capitalista. L’uomo capitalista creava plusvalore sottraendolo il valore prodotto dal lavoratore.

Marx (come poi Keynes) sosteneva che il capitalismo sarebbe arrivato ad un punto di non-ritorno. Nonostante il capitalismo avesse avuto un ruolo fondamentale per il progresso, sarebbe stato presto sostituito da un sistema più equo.

Peccato però che il capitalismo è capace di adattarsi alla società in modo impeccabile. Questo perché il capitalismo è fondato sì sul capitale, ma anche sull’innovazione. Il capitalismo innova la società tanto quanto sè stesso. L’economia capitalista non si basa solo sulla quantità, ma sulla qualità. Una qualità in grado di rompere le tradizioni, gli schemi mentali prestabili, le precedenti abitudini.

Basti pensare alla rivoluzione Apple dello smartphone. Il primo iPhone, per quanto ancora rudimentale, fu un prodotto indiscutibilmente rivoluzionario. Un prodotto che inaugurò una nuova categoria di mercato, un prodotto che riuscì a rivoluzionare la vita delle persone.

Un prodotto che rivoluzionò anche la concorrenza, se consideriamo che Samsung, prima dell’avvento dell’Iphone, prima di rispondere al nuovo e rivoluzionario prodotto sul mercato, dovette attendere tre anni.

Questa vicenda Apple-Samsung, ci permette di aggiungere un terzo pilastro per descrivere il capitalismo, dopo l’accumulazione della ricchezza e l’innovazione. Parliamo della concorrenza.

Questi tre pilastri sono fondamentali per un sano capitalismo. Se manca uno, gli altri due sono più vulnerabili. Basti pensare che concorrenza e innovazione vanno spesso di pari passo, se consideriamo che l’innovazione è l’arma vincente per attaccare e vincere nel mercato di concorrenza. Anche l’innovazione va di pari passo con l’accumulazione della ricchezza. Non è precario solo il posto di lavoro, ma anche la ricchezza può essere precaria, se manca la volontà nell’investire o nell’innovare.

Il capitalismo è riuscito a rialzarsi sempre, nonostante gli attacchi di socialisti, comunisti e fascisti o statalisti vari. Il capitalismo in Italia è già in fase di transizione. Si tratta di una nuova sfida che coinvolge tutti, lavoratori e capitalisti. Dopo la seconda guerra mondiale, l’Italia era come la Cina di oggi. Produrre nel nostro Paese era semplice e poco costoso. Ma ci sono due fattori che hanno contribuito a porre fine a questo paradiso industriale: lo Stato e la concorrenza fra nazioni.

Lo Stato ha numerose colpe. La prima colpa è sicuramente quella di aver ampliato, nel corso dei decenni, la sua struttura composta da burocrazia, tasse e ostacoli vari. Basti pensare che il datore di lavoro, quando si ritrova a pagare uno stipendio, è costretto a pagare una marea di tasse. La seconda colpa è stata quella di abituare le aziende alla svalutazione della moneta.

Infatti, alla prima crisi di produzione, il governo di turno distruggeva il valore della Lira, per rendere appetibile l’Italia nel mondo. La terza colpa è stata quella di aver “ucciso” lo stimolo all’innovazione, sia verso il datore di lavoro e sia verso il lavoratore. Infatti, non si investiva per nulla sulla formazione del lavoratore, rendendolo con il tempo obsoleto rispetto ai nuovi tempi che arrivavano.

Se prima esisteva una sola categoria di lavoratori, ossia quella che deve limitarsi a fare e magari a farlo con continuità, con il processo di alfabetizzazione e di scolarità, la nuova economia capitalista impone due categorie di lavoratori: lavoratori specializzati e lavoratori non-specializzati.

La vera differenza tra le due categorie consiste nel fatto che se per fare un lavoro specializzato occorrono alcune persone (scarsità), per fare un lavoro non-specializzato si possono coinvolgere (quasi) tutti. Pertanto, se per un posto di lavoro specializzato esiste una concorrenza al rialzo, per un posto di lavoro non specializzato esiste una concorrenza al ribasso.

Fateci caso, le categorie di lavoratori manifatturieri non specializzati sono state quasi tutte dislocate all’estero. Il dubbio è che se un lavoro può farlo chiunque perché rimanere in una nazione dove la manodopera costa 100 volte tanto? Rimangono i call center.
Invece, il lavoro specializzato non solo non è mai stato in crisi in Italia, ma sta crescendo gradualmente.

Ed ecco qual è la vera sfida del capitalismo italiano. Diventare un paese specializzato nel mondo del lavoro. Investire di più sui lavori che contano e sulla continua formazione. Il vero ostacolo rimane lo Stato che, finché sarà circondato da una certa cultura socialista e statalista, continuerà ad essere un freno per il Paese.

Minatori e pastori: Il male delle aziende protette dallo Stato

Poche settimane fa abbiamo visto la crisi dei pastori sardi, con tutta la politica che invocava l’intervento statale: chi meno, come Antonio Tajani che ha proposto l’uso di fondi UE per progetti in grado di modernizzare e far conoscere il settore, chi più, come il vicepremier Matteo Salvini che ha ribadito la necessità “che lo Stato torni a fare lo Stato” e che metta un prezzo minimo di contrattazione.

I meno giovani di noi si ricorderanno i minatori britannici, il cui licenziamento iniziò già durante il governo laburista precedente ma viene tipicamente imputato a Margaret Thatcher, che attuò politiche di smantellamento più forti.

Entrambi questi casi hanno in comune due cose:

  1. La prima, di essere lavori manuali, faticosi e che in Stati meno ricchi costano di meno pur producendo un prodotto analogo. Il carbone, già da inizio anni ’70, costava meno come prodotto da importazione che come prodotto da estrazione in loco. La stessa cosa vale per il latte sardo che, eccetto che per le produzioni tutelate dov’è obbligatorio utilizzare latte locale, può essere sostituito da latte straniero munto in Paesi dove il lavoro viene pagato meno e un ricavo che per un pastore sardo è perdita per un pastore locale è un buon incasso.
  2. La seconda, di essere stati protetti dallo Stato. Nel Regno Unito le miniere erano così infruttuose che ebbero bisogno di essere nazionalizzate. In sostanza i britannici pagavano parte delle proprie tasse per permettere ai minatori di lavorare e il loro sindacato aveva un vero e proprio potere politico, non eletto da nessuno, di decidere sulle attività parlamentari e governative. Ovviamente alla Lady di ferro tutto ciò non andava bene: era inaccettabile che un’azienda inefficiente dovesse andare avanti a spese dei contribuenti, specie se era ormai una vera lobby.

La sua lotta fu fruttuosa: le miniere vennero chiuse, ottenne ampio consenso elettorale e oggi l’economia del Regno Unito va decisamente meglio di molte altre; oltre ad una bassa disoccupazione si è vista un’evoluzione economica che ha portato il Paese a puntare di più sul settore terziario e sulle industrie specialistiche, come l’aerospaziale, oltre che sul petrolio.

