La concorrenza fiscale fa bene

È una proposta ormai ricorrente, da parte della sinistra europea, quella di limitare la concorrenza fiscale tra Stati.

Per chi non lo sapesse, per concorrenza fiscale sì intende la possibilità per gli Stati che partecipano a uno stesso mercato di farsi concorrenza sulle tasse e le imposte in modo da attrarre più contribuenti. È un modello applicato, tra l’altro, in Stati prosperi come la Svizzera o addirittura il piccolo Liechtenstein.

Voler imporre un’aliquota minima obbligatoria per le imprese, nel caso della proposta del PD il 18%, è un’idea sbagliata per due principali motivi:

Il primo è che premia gli Stati spendaccioni e che non sanno curare i conti pubblici. In sostanza stiamo andando a dire agli Stati che sanno gestirsi che devono alzare le tasse perché ci sono Stati che amano fare spesa pubblica inutile. È una totale deresponsabilizzazione di Stati ed elettori, che non avranno alcuna convenienza a comportarsi responsabilmente dato che Mamma Europa sarà sempre pronta a rendere gli Stati spendaccioni concorrenziali a forza. Una cosa che ricorda molto l’idea sovranista per cui gli Stati sono liberi di fare tutto il debito che vogliono e la colpa dei fallimenti è dell’Europa e dei mercati.

Il secondo è che una mossa del genere rischia di aumentare l’euroscetticismo e la concorrenza extra UE.

I cittadini degli Stati dell’UE più virtuosi inizierebbero a vedere l’UE come un mezzo al servizio degli Stati più spendaccioni dando il via libera ai locali partiti euroscettici. E, valutando che l’UE spesso bacchetta gli Stati meno virtuosi per il debito, non ci sarebbe nemmeno un guadagno d’immagine presso gli Stati meno virtuosi.

Ma, soprattutto, esistono Stati extra-UE ma nel mercato unico. Questi Stati hanno una buona discrezionalità nell’applicare i regolamenti UE. Con Stati UE come il Lussemburgo, i Paesi Bassi o l’Irlanda fuori gioco sarebbe possibile per gli Stati dell’EFTA/SEE rifiutare quella normativa e accaparrarsi il mercato, magari con qualche norma ad hoc.

La concorrenza sleale può, però, esistere

Esiste un caso in cui la concorrenza fiscale può essere sleale. È infatti possibile fare patti fiscali tra aziende e Stati. La ratio della norma è chiaro: Semplificare l’imposizione fiscale per aziende molto articolate e dove il calcolo effettivo sarebbe oneroso.

Tuttavia in certi casi gli accordi sono estremamente vantaggiosi per le aziende, arrivando ad aliquote molto più basse rispetto a quelle applicate di solito.

In tal caso la concorrenza è sleale soprattutto verso i propri cittadini: Immaginate di pagare un’imposta aziendale del 15% ma sapere che Google paga il 3%.

L’aliquota minima europea, comunque, non è la soluzione a tale problema dato che limita principalmente le imprese oneste e non queste situazioni borderline.

Sistemi sanitari a confronto: Bismarck vs Beveridge

Il sistema Bismarck ed il sistema Beveridge sono sistemi sanitari che garantiscono a tutti l’accesso alla sanità e sono i due principali sistemi sanitari d’Europa.

Il primo venne creato, come dice il nome, durante il governo di Bismarck e prevede delle assicurazioni sociali obbligatorie. Lo Stato ha un ruolo di controllo della concorrenza, nella legiferazione in materia e nel sussidiare il sistema, solitamente per i meno abbienti o le persone con condizioni preesistenti. E, di solito, le assicurazioni sono delle mutue no profit.

Questo modello è basato praticamente tutto sulla competizione: Tra pubblico e privato, tra assicurazioni e assicurazioni, tra medici e medici, tra cliniche e cliniche. Il sistema Bismarck è stato coniugato in più modi: In questo articolo trovate una spiegazione del sistema adoperato in Germania, che non solo prevede una competizione tra assicurazioni in generale ma anche tra assicurazioni “di Stato”, mutualistiche e pagate in base al reddito, e private, che coprono di più ma si pagano in base al proprio stato di salute e sono dunque accessibili solo a chi ha un determinato livello di reddito.

Un modello derivato da Bismarck spesso citato come esempio di eccellenza è il modello israeliano, descritto qui, inoltre è ritenuto molto interessante, specie per la rapidità con il quale si è sviluppato dopo la fine del comunismo, il modello ceco, descritto qui. Comunque, ogni Stato che usa un sistema Bismarck ha delle proprie peculiarità che lo caratterizzano e che possono portare vantaggi o svantaggi. Sarebbe impossibile trattare estensivamente ogni variante, quindi in questo articolo mi ispirerò al modello Bismarck in generale e non ad una particolare implementazione nazionale.

Il secondo nacque invece ad opera di William Beveridge, economista social-keynesiano, che nel 1942 pubblicò un rapporto che fu, a furor di popolo, la base del futuro stato sociale inglese.

In questo sistema, che tutti ben conosciamo, la gran parte del settore sanitario è portata avanti dallo Stato o da un ente pubblico: molti medici sono dipendenti pubblici, chi ha bisogno di una visita deve iscriversi in una lista e, quando ci sarà un medico disponibile, potrà farla.

Chiaramente non esiste un modello giusto, né esistono solo sistemi Beveridge puri contro Bismarck puri, tant’è che tra i dieci sistemi sanitari migliori d’Europa si contano sia Bismarck sia Beveridge in quantità simili.

Si può dire che, in uno Stato normale e serio, avere un sistema Bismarck o un Beveridge è una scelta più politica che sanitaria.

Per quale motivo è, a mio parere, preferibile un sistema ispirato a quello Bismarck rispetto a uno puramente statale?

Responsabilità

Nessuno verrebbe lasciato a morire per strada in un Paese occidentale, è chiaro. Però trasformare la sanità da un deus ex machina ad un qualcosa che esiste, si paga e dove esiste una certa libertà di scelta rende l’individuo più partecipe nelle scelte relative alla propria vita e meno succube di un sistema che, più che sanitario, sembra burocratico.

Premiare i comportamenti salubri

Mi capita spesso di leggere di proposte di tagliare i contributi del Servizio Sanitario a chi assume comportamenti autodistruttivi, definizione che varia molto da persona a persona e che spazia dal “chi si fa di cocaina mentre partecipa ad un baccanale senza preservativo” a “chi mangia al fast food”: un sistema Bismarck può risolvere la questione senza lasciare nessuno con spese mediche insostenibili.

Infatti un’assicurazione può avere un prezzo iniziale alto ma che si riduce per chi mantiene comportamenti sani. Soprattutto, l’assicurazione ha un beneficio nel far restare sane le persone, quindi potrebbe offrire attività sane a prezzi convenzionati.

Scegliete di mandare vostro figlio alla scuola bilingue? Ciò può ridurre l’evenienza di malattie neurodegenerative, quindi l’assicurazione potrebbe contribuire ai costi. Andate al lavoro coi mezzi camminando invece che in auto? L’assicurazione ha convenienza a ridurvi la tariffa o a pagare una parte di abbonamento.

Volete mangiare sano e fare esercizio? Potrebbe esserci un menù convenzionato in alcuni ristoranti o una palestra convenzionata dove restare in forma a prezzo ridotto.

L’assicurazione ha più beneficio a mantenervi sani rispetto ad una sanità completamente statale per una semplice ragione: i soldi. Se vi ammalate costate all’assicurazione, mentre in una sanità statale si guarda solo al bilancio corrente, che tanto è tutto nel calderone statale.

