Perché in Italia i comuni non falliscono?

La notizia è fresca[1]: il governo ha deciso di intervenire a salvezza di Roma, dicendosi disponibile ad addossarsi i debiti del comune a partire dal 2021. Non che sia una novità[2], o tantomeno l’unico caso[3]; lo Stato italiano ha una lunga tradizione di interventi a tutela di comuni falliti. E, per essere chiari, la ragione di questi interventi non è solo la convenienza politica di togliere dagli impicci i propri compagni di partito (anche se questo motivo esiste, ovvio); a livello più profondo, deriva dalla concezione dello Stato presente in questo Paese e nella sua classe dirigente.

In Italia gli enti locali sono ancora visti come branche dello Stato centrale, che se ne serve per controllare meglio il territorio ed i cittadini. Anche quando concede, come nel caso delle Regioni, un certo grado di autonomia di spesa e decisione, mantiene comunque il diritto di intervenire sulla maggior parte delle materie su cui ha, a malincuore, ceduto il potere[4]; e non si sogna minimamente di creare un vero sistema decentrato, con poteri amministrativi e decisionali esclusi dagli ambiti più importanti.

I comuni soffrono in particolare questa situazione, perché da un lato ricevono sempre meno soldi dallo Stato (e non hanno sufficiente autonomia per procurarsi altri fondi) mentre dall’altro devono garantire una serie di servizi che i loro cittadini (ed elettori…) si aspettano.

Il risultato è che molti finiscono soffocati di debiti; e a quel punto interviene lo Stato con i suoi commissari e i suoi lunghi e complessi piani di rientro – che ovviamente non funzionano mai. La città finisce così per attraversare una crisi finanziaria dietro l’altra e rimane in uno stato di sovranità limitata per anni, a volte decenni.

Il punto è che ad essere sbagliata è proprio la concezione dello Stato che ha la nostra classe dirigente.

Il comune non dovrebbe essere visto come un organo dello Stato centrale, a cui si distribuisce denaro dall’alto per poi salvarlo quando le cose vanno male. Così non si crea una cultura della responsabilità, né presso gli amministratori locali né presso i cittadini; è solo un modo per mantenere il predominio del governo centrale e della sua classe di burocrati e politici.

Il comune dovrebbe invece essere un singolo ente autonomo, che si auto-finanzia presso i suoi residenti ed è responsabile di fronte a loro della sua condotta finanziaria. Se un ente del genere fallisce, a pagarne le spese saranno i suoi residenti, e solo loro; e non perché li si debba punire; ma perché solo commettendo errori e vedendone le conseguenze gli individui possono capire dove hanno sbagliato ed effettuare scelte migliori.

Del resto, non vediamola solo negativamente: un comune autonomo e ben amministrato potrebbe fornire servizi migliori ai cittadini – o addirittura abbassare le loro tasse!

I fallimenti sono importanti sia per un individuo che per un sistema (politico ed economico): permettono di individuare gli errori e di migliorare la qualità delle decisioni successive. Per quale ragione i comuni non dovrebbero poter fallire?

 

 

[1] Fonte: https://quifinanza.it/finanza/governo-paga-debiti-di-roma/267699/

[2] Dal 2009 l’enorme debito accumulato dalla capitale viene pagato al 60% con fondi prelevati dalla contabilità nazionale – soldi di tutti gli italiani dunque.
Fonte: https://www.nextquotidiano.it/debito-di-roma-chi-paga/

[3] Ad esempio Catania, nel 2008, cfr: http://www.repubblica.it/2008/10/sezioni/politica/cavaliere-salva-catania/cavaliere-salva-catania/cavaliere-salva-catania.html

[4] Per come funziona il sistema delle competenze “condivise” e “residuali” fra Stato e Regioni, cfr: https://it.wikipedia.org/wiki/Potest%C3%A0_legislativa_in_Italia

Oscar Giannino: quando l’opinione diventa una colpa.

“Leggete e dite: che senso ha? Sono io da condannare? Diffamo chi in Rai lavora se dico che è lottizzata? Ma stiamo scherzando? No, è l’amara realtà. Che per me oggi ha un impatto grave, molto grave.” Queste, le parole scritte, nel post di Facebook del 10 Aprile, da Oscar Giannino.

Probabilmente lo avrete già sentito. Nel 2013 si presentò alle elezioni come capo di “Fare per fermare il declino”, una piccola lista composta soprattuto da importanti economisti di orientamento liberale.

Durante la campagna però, si scoprì che la laurea che Giannino sosteneva di aver conseguito all’università di Chicago risultò falsa e lo rivelò, causando un grande scandalo in tutto il paese.

Oggi però è emerso un nuovo scandalo che coinvolge Oscar Giannino.

In realtà l’episodio risale al febbraio del 2008, quando il giornalista scrisse un articolo nella testata giornalistica “Libero Mercato”- di cui era direttore – nel quale descrisse un documento riservato della Rai.

Nell’articolo in questione Giannino fece notare come “di 900 nomi di dirigenti tra società e controllate, oltre 900 si presentavano rossi o blu a seconda del padrinaggio politico, e solo meno di 1 su 3 era verde cioè non politicizzato.”

Naturalmente lo scopo dell’articolo era di dimostrare come all’interno della Rai si scegliesse guardando ai partiti e alla politica, a scapito della valenza e capacità dell’individuo, ergo: occorrerebbe che l’azienda fosse privatizzata.

In tutto ciò, però, – dettaglio importante- nessun nome dei 900 fu divulgato nell’articolo.

La pubblicazione tendeva semplicemente a criticare il sistema di criteri e giudizi con il quale venivano scelti i dipendenti. Non c’era nessuno scopo diffamatorio.

Ebbene, il 4 marzo 2019, dopo più di dieci anni dalla diffusione dell’articolo, Oscar Giannino, per effetto della decisione del giudice civile favorevole alla richiesta avanzata da numerosi dirigenti RAI, viene condannato a ben 144 342 euro di pignoramento. 

L’articolo citato pubblicato da Oscar nel 2008. Trovate le immagini nel post Facebook del giornalista.

No, non è un errore. Solamente per avere espresso la propria opinione riguardo la politicizzazione della RAI, Oscar si ritroverà a pagare ben -lo scrivo in lettere per confermare – centoquarantaquattromila euro.

Tutto ciò per confermare un labile presentimento che ormai in Italia si avverte da decenni. La libertà di parola si, ma sino ad un certo punto. Che vale intraprendere la carriera di giornalista, scrittore, divulgatore o politico se poi certi temi non si possono toccare poiché tenuti sotto controllo dalla politica?

La falsa libertà in Italia ha sempre fatto da padrone. Dal fascismo ad oggi si può criticare tutto purché non si tocchino certi tasti, che di certo, comodo non fanno.

A differenza dell’epoca di Mussolini, oggi però non ce ne rendiamo conto, rischiando di trovar soppressa da un giorno all’altro la nostra libertà d’opinione e d’espressione.

Notizie del genere non possono passare inosservate. Ci si ritrova davanti un giornalista, che pur con i suoi errori che egli stesso ha ammesso, ritrova un pignoramento di 144 mila euro semplicemente per aver espresso la propria opinione.

Secondo la RAI e il giudice civile, l’articolo causerebbe danni di credibilità e professionalità ai dirigenti. Ma dove? Dove sono nomi e cognomi, e dove le accuse e calunnie? 

Come al solito il cavallo di troia irrompe, chiedendo la difesa dei propri diritti, quando in realtà li si vuole negare a qualcun altro.

Non a caso, infatti, l’Italia ha uno dei tassi di libertà di stampa più bassi di tutta l’Unione Europea, classificandosi al 46esimo posto della comunità globale.

La percentuale della libertà di stampa italiana è del 70%. Viene considerato come un paese “mediamente libero”.

Italiani sveglia. Abbiamo combattuto con ferro, fiamme e sangue di nostri concittadini per ottenere la libertà di parola, e oggi, poiché non si vuole ammettere che, come al solito, le aziende pubbliche controllate dalla politica causano più danno che bene, la stiamo perdendo.