Nel caso sardo l’intervento statale ed europeo non ha fatto altro che prolungare il calvario: qualsiasi attività che ha bisogno di sostegno a lungo prima o poi arriverà al punto in cui questo sostegno sarà così costoso che una comunità, per quanto ben intortata a considerare i sussidi come “aiuto al Made in Italy“, non vorrà più pagarlo. E in tal caso il fallimento sarà ancora più disastroso, perché i soldi e il tempo che lo Stato avrebbe potuto usare per favorire una migrazione ordinata e non traumatica è stato sprecato per mantenere lo status quo.

Inoltre, come ben fa notare il Principe del Liechtenstein Giovanni Adamo II, che regna su di un Paese con poche risorse che dunque ha necessità di commerciare col mondo, il sostegno statale alle imprese e il protezionismo hanno come conseguenza un rallentamento tecnologico che, se perdurante, rende impossibile salvare quel settore economico.

Vediamo bene come pochi siano i marchi italiani internazionali e in quale  stato tecnologico versi nostra agricoltura, ultraprotetta, che adopera moderni servi della gleba per andare avanti. E più la proteggeremo, più quando non sarà possibile proteggerla il disastro, economico e sociale, sarà duro.

L’inversione della curva dei tassi d’interesse: è in arrivo una nuova crisi?

La linea blu rappresenta il tasso di interesse sui titoli del Tesoro USA a 3 mesi. La linea rossa, il tasso di interesse sui titoli del Tesoro USA a 30 anni.

Le barre grigie verticali rappresentano i periodi di recessione economica.

(ignorate la discontinuità della linea rossa tra il 2002 e il 2006, è un errore dell’algoritmo) 1

Anche un osservatore laico può immediatamente percepire una relazione diretta: ogni volta che la linea rossa cade sul blu – e specialmente quando è sotto il blu – si verifica una recessione pochi mesi dopo.

Vediamo ora quest’altro grafico. La linea blu continua a rappresentare il tasso di interesse sui buoni del Tesoro a  3 mesi . La linea verde, il tasso di interesse dei titoli del Tesoro  decennale.2

Possiamo fare la stessa osservazione che è stata fatta per il primo grafico, con l’unica eccezione per il lontano 1966, l’unica volta in cui le linee si intersecarono e non ci fu recessione.

Il fenomeno

Tale fenomeno è chiamato inversione della curva di interesse. In inglese, c’è un termine pomposo: inverted yield curve.

L’inversione si verifica quando i tassi di interesse a lungo termine (in questo caso, 30 anni) sono inferiori ai tassi di interesse a breve termine (in questo caso, 3 mesi). Chiaramente, è un’anomalia che i tassi di interesse a lungo termine raggiungano livelli inferiori ai tassi di interesse a breve termine.

In tempi normali, gli agenti economici (proprio come qualsiasi individuo) tendono a richiedere un interesse maggiore per periodi più lunghi. Più lungo è il periodo di un prestito, maggiore è l’interesse richiesto. Fondamentalmente, tre elementi definiscono il tasso di interesse per un prestito: il rischio, l’aspettativa di inflazione dei prezzi e la preferenza temporale.

  • Più lungo è il periodo del prestito, maggiore è il rischio. Pertanto, maggiore è l’interesse richiesto per compensare questo rischio.
  • Più lungo è il periodo del prestito, maggiori sono le possibilità di una grande perdita del potere d’acquisto della valuta. Pertanto, maggiore è l’interesse richiesto per compensare questa perdita di potere d’acquisto.
  • Più lungo è il periodo del prestito, più tempo dovrai rinunciare al tuo consumo. Dunque, l’interesse richiesto sarà maggiore per rinunciare a questo consumo nel presente, in cambio di più denaro in futuro. Questa è la base delle preferenze temporali.

Pertanto, è un’anomalia che i tassi di interesse a lungo termine diventino inferiori ai tassi di interesse a breve termine. E questa anomalia precede sempre una recessione.

Ma perché si verifica? E perché precede una recessione?

Cosa dice la teoria convenzionale

Il sito Investopedia3 offre questa definizione:

Storicamente, le inversioni dei tassi di interesse hanno preceduto diverse recessioni negli Stati Uniti. A causa di questa correlazione, la curva degli interessi è spesso vista come un modo accurato di prevedere variazioni nel ciclo economico.

Una curva di interesse invertita prevede che i futuri tassi di interesse nell’economia saranno inferiori, e questo perché le obbligazioni a lungo termine sono più richieste delle obbligazioni a breve termine, e questa maggiore domanda abbassa i tassi d’interesse. […]

Ciò che influenza i tassi di interesse nel mercato sono le variazioni nella domanda di titoli di termini diversi in un dato momento e date determinate condizioni economiche. Quando l’economia è diretta verso una recessione, gli investitori – sapendo che i futuri tassi d’interesse saranno più piccoli proprio perché l’economia sarà in recessione – diventeranno più disposti a investire in obbligazioni a più lungo termine. Questa maggiore domanda aumenta i prezzi di questi titoli e, di conseguenza, diminuisce i loro tassi di interesse (maggiore è il prezzo di un titolo, minore è l’interesse che pagano).

Allo stesso tempo, un minor numero di investitori desidera investire in obbligazioni a breve termine, che stanno ancora pagando tassi di interesse più bassi rispetto alle obbligazioni a lungo termine. Con una minore domanda di obbligazioni a breve termine, i tassi di interesse tendono a salire, generando una curva invertita.

E adesso, una spiegazione più liberale

La spiegazione appena mostrata è tecnicamente corretta. Ma è limitato solo alla visione del mercato finanziario.

Cerchiamo ora di espanderla all’economia reale. Alla fine, vedremo che il ragionamento è lo stesso.

Il seguente grafico mostra l’evoluzione della base monetaria statunitense. Adesso è marzo 2019 e il grafico inizia ad agosto 2013.

Oggi, la base monetaria statunitense, che è una variabile completamente sotto il controllo della Fed, ha praticamente lo stesso valore cinque anni fa. La Fed sta mantenendo una politica monetaria restrittiva. Non c’è alcun dubbio su questo.

Questo dato può aiutare a spiegare perché il dollaro è forte in tutto il mondo.

La teoria economica della Scuola Austriaca insegna che quando la Banca Centrale inizia a stabilizzare la base monetaria, il ciclo di espansione economica viene interrotto. Inizialmente, la stabilizzazione della base monetaria inizia a incidere sui tassi di interesse a breve termine, che iniziano a salire (c’è meno denaro disponibile per il sistema bancario da prestare a consumatori e imprenditori).

Di conseguenza, per gli imprenditori, diventa più difficile continuare con le loro attuali politiche di espansione del business. Trovano più costoso prendere in prestito i soldi di cui hanno bisogno per completare le iniziative avviate quando immaginavano che la domanda dei consumatori sarebbe aumentata.