Ovviamente nulla vieta di tassare un po’ alcuni beni particolarmente dannosi, come tabacco, alcol o droghe, per finanziare il supporto statale al sistema sanitario e fare ricadere i costi sugli assuntori e non su tutti gli utilizzatori.

Concorrenza

In Italia quando si parla di concorrenza in sanità molti danno di matto. Non a caso una delle ragioni spesso citate contro l’autonomia regionale è che “creerebbe una sanità di serie A e di serie B”. Come se non fosse mai esistita la differenza sanitaria tra Regioni o tra ospedali della stessa città.

La concorrenza in sanità, se regolamentata, è potenzialmente vantaggiosa. Non si può, solitamente, avere una concorrenza totale per il semplice fatto che il fallimento di un’assicurazione può essere un problema grave per i suoi assicurati, come accadde nei primi anni nella Cechia democratica post-comunismo.

Pensate ad una cosa assurda: In Italia abbiamo la ricetta elettronica e il fascicolo elettronico: in sostanza se hai lo SPID accedi un po’ a tutti i tuoi documenti sanitari.

Ma la ricetta te la devi stampare. Perché? Perché in farmacia devono attaccarci le fustelle. Sarà sicuramente un sistema che ha ridotto le truffe ai danni del SSN ma non ha creato utilità al cittadino: anzi, può creargli un disservizio.

In Israele, dove le mutue devono competere per i clienti, la ricetta elettronica è veramente tale e non devi stampare alcun promemoria. Un’assicurazione sanitaria che impone tale procedura senza un significativo altro incentivo perderebbe clienti. Qui non potete andare dalla Regione e dire “non ho voglia di stamparmi le ricette, cambio operatore”.

Concorrenza nel campo sanitario vuol dire, in sostanza, lasciare più libertà all’individuo nello scegliere come essere seguito a seconda delle proprie esigenze.

Progresso (e sempre concorrenza)

Non parliamo ovviamente di progresso scientifico ma nelle tecnologie per rapportarsi col paziente. In Italia, da anni, usiamo essenzialmente lo stesso modello: Medico di Medicina Generale (ex medico di base, termine forse più noto ma formalmente scorretto) e in caso Medico Specialista, per emergenze non gravi e non previste Guardia Medica.

Ci sono ovviamente eccezioni: Il sistema sanitario dell’Emilia-Romagna sta lavorando molto sulle cosiddette “Case della Salute”, ossia dei luoghi dove sono presenti più medici, alcuni specialisti, pediatri e operatori sociali, la Lombardia, invece, punta ad un sistema diverso per i malati cronici, dove per le visite legate alla malattia cronica c’è un “gestore”, che può essere un medico, una struttura pubblica o una privata, che si occupa di assistere e guidare il paziente negli esami e nelle cure.

In altri paesi bismarckiani invece è diffuso il modello dell’ambulatorio di fiducia: Non si ha il proprio medico, bensì un ambulatorio dove si può andare per visite e consulti. E questi ambulatori solitamente non hanno solo medici generali ma anche alcuni specialisti, il che permette di effettuare alcuni approfondimenti nell’immediato, e anche la possibilità di fare immediatamente alcuni esami, solitamente esami del sangue o radiografici.

Se avete un animale domestico probabilmente siete abituati: Andate dal veterinario perché ha la zampina dolorante, gli fa la radiografia per vedere se è rotta, scopre che è solo distorta e gli mette una fasciatura. Ecco, in un sistema Bismarck funziona così, solo che invece di pagare voi paga la vostra assicurazione.

Potremmo anche parlare di come alcune assicurazioni israeliane trattano i malati cronici: Con la telemedicina, riducendo dunque il numero di visite inutili e permettendo di controllare l’assunzione dei farmaci.

Ancora, non c’è un sistema migliore. Ma con l’attuale sistema non potete scegliere: Un burocrate sceglie al posto vostro. Se vivete a Caorso e preferite il sistema lombardo dovete cambiare casa, in un sistema Bismarck se la vostra assicurazione non vi soddisfa potete cambiarla.

Lombardia: Un esempio da cui partire?

La sanità lombarda è ritenuta una delle eccellenze italiane, assieme alla sanità emiliano-romagnola. Solo che, a differenza di quest’ultima, non prova a svantaggiare il privato ma a collaborarci. I risultati si vedono: I lombardi possono andare a fare visite con il SSR presso strutture private quasi senza accorgersene e, spesso, fare visite “private agevolate” che costano poco più del ticket ordinario con tempi decisamente minori.

Ironia della sorte, il pubblico qui tende a creare disparità, perché il lombardo disoccupato che ha l’esenzione per reddito – quindi pagherebbe zero – se vuole la visita agevolata deve pagare, putacaso, 45€, mentre il lombardo che ha i soldi paga 45€ invece di 35€. In sostanza la salute del disoccupato vale 45€ interi mentre quella del lombardo che lavora vale solo 10€. Per la cronaca, esisterebbe una scappatoia, se non vi trovano l’esame entro 60 giorni.

Pensiamo se la Lombardia decidesse, improvvisamente, di bismarckizzare una parte dei propri servizi sanitari. La Regione, in competizione con i privati, continuerebbe a gestire ospedali e cliniche, ma rinuncerebbe ad esempio al monopolio della medicina generale.

I medici generali diventerebbero dei liberi professionisti – liberi dunque di associarsi tra di loro e di convenzionarsi con delle assicurazioni, che li pagherebbero le pazienti, oppure dipendenti del sistema assicurativo nel complesso, a seconda del modello scelto.

La Regione fornirebbe una parte di ciò che oggi spende in sanità – o meglio nella sanità che sarebbe bismarckizzata – direttamente ai cittadini, con un voucher per acquistare l’assicurazione. Nel mentre, possono scegliere opzioni ulteriori a pagamento (ad esempio assicurazioni di viaggio, no ticket, per sport pericolosi, per liberi professionisti in caso di malattia).

La Regione, dunque, gestirebbe i servizi d’emergenza come il pronto soccorso o la guardia medica (che potrebbe essere affiancata da un servizio di consulto digitale dell’assicurazione) mentre le assicurazioni gestirebbero la medicina generale. Ci sarebbe una competizione sana, invece, in altri settori quali le visite specialistiche, le degenze o gli interventi: Il pagamento sarebbe effettuato dalle assicurazioni (che sono comunque finanziate e garantite dal servizio pubblico) e, secondo la scelta del paziente, andrà verso una struttura pubblica, privata caritatevole o privata per profitto.

I tempi delle visite calerebbero: non ci sarebbe più una lista a cui iscriversi ma una moltitudine di medici, cliniche ed ambulatori che concorrono per avere i soldi della vostra visita: in sostanza la celerità del privato unita al pagamento nullo o ridotto del pubblico. Idem in campi come la fornitura di farmaci o gli interventi d’emergenza, che sarebbero cofinanziati dall’ente pubblico e dall’assicurazione dell’individuo.

Sarebbe, in sostanza, un Bismarck coperto dal pubblico, uno dei vari sistemi ibridi, dove l’assicurazione d’emergenza è pubblica mentre l’assicurazione generale è privata ma viene garantita nella forma base.

Il proibizionismo è criminale

Negli ultimi anni la cronaca nera italiana è stata più volte scossa da delitti legati al mondo della droga. L’ultimo, in ordine di tempo, è stato l’omicidio del carabiniere Mario Rega, ma potremmo anche parlare dei casi di Pamela e Desirée.