La Svezia e l’equivoco socialdemocratico

In Italia si parla spesso dei Paesi scandinavi come modelli alternativi, esempi di successo di politiche socialdemocratiche o addirittura socialiste; e recentemente questa moda ha preso piede perfino negli Stati Uniti[1]. Alla base di questi riferimenti c’è sempre la ricerca della mitica “terza via”, che permetterebbe di superare il capitalismo senza gli eccessi e i fallimenti del comunismo[2].

La Svezia, in particolare, è il Paese a cui tutti costoro guardano. “Ecco”, si dice, “una nazione che riesce a crescere e creare benessere per tutti con politiche sociali e attente ai poveri, rifiutando il perfido neoliberismo. Questo è l’esempio che dovremmo seguire. Freghiamocene di austerità, libertà economica e tassazione, a salvarci sarà la spesa pubblica!”.

Ovviamente, la realtà è un po’ diversa: la Svezia non cresce per via della sua alta spesa pubblica, ma al contrario si può permettere quel livello di spesa perché cresce. Sembra un gioco retorico, ma non lo è: la Svezia basa la sua crescita su un modello economico liberale, non su una fantomatica “terza via”.

Gli svedesi hanno dovuto capirlo e impararlo sulla loro pelle. Negli anni ’70 e ’80 la Svezia aveva creato un esteso sistema di welfare, che ancora adesso è in piedi (seppure ridotto). Ma in quegli anni i governi socialdemocratici utilizzarono anche politiche che definiremo per comodità keynesiane, utilizzando regolarmente la spesa pubblica per spingere la propria economia.

Fu in quegli anni che la tassazione svedese crebbe fino a livelli mai raggiunti nel mondo occidentale[3], mentre lo Stato acquistava centinaia di aziende private in crisi e cercava di rilanciarle con soldi pubblici. Nel corso degli anni ’80 lo Stato svedese era arrivato a pesare per oltre il 60% sul PIL del Paese; si sarebbe mantenuto su quei livelli fino a metà anni ‘90.

E quale fu il risultato? Negli anni ‘50 e ‘60 la Svezia aveva conosciuto una rapida e sostenuta crescita economica, fino a diventare il 4° Paese occidentale più ricco, per PIL pro capite, nel 1970. Vent’anni dopo, il Paese scandinavo era invece in profonda crisi: la Svezia era cresciuta di circa la metà rispetto alla media OCSE per tutti gli anni ‘80 e il suo PIL pro capite era ormai il 14° nel mondo occidentale. Il Paese era entrato in una spirale apparentemente irreversibile di spesa pubblica e tassazione crescenti e crescita asfittica.

Quale fu la soluzione del governo Bildt (il primo non socialdemocratico dopo decenni)? Proprio quella indicata dal pensiero liberista standard: privatizzazioni, de-regolamentazioni, calo delle tasse e della spesa pubblica[4].

L’impatto iniziale fu ovviamente molto pesante per la società svedese: disoccupazione e debito pubblico salirono rapidamente, mentre la crescita restava bassa e l’inflazione non accennava a diminuire; il nuovo esecutivo non volle comunque tornare indietro, convinto della correttezza del rimedio.

E in effetti la situazione economica stava cominciando a migliorare quando nel 1994 il governo conservatore cadde e tornarono al potere i socialdemocratici. Quel che successe dopo illustra chiaramente la qualità del dibattito pubblico svedese: il fallimento delle politiche keynesiane dei precedenti decenni era ormai talmente accettato e riconosciuto che il nuovo esecutivo non pensò neanche per un istante di invertire la rotta.

Da allora, le riforme pro-mercato sono proseguite fino ad oggi, sotto governi di ogni colore, creando una delle economie più business friendly al mondo: oggi l’indice Doing Business della Banca Mondiale considera la Svezia come il 12° Paese al mondo dove è più semplice fare impresa[5].

“Miracolosamente”, in seguito a queste riforme la Svezia è tornata a crescere e ad essere il Paese ricco e prospero che già era stato. I suoi tassi di crescita sono regolarmente intorno al 2-3%, quando non più alti, la produttività del lavoro cresce più della media OCSE, disoccupazione e inflazione si mantengono basse[6].

Cosa ci insegna questa storia? Che non esistono ricette speciali o magiche per far crescere un Paese; tutto quello che serve è non soffocarlo di tasse e regole e lasciare libertà di azione agli individui. Questa è la rivoluzione culturale che la Svezia effettuò trent’anni fa – e che noi ci auguriamo anche per il nostro Paese.

 

[1] https://www.huffingtonpost.com/bernie-sanders/what-can-we-learn-from-denmark; https://www.bloomberg.com/news/articles/2019-01-06/ocasio-cortez

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Terza_via

[3] http://www.reforminstitutet.se/wp/wp-content/uploads/2014/03/Twentyfiveyearsofreform140301.pdf

[4] http://www.reforminstitutet.se/wp/wp-content/uploads/2014/03/Twentyfiveyearsofreform140301.pdf

[5] http://www.doingbusiness.org/en/rankings

[6] Dati ricavati da archivi World Bank

Più armi vuol dire più crimine?

Da quando in Italia si discute di modificare in senso leggermente meno restrittivo le norme sulla legittima difesa qualcuno strilla al far west, alle armi facili e dunque all’aumento delle morti, spesso citando statistiche americane, che includono i suicidi.

Ma è davvero così?

Le armi in America

Negli Stati Uniti d’America il diritto a portare e possedere armi è sancito dal secondo emendamento della Costituzione che stabilisce come sia necessario, per uno Stato, una milizia ben regolamentata.

I Padri Fondatori, ben memori dell’esperienza di guerra necessaria per liberarsi dal colonialismo inglese e dei pericoli presenti nel Continente, preferirono una nazione dove -potenzialmente – ogni cittadino avrebbe potuto avere un’arma, rispetto ad uno Stato dove solo l’Esercito è armato.

Si tratta di una finezza non avuta dai costituenti europei, nonostante vari Stati europei siano nati da esperienze di resistenza armata: In un certo senso i Padri Fondatori hanno avuto l’intuizione che il Popolo avesse la necessità di rescindere, anche tramite forze in armi, dall’adesione al governo; quelli italiani si sono detti “siamo una democrazia e lo saremo per sempre”.

I vari Stati dell’Unione, comunque, possono porre limiti al porto in pubblico e sottoporlo a licenze, che attendono a concessioni somministrate alla richiesta, se si posseggono determinate caratteristiche di legge o discrezionalmente.

Nessuno nega che in USA ci sia un problema di violenza. Tutti gli americani con cui ho parlato, dai sandersiani convinti ai trumpisti, passando per i libertarian: concordano sul fatto che le armi da fuoco siano semplicemente un mezzo di espressione, se non le avessero userebbero altre armi, ma al contempo sono anche un mezzo di difesa, infatti alcune importanti stragi sono avvenute in luoghi “gun-free”.

Le armi in Europa: Svizzera e Cechia

In linea di massima l’Europa ha leggi abbastanza restrittive in materia di armi. Questi due Stati, tuttavia fanno eccezione e hanno normative abbastanza liberali.

La Svizzera, di per se, ha una normativa non troppo speciale: Per comprare un’arma viene richiesto un permesso che si ottiene con relativa semplicità, se si hanno i requisiti, mentre per il porto in pubblico serve un ulteriore permesso, concesso con parsimonia.

Tuttavia in Svizzera esiste il servizio di leva, i cittadini portano a casa il fucile d’assalto e una volta terminata la leva possono acquistarlo.

Ciò porta a un ciclo virtuoso: Se avere un’arma in strada è relativamente raro, è però possibile difendersi nel proprio domicilio e, in caso, difendersi da un invasore armato o da una deriva dittatoriale del governo federale.

Sticker pro-armi ceco che recita “Vorresti davvero non aver nessun portatore di armi legale nelle vicinanze?”

 

In Cechia, invece, c’è un modello più individualista e la permissiva normativa – “diamo a Cesare quel che è di Cesare”, che è stata approvata persino dal socialdemocratico Zeman – permette il possesso e il porto a chi ha i requisiti di legge.

Inoltre, una volta ottenuto il permesso, è abbastanza semplice comprare pistole e fucili ad azionamento singolo, mentre è richiesto un ulteriore permesso per le armi semiautomatiche.