Gli imprenditori quindi iniziano a competere per prestiti a breve termine perché devono portare a termine i loro progetti. Quando competono tra loro per questo denaro, il tasso di interesse a breve termine aumenta.

Allo stesso tempo, non prendono prestiti a lungo termine perché hanno paura di non riuscire a ripagare il loro debito nel caso in cui l’economia entrasse in recessione. Come conseguenza di questa minore domanda di prestiti a lungo termine, i tassi di interesse a lungo termine iniziano a calare.

Nel frattempo, nel mercato obbligazionario (pubblico e privato), cresce il timore che la fase espansiva del ciclo economico stia volgendo al termine. Di conseguenza, gli investitori ritengono che sia una buona idea acquistare titoli a lungo termine (pubblici e privati) e ricevere gli interessi su questi titoli. Dato che ci sarà una recessione, avere un reddito garantito e bloccato a un tasso di interesse ancora alto è una buona idea.

Così, mentre gli imprenditori e le imprese riducono le loro richieste di prestiti a lungo termine, gli investitori iniziano a comprare più obbligazioni a lungo termine. Ciò riduce ulteriormente il tasso di interesse a lungo termine.

Tesi finale: quando inizia il processo di stabilizzazione della base monetaria, la tendenza è quella di aumentare i tassi di interesse a breve termine e di ridurre il tasso di interesse a lungo termine. Infine, c’è l’inversione della curva dei tassi di interesse.

Detto questo, vale la pena ricordare che di recente, il 22 marzo 2019 , c’è stata un’inversione della curva di interesse per le metriche 3 mesi e 10 anni, che già innesca un cattivo segnale. Ecco gli ultimi valori:

Conclusioni

La teoria sostiene ciò che la pratica ci sta mostrando. Sì, l’inversione della curva di interesse – che è un fenomeno atipico – è un buon segnale predittore di una recessione americana. In media, la recessione inizia 6-12 mesi dopo l’inversione (non c’è una teoria esatta a questo riguardo).

Finché i tassi di 30 anni e tre mesi non sono invertiti, non si può dire che si stia per affermare una recessione negli Stati Uniti. Tuttavia, l’inversione delle curve di 10 anni e 3 mesi – che è il secondo miglior predittore – attira l’attenzione. E accende un allarme.

Fonti:

  1. https://www.mises.org.br/Article.aspx?id=2971
  2. https://fred.stlouisfed.org/graph/?g=np1a
  3. https://www.investopedia.com/terms/i/invertedyieldcurve.asp

Milton Friedman e la (sua) Flat Tax

Era il 1956 quando la mente brillante di Milton Friedman (1912-2006) elaborò l’idea della Flat Tax. Sono passati 63 anni ed oggi la sua proposta politica è diventata oggetto di numerose discussioni in tutte le economie mondiali, seppur con qualche imprecisione. Imprecisioni sia da parte di chi la sostiene, specie in Italia, che da parte di chi non la sostiene.

Questo è un indizio di come già in quell’epoca Friedman prevedeva le pecche, i difetti, i limiti del sistema statalista. In quel tempo, l’Europa era nel pieno del boom economico e l’interventismo statale era considerato un bene, ma lo stesso economista statunitense rilevava quei problemi che oggi sono ormai evidenti, in Italia e nella stessa Europa.

Come tutti sanno, la proposta della Flat Tax è uno dei cavalli di battaglia del partito Lega Nord. Lo stesso Matteo Salvini, oggi viceministro del consiglio, ha inserito la proposta di Friedman come il pilastro portante per assicurare una Pace Fiscale ai cittadini.

A tal proposito, nella proposta leghista si riscontrano alcune piccole ma significative differenze rispetto all’idea originaria. Pertanto, ritengo opportuno parlare della Flat Tax, raccontando semplicemente come lo stesso Friedman se lo immaginava.

Come punto di partenza, non possiamo non parlare della moneta e del suo rapporto con la persona. Per l’economista statunitense, la moneta è un “bene di lusso”. Pertanto, la considerazione di essa cambia a seconda del reddito della persona. Se la persona possiede un basso reddito, la moneta è molto veloce, dinamica. Basti pensare al fatto che il basso stipendio di una persona finisce molto rapidamente tra spese primarie o secondarie. Quando il reddito tende a salire, la moneta inizia ad avere una polifunzione. Non solo sarà utilizzata con lo scopo di soddisfare le spese primarie e secondarie, ma permette anche di fare investimenti oppure di organizzare la moneta in risparmi.

Ebbene, la Flat Tax ha lo scopo primario di permettere alle persone di costruirsi i propri risparmi e investimenti. Non solo, ma se la riforma fiscale venisse fatta con i sani criteri previsti dall’economista, sarebbe una vera e propria svolta per la società italiana. Oggi, la moneta vive un momento non felice. Se prima abbiamo sostenuto che la moneta, per una persona con basso reddito, è veloce e dinamica, nel caso di chi ha un reddito più alto, la situazione diventa preoccupante. Oggi abbiamo un fisco invadente che contribuisce a mortificare le persone da qualsiasi tentativo di risparmio o di investimento. Lo stesso regime progressivo lo dimostra, in quanto chi possiede un reddito maggiore deve pagare un’aliquota più alta, quasi come se fosse un reato guadagnare di più.

Come già accennato in precedenza, la Lega Nord è favorevole alla Flat Tax e già dalla campagna elettorale per le elezioni del 4 marzo proponeva un’aliquota fissa per le imposte sui redditi delle persone fisiche e delle imprese compresa tra il 15% e il 23%. Ma le intenzioni o gli obiettivi non sono gli stessi. Infatti, non prevale l’intenzione di far respirare le tasche dei cittadini, bensì quella di semplificare il rapporto cittadino-fisco e di diminuire l’evasione fiscale. Della serie “dietro una proposta liberista, si nasconde la stessa logica socialstatalista”.

La Flat Tax non deve essere un diversivo per arricchire diversamente le casse dello Stato. Altrimenti qui rischiamo di andare verso il principio “pagare tutti le tasse per pagare meno”. La Flat Tax deve avere come unico scopo quello di alleggerire gli italiani. Alleggerire per permettere loro dei consumi migliori, dei risparmi certi e degli investimenti stimolanti.

Sul semplificare possiamo, invece, andare tutti d’accordo. Oggi il sistema fiscale in italiano è sempre più garbugliato, confusionario, ma ha la straordinaria dote di costringere l’imprenditore o il libero professionista a chiudere la partita IVA o a trasferirsi altrove. Il lavoratore sente meno questo problema, perché oggi abbiamo la figura del sostituto d’imposta, ossia è il datore di lavoro ad occuparsi delle tasse del suo dipendente. Il Sostituto d’Imposta è la più grande genialità mai realizzata dai socialisti, poiché il lavoratore dipendente non avrà la piena consapevolezza di quanti soldi versa allo Stato ogni mese.