Ciò ha portato vari esponenti politici a concordare sull’esistenza di un’emergenza nazionale riguardante la droga, da combattere assolutamente: Qualche mese fa Matteo Salvini, che la paragonava alla a detta sua inesistente emergenza fascismo, qualche giorno fa Matteo Renzi, che ha parlato di questa emergenza e di come il già menzionato ministro dell’interno non voglia risolverla.

A mio parere la vera emergenza è che ci siano ancora politici che urlano alla guerra alla droga. Nessuno nega che vi sia stata un’emergenza droghe negli anni ’70 e ’80, quando periferie oggi rispettabili e vivibili di varie città italiane avevano alcune strade che al posto dell’asfalto avevano i drogati, ma se oggi sentiamo di crimini legati al mondo della droga la colpa è del proibizionismo. Brutto a dirsi ma lo Stato è complice morale di tanti delitti.

Se oggi sentiamo di crimini legati alla droga è in larga parte dovuto al fatto che il commercio di certe sostanze, invece di essere alla luce del sole, legale e regolamentato, è in mano alla criminalità. Se si parla tanto di un’ipotetica possibilità di passare dalle droghe leggere a quelle pesanti, il cosiddetto effetto gateway, come scusa per vietare anche la cannabis non si parla a sufficienza dell’ovvio effetto gateway della droga verso la criminalità, essendo l’unica che può soddisfare la domanda.

E di chi è la colpa? Dello Stato. Che, in un delirio d’onnipotenza, crede che sia sufficiente vietare un mercato per farlo scomparire. Ma così non è e, infatti, si va a favorire chi la legge non la rispetta: la criminalità. Danneggiando i consumatori, togliendo loro ogni garanzia su ciò che consumano e obbligandoli ad esporsi a situazioni pericolose e criminogene per procurarsi ciò che desiderano.

“Ben gli sta perché si drogano”? Beh, legittima opinione, ma spesso portata avanti, con netta incoerenza, da chi ha capitalizzato consenso sulla morte di Pamela Mastropietro o Desirée Mariottini.

Ebbene, se non mi espongo sul caso di Mario Rega, in fin dei conti sono indagini in corso e non ha senso parlare con dati parziali, mi permetto di dire che, molto probabilmente, i casi di Pamela e Desirée sarebbero potuti non essere così drammatici – drammatici in generale lo sono poiché un consumo così precoce di droghe unito a difficili situazioni familiari non è una bella cosa – se lo Stato non le avesse consegnate direttamente tra le braccia della criminalità. Non serve essere Milton Friedman per comprendere la differenza tra un negozio regolare, una farmacia e uno spacciatore parte di una gang.

Porre fine al proibizionismo non vuol dire porre fine ad ogni crimine legato alle droghe. In fin dei conti esistono anche crimini dovuti all’alcol: C’è chi ruba per comprare il vino, è abbastanza folle pensare che nessuno rubi per comperare la droga, ad esempio. Così come c’è chi potrebbe prostituirsi e finire male per ottenere i soldi necessari a comperare la droga.

Tuttavia, come hanno mostrato l‘esempio americano del proibizionismo sull’alcol e la depenalizzazione portoghese, la riduzione del danno dev’essere la via maestra, a beneficio dei consumatori e dei cittadini tutti.

Ma oggi lo Stato, che sono i politici che abbiamo votato noi, preferisce favorire la criminalità facendo pagare il prezzo a noi e, soprattutto, agli assuntori di sostanze, che invece dovrebbero essere aiutati, non messi in pericolo. Per questo dobbiamo dire no al proibizionismo, per non essere complici di questo schifo ed essere veramente dalla parte dei più deboli e vulnerabili.

Vivere il capitalismo oggi

Come si può descrivere il capitalismo? Il capitalismo potrebbe avere mille accezioni, positive o negative. Abbiamo però un dato importante a nostra disposizione. Se il comunismo non è mai stato in grado di evolversi, il capitalismo, nel corso dei secoli, ha dimostrato una straordinaria elasticità.

Il capitalismo di oggi non può essere quello del Novecento, non può essere quello dell’Ottocento e tantomeno quello del Settecento. Sergio Ricossa affermò che il capitalismo è stato protagonista di una “trasformazione rivoluzionaria”. Una trasformazione spontanea, inaspettata, inimmaginabile.

Come diceva lo stesso Sergio Ricossa.

“Ancora oggi non sa dove andrà (il capitalismo, aggiunta mia), perché inventa la sua strada ogni giorno”

Anche le stesse critiche di Marx possono tranquillamente essere considerate obsolete, poiché il capitalismo dell’Ottocento era un fenomeno estraneo alla società di quell’epoca. Ma oggi la situazione è differente.

L’Italia ha un’economia capitalista, seppur ostacolata dall’elevata presenza dello Stato. Pertanto il problema dell’Italia non è il capitalismo, ma gli ostacoli imposti dallo Stato.

Da evidenziare come il capitalismo sia in grado di compiere una rivoluzione politica, senza imporsi direttamente sul piano politico. Anche perché se dobbiamo considerare le forze politiche che hanno contraddistinto i governi della Repubblica italiana, con molta probabilità, oggi l’Italia sarebbe vicina al feudalesimo.

Se nell’epoca preborghese esistevano due tipi di ricchezza, quella fornita dalla natura e quella prodotta dall’uomo, quest’ultimo era indirettamente dipendente da ciò che forniva la natura, specie se pensiamo ai raccolti o all’estensione dei campi.

Poi, con il progresso tecnologico, il concetto di capitalismo si estese, come lo stesso concetto di accumulazione della ricchezza. L’accumulazione della ricchezza era, in prima istanza, da considerarsi una vera e propria esigenza pre-borghese, appartenente alla cultura militare dell’epoca medioevale. In Italia il concetto di accumulazione, specie in epoca signorile, era una questione militare e pubblica, funzionale a soddisfare esigenze di sicurezza.

Con il passare dei secoli e con l’avvento della rivoluzione industriale, la questione di accumulazione della ricchezza iniziò ad avere un’accezione differente. Superare la concezione militare, ma andare oltre. Non accumulare per difenderti, ma per investire, per fare “affari”. Attraverso la ricchezza produrre nuova ricchezza. La vera rivoluzione culturale avvenne in quanto il capitalismo non era un statico, ma dinamico.

Ma poi arrivò un certo personaggio, chiamato Karl Marx, il quale sosteneva che il capitalismo si autogenerasse attraverso il plusvalore. Il plusvalore è la differenza tra il capitale investito e il capitale ottenuto dall’investimento.

Ebbene, secondo Marx, questo plusvalore era dovuto allo sfruttamento dell’uomo a opera dell’uomo, del proletario a opera del capitalista. L’uomo capitalista creava plusvalore sottraendolo il valore prodotto dal lavoratore.

Marx (come poi Keynes) sosteneva che il capitalismo sarebbe arrivato ad un punto di non-ritorno. Nonostante il capitalismo avesse avuto un ruolo fondamentale per il progresso, sarebbe stato presto sostituito da un sistema più equo.

Peccato però che il capitalismo è capace di adattarsi alla società in modo impeccabile. Questo perché il capitalismo è fondato sì sul capitale, ma anche sull’innovazione. Il capitalismo innova la società tanto quanto sè stesso. L’economia capitalista non si basa solo sulla quantità, ma sulla qualità. Una qualità in grado di rompere le tradizioni, gli schemi mentali prestabili, le precedenti abitudini.