Questa volontà di mantenere le armi libere è stata una delle varie ragioni di contrasto tra il governo e il popolo ceco, inclusi i partiti più europeisti come TOP 09, e l’Europa unita: I Cechi credono che sia meglio avere una nazione armata, anche per combattere il terrorismo.

E, quando sentiamo in TV “le squadre anti-terrorismo posso intervenire in mezz’ora” dovremmo anche chiederci: quante persone disarmate può uccidere un terrorista in quel periodo di tempo?

E l’Italia?

In Italia è relativamente facile ottenere il permesso per tenere un’arma in casa, se si rispettano i requisiti di legge. La stessa cosa vale per le licenze di tiro sportivo e per la caccia.

Non vale per la difesa personale: Infatti è abbastanza difficile ottenere un permesso per difesa personale, che comunque vale solo un anno, e viene rilasciato tipicamente a gente che maneggia denaro o gioielli, o a medici notturni.

Ironico il fatto, comunque, che armi non letali come il Taser o le pistole a proiettili di gomma non possano essere portate, mentre le pistole classiche sì: In Italia, in sostanza, non puoi difenderti in maniera non letale, nemmeno se vuoi farlo.

Nel nostro paese, comunque, questo approccio è dovuto anche ad un problema culturale: raro è infatti trovare un serio fronte in favore delle armi sicure e legali; si passa da chi ritiene necessario disarmare i cittadini, e per il quale è meglio un cittadino onesto morto e un ladro in vita, rispetto all’inverso – colpevolizzando la legittima difesa- e chi invece vuole le armi libere senza alcun criterio di regolamentazione.

Da liberali dovremmo porci contro chi ci vuole sudditi dello Stato, tutti disarmati e in balia del primo che si procura una Glock al mercato nero (perché le leggi non possono nulla contro chi già sta agendo illegalmente), ma anche contro chi pensa di risolvere le dispute a colpi di rivoltella.

Il possesso di un’arma dovrebbe essere un diritto che attiva di conseguenza una serie di un doveri civici. Ed, esattamente come la possibilità di guidare un veicolo, dovrebbero essere contemplate cause che lo limitino o lo impediscono totalmente, da certificarsi tramite un corso ed una visita medica, senza per questo limitare immotivatamente la libertà personale.

Ambientalismo e socialismo: una storia d’amore

“Gli ambientalisti sono come i cocomeri: verdi all’esterno, rossi all’interno”, dice il vecchio adagio. Questa piccola metafora contiene in sé un’importante verità. Quando, dopo il crollo del blocco sovietico, l’ideologia marxista perse gran parte della sua credibilità, i suoi seguaci si ritrovarono privi di un ideale da seguire. Molti di essi, quindi, abbandonarono la bandiera rossa in favore della bandiera verde.

Non è un caso, infatti, che i partiti Verdi come li conosciamo oggi siano nati tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Allo stesso modo, non è un caso che i Socialisti Democratici negli Stati Uniti abbiano fatto del “Green New Deal” un loro cavallo di battaglia.

Mentre si avvicinano le elezioni del 2020, sono sempre più numerosi i progressisti pronti a dare il loro endorsement a questo programma ambizioso, che già nel nome riprende lo spirito del fallimentare “New Deal” implementato da FDR negli anni Trenta.

Salvaguardare l’ambiente è un nobile obiettivo, condivisibile da tutti al di là del credo politico. Tuttavia, esistono alcuni punti di contatto fra ambientalismo e socialismo che possono essere sfruttati a scopo politico. In questo senso si può parlare di “ecosocialismo”.

Il primo ed il più evidente è la profonda sfiducia verso il capitalismo. Nello specifico, gli ambientalisti (o meglio, gli ecosocialisti) mettono in discussione la capacità di adattamento del sistema. Non solo, molti di loro sono genuinamente convinti che l’abolizione della civiltà capitalista sia necessaria per scongiurare un’apocalisse sempre più vicina.

Fortunatamente, tali profezie apocalittiche sono state più volte smentite dai fatti, i quali dimostrano la resilienza del capitalismo. Un esempio su tutti: la rivoluzione verde.

Nel 1968 Paul R. Ehrlich, ambientalista e biologo statunitense, pubblicò il suo bestseller “The Population Bomb”. In quest’opera egli dipingeva un futuro drammatico (gli anni Settanta), nel quale centinaia di milioni di persone sarebbero morte per via di carestie dovute alla sovrappopolazione.

La storia, come sappiamo, non è andata così. Tra il 1950 ed il 1970, lo sviluppo di nuove tecniche agricole, finanziato dalle industrie e da enti come la Rockefeller Foundation, ha reso possibile un incremento senza precedenti della produzione alimentare (rivoluzione verde).

Simili risultati, tuttavia, sono invisibili agli occhi degli ecosocialisti. La loro sfiducia verso il capitalismo resta granitica, e li spinge verso una strada già percorsa dai loro predecessori, l’intervento statale.

Gli ecosocialisti amano la burocrazia, le regolamentazioni, la visione top-down dell’economia e della società. Nel loro mondo ideale tutto, dal numero di figli che si possono avere alla quantità di acqua per lavarsi, è deciso a tavolino in un’economia pianificata, per ridurre al minimo l’impatto ambientale.

Si potrebbe pensare che la perdita di libertà sia un prezzo accettabile per salvare l’ambiente. Il problema è il seguente: l’unico risultato certo di questa linea d’azione sarebbe l’accentramento di potere nelle mani di pochi ecosocialisti. Una volta a capo dell’economia pianificata, il loro arbitrio sarebbe totale, mentre nulle sarebbero le garanzie di successo del sistema.

A dir la verità, i risultati a livello ambientale di questo sistema sono stati tutt’altro che incoraggianti in passato, come mostra il caso del lago di Aral. Il lago di Aral è, o meglio era, un grande lago salato situato fra Kazakistan ed Uzbekistan.

In epoca sovietica, i principali immissari del lago sono stati deviati per ordine delle autorità statali al fine di soddisfare i bisogni agricoli dell’Urss. In quarant’anni, i loro piani economici hanno ridotto gran parte del lago di Aral in un deserto tossico, uno dei peggiori disastri ambientali del secolo scorso.

Quindi un’economia pianificata, come proposta dai socialisti ieri e dagli ecosocialisti oggi, non solo non è più efficace nel salvaguardare l’ambiente rispetto ad un sistema capitalista basato sul libero mercato, bensì è potenzialmente molto più pericolosa.

Questo perché il secondo sistema ha una dinamicità invidiabile, che è il segreto del suo successo. Tutti sono protagonisti attivi nel libero mercato, tutti contribuiscono con le loro azioni e le loro idee alla direzione seguita dal sistema.

Certo, il contributo di un grande imprenditore, di un Elon Musk, non sarà lo stesso di una persona comune, ma la natura del sistema impedisce anche ai più ricchi industriali di ignorare le esigenze ed i desideri dei loro consumatori. In questo senso, un boicottaggio è uno strumento più potente di una rivoluzione.

Questo non accade in un’economia pianificata. In tal caso i pianificatori, una volta ottenuto il potere assoluto facendo grandi promesse, non hanno alcun incentivo reale a mantenerle, ed in caso di fallimento non corrono alcun rischio.

Esistono solo due tipi di ecosocialisti. I primi, che sanno tutte queste cose, sono spinti solo dall’avidità e dalla sete di potere, e sono parte del problema.

I secondi, che hanno realmente a cuore la causa e che sono ingannati dai primi, sono quelli che vorrei raggiungere con questo articolo.

Dimenticate la storia che vi raccontano da sempre, quella dell’imprenditore cattivo che cospira contro la Madre Terra e del politico buono che lo sconfiggerà (dopo essere stato eletto o rieletto, naturalmente).

Invece di delegare ad un politico il potere di costringere gli altri a vivere come voi vorreste che vivano, siate individualisti. Scegliete per voi stessi di vivere una vita a basso impatto ambientale, e lasciate agli altri questa stessa libertà.