Secondo l’idea di Friedman, l’unica forma di progressività attraverso la creazione di una Flat Tax è attraverso una no tax area e con conseguente eliminazione della politica degli sgravi fiscali. In parallelo, lo stesso economista statunitense ha parlato di Tassazione Negativa di Reddito, specie per coloro che possiedono un reddito al di sotto di una certa soglia.
Altro dettaglio fondamentale, oggi trascurato da chi sostiene la Flat Tax, è che questa riforma può funzionare solo in un regime di bassa spesa pubblica. Da non trascurare se consideriamo che la spesa pubblica in Italia è giunta ad un livello molto più che preoccupante.

Prima di concludere ecco alcune significative affermazioni di Milton Friedman sul tema della Flat Tax

“[…] ciò costituirebbe una difesa contro l’aumento dell’aliquota. Adesso ogni volta che c’è un aumento di aliquota lo si giustifica dicendo che va a colpire qualcun altro. Non si tassa mai sé stessi ma il proprio vicino. In questo modo si nasconde il fatto che alla fine vengono tassati tutti. Con l’aliquota unica, con un’unica percentuale, pagata da tutti ad esclusione di quelli che hanno un reddito inferiore al minimo, sarà molto più difficile ottenere il sostegno popolare per un aumento di aliquota”

“Flat Tax non sostituisce le altre imposte? Certo, non ho mai sostenuto che l’imposta ad aliquota unica potrà, ad esempio negli Stati Uniti, sostituire altre tasse quali l’imposta sulla proprietà. Dubito che vi sarà il sostegno politico alla proposta di sostituire l’imposta sugli alcolici, sul tabacco, sulla benzina. Queste imposte sono di natura diversa fra loro. La tassa sulla benzina, per esempio, è una forma di finanziamento da parte degli utenti per la manutenzione delle autostrade.
Si tratta, se così si può dire, di una tassa per un servizio più che di una comune imposta.”

Capitalismo e ambiente. La rinuncia al primo favorirebbe il secondo?

La maggior parte degli ecologisti attribuisce al capitalismo e all’industria la colpa dell’eccessivo sfruttamento di risorse e della degradazione dell’ambiente, se ne dedurrebbe che l’abbandono del modello capitalista porterebbe ad una migliore condizione dell’ambiente.

Ma si potrebbe abbandonare il capitalismo? A che costo? Come?

Anche Karl Marx era convinto di poter arrivare ad abbandonare il capitalismo, ma solo dopo aver spremuto fino all’ultima goccia del suo progresso scientifico. Pertanto ne criticava la forma ma non il funzionamento definendolo un male necessario al fine di raggiungere il bene supremo: un mondo comunista talmente avanzato tecnologicamente da non necessitare più della spinta innovatrice dei privati.

Lo sviluppo economico è un viaggio in cui è certa la stazione in cui siamo arrivati, ma non possiamo sapere che successivamente non ne troveremmo di migliori. Non è possibile considerare un determinato livello di sviluppo umano come la sua massima espressione possibile, considerando infinite le idee.

Abbandonare il capitalismo avrebbe un costo incalcolabile, quello di abbandonare le scoperte ancora ignote per favorire quelle che abbiamo già a portata di mano. Il capitalismo viene considerato la sciagura per i problemi umani e ambientali, ma in realtà sarebbe la principale cura, se gli fosse concesso di agire secondo le proprie leggi intrinseche.

Adam Smith credeva in un disegno più grande che abbracciava l’economia di mercato (e l’ecologia di mercato, ndr). Vi è per lui un processo spontaneo che lega gli interessi particolari (degli industriali e dei consumatori) ai benefici universali (dell’ambiente). Colui che offre un prodotto deve andare incontro ai bisogni dei consumatori, essendo questi manovratori del sistema di mercato. Se i consumatori chiederanno più ecologia, i produttori non potranno ignorarli a lungo. Inoltre, la ricerca del profitto spinge ad offrire prodotti sempre migliori a un prezzo sempre minore per far fronte alla concorrenza.

Ciò genera innovazione tecnologica che innalza la qualità dei prodotti e l’efficienza che si traduce in un abbassamento dei costi di produzione. Chiaro che l’ambiente ne tragga un vantaggio in quanto eliminare i prodotti di scarto risulta una voce importante nelle spese di produzione. In un’ottica capitalista di mercato i rifiuti tenderebbero a cessare di esistere o non sarebbero più dei semplici scarti. Grazie alla volontà di profitto degli imprenditori, diventerebbero prodotti da vendere e non sarebbero più un costo, ma una possibilità.

Lo sviluppo tecnologico

L’economia circolare, nonostante i romantici la definiscano come “un nuovo modello di produzione”, non è altro che il vecchio modello esasperato nei benefici.

La spinta di mercato ha generato uno sviluppo tecnologico tale da rappresentare radicali miglioramenti già solo nell’ultimo ventennio. I consumatori hanno richiesto negli anni una sempre maggiore concentrazione di servizi considerando, ad esempio, i soli smartphone. Va da sé che gli altri apparecchi elettronici, ormai obsoleti, siano andati mano a mano diminuendo.

Per la stessa quantità di servizi al giorno d’oggi utilizziamo una minore quantità di risorse e abbiamo un minore impatto sull’ambiente.

Ulteriore esempio è il passaggio dalla carta alla memorizzazione elettronica sviluppatasi poi in modo sempre più efficiente. Appena venti anni fa per stoccare 8 GB di dati servivano migliaia di floppy, ora serve una sola chiavetta USB pertanto la quantità di materiali e plastiche per la fabbricazione di un oggetto dalla stessa capacità è notevolmente diminuita.

Il confronto fra la carta stampata e la memorizzazione elettronica è ancora più impietoso: è famosa la fotografia di Bill Gates imbragato e appeso a diversi metri di altezza con sotto di lui una pila di migliaia di fogli che contenevano gli stessi dati che era possibile immagazzinare nel CD-ROM che teneva nel palmo della sua mano.

Infine, abbandonare il capitalismo porterebbe a mantenere l’attuale sistema produttivo, ma senza un’efficiente allocazione delle scarse risorse, ignorando le possibili soluzioni future provenienti dal mercato e senza portare nessun vantaggio per l’ambiente.

Leggi anche “Ambientalismo e socialismo: una storia d’amore”.

La solidarietà continua ad impoverire il terzo mondo

Durante la sua visita ufficiale in Tunisia lo scorso Ottobre, il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani ha proposto di attivare un “piano Marshall” per l’Africa. Rievocando il piano di sussidi che gli Stati Uniti concessero ai Paesi dell’Europa occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale, Tajani ha stimato il costo di un analogo piano per l’Africa a 40 miliardi di €.

L’obiettivo di questi investimenti sarà la costruzione di nuove infrastrutture, il supporto alle piccole e medie imprese (SME in inglese), l’incoraggiamento all’imprenditoria giovanile e all’occupazione, nelle nazioni del continente africano.

Inoltre, Tajani ha sottolineato come senza una soluzione a questi problemi “migliaia, e in futuro saranno milioni, di persone potrebbero lasciare il proprio Paese.”