Basti pensare alla rivoluzione Apple dello smartphone. Il primo iPhone, per quanto ancora rudimentale, fu un prodotto indiscutibilmente rivoluzionario. Un prodotto che inaugurò una nuova categoria di mercato, un prodotto che riuscì a rivoluzionare la vita delle persone.

Un prodotto che rivoluzionò anche la concorrenza, se consideriamo che Samsung, prima dell’avvento dell’Iphone, prima di rispondere al nuovo e rivoluzionario prodotto sul mercato, dovette attendere tre anni.

Questa vicenda Apple-Samsung, ci permette di aggiungere un terzo pilastro per descrivere il capitalismo, dopo l’accumulazione della ricchezza e l’innovazione. Parliamo della concorrenza.

Questi tre pilastri sono fondamentali per un sano capitalismo. Se manca uno, gli altri due sono più vulnerabili. Basti pensare che concorrenza e innovazione vanno spesso di pari passo, se consideriamo che l’innovazione è l’arma vincente per attaccare e vincere nel mercato di concorrenza. Anche l’innovazione va di pari passo con l’accumulazione della ricchezza. Non è precario solo il posto di lavoro, ma anche la ricchezza può essere precaria, se manca la volontà nell’investire o nell’innovare.

Il capitalismo è riuscito a rialzarsi sempre, nonostante gli attacchi di socialisti, comunisti e fascisti o statalisti vari. Il capitalismo in Italia è già in fase di transizione. Si tratta di una nuova sfida che coinvolge tutti, lavoratori e capitalisti. Dopo la seconda guerra mondiale, l’Italia era come la Cina di oggi. Produrre nel nostro Paese era semplice e poco costoso. Ma ci sono due fattori che hanno contribuito a porre fine a questo paradiso industriale: lo Stato e la concorrenza fra nazioni.

Lo Stato ha numerose colpe. La prima colpa è sicuramente quella di aver ampliato, nel corso dei decenni, la sua struttura composta da burocrazia, tasse e ostacoli vari. Basti pensare che il datore di lavoro, quando si ritrova a pagare uno stipendio, è costretto a pagare una marea di tasse. La seconda colpa è stata quella di abituare le aziende alla svalutazione della moneta.

Infatti, alla prima crisi di produzione, il governo di turno distruggeva il valore della Lira, per rendere appetibile l’Italia nel mondo. La terza colpa è stata quella di aver “ucciso” lo stimolo all’innovazione, sia verso il datore di lavoro e sia verso il lavoratore. Infatti, non si investiva per nulla sulla formazione del lavoratore, rendendolo con il tempo obsoleto rispetto ai nuovi tempi che arrivavano.

Se prima esisteva una sola categoria di lavoratori, ossia quella che deve limitarsi a fare e magari a farlo con continuità, con il processo di alfabetizzazione e di scolarità, la nuova economia capitalista impone due categorie di lavoratori: lavoratori specializzati e lavoratori non-specializzati.

La vera differenza tra le due categorie consiste nel fatto che se per fare un lavoro specializzato occorrono alcune persone (scarsità), per fare un lavoro non-specializzato si possono coinvolgere (quasi) tutti. Pertanto, se per un posto di lavoro specializzato esiste una concorrenza al rialzo, per un posto di lavoro non specializzato esiste una concorrenza al ribasso.

Fateci caso, le categorie di lavoratori manifatturieri non specializzati sono state quasi tutte dislocate all’estero. Il dubbio è che se un lavoro può farlo chiunque perché rimanere in una nazione dove la manodopera costa 100 volte tanto? Rimangono i call center.
Invece, il lavoro specializzato non solo non è mai stato in crisi in Italia, ma sta crescendo gradualmente.

Ed ecco qual è la vera sfida del capitalismo italiano. Diventare un paese specializzato nel mondo del lavoro. Investire di più sui lavori che contano e sulla continua formazione. Il vero ostacolo rimane lo Stato che, finché sarà circondato da una certa cultura socialista e statalista, continuerà ad essere un freno per il Paese.

La democrazia è un sistema superato?

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La recente intervista di Putin al Financial Times[1] ha rilanciato un tema parecchio dibattuto negli ultimi anni: il liberalismo è destinato a essere ancora il modello politico di riferimento nell’epoca a venire? O, per dirla con le parole del presidente russo, “il liberalismo è diventato obsoleto”?

L’analisi di Putin, condivisa da diversi altri leader politici e intellettuali (Viktor Orban e Steve Bannon, ad esempio), si basa sull’idea che il liberalismo sia fallito politicamente per colpa del multiculturalismo e della globalizzazione e che l’unica via percorribile sia il ritorno a identità nazionali/culturali/religiose forti.

Il principio stesso della democrazia liberale (e rappresentativa) è messo in dubbio, perché i tempi di crisi richiederebbero leader determinati e con ampi poteri[2]; leader che non possono essere vincolati al rispetto dei diritti delle minoranze o al principio della separazione dei poteri.

Curiosamente, il presidente russo, e molti dei suoi epigoni[3], non si oppongono però alla globalizzazione come fenomeno economico, riconoscendone invece i vantaggi per il proprio Paese.

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Per rispondere a queste tesi bisogna per prima cosa fare chiarezza. È davvero così in crisi il liberalismo? La risposta è: dipende.

Certo, in alcuni Paesi recenti avvenimenti sembrano confermare la tesi putiniana: negli Stati Uniti, in Italia, nel Regno Unito i movimenti populisti hanno ottenuto successi straordinari, mettendo in difficoltà i partiti tradizionali.

Ma in molti altri (Australia, Canada, ma anche i Paesi del Nord Europa, o la Spagna) il modello della democrazia liberale continua a funzionare più che bene, pur con i normali problemi politici che ogni Stato può avere.

Ed infine, nei Paesi dell’ex-blocco sovietico il miglioramento dei diritti civili negli ultimi 30 anni è stato sostanziale; e a parte l’Ungheria, in nessuno di questi Paesi è davvero in crisi il modello democratico. Il quadro che emerge, insomma, è parecchio più sfumato di quanto il presidente russo vorrebbe farci credere. Ma non è questo il punto più importante.

Il vero punto è: qual è il modello alternativo? Prima di dare per morto e superato il liberalismo, ricordiamoci cosa ha portato all’umanità l’adesione a politiche democratiche: negli ultimi 2 secoli e mezzo, la popolazione umana è aumentata di quasi 10 volte, il reddito medio pro capite è più che decuplicato, la mortalità infantile è scesa dal 40% circa a meno del 3%, l’aspettativa di vita media è passata da 30-35 anni circa a oltre 70[4]… e la lista potrebbe continuare a lungo. Non c’è nulla di paragonabile a un miglioramento così generalizzato e radicale nella storia dell’umanità – forse solo la scoperta del fuoco può aver avuto un impatto simile per la nostra specie.

Come si può buttare a mare un sistema politico ed economico capace di ciò? Perché, siamo chiari: il capitalismo e il metodo scientifico moderni sono stati resi possibili dall’emergere di un sistema politico incentrato sulla libertà.

La libertà è l’ingrediente fondamentale per una civiltà capace di crescere e di raggiungere e mantenere alti livelli di benessere diffuso. E la libertà, contrariamente a quanto pensano Putin, Orban o Xi Jinping, non può essere solo economica.

Per citare Milton Friedman, “Historical evidence speaks with a single voice on the relation between political freedom and a free market” (“La storia è concorde nell’illustrare la relazione diretta tra libertà politica e libero mercato”)[5].