Lasciate che il libero mercato sia vostro alleato, premiate con il vostro denaro le imprese che danno ascolto alle vostre richieste, e boicottate (a titolo personale) quelle che non lo fanno. Ormai è giunta l’ora di porre fine a questa storia d’amore tossica con il socialismo, ed andare avanti senza più credere nelle sue menzogne.

 

Socialisti contro ricchi: la fobia del benessere

Le imprevedibili virtù dell’ignoranza

Le fila dei socialisti democratici statunitensi (liberal*, democratic socialists, social justice warriors, etc.) traboccano di personaggi tanto interessanti quanto ridicoli: Bernie Sanders, il multimilionario buon samaritano che predica l’uguaglianza e la redistribuzione dalla sua terza casa di proprietà da $600,000 [1]. La senatrice Elizabeth Warren, che per ottenere qualcosa dalla vita ha dovuto fingere di essere una nativa americana per poi essere pubblicamente svergognata dal recente test del DNA [2], e infine l’astro nascente dei guerrieri della giustizia sociale: Alexandria Ocasio-Cortez!

Questa giovane donna rappresenta la versione americana dei mali che da tempo affliggono il nostro paese: l’analfabetismo economico, l’idea “uno vale uno”, la totale assenza di vergogna o pudore nell’affermare incorrettezze, la fascinazione dell’ignoranza.

Ma come ha fatto una cameriera del Bronx – che nonostante una laurea in Relazioni internazionali accusa Israele di occupare militarmente la Palestina – non in grado di distinguere le tre funzioni dello Stato, a diventare la figura di riferimento della Sinistra radical-liberal* statunitense?

La ricetta economico-politica della Ocasio-Cortez è estremamente semplice quanto pericolosa: [3]

  • Assistenza sanitaria gratuita per tutti
  • Educazione gratuita per tutti
  • Reintroduzione del Glass-Steagal Act
  • Diritti delle donne e delle minoranze
  • Salario minimo di 15 $/h aggiustato al tasso di inflazione
  • Lotta al cambiamento climatico (il ridicolo Green New Deal)
  • Lotta alle armi
  • Abolizione dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement)
  • Ritiro delle truppe dal Medio Oriente

Come al solito un bel programma, pieno di proposte che vanno al cuore degli elettori, al punto che sorprende non trovare l’abolizione della fame nel mondo, la fine di tutte le guerre, e unicorni-arcobaleno per tutti.

Tuttavia, nonostante la varietà di ideali, questo progetto rimane drammaticamente povero in contenuti, povero in dati, e dal costo economico spropositato. La domanda è semplice: chi pagherà i 33 TRILIONI di dollari che Medicare For All – da solo – potrebbe costare solo nei primi dieci anni? [4]

Ovviamente i più ricchi, il Top 1%, che negli ultimi trent’anni avrebbe mangiato in testa al povero lavoratore americano. La proposta della Ocasio-Cortez è quindi naturale: introdurre una nuova aliquota fiscale marginale del 70% sulla parte di reddito eccedente i 10 milioni di dollari, che metterà finalmente fine ai tempi d’oro in cui l’1% più ricco pagava molto meno del restante 99%.

O forse no.

No. Perché tutti i dati economici mostrano in realtà esattamente l’opposto.

 

Cosa dicono i dati?

I dati dell’IRS (Internal Revenue System, l’Agenzia delle Entrate statunitense) mostrano come nel 2014 i 400 maggiori contribuenti americani per reddito (i Top 400) abbiano versato quasi 30 miliardi di dollari in tasse, il 2.13% del totale delle tasse federali per il 2014, con una media di 75 milioni di dollari a testa, coprendo di fatto DA SOLI il budget annuale della NASA e dell’EPA (Ente Protezione Ambientale). [5][6]

Osservando il grafico inoltre, si può notare come questa percentuale sia più che raddoppiata negli anni, passando dall’1.04% del 1992, al 2.13% del 2014, aumentando nonostante il taglio delle tasse sui redditi più alti, operato da George W. Bush nel 2003; in quegli stessi anni (2003-2007) il contributo dei Top 400 crebbe considerevolmente piuttosto che diminuire.

Un altro dato estremamente interessante è quello secondo il quale, sempre secondo l’IRS, negli ultimi anni, nonostante il livello di tassazione sui redditi più alti sia progressivamente diminuito dal 1945 ad oggi, il contributo totale del Top 1% sia vertiginosamente aumentato fino a superare definitivamente quello del Bottom 90%. In poche parole, l’1% della popolazione americana paga più tasse del 90% dell’intera popolazione messa insieme. E si noti sempre come il tax-cut di Bush nel 2003 non abbia minimamente fatto diminuire il contributo dell’1% più ricco, ma al contrario l’abbia incrementato. [7]

Al giorno d’oggi l’1% più ricco paga il 40% del totale delle tasse sul reddito. Ma il dato diventa ancora più significativo se consideriamo quello che in America viene definito il Top 5%, il secondo gruppo dei più “privilegiati”: la classe media-alta. Questi due gruppi combinati, il Top 1% e il Top 5%, contribuiscono da soli per il 60% del totale delle tasse versate allo Stato americano. [8]

E sempre i dati dell’IRS ci mostrano come i redditi più alti non solo contribuiscono in modo straordinario alle entrate, ma pagano anche molto di più in percentuale rispetto ai redditi più bassi. Al punto che il 50% dei contribuenti versa il 97.3% delle tasse. [8]

La progressività del sistema fiscale americano è rimasta invariata negli ultimi 30 anni (quando non è addirittura aumentata) nonostante la progressiva diminuzione delle aliquote sui redditi più alti, e anzi, come abbiamo visto, il contributo del Top 1% è aumentato significativamente fino ad arrivare al 40% del totale delle tasse versate in un anno. E solo nel 2006 le politiche fiscali statunitensi hanno redistribuito circa 1.4 trilioni di dollari dal 40% più ricco al 60% più povero, mentre le diseguaglianze nella distribuzione del reddito si sono stabilizzate. [8] [9]

Inoltre, per comprendere la completa follia della proposta della Ocasio-Cortez di un’aliquota marginale al 70% sulla parte di reddito eccedente i 10 milioni di dollari l’anno basta analizzare le prospettive di gettito fiscale aggiuntivo che questa potrebbe generare.

Secondo un recente studio della Tax Foundation, un’aliquota marginale del 70% applicata ai redditi oltre i 10 milioni di dollari l’anno porterebbe infatti nelle casse dello Stato americano 291 miliardi di dollari nel periodo 2019-2028 a fronte di una spesa di 32.6 trilioni nello stesso periodo solo per la prima delle promesse elettorali, Medicare For All, l’assistenza sanitaria gratuita e universale. [10]

A peggiorare questa abissale disproporzione tra gettito aggiuntivo e nuova spesa, si consideri che i risultati di questa politica fiscale potrebbero essere decisamente inferiori, dal momento che un simile aumento esponenziale dell’aliquota massima potrebbe scoraggiare i contribuenti a dichiarare o realizzare livelli di reddito superiori ai 10 milioni di dollari l’anno.

 

La parola ai fatti, non alle buone intenzioni

In conclusione, nessun sistema fiscale è perfetto, ma la storia degli ultimi decenni di quello statunitense è la storia di una semplice ricetta economica che ha funzionato: più bassa è la pressione fiscale, più tasse vengono pagate (dai più ricchi in primis), più l’economia cresce. Infatti, una pressione fiscale accettabile non solo non scoraggia il contribuente, costringendolo a limitare le sue prospettive di crescita per evitare il passaggio all’aliquota successiva, ma permette una maggiore immissione di liquidità nell’economia reale sotto forma di spesa e investimenti, gli unici due fattori in grado di supportare un crescita solida nel lungo periodo.

Le politiche e le proposte della sinistra liberal americana sono dettate da una precisa agenda fondata sull’invidia sociale, l’odio di classe, e la finta giustizia sociale, condite dalla più assoluta ignoranza economica e dal rifiuto dei dati empirici.

Questa agenda mira alla distruzione della più florida economia mondiale e dell’unica nazione fondata su una promessa di Libertà: è infatti evidente che la dittatura economica a cui mirano i Democratic Socialists sia solo l’anticamera della dittatura morale dello Stato etico e del politicamente corretto, a cui segue necessariamente la morte del diritto di parola e della libertà espressione.