Nondimeno, il fine del libero mercato non giustifica i mezzi del trasferimento di risorse da parte del governo. La mia natia Spagna, che ha il secondo tasso di disoccupazione più alto fra i 28 Paesi della UE, lo prova.

Fra le regioni europee con maggior disoccupazione e minor PIL, ce ne sono due spagnole: Estremadura e Andalusia. Ma nonostante i sussidi del governo nazionale e regionale per “promuovere la creazione di nuove imprese”, la Spagna pone più ostacoli a fare impresa di tutti gli altri Paesi OCSE, secondo il Fondo Monetario Internazionale.

L’Africa è ancora il continente più povero al mondo. Il suo PIL pro capite è di quasi 8.500 $ inferiore alla media mondiale. Ma ci sono segnali di speranza: le carestie sono quasi scomparse al di fuori delle zone di guerra; l’aspettativa di vita è cresciuta dai 50,3 anni del 2000 ai 50,9 del 2015. Tutto questo progresso si è verificato grazie a riforme economiche pro-mercato.

Secondo la Heritage Foundation, lo score complessivo in libertà economica dell’Africa sub-Sahariana è pari al 55%, quasi 3 punti più alto che al principio del secolo. La libertà di commercio, in particolare, è cresciuta di 18 punti; il carico fiscale sembra essere in diminuzione.

Eppure, nessun Paese africano si posiziona fra le 20 economie più libere al mondo. Lo Stato di diritto latita e la repressione del dissenso prevale troppo spesso.

Nel lungo periodo, riforme economiche in direzione laissez-faire sono l’unica strada per la prosperità. Allo stesso tempo, la corruzione deve essere combattuta efficientemente. Il Botswana è un modello, in questo senso: è uno dei Paesi più ricchi in Africa, il meno corrotto, e fra le 34 economie più libere del pianeta (nonché la seconda più libera nel continente).

Non esistono, invece, casi di Paesi usciti dalla miseria grazie ad aiuti umanitari e sussidi allo sviluppo. I fondi di questo tipo sono solo trasferimenti da un apparato di governo ad un altro.

La Singapore post-coloniale era ben lungi dall’essere un Paese ricco pochi decenni fa, ma è oggi un caso di studio per i sostenitori di economie aperte. Politiche orientate verso il libero mercato e l’attrazione di investimenti esteri l’hanno aiutata a crescere e prosperare.

Il Parlamento Europeo non ha alcuna competenza, né responsabilità, al di fuori della propria giurisdizione. Ma questo non significa che non possa fare nulla per migliorare la condizione economica dell’Africa.

Più nello specifico, vi sono alcune politiche Europee che stanno ponendo ostacoli allo sviluppo degli imprenditori e commercianti del Terzo Mondo. La famosa Politica Agricola Comune (PAC) rende più complicato per i Paesi in via di sviluppo esportare i propri prodotti verso la UE, perché applica una discriminazione economica particolarmente rilevante verso gli agricoltori non Europei.

Queste politiche protezioniste non hanno portato l’agricoltura a diventare una forza economica trainante per la UE. Nonostante un budget annuale di 59 miliardi di euro (utilizzato per supportare il reddito dei contadini e finanziare programmi di sviluppo rurale, che Paesi meno sviluppati non possono permettersi), l’agricoltura contribuisce a meno del 2% del PIL della UE.

Esiste un modello per il tipo di transizione che la UE dovrebbe avviare, per concedere un accesso più libero ai mercati europei da parte dell’Africa: La Nuova Zelanda, il cui settore rurale era simile a quello Europeo 3 decenni fa, ha condotto un processo di liberalizzazione economica.

C’erano diffusi timori sul rischio di vedere molte aziende agricole fallire, ma alla fine solo circa 800 dovettero chiudere. Gli agricoltori che speravano di competere cominciarono a cooperare in maniera più efficiente e innovativa sulla base di condizioni di mercato. Ad oggi, l’agricoltura contribuisce ancora per il circa 7-10% al PIL della Nuova Zelanda.

Indubbiamente, la soppressione delle misure agricole protezioniste condurrebbe a feroci proteste a Bruxelles e nelle altre capitali: gli Europei sono abituati all’interventismo statale.

Perfino gli Euroscettici mostrerebbero la propria indignazione. Nonostante tale rischio, però, i politici dovrebbero cercare di spiegare questi cambiamenti di policy in una maniera più precisa, tale che sia più efficace, tanto da far presa da un punto di vista sia morale che logico.

In una ipotetica campagna per la liberalizzazione del mercato agricolo, i politici e i sostenitori della libertà non dovrebbero focalizzarsi solo su statistiche del PIL e altri dati macroeconomici.

Dovrebbero invece sottolineare che i cittadini europei potranno comprare prodotti più economici, dato che al momento pagano i costi dei sussidi e delle regolamentazioni, e che potranno effettuare scambi commerciali con un numero più ampio di Paesi non Europei.

Ancora più importante, da un punto di vista etico così come nella vita reale, è facile comprendere come il commercio sia un modo per beneficiare sé stessi e i propri vicini: prezzi più bassi lasciano alle famiglie più risorse a disposizione per le loro altre priorità.

Allo stesso tempo, gli Africani possono cominciare a espandere i loro mercati di esportazione e avere più denaro per le loro necessità di base. Ognuno ne trae beneficio: il commercio è un modo di donare vita ad altri. Dall’altra parte, i boicottaggi commerciali sono invece un modo per eliminare i punti di vista che non vogliamo riconoscere.

I miei compatrioti Europei devono giungere a vedere la liberalizzazione del commercio come un modo di esprimere solidarietà ai lavoratori del Terzo Mondo, di risollevare la parte di Africani in miseria e di ottenere benefici per se stessi grazie a prezzi più convenienti e mercati più ampi.

Devono vedere questa decisione come giusta e morale perché “Quando l’etica è messa in primo piano, l’umanità fiorisce”. [1]

[1] Traduzione dall’inglese dell’articolo apparso di recente su Acton.org, a firma di Ángel Manuel García Carmona, cfr.: https://acton.org/publications/transatlantic/2017/11/20/marshall-plan-africa-wont-help-africans-free-trade-will

Stress test pensioni: 5 casi in cui il privato è meglio del pubblico

Spesso, a torto, si sente sostenere che l’attuale sistema pensionistico è da imputare a un sistema liberista volto a impoverire la popolazione italiana e farla morire lavorando.

Sfatiamo subito questo mito, a noi liberali questo sistema pensionistico non piace per niente, la riforma Fornero NON è stata una riforma liberista, bensì una riforma contabile.

Essa è stata una riforma inevitabile per la struttura del sistema pensionistico italiano perché è completamente concentrato nel perimetro pubblico e, per far sì che questo non implodesse, è stato necessario bilanciare le entrate e le uscite di cassa future con un aumento dei contributi versati, un aumento dell’età pensionabile e la riduzione degli assegni a causa della non indicizzazione all’inflazione.