Le ragioni sono molteplici e qui mi limiterò ad accennarle: un sistema economico libero presuppone leggi chiare e certe, applicate a tutti indiscriminatamente; forti interessi economici contrapposti possono essere riconciliati più facilmente in un sistema dove tutti possono esprimere le proprie opinioni; e l’abitudine allo scambio alla pari nel mercato mal si concilia con una relazione rigidamente gerarchica nell’ambito politico.

 

Il sistema politico ed economico liberale ha condotto
l’umanità a livelli di progresso e benessere mai neanche lontanamente
avvicinati nella storia della nostra specie. Non sarà un piccolo gruppo di
autocrati e loro ammiratori a porvi fine.

 


[1] https://www.ft.com/content/670039ec-98f3-11e9-9573-ee5cbb98ed36

[2] Da cui
il concetto di democrazia illiberale esposto da Orban: https://budapestbeacon.com/full-text-of-viktor-orbans-speech-at-baile-tusnad-tusnadfurdo-of-26-july-2014/
(qui un’analisi in italiano https://www.internazionale.it/opinione/gwynne-dyer/2015/02/24/la-democrazia-illiberale-di-viktor-orban)

[3] Si
vedano ad esempio le posizioni della Polonia sull’apertura della UE ai trattati
di libero mercato con altri Paesi, https://polandin.com/41508617/poland-heads-promarket-coalition-in-eu

[4] I dati sono tratti da Our
World in Data, World Bank, Groningen Growth and Development Centre

[5] Milton Friedman, Capitalism and Freedom, chap. 1 “The
Relation Between Economic Freedom and Political Freedom”, 1962

 

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Liberalismo e leva obbligatoria

È ultimamente tornata in auge nel dibattito politico europeo la questione della coscrizione dei giovani, ed è una proposta che tocca tutto lo spettro politico: cavallo di battaglia della Lega e di AfD, implementata da Macron e proposta, seppur nella forma soft del servizio civile, dal PD italiano.

Negli ultimi decenni grandi pensatori liberali si sono opposti, spesso con successo, alla naja: Nota la campagna contro la coscrizione di Milton Friedman negli Stati Uniti, meno nota la legge Martino, firmata da un liberale di ferro, che sospese la leva obbligatoria in Italia.

Tuttavia basta guardare vicino all’Italia per notare come due degli Stati più liberali che confinano con l’Italia, Svizzera e Austria, hanno la leva obbligatoria.

Come mai?

Bisogna considerare che il liberalismo difende la libertà individuale ed economica ma riconosce l’esistenza dello Stato con limitate funzioni da implementare con una moderata tassazione, il meno coercitivamente possibile.

In un certo senso, nel momento in cui lavoriamo per pagare le tasse, stiamo di fatto lavorando non per noi ma per lo Stato, esattamente come nel caso della leva.

Chiaramente c’è la differenza che nel caso delle tasse stiamo scegliendo noi come lavorare per pagarle, mentre nel caso della leva il lavoro da fare viene imposto dallo Stato, ma il principio coercitivo alla base resta.

Quindi, in linea di massima, uno Stato liberale può avere la leva obbligatoria, se è l’unica alternativa possibile per formare le Forze Armate.

Non a caso la Svizzera e l’Austria sono Stati di piccole dimensioni neutrali, quindi non possono contare su alleati internazionali ma solo sulle proprie forze. L’esercito di milizia, in tal caso, è una scelta quasi naturale.

Ma se esiste un’alternativa lo Stato dovrebbe seguirla, com’è stato fatto oggi nella gran parte degli Stati europei.

Argomenti pro leva

Ma i sostenitori della leva portano argomenti legati alla sicurezza nazionale?

Purtroppo, no. In tal caso sarebbe semplice analizzare questi argomenti e dare una risposta secondo le idee liberali.

I sostenitori di questa misura portano solo argomenti tratti dal peggiore paternalismo di Stato:

Ci vuole la leva per educare i nostri ragazzi, ci vuole la leva per insegnare ai nostri ragazzi la generosità e il sacro amor di Patria.

Un palese tentativo, per dirla alla Thatcher, di “assegnare i propri problemi alla società”. Ma, per continuare la provocazione tory, questa società non esiste: chi parla di educare i ragazzi tramite la leva, oltre a non aver mai aperto un libro di storia, sta ammettendo il proprio fallimento come educatore e tenta di scaricare i suoi fallimenti sulla società.

La milizia di popolo, però, sarebbe un bene

Per uno Stato moderno che voglia contare a livello internazionale è necessario avere un esercito professionale e permanente. Non sarebbe sbagliato, però, aprire la possibilità di armarsi in modo organizzato e controllato ai comuni cittadini, magari in collaborazione con gli enti locali, per poter veramente permettere a chiunque di difendere la Patria, anche senza entrare nell’esercito, e al contempo migliorando le possibilità per l’Italia di resistere ad un eventuale governo dittatoriale, non a caso una delle poche ragioni sensate pro-leva che ho letto è stata che un esercito democratico ha una minore tendenza a partecipare a colpi di Stato.

Avere cittadini addestrati all’uso delle armi vuol dire ricordarsi da dove nasce l’attuale Italia, ossia dall’uso delle armi per liberarci dal nazifascismo. Non possiamo sapere cosa ci riserverà il futuro, speriamo tutti una florida democrazia liberale, ma se così non fosse dev’essere dovere dello Stato dare ai propri cittadini la possibilità di resistere ad un governo tirannico o ad un’invasione straniera.

Liechtenstein, uno Stato liberale retto da un monarca miniarchico

Lassù, sul giovane Reno, sporge dalle alture alpine il Liechtenstein. Queste sono le prime parole dell’inno di uno dei Paesi più particolari del mondo, il Liechtenstein.

Frutto della necessità della famiglia austriaca Von Liechtenstein di avere un territorio sotto il governo diretto dell’Imperatore per partecipare alla Dieta, solo nel 1938, dopo più di 200 anni, i principi del Liechtenstein vanno a viverci.

Da una prima occhiata, pare uno Stato poco interessante per un progetto liberale: monarchia costituzionale con un forte potere del Principe regnante che può nominare giudici, sciogliere il governo e porre veto su ogni legge. Inoltre è uno Stato fortemente cattolico: la fede cattolica è ufficiale e, ad esempio, l’aborto è vietato quasi in ogni caso.

Basta tuttavia un’analisi più approfondita per convincersi dell’utilità di analizzare il caso del Principato del Liechtenstein: è uno dei Paesi con il PIL pro capite più alto al mondo; la pressione fiscale è di poco superiore al 15% e c’è un forte uso della democrazia diretta. Ma, soprattutto, c’è uno Stato leggero che lascia ai propri cittadini un’enorme libertà di scelta. Libertà solo nella propria scelta economica ma anche su questioni che in Italia sarebbero impensabili, come rovesciare la monarchia, cambiare regnante o secedere.

Abituati culturalmente a considerare la monarchia come un retaggio del passato che vuole conservare l’antichità, potremmo immaginare che il popolo del Liechtenstein abbia conquistato queste libertà in una costante lotta contro un tradizionalismo monarchico.

Ma il vero catalizzatore di queste riforme, alle volte così estreme da venir rigettate dal popolo, è stato il Principe del Liechtenstein Giovanni Adamo II. Questo, incaricato dal padre negli anni ’70 di riordinare il patrimonio di famiglia, si convinse di come per uno Stato fosse necessaria un’ampia decentralizzazione, la possibilità di cambiare Stato o di fondarne uno nuovo per le comunità locali. Ciò visto anche come incentivo allo Stato a rimanere concorrenziale e utile e, in generale, invertendo il paradigma che quindi vede lo Stato al servizio del cittadino.