 

 

 

 

 

*con il termine statunitense liberal si indica una corrente politica che in Europa verrebbe definita “socialista”. Il termine liberal non ha alcuna affinità con il Liberismo economico, il Liberalismo classico, o il Libertarismo americano.

FONTI:

[1] https://www.washingtonexaminer.com/bernie-sanders-slams-billionaires-gets-reminded-he-owns-3-houses

[2] https://www.foxnews.com/politics/warren-expressing-concern-about-releasing-dna-analysis-on-native-american-heritage-report-says

[3] https://ocasio2018.com/issues

[4] https://www.bloomberg.com/news/articles/2018-07-30/study-medicare-for-all-bill-estimated-at-32-6-trillion

[5] https://www.cato.org/blog/taxes-tippy-tippy-top?fbclid=IwAR1SWwcNuR-7aHT_kIb8FcHV7RzUUmYOsN99l_Cnvo-zFgI7dXI82vzWFTI

[6] https://www.irs.gov/statistics/soi-tax-stats-top-400-individual-income-tax-returns-with-the-largest-adjusted-gross-incomes

[7] https://taxfoundation.org/top-1-percent-pays-more-taxes-bottom-90-percent/

[8] https://taxfoundation.org/summary-latest-federal-income-tax-data-2016-update/

[9] https://taxfoundation.org/official-statistics-inequality-top-1-and-redistribution/

[10] https://taxfoundation.org/70-percent-tax-analysis/

 

N.B. tutti i dati della Tax Foundation sono dati ricavati dal sito dell’IRS, consultabili attraverso i link riportati in fondo agli articoli in citazione.

Perché essere liberali

È dura essere liberali in Italia. Tanto per cominciare, di solito nessuno sa neanche cosa sia o a cosa creda un liberale. I pochi che lo sanno ti collegano subito a qualche personaggio o partito politico ed è difficile spiegargli che il liberalismo non è esattamente quella cosa lì. Va pure peggio se ti dichiari liberista. Lì sì che capiscono… e ti chiedono subito perché odi i poveri o se godi a sfruttare i bambini (questo è all’incirca il pensiero medio); se poi va proprio male li senti pontificare sulla necessità dello Stato e l’importanza degli stimoli alla domanda (“non sai che Keynes ha risolto la crisi del ’29??[1]”). A quel punto la reazione tipica è tirare un sospiro e provare a spiegare con calma che liberismo non significa né Far West né sfruttamento. Il liberalismo è molto di più: è un’ideologia politica ancor prima che economica.

Non starò qui a raccontare cosa è il liberalismo, tante persone l’hanno già fatto prima e meglio di me. Voglio spiegare invece cosa significa per me essere liberale. Io questa ideologia sono arrivato per caso, ero liberale prima ancora di sapere cosa volesse dire. Ci sono arrivato partendo da una cultura di sinistra (e tuttora continuo a considerarmi di sinistra)e votare tendenzialmente di là), per gradi, a partire da riflessioni personali. Ho scoperto solo in seguito che ciò che sentivo e pensavo era già esposto in brillanti opere scritte molto prima che io nascessi.

Sono diventato liberale perché non mi piacevano le risposte semplici (“noi siamo bravi e intelligenti e potremmo sistemare il mondo, purtroppo il popolo è stupido e non ci capisce”), perché ho un forte senso di giustizia (con che diritto si può obbligare un individuo a essere “solidale” con un altro, ad esempio?), perché non sopporto il group thinking, perché mi fanno ridere coloro che credono di avere tutte le risposte e di poter decidere cosa è meglio per gli altri – anche nella mia vita privata sono così: non amo dare giudizi sulle vite altrui e do consigli solo quando esplicitamente richiesti.

Ma soprattutto sono liberale perché detesto l’idea che qualcuno abbia il diritto di controllarmi e dirmi cosa posso o non posso fare. Voglio poter vivere la vita a modo mio, senza essere obbligato a seguire regole decise da chissà chi. E l’unica ideologia politica che ti propone ciò è il liberalismo. Socialisti, fascisti, fanatici di varie religioni, tutti loro pretendono di insegnarti qual è il giusto modo di vivere, cosa puoi o non puoi leggere e ascoltare, chi devi ammirare e chi odiare, chi puoi e non puoi amare. Al liberalismo tutto ciò non interessa perché sa che ognuno di noi è un individuo unico, diverso da ogni altro: non esistono regole di vita valide per tutti. Siamo delle eccezioni, ognuno di noi. E dobbiamo liberamente cercare la nostra strada.

Il liberalismo è ottimista, ha fiducia nel genere umano e nelle sue capacità. Ritiene gli uomini generalmente buoni e intelligenti, capaci di aiutarsi a vicenda e di inventare continuamente modi per migliorare la condizione della nostra specie. Per questo non ama le regole (se non quelle di base necessarie per una convivenza pacifica): servono solo a controllare e tenere a freno gli esseri umani e la loro naturale bontà e intraprendenza. Lasciati liberi, gli uomini riescono a ottenere risultati straordinari, e la storia degli ultimi 250 anni è lì per dimostrarlo. Non bisogna avere paura della libertà.

Il liberalismo mi ha conquistato perché mi comunica leggerezza e serenità, ottimismo e fiducia. Okay, può essere un po’ naive nel suo credere alla bontà e intelligenza degli uomini. Ma non è meglio un’ideologia che ci insegna a stimare e confidare negli altri esseri umani, piuttosto di quelle che ci vogliono divisi in gruppi e categorie e destinati a odiarci l’un l’altro? Per me la scelta è facile, ed è la scelta della libertà.

[1] Leggersi Rothbard, Friedman et alia per capire perché non è affatto vero

Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien: un inno al Liberalismo

J. R. R. TOLKIEN E IL LIBERALISMO

 

Il Signore degli Anelli, di John Ronald Reuel Tolkien, è considerato l’opera fantasy più acclamata del XX secolo, con circa 150 milioni di lettori in tutto il mondo. Nella prefazione, Tolkien, che sentiva la necessità di spiegare in maniera più dettagliata l’obiettivo della sua opera, scrisse che:

Il motivo primo è stato il desiderio di un narratore di provare a cimentarsi in una storia veramente lunga che potesse attirare l’attenzione dei lettori, divertirli, deliziarli e a tratti anche eccitarli o commuoverli.

Per Tolkien, dunque, l’obiettivo principale dell’opera era dilettare e divertire se stesso e, come ogni autore che si rispetti, desiderava che la sua storia fosse divertente da leggere quanto lo era stato per lui scriverla. Diede vita alla Terra di Mezzo solo perché sentiva la necessità di dare un contesto ai propri piacevoli esercizi linguistici – adorava creare nuove lingue, grammatiche, ortografie, etc. – e successivamente si innamorò di questo nuovo mondo, che continuava a crescere in profondità ed estensione.

La Terra di Mezzo di Tolkien è, in fin dei conti, un prodotto eminentemente individuale, specchio del proprio essere. Ed egli prende la felice decisione di condividere una parte di questa sua visione del mondo con i suoi lettori, ossia, con tutti noi: la sua opera riflette tutto ciò che l’autore considera buono, spregevole, gradevole, sgradevole, morale, immorale. Ed è proprio la particolare visione del mondo di Tolkien, satura di profonde e personali impressioni filosofiche, teologiche e politiche, che ha finito per regalarci una delle opere più meravigliose del suo genere. Un’opera repleta del più puro liberalismo e della più sincera difesa dell’individuo!

È possibile analizzare l’opera di Tolkien attraverso diverse “chiavi di lettura”, ma mi atterrò, per ovvie ragioni, alla chiave di lettura politica.

Nella prima opera pubblicata, Tolkien dà i natali a una razza molto particolare: gli Hobbit. Questi sono un riflesso dell’autore stesso, della sua visione del mondo e dell’importanza che egli dava alle cose: l’Hobbit è un piccolo-borghese, avvezzo alla vita nei campi, attaccato alle piccole comodità domestiche (come i 6 pasti quotidiani), che, improvvisamente, viene chiamato ad essere protagonista dei grandi eventi della propria epoca, e non si nega a tale ruolo.