È stata inevitabile e saranno inevitabili altre riforme di questo tipo perché, contrariamente a quanto viene propagandato spesso, i soldi non sono infiniti e lo stato, qualsiasi esso sia, non è onnipotente e non può incidere, se non in misura ridotta, in fattori di così grande portata come il trend demografico di una nazione.

Il nostro sistema pensionistico funziona come un enorme schema Ponzi nel quale si dovrebbe sperare che sempre più persone inizino a lavorare, quando secondo il trend demografico questo non sta accadendo, e che sempre più pensionati smettano di percepire l’assegno pensionistico lasciando al sistema i contributi non riscossi (lascio al lettore immaginare cosa voglia dire).

Alla luce di questo, il sistema pensionistico italiano, contributivo e a ripartizione, NON è il sistema di riferimento per i liberisti.

Un sistema liberista sarebbe uno a capitalizzazione individuale, il lavoratore metterebbe da parte i contributi su un conto previdenziale privato in modo da costruirsi la propria pensione personale che non sia dipendente da contributi di altri e dalla quale riceverebbe degli interessi, anche questi da reinvestire sul conto previdenziale in modo da aumentare ulteriormente la propria pensione futura.

Ora proviamo a immaginare in cinque situazioni di criticità come rispondono le pensioni contributive pubbliche e delle ipotetiche pensioni private a capitalizzazione individuale.

  1. Il primo elemento di criticità che quasi ogni giorno tiene banco nel dibattito pubblico è l’ingiustizia di andare in pensione in età avanzata dopo aver passato la vita con un lavoro usurante. Contro intuitivamente un sistema privato andrebbe a vantaggio principalmente di questa categoria, composta in prevalenza da persone scarsamente specializzate e che entrano precocemente nel mercato del lavoro, perché, anche se verserebbero un contributo più basso, inizierebbero a versarlo molti anni prima rispetto a altri lavori maggiormente specializzati caratterizzati da un ingresso nel mercato del lavoro in un’età più avanzata, facendo si che gli interessi, seppur su importi minori, agirebbero per un maggior numero di anni e favorendo la costituzione di un montante adeguato per andare in pensione prima rispetto a un sistema pubblico in cui l’età di pensionamento dipende esclusivamente dal decisore pubblico.
  2. Una seconda criticità dipende dalla percezione che i lavoratori hanno dei contributi previdenziali che le aziende versano in loro favore, oggi sono vissuti come una tassa (di fatto lo sono) perché non è esplicito quanto sia l’ammontare di contributi versati nelle casse dell’Inps  e non è chiaro, per chi non è un addetto ai lavori, come verrà calcolata la pensione. In un sistema pensionistico a capitalizzazione i contributi sarebbero percepiti come parte dello stipendio (di fatto lo sarebbero) perché confluirebbero direttamente nel conto previdenziale privato cioè nel patrimonio del lavoratore. Questo li allontanerebbe dal mercato del lavoro irregolare perché a parità di stipendio percepito, il guadagno del lavoratore in nero sarebbe nettamente inferiore a quello del lavoratore regolare e non potendo più terziarizzare i contributi, farseli cioè pagare da altri, sarebbe incentivato a farseli versare direttamente in azienda.
  3. Nel mercato del lavoro odierno, caratterizzato da una maggiore discontinuità lavorativa rispetto al passato, la perdita di lavoro corrisponde a un cessazione del versamento dei contributi, questo si ripercuote non solo sulla situazione reddituale presente, ma anche sulla situazione reddituale futura. In un sistema privato, essendo composto anche dagli interessi oltre che dai contributi versati, il problema, pur rimanendo, avrebbe un impatto negativo minore perché quest’ultimi continuerebbero a maturare a prescindere che il lavoratore stia o meno continuando a lavorare e versando i contributi.
  4. Mediamente in Italia viene percepito un assegno pensionistico fra il 70% e l’80% rispetto agli ultimi stipendi riscossi prima di uscire dal mercato del lavoro ed è la stessa percentuale che viene mediamente riscossa nei sistemi privati con la piccola differenza che in Italia i contributi pensionistici ammontano al 33% dello stipendio lordo mentre nei paesi che adottano il secondo sistema i contributi sono nettamente inferiori (in Cile ad esempio solo il 10%), le pensioni private quindi raggiungono lo stesso risultato, ma con un impiego di risorse economiche molto inferiore, questa differenza è una vera sottrazione di risorse private che potrebbe essere impiegata per consumi o investimenti dai quali, al giorno d’oggi, il lavoratori sono completamente esclusi. Inoltre contributi pensionistici così alti incidono negativamente sul cuneo fiscale, disincentivando l’assunzione. Abbassarli vorrebbe dire aumentare l’occupazione e disincentivare il lavoro nero.
  5. C’è un ulteriore aspetto che premia le pensioni private rispetto a quelle pubbliche ed è la reversibilità, non è raro che una persona muoia prima di aver maturato il diritto a riscuotere l’assegno pensionistico o prima di aver consumato completamente il proprio credito presso le casse previdenziali. Nel sistema pubblico spesso oltre al danno si assiste alla beffa. Dopo aver pagato una vita intera per poter godere di un servizio futuro, quale è la pensione, non solo ne si è esclusi personalmente dal consumo, ma ne sono esclusi anche tutti propri cari che non goderanno di questo servizio, se non in minima parte, costituendo, di fatto, un ulteriore tassazione a fondo perduto avvenuta durante la vita alla quale non verrà mai corrisposto il servizio promesso.

Leggi anche: “pensioni, sistema insostenibile

Perché in Italia i comuni non falliscono?

La notizia è fresca[1]: il governo ha deciso di intervenire a salvezza di Roma, dicendosi disponibile ad addossarsi i debiti del comune a partire dal 2021. Non che sia una novità[2], o tantomeno l’unico caso[3]; lo Stato italiano ha una lunga tradizione di interventi a tutela di comuni falliti. E, per essere chiari, la ragione di questi interventi non è solo la convenienza politica di togliere dagli impicci i propri compagni di partito (anche se questo motivo esiste, ovvio); a livello più profondo, deriva dalla concezione dello Stato presente in questo Paese e nella sua classe dirigente.

In Italia gli enti locali sono ancora visti come branche dello Stato centrale, che se ne serve per controllare meglio il territorio ed i cittadini. Anche quando concede, come nel caso delle Regioni, un certo grado di autonomia di spesa e decisione, mantiene comunque il diritto di intervenire sulla maggior parte delle materie su cui ha, a malincuore, ceduto il potere[4]; e non si sogna minimamente di creare un vero sistema decentrato, con poteri amministrativi e decisionali esclusi dagli ambiti più importanti.

I comuni soffrono in particolare questa situazione, perché da un lato ricevono sempre meno soldi dallo Stato (e non hanno sufficiente autonomia per procurarsi altri fondi) mentre dall’altro devono garantire una serie di servizi che i loro cittadini (ed elettori…) si aspettano.