Il Principe si dimostra essere fermamente contrario al protezionismo, che considera come una misura che rallenta il progresso e favorisce la povertà, ed anche al proibizionismo sulle droghe, a supporto della lotta alla malavita. Ha sottolineato come l’inventore della guerra alla droga sarebbe un buon candidato ad un ipotetico premio Nobel per la stupidità. In questo, comunque, il popolo non l’ha seguito e le droghe sono tuttora illegali nel Principato.

Pur avendo ampi poteri, non ne ha mai abusato e non ha mai usato il suo diritto di veto. Il padre lo usò solo una volta, per porre veto su una legge sulle riserve di caccia; il figlio, reggente, l’ha minacciato due volte: sull’aborto e sul potere di veto stesso.

Nel 2003, Giovanni Adamo vince un referendum che permette alla Costituzione da lui emendata di entrare in vigore e inserire questi principi nel suo Stato. Ma già da prima si impegnò per essi: nel 1993, poco dopo l’ingresso del Liechtenstein nelle Nazioni Unite, fece all’Assemblea Generale un discorso difendendo il diritto di autodeterminazione e chiedendone una reale applicazione e garanzia a livello internazionale. Gli Stati nazionali, ovviamente, hanno rigettato la proposta.

Ma l’obiettivo del principe era ben più libertario: avrebbe voluto stabilire persino il diritto di secedere dallo Stato per il singolo individuo. A impedirlo è stata semplicemente l’impossibilità di coniugare tale norma con il diritto internazionale, che difficilmente prevede la fattispecie di Stati-individuo.

Nel 2009 viene pubblicato il suo volume “Lo Stato nel Terzo Millennio” in cui, dopo un’attenta analisi storica, ipotizza un nuovo modello di Stato applicabile sia a grandi Stati come l’Italia sia agli Stati piccoli come il Principato. Un modello basato sullo Stato come impresa pacifica al servizio dell’umanità e dei propri cittadini, che decentri fortemente spese e amministrazioni e garantendo i diritti fondamentali delegando le infrastrutture alle autonomie ed ai comuni.

È chiaro come il successo del Liechtenstein sia dovuto anche al non aver dovuto affrontare spese militari e diplomatiche, essendo il tutto demandato alla vicina Confederazione Svizzera. Ma se gli Stati europei agissero in tal modo, riducendo il peso dello Stato nella vita dei cittadini, riconoscendo il loro diritto di scegliere nel libero mercato e riconoscendo decentramento e autodeterminazione delegando la difesa ad un’entità unica (magari lasciando il diritto di essere armati ai cittadini) non sarebbe già un inizio?

La solidarietà continua ad impoverire il terzo mondo

Durante la sua visita ufficiale in Tunisia lo scorso Ottobre, il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani ha proposto di attivare un “piano Marshall” per l’Africa. Rievocando il piano di sussidi che gli Stati Uniti concessero ai Paesi dell’Europa occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale, Tajani ha stimato il costo di un analogo piano per l’Africa a 40 miliardi di €.

L’obiettivo di questi investimenti sarà la costruzione di nuove infrastrutture, il supporto alle piccole e medie imprese (SME in inglese), l’incoraggiamento all’imprenditoria giovanile e all’occupazione, nelle nazioni del continente africano.

Inoltre, Tajani ha sottolineato come senza una soluzione a questi problemi “migliaia, e in futuro saranno milioni, di persone potrebbero lasciare il proprio Paese.”

Nondimeno, il fine del libero mercato non giustifica i mezzi del trasferimento di risorse da parte del governo. La mia natia Spagna, che ha il secondo tasso di disoccupazione più alto fra i 28 Paesi della UE, lo prova.

Fra le regioni europee con maggior disoccupazione e minor PIL, ce ne sono due spagnole: Estremadura e Andalusia. Ma nonostante i sussidi del governo nazionale e regionale per “promuovere la creazione di nuove imprese”, la Spagna pone più ostacoli a fare impresa di tutti gli altri Paesi OCSE, secondo il Fondo Monetario Internazionale.

L’Africa è ancora il continente più povero al mondo. Il suo PIL pro capite è di quasi 8.500 $ inferiore alla media mondiale. Ma ci sono segnali di speranza: le carestie sono quasi scomparse al di fuori delle zone di guerra; l’aspettativa di vita è cresciuta dai 50,3 anni del 2000 ai 50,9 del 2015. Tutto questo progresso si è verificato grazie a riforme economiche pro-mercato.

Secondo la Heritage Foundation, lo score complessivo in libertà economica dell’Africa sub-Sahariana è pari al 55%, quasi 3 punti più alto che al principio del secolo. La libertà di commercio, in particolare, è cresciuta di 18 punti; il carico fiscale sembra essere in diminuzione.

Eppure, nessun Paese africano si posiziona fra le 20 economie più libere al mondo. Lo Stato di diritto latita e la repressione del dissenso prevale troppo spesso.

Nel lungo periodo, riforme economiche in direzione laissez-faire sono l’unica strada per la prosperità. Allo stesso tempo, la corruzione deve essere combattuta efficientemente. Il Botswana è un modello, in questo senso: è uno dei Paesi più ricchi in Africa, il meno corrotto, e fra le 34 economie più libere del pianeta (nonché la seconda più libera nel continente).

Non esistono, invece, casi di Paesi usciti dalla miseria grazie ad aiuti umanitari e sussidi allo sviluppo. I fondi di questo tipo sono solo trasferimenti da un apparato di governo ad un altro.

La Singapore post-coloniale era ben lungi dall’essere un Paese ricco pochi decenni fa, ma è oggi un caso di studio per i sostenitori di economie aperte. Politiche orientate verso il libero mercato e l’attrazione di investimenti esteri l’hanno aiutata a crescere e prosperare.

Il Parlamento Europeo non ha alcuna competenza, né responsabilità, al di fuori della propria giurisdizione. Ma questo non significa che non possa fare nulla per migliorare la condizione economica dell’Africa.

Più nello specifico, vi sono alcune politiche Europee che stanno ponendo ostacoli allo sviluppo degli imprenditori e commercianti del Terzo Mondo. La famosa Politica Agricola Comune (PAC) rende più complicato per i Paesi in via di sviluppo esportare i propri prodotti verso la UE, perché applica una discriminazione economica particolarmente rilevante verso gli agricoltori non Europei.

Queste politiche protezioniste non hanno portato l’agricoltura a diventare una forza economica trainante per la UE. Nonostante un budget annuale di 59 miliardi di euro (utilizzato per supportare il reddito dei contadini e finanziare programmi di sviluppo rurale, che Paesi meno sviluppati non possono permettersi), l’agricoltura contribuisce a meno del 2% del PIL della UE.

Esiste un modello per il tipo di transizione che la UE dovrebbe avviare, per concedere un accesso più libero ai mercati europei da parte dell’Africa: La Nuova Zelanda, il cui settore rurale era simile a quello Europeo 3 decenni fa, ha condotto un processo di liberalizzazione economica.

C’erano diffusi timori sul rischio di vedere molte aziende agricole fallire, ma alla fine solo circa 800 dovettero chiudere. Gli agricoltori che speravano di competere cominciarono a cooperare in maniera più efficiente e innovativa sulla base di condizioni di mercato. Ad oggi, l’agricoltura contribuisce ancora per il circa 7-10% al PIL della Nuova Zelanda.