Tolkien era un umile professore universitario che all’improvviso si vide catapultato nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Bilbo era un Hobbit semplice e mite che inaspettatamente si ritrovò alla ricerca dei tesori nascosti nella Montagna Solitaria, che era stata saccheggiata e conquistata dal terribile drago Smaug, responsabile della sottomissione del più grande regno dei Nani dell’epoca.

La storia di Bilbo Baggins, in tal senso, mostra la fede di Tolkien nella capacità dell’individuo – anche del più semplice e pacato, anzi, talvolta proprio del più semplice e pacato – di realizzare grandi sacrifici, di uscire dalla propria comfort zone, di prendere in mano le redini del proprio destino e di essere capace di grandi atti di coraggio ed eroismo in nome di una giusta causa.

Ma Lo Hobbit – mi perdonino i fan più appassionati dell’opera prima di Tolkien – è un semplice assaggio rispetto alla grandezza che ci aspetta ne Il Signore degli Anelli. Ivi veniamo a contatto, grazie alla genialità di Tolkien, con il liberalismo nella sua forma più pura: la diffidenza nei confronti del Potere.

Lord Acton, il celebre storiografo britannico, affermò una volta, giustamente, che:

Il potere tende a corrompere, il potere assoluto corrompe in modo assoluto. I grandi uomini sono quasi sempre malvagi.

Tale visione del mondo rappresenta l’essenza stessa de Il Signore degli Anelli, com’è possibile percepire in diversi momenti dell’opera. Cercherò di raccontarvi gli episodi che considero più rivelatori, giacché, data la vastità dell’opera, la sua densità e la ricchezza di dettagli, non mi sarebbe possibile esaurire l’argomento in un breve articolo.

L’Unico Anello, l’Anello del Potere, rappresenta il fulcro del libro e si configura come la rappresentazione più esplicita del “Potere”, appunto, che può essere assimilato al concetto di “Stato”. Il dialogo tra Boromir e Aragorn ne La Compagnia dell’Anello è, in tal senso, rivelatore. Quando a Gran Burrone Boromir scopre che Gandalf e Frodo possiedono l’Anello, propone, con molta naturalezza, che venga utilizzato per combattere Sauron, ossia, per combattere il Male[1].

Per Boromir, chi è in possesso del “Potere”, ha davanti a sé un immenso ventaglio di opportunità: è possibile usare il Potere per correggere – magari addirittura sconfiggere – il Male. Il Potere Assoluto, chiaramente, potrebbe addirittura annientare il Male Assoluto: potrebbe concederci “il Paradiso in Terra”. Boromir è un costruttivista, crede che sia possibile la disgregazione dello status quo in favore della costruzione di un futuro migliore, ideale, perfetto, dove il Male non esista. Ritiene che sia possibile costruire, in maniera premeditata, il Paradiso in Terra. Come? È sufficiente usare l’Anello, riunire nelle proprie mani il Potere Assoluto con buone intenzioni e l’obiettivo di fare del bene. Boromir è, purtroppo, la rappresentazione della mentalità maggioritaria dei nostri giorni, della fede puerile nella capacità di riscrivere tutto da zero. La convinzione che, con le persone giuste, si possa raggiungere qualsiasi obiettivo.

Aragorn controbatte con fermezza che è da ingenui pensare che l’Anello possa rispondere a qualcuno al di fuori di Sauron – ossia, che il Potere possa rispondere a qualcosa di diverso dal Male. In altre parole, non è possibile fare del bene attraverso il Potere, per quanto buone possano essere le intenzioni di chi lo adopera. Infatti, è evidente come Aragorn non dubiti della purezza e della virtù degli intenti di Boromir, ma semplicemente nutra una profonda diffidenza nella possibilità di usare il Potere per (ri)costruire qualcosa di positivo – e la sua storia familiare, ossia la morte del Dùnedain Isildur ai Campi Iridati, rappresentava per lui il più fulgido ricordo dei risultati di questo tipo di fede.

Tolkien, come il buon liberale che era e in virtù della naturale sfiducia che nutriva nei confronti del Potere, si servì di altri due momenti e di due personaggi totalmente distinti per dimostrare la fallacia e l’ingenuità del raziocinio costruttivista, oltre alla necessità di una fortissima convinzione e di principi ben radicati per resistere alla soluzione più semplice (e catastrofica).

Il primo personaggio è Gandalf.

Quando Frodo, all’inizio de La Compagnia dell’Anello, atterrito dall’immensa responsabilità che rappresentava l’Anello di Bilbo appena ricevuto, decide di offrirlo a Gandalf, il mago, personificazione della prudenza e della saggezza, nonché della coscienza stessa di Tolkien, risponde:

“No!” gridò Gandalf, saltando in piedi […] “Non mi tentare! Non desidero eguagliare l’Oscuro Signore. Se il mio cuore lo desidera, è solo per pietà, pietà per i deboli e bisogno di forza per compiere il bene. Ma non mi tentare! Non oso prenderlo, nemmeno per custodirlo senza adoperarlo”[2].

Per Frodo, Gandalf è un uomo molto più saggio e assennato di quanto egli stesso potrebbe mai sognare di essere, per cui decide, in nome della prudenza, di affidargli l’Anello. E Gandalf, proprio per essere un uomo tanto saggio e assennato, riconosce l’Anello come un oggetto oscuro, degno del più profondo timore, e non osa toccarlo neanche per un solo istante, riconoscendo la tentazione irresistibile che esso rappresenta.

L’Anello (o il Potere) ci si offre come la soluzione più semplice a tutti i nostri intenti, anche ai più puri, lodevoli e irreprensibili, come la pietà verso i deboli, la misericordia e la necessità premente di fare del bene. La risposta dell’Unico Anello ai nostri più profondi desideri è ciò che vi è di più tentatore: “il mondo è una successione infinita di ingiustizie, ma, se mi terrai con te, avrai nelle tue mani tutto il Potere che occorre per correggerle e sanarle. Io ti darò il Potere di aggiustare tutto. Ti basta mettermi al dito”.

La tentazione dell’Anello – o la tentazione del Potere, ai giorni nostri – è in grado di corrompere anche i migliori di noi e nel buio incatenarli. E Gandalf, il liberale, ne era consapevole.

Il secondo personaggio è Faramir, fratello di Boromir.

Frodo e Sam, nel loro viaggio verso il Monte Fato per distruggere l’Anello, lo incontrano insieme ai suoi soldati, di pattuglia nel territorio di Gondor. Il prudente e lungimirante Faramir, prima di eseguire i rigidi ordini del Signore di Gondor (sentenziare a morte qualsiasi individuo si aggirasse per il regno senza autorizzazione), decide di ascoltare ciò che i due piccoli uomini sconosciuti – che successivamente scopre essere “Hobbit” – hanno da dire.

Faramir viene così a sapere che Frodo e Sam fanno parte della Società dell’Anello insieme a suo fratello Boromir e finisce per ricevere la conferma della morte di questi. Frodo e Sam, visibilmente a disagio una volta saputa la parentela di Faramir e Boromir, dal momento che quest’ultimo aveva cercato di convincerli con la forza a consegnargli l’Anello proprio prima di morire in un’imboscata degli Orchi, rimangono sorpresi dalla schiettezza e dalla cautela di Faramir, che sembra “meno ambizioso e orgoglioso, e al tempo stesso più saggio e severo”[3] del fratello:

“Che cosa sia in realtà tale Oggetto, ancora non saprei dire; ma deve trattarsi di qualcosa di assai potente e periglioso. Un’arma crudele forse […] Se questo oggetto poteva procurare vantaggi a un guerriero, comprendo bene come Boromir, fiero e spericolato, sovente avventato, sempre ansioso di vedere la vittoria di Minas Tirith (e con essa la propria gloria), potesse desiderarlo ed esserne attratto. Ahimè, perché partì lui per quella missione? Mio padre e gli anziani avrebbero dovuto scegliere me, ma egli si fece avanti, essendo il maggiore e il più ardito, e non si lasciò distogliere da nessuno”[4].