Il risultato è che molti finiscono soffocati di debiti; e a quel punto interviene lo Stato con i suoi commissari e i suoi lunghi e complessi piani di rientro – che ovviamente non funzionano mai. La città finisce così per attraversare una crisi finanziaria dietro l’altra e rimane in uno stato di sovranità limitata per anni, a volte decenni.

Il punto è che ad essere sbagliata è proprio la concezione dello Stato che ha la nostra classe dirigente.

Il comune non dovrebbe essere visto come un organo dello Stato centrale, a cui si distribuisce denaro dall’alto per poi salvarlo quando le cose vanno male. Così non si crea una cultura della responsabilità, né presso gli amministratori locali né presso i cittadini; è solo un modo per mantenere il predominio del governo centrale e della sua classe di burocrati e politici.

Il comune dovrebbe invece essere un singolo ente autonomo, che si auto-finanzia presso i suoi residenti ed è responsabile di fronte a loro della sua condotta finanziaria. Se un ente del genere fallisce, a pagarne le spese saranno i suoi residenti, e solo loro; e non perché li si debba punire; ma perché solo commettendo errori e vedendone le conseguenze gli individui possono capire dove hanno sbagliato ed effettuare scelte migliori.

Del resto, non vediamola solo negativamente: un comune autonomo e ben amministrato potrebbe fornire servizi migliori ai cittadini – o addirittura abbassare le loro tasse!

I fallimenti sono importanti sia per un individuo che per un sistema (politico ed economico): permettono di individuare gli errori e di migliorare la qualità delle decisioni successive. Per quale ragione i comuni non dovrebbero poter fallire?

 

 

[1] Fonte: https://quifinanza.it/finanza/governo-paga-debiti-di-roma/267699/

[2] Dal 2009 l’enorme debito accumulato dalla capitale viene pagato al 60% con fondi prelevati dalla contabilità nazionale – soldi di tutti gli italiani dunque.
Fonte: https://www.nextquotidiano.it/debito-di-roma-chi-paga/

[3] Ad esempio Catania, nel 2008, cfr: http://www.repubblica.it/2008/10/sezioni/politica/cavaliere-salva-catania/cavaliere-salva-catania/cavaliere-salva-catania.html

[4] Per come funziona il sistema delle competenze “condivise” e “residuali” fra Stato e Regioni, cfr: https://it.wikipedia.org/wiki/Potest%C3%A0_legislativa_in_Italia

La Svezia e l’equivoco socialdemocratico

In Italia si parla spesso dei Paesi scandinavi come modelli alternativi, esempi di successo di politiche socialdemocratiche o addirittura socialiste; e recentemente questa moda ha preso piede perfino negli Stati Uniti[1]. Alla base di questi riferimenti c’è sempre la ricerca della mitica “terza via”, che permetterebbe di superare il capitalismo senza gli eccessi e i fallimenti del comunismo[2].

La Svezia, in particolare, è il Paese a cui tutti costoro guardano. “Ecco”, si dice, “una nazione che riesce a crescere e creare benessere per tutti con politiche sociali e attente ai poveri, rifiutando il perfido neoliberismo. Questo è l’esempio che dovremmo seguire. Freghiamocene di austerità, libertà economica e tassazione, a salvarci sarà la spesa pubblica!”.

Ovviamente, la realtà è un po’ diversa: la Svezia non cresce per via della sua alta spesa pubblica, ma al contrario si può permettere quel livello di spesa perché cresce. Sembra un gioco retorico, ma non lo è: la Svezia basa la sua crescita su un modello economico liberale, non su una fantomatica “terza via”.

Gli svedesi hanno dovuto capirlo e impararlo sulla loro pelle. Negli anni ’70 e ’80 la Svezia aveva creato un esteso sistema di welfare, che ancora adesso è in piedi (seppure ridotto). Ma in quegli anni i governi socialdemocratici utilizzarono anche politiche che definiremo per comodità keynesiane, utilizzando regolarmente la spesa pubblica per spingere la propria economia.

Fu in quegli anni che la tassazione svedese crebbe fino a livelli mai raggiunti nel mondo occidentale[3], mentre lo Stato acquistava centinaia di aziende private in crisi e cercava di rilanciarle con soldi pubblici. Nel corso degli anni ’80 lo Stato svedese era arrivato a pesare per oltre il 60% sul PIL del Paese; si sarebbe mantenuto su quei livelli fino a metà anni ‘90.

E quale fu il risultato? Negli anni ‘50 e ‘60 la Svezia aveva conosciuto una rapida e sostenuta crescita economica, fino a diventare il 4° Paese occidentale più ricco, per PIL pro capite, nel 1970. Vent’anni dopo, il Paese scandinavo era invece in profonda crisi: la Svezia era cresciuta di circa la metà rispetto alla media OCSE per tutti gli anni ‘80 e il suo PIL pro capite era ormai il 14° nel mondo occidentale. Il Paese era entrato in una spirale apparentemente irreversibile di spesa pubblica e tassazione crescenti e crescita asfittica.

Quale fu la soluzione del governo Bildt (il primo non socialdemocratico dopo decenni)? Proprio quella indicata dal pensiero liberista standard: privatizzazioni, de-regolamentazioni, calo delle tasse e della spesa pubblica[4].

L’impatto iniziale fu ovviamente molto pesante per la società svedese: disoccupazione e debito pubblico salirono rapidamente, mentre la crescita restava bassa e l’inflazione non accennava a diminuire; il nuovo esecutivo non volle comunque tornare indietro, convinto della correttezza del rimedio.

E in effetti la situazione economica stava cominciando a migliorare quando nel 1994 il governo conservatore cadde e tornarono al potere i socialdemocratici. Quel che successe dopo illustra chiaramente la qualità del dibattito pubblico svedese: il fallimento delle politiche keynesiane dei precedenti decenni era ormai talmente accettato e riconosciuto che il nuovo esecutivo non pensò neanche per un istante di invertire la rotta.

Da allora, le riforme pro-mercato sono proseguite fino ad oggi, sotto governi di ogni colore, creando una delle economie più business friendly al mondo: oggi l’indice Doing Business della Banca Mondiale considera la Svezia come il 12° Paese al mondo dove è più semplice fare impresa[5].

“Miracolosamente”, in seguito a queste riforme la Svezia è tornata a crescere e ad essere il Paese ricco e prospero che già era stato. I suoi tassi di crescita sono regolarmente intorno al 2-3%, quando non più alti, la produttività del lavoro cresce più della media OCSE, disoccupazione e inflazione si mantengono basse[6].

Cosa ci insegna questa storia? Che non esistono ricette speciali o magiche per far crescere un Paese; tutto quello che serve è non soffocarlo di tasse e regole e lasciare libertà di azione agli individui. Questa è la rivoluzione culturale che la Svezia effettuò trent’anni fa – e che noi ci auguriamo anche per il nostro Paese.