Indubbiamente, la soppressione delle misure agricole protezioniste condurrebbe a feroci proteste a Bruxelles e nelle altre capitali: gli Europei sono abituati all’interventismo statale.

Perfino gli Euroscettici mostrerebbero la propria indignazione. Nonostante tale rischio, però, i politici dovrebbero cercare di spiegare questi cambiamenti di policy in una maniera più precisa, tale che sia più efficace, tanto da far presa da un punto di vista sia morale che logico.

In una ipotetica campagna per la liberalizzazione del mercato agricolo, i politici e i sostenitori della libertà non dovrebbero focalizzarsi solo su statistiche del PIL e altri dati macroeconomici.

Dovrebbero invece sottolineare che i cittadini europei potranno comprare prodotti più economici, dato che al momento pagano i costi dei sussidi e delle regolamentazioni, e che potranno effettuare scambi commerciali con un numero più ampio di Paesi non Europei.

Ancora più importante, da un punto di vista etico così come nella vita reale, è facile comprendere come il commercio sia un modo per beneficiare sé stessi e i propri vicini: prezzi più bassi lasciano alle famiglie più risorse a disposizione per le loro altre priorità.

Allo stesso tempo, gli Africani possono cominciare a espandere i loro mercati di esportazione e avere più denaro per le loro necessità di base. Ognuno ne trae beneficio: il commercio è un modo di donare vita ad altri. Dall’altra parte, i boicottaggi commerciali sono invece un modo per eliminare i punti di vista che non vogliamo riconoscere.

I miei compatrioti Europei devono giungere a vedere la liberalizzazione del commercio come un modo di esprimere solidarietà ai lavoratori del Terzo Mondo, di risollevare la parte di Africani in miseria e di ottenere benefici per se stessi grazie a prezzi più convenienti e mercati più ampi.

Devono vedere questa decisione come giusta e morale perché “Quando l’etica è messa in primo piano, l’umanità fiorisce”. [1]

[1] Traduzione dall’inglese dell’articolo apparso di recente su Acton.org, a firma di Ángel Manuel García Carmona, cfr.: https://acton.org/publications/transatlantic/2017/11/20/marshall-plan-africa-wont-help-africans-free-trade-will

I finanziatori di Hitler: una storia di “crony capitalism”

Molto è stato detto ed è stato scritto sui rapporti fra le alte gerarchie del Partito Nazista ed i grandi industriali tedeschi. Che tali legami siano effettivamente esistiti, e che siano stati essenziali per l’ascesa di Hitler, è un fatto storico innegabile.

I seguaci dell’ideologia marxista, quindi, sono soliti considerare questa verità storica come la prova schiacciante della compatibilità del capitalismo con il fascismo, o perfino dell’inevitabile tendenza di una società capitalista a degenerare nel fascismo.

In realtà, la collaborazione fra nazisti ed industriali non fu altro che un ennesimo esempio di quello stretto rapporto fra potere politico e potere economico che oggi viene definito come “crony capitalism”, o capitalismo clientelare.

Il “crony capitalism” è un sistema che in apparenza si basa sul libero mercato, ma che in realtà è dominato dalle leggi e dalle regolamentazioni statali, che vengono usate per promuovere gli interessi di un piccolo gruppo di magnati industriali e politici compiacenti.

Un sistema simile, in teoria capitalista, in pratica corporativista e statalista, era quello esistente in Germania durante il regime nazista. Grandi nomi dell’industria tedesca, come Gustav Krupp e Fritz Thyssen, finanziarono generosamente la causa di Hitler.

In cambio, una volta conquistato il potere assoluto, i nazisti non persero tempo per ripagare i favori dei grandi industriali. Le industrie Krupp, per esempio, specializzate nella produzione di acciaio, beneficiarono delle enormi commesse statali di armi e munizioni, facenti parte del programma di riarmo tedesco.

Ad ottenere ricchezza e successo, quindi, erano solo gli imprenditori con le dovute conoscenze nelle alte sfere del Partito. I piccoli e medi imprenditori, privi di legami privilegiati con il potere politico, non traevano vantaggi significativi dal sistema, spesso anzi il contrario.

Per esempio, nel 1933, venne creata la “Adolf Hitler Spende der deutschen Industrie”, una cassa intitolata ad Adolf Hitler alla quale gli imprenditori vennero obbligati a versare elargizioni “in segno di riconoscenza per il boom economico reso possibile dal Fuhrer”[1].

Gli ingenti fondi della Adolf Hitler Spende erano gestiti da Martin Bormann, segretario del Fuhrer, il quale poteva disporne a piacimento, per ricompensare i funzionari del Partito più servili e fanatici.

Quindi gli imprenditori tedeschi, per un boom economico fittizio, limitato a pochi grandi gruppi industriali, furono costretti ad autotassarsi per mantenere nel lusso Hitler e gli alti gerarchi dell’NSDAP.

A lungo termine, tuttavia, anche i magnati dell’industria, che avevano scelto di voltare le spalle al libero mercato per fare soldi facili con la protezione e la complicità delle autorità statali, arrivarono a pentirsi della loro scelta.

Dopo il 1942, con la situazione bellica che diventava sempre più critica, lo Stato (e quindi il Partito) iniziò ad esercitare un controllo più diretto sull’apparato produttivo tedesco. Aziende ed industrie private, progressivamente, passarono dalle mani dei loro proprietari in quelle dei funzionari nazisti.

Questo processo di centralizzazione delle attività produttive sotto il controllo del Partito, allo scopo di massimizzare l’efficienza dello sforzo bellico, fu dovuto tanto alle circostanze quanto ad una precisa volontà politica.

Da un lato, infatti, i bombardamenti sempre più devastanti costrinsero i proprietari delle fabbriche ad accettare l’aiuto dello Stato per trasferire la produzione sotto terra. In cambio, però, furono costretti a cederne il controllo alle autorità politiche locali.

Dall’altro, si fece progressivamente spazio nella mente di molti funzionari del Partito l’idea di una specie di “socialismo di Stato”[2]. In quest’ottica la nazionalizzazione dell’industria, che venne descritta agli imprenditori come una misura temporanea, sarebbe continuata anche in tempo di pace.

Naturalmente, la sconfitta della Germania rende impossibile sapere come si sarebbe evoluto il rapporto fra imprenditori e funzionari nazisti, o se il progetto di un “socialismo di Stato” di questi ultimi avrebbe avuto successo o meno. Tuttavia, dalla storia dei finanziatori di Hitler è possibile ricavare delle lezioni, per il passato e per il presente.

La prima è che, sul lungo termine, capitalismo e dittatura non possono coesistere: o il primo viene soffocato dalla seconda, o la seconda viene abbattuta dal primo.

Il primo caso è quello della Germania di Hitler, che progressivamente ha abbandonato il libero mercato ( adottando misure protezionistiche e politiche economiche quasi keynesiane per il riarmo bellico), per sostituirlo con il corporativismo e lo statalismo.

Il secondo caso, invece, è quello del Cile di Pinochet. Senza negare il carattere autoritario di tale regime, non si può non concordare con Milton Friedman nel riconoscere il ruolo centrale delle riforme economiche liberiste del regime nel porre fine alla dittatura stessa.

La seconda lezione, che riguarda da vicino il nostro presente, ma anche il nostro futuro, è che il “crony capitalism” inevitabilmente conduce, se non alla dittatura vera e propria, ad un accentramento del potere che è comunque inaccettabile per un liberale.