E, vedendo come gli Hobbit siano ancora molto timorosi e sospettosi, Faramir conclude, in uno dei momenti più profondi e intrisi di significato dell’opera:

Ma non avere più timore! Io non m’impadronirei di codesto oggetto, neppure se lo trovassi lungo la strada, neppure se Minas Tirith stesse cadendo in rovina e io solo potessi salvarla, usando così l’arma dell’Oscuro Signore per il bene della mia città”.

Con queste parole e con questo esempio, Faramir, che ha Sam e Frodo sotto custodia militare e può benissimo impadronirsi dell’Anello (il Potere Massimo e Assoluto) e servirsene (per raggiungere il bene comune) a proprio piacimento, rappresenta per la seconda volta e in una circostanza critica del libro l’atteggiamento di un autentico liberale.

Faramir, come Gandalf, come Aragorn e come lo stesso Tolkien, diffida del Potere. E tale diffidenza lo conduce attraverso un sentiero etico e morale talmente solido da portarlo ad affermare che non si servirebbe del Potere neanche se ne entrasse in possesso per caso (cioè se lo ottenesse senza sforzo e senza coercizione) o se rappresentasse l’unica possibilità di salvezza e di fare del bene per il proprio regno in rovina.

E, considerando la situazione in cui fa tale affermazione, Faramir non sta solo pronunciando belle parole prive di significato.

In quel momento, mentre le proferisce, ha appena incontrato per caso il Potere Assoluto e, per quanto ne sa, l’Anello rappresenta l’unica possibilità di salvare Gondor dalla rovina causata dalle orde quasi infinite del Signore Oscuro. Ciononostante, non se ne appropria. Pronunciando quelle parole, Faramir le mette in pratica: parla e agisce in accordo con i propri principi di libertà.

Con tale affermazione, Faramir si configura come un gigante liberale. In tale contesto, si dimostra più grande di quanto il più grande guerriero di Gondor, suo fratello Boromir, sia mai stato. Perché la cautela di Faramir è la risposta giusta, non l’ansia di salvare tutto e tutti, costi quel che costi, di Boromir.

Nell’ansia di salvare Gondor, Boromir quasi la distrugge. Mentre, in un momento di cautela liberale – che sembra anticipare i brillanti insegnamenti di Hayek [5] – Faramir la salva.

Dunque, alla fine del libro, tocca al piccolo Frodo Baggins compiere la difficile missione che nessun uomo, per quanto grande e nobile fosse, era stato fino ad allora in grado di portare a termine: lanciare l’Anello tra le fiamme del Monte Fato, spazzando via per sempre il Potere Assoluto dalla Terra di Mezzo. Se neanche il leggendario Dùnedain Isildur ci era riuscito, come può Gandalf affidare una missione così difficile a Frodo? Come può un piccolo uomo riuscire dove anche i più grandi uomini hanno fallito?

Per Tolkien, non vi è di che sorprendersi. Nella sua visione del mondo, la domanda si inverte: come potrebbe l’umile e semplice Frodo non farcela? E, pensandola come Tolkien (o pensandola come un liberale, che è lo stesso), si comprende molto facilmente la scelta di Gandalf.

Mi spiego: mentre Saruman è ossessionato dalle antiche pergamene, dagli affari della Corte di Gondor, dal Regno degli Uomini, dalla grandezza e dalla gloria di Númenor (insomma, dalla storia dei “grandi uomini” di Lord Acton), Gandalf si è sempre interessato agli Hobbit. Interesse estremamente indicativo della visione del mondo del mago.

In uno dei pochi momenti in cui la trilogia The Hobbit di Peter Jackson riesce a captare con profondità la visione del mondo di Tolkien, Gandalf, interrogato da Galadriel sulla ragione per la quale ha scelto proprio un Hobbit per compiere quella missione, afferma:

Saruman ritiene che soltanto un grande potere riesca a tenere il male sotto scacco. Ma non è ciò che ho scoperto io. Ho scoperto che sono le piccole cose… le azioni quotidiane della gente comune che tengono a bada l’oscurità. Semplici atti di gentilezza e amore.

Ed è ciò che Frodo, nella storia, rappresenta per Tolkien. Egli è un medio termine tra l’uomo con common sense di Chesterton e l’introspezione liberale, con un pizzico di rassegnazione stoica. È proprio in virtù del suo essere piccolo, del suo non essere superbo, che riesce a non cedere, per tutto il suo lungo viaggio, alle tentazioni del Potere. È il suo essere piccolo, umile, che lo spinge a distruggerlo, anziché a usarlo. Frodo riconosce i propri limiti umani e, così facendo, riconosce i limiti dell’intera umanità. Pertanto, egli sa che nessuno sarebbe capace di fare un buon uso di un Potere così grande.

Egli non vuole a tutti i costi risolvere tutti i problemi del mondo, è pienamente cosciente del fatto di non conoscere il metodo infallibile per risolvere e correggere tutto – o per cercare di attuare lo stesso piano di sempre, fallendo per la millesima volta (“perché stavolta andrà tutto bene, lo giuro!”). Frodo è Hayek che afferma che il curioso compito dell’economia è insegnarci quanto poco sappiamo riguardo a ciò che crediamo di sapere. Frodo è Tolkien, che sostiene:

My political opinions lean more and more to Anarchy (philosophically understood, meaning abolition of control not whiskered men with bombs) – or to ‘unconstitutional’ Monarchy.  […] Anyway, the proper study of Man is anything but Man; and the most improper job of any man, even saints (who at any rate were at least unwilling to take it on), is bossing other men. Not one in a million is fit for it, and least of all those who seek the opportunity. And at least it is done only to a small group of men who know who their master is. The medievals were only too right in taking “nolo episcopari” as the best reason a man could give to others for making him a bishop. [6].

E, come previsto da Gandalf, questo piccolo uomo riesce laddove tutti prima di lui hanno fallito: porta l’Unico Anello al Monte Fato, a Mordor, e lo distrugge tra le fiamme.

Tutta l’opera letteraria di Tolkien è straordinaria e incredibile, e spero quanto prima di poter scrivere un articolo riguardo a Il Silmarillion. Per il momento, mi piacerebbe reiterare quanto ho affermato all’inizio, con la speranza che questa chiave di lettura politica sia stata utile per tutti i lettori giunti fino alla conclusione di questo articolo.

Il Signore degli Anelli è un’opera grandiosa, dotata di un’intensità e di una ricchezza di dettagli impareggiabili. Ma soprattutto, in diversi momenti, sembra rivolgersi direttamente a noi, sembra dialogare intimamente con noi riguardo a diverse questioni contemporanee. Mi piace pensare che ciò si debba all’essenza profondamente liberale dell’opera, che fa sì che non invecchi mai, conservando sempre la sua innata freschezza e genuinità.

Mi sembra evidente che in Tolkien scorgiamo la soluzione a molti dei nostri problemi. Egli ci insegna a riconoscere i nostri limiti e, in tal modo, a riconoscere i limiti delle altre persone. Egli ci dice che un individuo, anche il più piccolo, è capace di atti di coraggio ed eroismo. E questo individuo non ha bisogno e mai avrà bisogno dell’Anello per salvare se stesso e gli altri dalla rovina – e non deve mai cadere nella tentazione di pensare il contrario. Questa è la lezione che dobbiamo imparare da Tolkien.

____

[1] Il Male, che nel libro viene impersonificato da Sauron, ex-generale di Morgoth, può (e deve) essere inteso, in tale analisi politica, non come qualcosa di astratto, ma come qualcosa di molto concreto. Il Male è tutto ciò che si considera sbagliato, come la miseria, la disuguaglianza, la mancanza di opportunità, l’ingiustizia, le istituzioni imperfette, etc. Il male è tutto ciò che non dovrebbe essere, ma che, purtroppo, è.

[2] TOLKIEN, J. R. R. La Compagnia dell’Anello, Bompiani, p. 135.

[3] TOLKIEN, J. R. R. Le Due Torri, Bompiani, p. 415.

[4] TOLKIEN, J. R. R. Le Due Torri, Bompiani, p. 424/425.