 

[1] https://www.huffingtonpost.com/bernie-sanders/what-can-we-learn-from-denmark; https://www.bloomberg.com/news/articles/2019-01-06/ocasio-cortez

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Terza_via

[3] http://www.reforminstitutet.se/wp/wp-content/uploads/2014/03/Twentyfiveyearsofreform140301.pdf

[4] http://www.reforminstitutet.se/wp/wp-content/uploads/2014/03/Twentyfiveyearsofreform140301.pdf

[5] http://www.doingbusiness.org/en/rankings

[6] Dati ricavati da archivi World Bank

Legalize them all: perché droghe libere.

Prima di analizzare le varie conseguenze positive che la legalizzazione di sostanze stupefacenti porterebbe al nostro bel Paese, occorre chiederci una domanda fondamentale: in tutti questi anni il protezionismo, la lotta alle droghe ed i controlli sempre più severi hanno raggiunto il loro obbiettivo? Come vedremo, la risposta è no.

Attenzione: con questo articolo non voglio promuovere nessun uso di sostanze stupefacenti, qualsiasi droga fa male, e ne sconsiglio vivamente l’uso.

Fatta questa doverosa premessa, possiamo iniziare.

È l’uso eccessivo del telefono che causa problemi, non il telefono in se. Lo stesso vale per le droghe, è l’abuso della sostanza che porta a problematiche psicologiche, economiche e sociali serie per l’individuo. La condanna a priori di un qualsiasi oggetto o sostanza è sbagliata. Ragionando in questo modo dovremmo proibire qualsiasi bene poiché, in fondo, anche l’acqua in dosi eccessivi provoca danni.

Il mercato, cioè dove avvengono gli scambi di prodotti, beni e servizi, è soggetto alla legge della “domanda e offerta”. Cioè alla richiesta di un bene (domanda), il produttore risponde creando il bene richiesto (offerta) stabilendo un prezzo che varierà in base alla dimensione della domanda. L’obbiettivo del proibizionismo è, attraverso arresti e sanzioni, l’eliminazione dell’offerta del bene richiesto, per far si che non venga consumato.

Come la storia insegna, però, il protezionismo non ha mai eliminato nulla. Il mercato prosegue lo stesso. L’unica differenza è che lo scambio del prodotto diventa illegale. Semplicemente “dove non c’è mercato, c’è mercato nero” direbbe Alberto Mingardi. Economicamente parlando, quando è presente un’offerta e una domanda, il meccanismo non può essere eliminato dallo Stato.

Non solo il proibizionismo non ha diminuito lo scambio e l’uso di droghe ma lo ha aumentato! 

Un esempio lampante è la proibizione di alcool avvenuta in America dagli anni ’20 agli anni ’30.

Ho fatto i soldi fornendo un prodotto richiesto dalla gente. Se questo è illegale, anche i miei clienti, centinaia di persone della buona società, infrangono la legge. La sola differenza fra noi è che io vendo e loro comprano. Tutti mi chiamano gangster. Io mi definisco un uomo d’affari.

-Al Capone in una celebre intervista

L’uso di alcool è effettivamente diminuito, ma soltanto per i primi 365 giorni. Infatti a partire dal secondo anno in poi dall’entrata in vigore della legge, il consumo è aumentato rispetto a quando fosse legale. La diminuzione del consumo nel primo anno è dovuta semplicemente ad un periodo di assestamento nel quale la criminalità organizzata doveva preparare la propria strategia per la vendita di alcolici. 

Il proibizionismo fu così efficace che il governo fu costretto a rendere di nuovo legale la vendita di alcool provocando, nei 10 anni di protezionismo, danni ingenti che ancora oggi vengono pagati.

Rispetto alla politica intrapresa in America, il governo del Portogallo insieme ad una commissione di esperti decise che, per rispondere all’uso eccessivo di droghe (specialmente di eroina dove il tasso era il più alto di tutta Europa), si dovesse ricorrere alla depenalizzazione del possesso e consumo di droghe.

Dopo 17 anni dalla depenalizzazione, i casi di HIV sono calati drasticamente passando da 1016 e 56 nel 2012, mentre le morti per overdose sono scese da 80 a 16. Inoltre anche il consumo generale di droghe, soprattutto di eroina, è diminuito di ben il 70%, classificando il Portogallo tra i paesi europei con il minor uso di sostanze stupefacenti.

Il punto:

La spiegazione di tutto ciò è semplice: grazie alla liberalizzazione, le droghe vengono studiate e vissute come un problema medico e non giuridico. E a conti fatti la situazione è proprio cosi. Perché imprigionare, riempiendo le carceri ed aumentandone le spese, individui che avrebbero bisogno semplicemente di aiuto? L’assistenza medica è molto più efficace della prigione nel convincere un tossicodipendente a non consumare droghe. È grazie al non avere paura di sanzioni o reclusioni che l’individuo è autonomamente più propenso a chiedere aiuto. Ormai la psicologia lo ha dimostrato da cento anni che le punizioni non portano alcun beneficio.

Per non parlare delle ingenti spese statali che potrebbero essere diminuite. Si stima che tra il 2008 e il 2013 lo stato italiano abbia speso circa 180 milioni di euro l’anno in attività di contrasto alle droghe. Nel 2018 le operazioni anti droga nelle scuole sono costate 500 euro a grammo requisito. Spese decisamente eccessive per delle misure che rappresentano il totale fallimento delle azioni repressive contro questo tipo di sostanze.

Dati ancor più allarmanti si trovano analizzando le spese del sistema giudiziario. Il 35% delle persone che oggi è in carcere, lo è per reati legati alla droga. Oltre infatti a far lievitare il numero di detenuti nelle carceri italiane, contribuendo quindi al grave problema del sovraffollamento, le precedenti legislazioni sarebbero state strutturate per colpire i “pesci piccoli,” senza spaventare le associazioni criminali più organizzate.

Inoltre il proibizionismo causa un enorme problema legato alle sostanze nocive inserite di proposito nelle droghe per aumentarne il peso e massimizzare i profitti sul venduto. Quando l’alcol era illegale, in America, veniva miscelato con l’acquaragia. Ancora oggi hashish e cannabis vengono tagliati con ammoniaca, lacca e piombo. La liberalizzazione porterebbe un innalzamento della quantità e qualità dell’informazione, ma soprattutto un incremento dei controlli sulle sostanze. Per quanto la droga possa far male, va ricordato che migliaia di giovani oggi ne fanno uso ed inconsapevolmente introducono ulteriori sostanze che arrecano demenza, tumori, e altri danni che gli stupefacenti da soli non riuscirebbero a provocare.

Quindi la liberalizzazione porterebbe a:

  • Minor utilizzo di droghe;
  • Riduzione di morti per HIV e overdose;
  • Diminuzione delle spese statali;
  • Indebolimento della criminalità organizzata;
  • Maggior disponibilità di celle carcerarie;
  • Crescita dell’efficienza lavorativa di poliziotti e guardia di finanza;
  • Incremento della qualità delle droghe.

Perché continuare a combattere una battaglia già persa in partenza, quando cambiando mentalità potremmo finalmente raggiungere gli obbiettivi tanto ambiti dalla battaglia alle droghe?