In un circolo vizioso, imprenditori corrotti finanziano politici compiacenti, che ripagano tali favori con i soldi dei contribuenti o con leggi a loro vantaggio, il tutto con il risultato di rendere sempre più ricchi e potenti sia i primi che i secondi, a discapito del resto della popolazione e della libertà. Ma è possibile contrastare il “crony capitalism”?

Forse, restando pragmatici, un modo c’è. Naturalmente, imprenditori corrotti e politici compiacenti sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Quindi, cercare di rimuoverli interamente dalla società e dalla storia è impossibile.

Tuttavia, è possibile impedire loro di fare gravi danni, privandoli delle loro armi più potenti, quelle dello Stato. Il “crony capitalism”, infatti, esiste grazie al Big Government. Se lo Stato ha funzioni limitate, se politici e funzionari non hanno a disposizione grandi poteri e grandi quantità di denaro pubblico, allora l’incentivo a corrompere viene meno.

In uno scenario simile, molti lobbisti si ritroverebbero disoccupati, molti monopoli svanirebbero dall’oggi al domani e molti imprenditori si vedrebbero costretti a tornare all’unico sistema in grado di garantire prosperità economica individuale e collettiva, il libero mercato.

 

[1]Albert Speer, “Memorie del Terzo Reich”, capitolo VII

[2]Albert Speer, “Memorie del Terzo Reich”, capitolo XXIV

 

 

 

 

Stress test pensioni: 5 casi in cui il privato è meglio del pubblico

Spesso, a torto, si sente sostenere che l’attuale sistema pensionistico è da imputare a un sistema liberista volto a impoverire la popolazione italiana e farla morire lavorando.

Sfatiamo subito questo mito, a noi liberali questo sistema pensionistico non piace per niente, la riforma Fornero NON è stata una riforma liberista, bensì una riforma contabile.

Essa è stata una riforma inevitabile per la struttura del sistema pensionistico italiano perché è completamente concentrato nel perimetro pubblico e, per far sì che questo non implodesse, è stato necessario bilanciare le entrate e le uscite di cassa future con un aumento dei contributi versati, un aumento dell’età pensionabile e la riduzione degli assegni a causa della non indicizzazione all’inflazione.

È stata inevitabile e saranno inevitabili altre riforme di questo tipo perché, contrariamente a quanto viene propagandato spesso, i soldi non sono infiniti e lo stato, qualsiasi esso sia, non è onnipotente e non può incidere, se non in misura ridotta, in fattori di così grande portata come il trend demografico di una nazione.

Il nostro sistema pensionistico funziona come un enorme schema Ponzi nel quale si dovrebbe sperare che sempre più persone inizino a lavorare, quando secondo il trend demografico questo non sta accadendo, e che sempre più pensionati smettano di percepire l’assegno pensionistico lasciando al sistema i contributi non riscossi (lascio al lettore immaginare cosa voglia dire).

Alla luce di questo, il sistema pensionistico italiano, contributivo e a ripartizione, NON è il sistema di riferimento per i liberisti.

Un sistema liberista sarebbe uno a capitalizzazione individuale, il lavoratore metterebbe da parte i contributi su un conto previdenziale privato in modo da costruirsi la propria pensione personale che non sia dipendente da contributi di altri e dalla quale riceverebbe degli interessi, anche questi da reinvestire sul conto previdenziale in modo da aumentare ulteriormente la propria pensione futura.

Ora proviamo a immaginare in cinque situazioni di criticità come rispondono le pensioni contributive pubbliche e delle ipotetiche pensioni private a capitalizzazione individuale.

  1. Il primo elemento di criticità che quasi ogni giorno tiene banco nel dibattito pubblico è l’ingiustizia di andare in pensione in età avanzata dopo aver passato la vita con un lavoro usurante. Contro intuitivamente un sistema privato andrebbe a vantaggio principalmente di questa categoria, composta in prevalenza da persone scarsamente specializzate e che entrano precocemente nel mercato del lavoro, perché, anche se verserebbero un contributo più basso, inizierebbero a versarlo molti anni prima rispetto a altri lavori maggiormente specializzati caratterizzati da un ingresso nel mercato del lavoro in un’età più avanzata, facendo si che gli interessi, seppur su importi minori, agirebbero per un maggior numero di anni e favorendo la costituzione di un montante adeguato per andare in pensione prima rispetto a un sistema pubblico in cui l’età di pensionamento dipende esclusivamente dal decisore pubblico.
  2. Una seconda criticità dipende dalla percezione che i lavoratori hanno dei contributi previdenziali che le aziende versano in loro favore, oggi sono vissuti come una tassa (di fatto lo sono) perché non è esplicito quanto sia l’ammontare di contributi versati nelle casse dell’Inps  e non è chiaro, per chi non è un addetto ai lavori, come verrà calcolata la pensione. In un sistema pensionistico a capitalizzazione i contributi sarebbero percepiti come parte dello stipendio (di fatto lo sarebbero) perché confluirebbero direttamente nel conto previdenziale privato cioè nel patrimonio del lavoratore. Questo li allontanerebbe dal mercato del lavoro irregolare perché a parità di stipendio percepito, il guadagno del lavoratore in nero sarebbe nettamente inferiore a quello del lavoratore regolare e non potendo più terziarizzare i contributi, farseli cioè pagare da altri, sarebbe incentivato a farseli versare direttamente in azienda.
  3. Nel mercato del lavoro odierno, caratterizzato da una maggiore discontinuità lavorativa rispetto al passato, la perdita di lavoro corrisponde a un cessazione del versamento dei contributi, questo si ripercuote non solo sulla situazione reddituale presente, ma anche sulla situazione reddituale futura. In un sistema privato, essendo composto anche dagli interessi oltre che dai contributi versati, il problema, pur rimanendo, avrebbe un impatto negativo minore perché quest’ultimi continuerebbero a maturare a prescindere che il lavoratore stia o meno continuando a lavorare e versando i contributi.
  4. Mediamente in Italia viene percepito un assegno pensionistico fra il 70% e l’80% rispetto agli ultimi stipendi riscossi prima di uscire dal mercato del lavoro ed è la stessa percentuale che viene mediamente riscossa nei sistemi privati con la piccola differenza che in Italia i contributi pensionistici ammontano al 33% dello stipendio lordo mentre nei paesi che adottano il secondo sistema i contributi sono nettamente inferiori (in Cile ad esempio solo il 10%), le pensioni private quindi raggiungono lo stesso risultato, ma con un impiego di risorse economiche molto inferiore, questa differenza è una vera sottrazione di risorse private che potrebbe essere impiegata per consumi o investimenti dai quali, al giorno d’oggi, il lavoratori sono completamente esclusi. Inoltre contributi pensionistici così alti incidono negativamente sul cuneo fiscale, disincentivando l’assunzione. Abbassarli vorrebbe dire aumentare l’occupazione e disincentivare il lavoro nero.
  5. C’è un ulteriore aspetto che premia le pensioni private rispetto a quelle pubbliche ed è la reversibilità, non è raro che una persona muoia prima di aver maturato il diritto a riscuotere l’assegno pensionistico o prima di aver consumato completamente il proprio credito presso le casse previdenziali. Nel sistema pubblico spesso oltre al danno si assiste alla beffa. Dopo aver pagato una vita intera per poter godere di un servizio futuro, quale è la pensione, non solo ne si è esclusi personalmente dal consumo, ma ne sono esclusi anche tutti propri cari che non goderanno di questo servizio, se non in minima parte, costituendo, di fatto, un ulteriore tassazione a fondo perduto avvenuta durante la vita alla quale non verrà mai corrisposto il servizio promesso.

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