[5] Discorso di Hayek in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel per l’Economia del 1974: “Agire nella convinzione di avere la conoscenza e il potere che ci permettono di modellare i processi della società interamente a nostro piacere, conoscenza che in realtà non possediamo, probabilmente ci porterà ad arrecare molti danni. Nelle scienze fisiche ci possono essere poche obiezioni al tentativo di fare l’impossibile; si potrebbe persino pensare che non si debba scoraggiare il presuntuoso o l’arrogante, perché i suoi esperimenti potrebbero, dopotutto, produrre qualche nuova intuizione. Ma nel campo sociale, la convinzione errata secondo cui esercitare un certo potere avrebbe conseguenze favorevoli, è probabile porti all’affidare a una certa autorità un nuovo potere di coercizione sugli uomini. Anche se tale potere non è in sé cattivo, il suo esercizio è probabile impedisca il funzionamento di quelle forze d’ordine spontaneo da cui, senza capirle, l’uomo è, in effetti, è aiutato tantissimo nel perseguimento dei suoi obiettivi. […] Se l’uomo non deve fare più male che bene nei suoi sforzi per migliorare l’ordine sociale, dovrà imparare che in questo, come in tutti gli altri campi in cui la complessità essenziale di un genere organizzato prevale, non può acquisire la conoscenza completa che permette la padronanza degli eventi. Quindi dovrà usare la conoscenza che può ottenere, non per modellare i risultati come l’artigiano modella i suoi oggetti, ma per coltivare una crescita fornendo l’ambiente adatto, così come fa il giardiniere per le sue piante. C’è un pericolo, nell’esuberante sensazione di sempre maggiore potere che il progresso delle scienze fisiche ha generato e che tenta l’uomo, ‘ubriaco di successo’ per usare una frase caratteristica del primo comunismo, a cercare di soggiogare al controllo della volontà umana non solo il nostro ambiente naturale ma anche quello umano. Il riconoscimento dei limiti insormontabili alla sua conoscenza deve, effettivamente, insegnare allo studioso della società una lezione di umiltà, la quale dovrebbe impedirgli di diventare complice nel fatale tentativo di controllare la società – un tentativo tale da renderlo non solo un tiranno dei suoi compagni, ma il distruttore di una civiltà non progettata da nessun cervello, ma nata dagli sforzi liberi di milioni di individui”.

[6] The Letters of J. R. R. Tolkien; Lettera 52.

L’intervento statale ci rende poveri

Fascismo, Boom Economico, Primo Governo del CentroSinistra “Organico”, conservatorismo statalista. Quattro parole chiave utili per descrivere il percorso economico dell’Italia, dagli anni venti ai giorni recenti. L’Italia fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento era paragonabile ad un neonato che cresceva, che iniziava a fare i primi passi, fino a diventare un adolescente, con tutte i suoi errori e debolezze che sono palesi in quella fase di vita.

Ma poi arrivò qualcuno, chiamato Intervento Statale, che decise di prendersene cura senza che qualcuno gli avesse chiesto qualcosa.
L’intervento Statale è
“l’atteggiamento di uno Stato che, oltre a fissare le regole del mercato, mette in pratica attività o interventi che condizionano l’economia con obiettivi diversi, dall’aiuto alla crescita economica e all’occupazione all’aumento dei salari, dall’aumento o riduzione dei prezzi alla promozione dell’uguaglianza e alla riparazione di quelle che il governo considera falle o inefficienze del mercato”.

Tutto iniziò con il Fascismo. Dopo una brevissima iniziale fase di snellimento della macchina statale, la politica fascista intraprese un progetto di Intervento statale totale. L’obiettivo era quello di creare un macro-azionista, neutrale e al disopra delle parti, che si limitava a investire e a fare in modo che i propri investimenti aziendali avessero lo scopo di creare un’organizzazione armonica tra lavoratori e datori di lavoro. Oltre agli aspetti industriali, l’interventismo statale del fascismo era soprattutto assistenzialismo.

Giusto per fare un breve elenco:
Assicurazione invalidità e vecchiaia; Assicurazione contro la disoccupazione; Assistenza ospedaliera ai poveri; Tutela del lavoro di donne e fanciulli; Opera nazionale maternità ed infanzia; Assistenza illegittimi e abbandonati o esposti; Assistenza obbligatoria contro la Tubercolosi; Esenzione tributaria per le famiglie numerose; Assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali; Opera nazionale orfani di guerra; Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.); Settimana lavorativa di 40 ore; Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (I.N.A.I.L.).

Prima ho fatto l’esempio di un’Italia simile ad un neonato/adolescente, proprio per far capire che si trattava di un Paese, soprattutto dopo la Prima Guerra Mondiale, che era molto debole economicamente. Doveva crescere economicamente e i fascisti ritenevano che questa ricchezza dovesse essere creata dallo Stato per poi essere diffusa fra la popolazione. Ma l’Italia produceva solo debiti e scarsa ricchezza nazionale. Migliorava il benessere degli italiani, ma non rispettava le aspettative dei fascisti. Anzi, in alcune zone del meridione, la povertà continuava a dominare e le misure assistenzialiste “viziavano” i cittadini meridionali.

Dopo il fascismo, nella fase caotica 1943-1947, le casse statali e i cittadini italiani erano al macello, economicamente parlando. La Lira era in uno stato comatoso e i cittadini italiani vegetavano nella povertà più assoluta. Ma in quella straordinaria fase della storia italiana, l’Italia ebbe la fortuna di ritrovarsi nelle mani di un liberale come Luigi Einaudi. Lui era un liberista ossessionato dal risparmio e dal contenimento della spesa pubblica. In quegli anni riuscì a salvare la moneta italiana e a far ripartire l’Italia. Riuscì a far ripartire l’Italia riducendo drasticamente l’interventismo statale.

Lo stesso Boom Economico fu un processo spontaneo favorito dalle politiche pro-risparmio e antistataliste di Luigi Einaudi. Il Boom Economico fu favorito dal fatto che, contenendo le tasse, i cittadini potevano sfruttare al meglio i risparmi del presente per il futuro. Il periodo dal 1947 al 1958 ritengo sia stata l’unica fase antistatalista in Italia. Non sorprende che l’unica politica di interventismo statale di questo periodo, la Cassa del Mezzogiorno, si sia rivelata disastrosa e fallimentare.

Quel Boom Economico portò benessere, tantissimo benessere per gli italiani. L’Italia diventò un paese industriale proprio in quello straordinario periodo. Ma secondo i favorevoli all’interventismo statale, quella ricchezza era caotica e maldistribuita. A detta loro, non andava bene che alcuni  si fossero arricchiti, mentre altri erano ancora poveri. Pertanto, occorreva ridistribuire la ricchezza.

Ed ecco che si giunge al primo governo di centro-sinistra d’inizio anni sessanta, che riportò con forza il culto dell’interventismo statale. La classe dirigente di quella fase politica esprimeva frasi come “Se il popolo ha un problema, lo Stato deve intervenire”, frasi come “se un’azienda privata non può sopravvivere senza profitti, l’azienda pubblica si”. E così si decise di adottare misure come lo “statuto dei lavoratori”, il monopolio ENEL e numerose assunzioni in posti pubblici per garantire un reddito a chi non ha alcuna speranza di essere assunto altrove.

Governando la ricchezza, l’interventismo statale iniziò a diminuire il benessere degli italiani. Dagli anni sessanta, proprio grazie all’interventismo statale, l’Italia iniziò un lento percorso di declino. Governare la ricchezza voleva dire tassarla, ossia gestire i soldi di uno per il bene degli altri. Ma quest’ultimi, all’aumentare del costo della vita, pretendevano sempre di più dallo Stato. Pertanto, più alto il costo della vita, più assistenzialismo, più tasse, più povertà e addio ricchezza.

Questa fase si concluse negli anni ottanta. I favorevoli all’interventismo statale si resero conto di aver esagerato, ma pur di non ammettere i propri errori inaugurarono la politica del conservatorismo statalista. Questa politica consisteva nel tenere ben saldi quei diritti acquisiti che ormai avevano il sapore del privilegio.

L’obiettivo era mantenere i privilegi, anche fino a sfiorare il ridicolo. Mentre le casse statali andavano in tilt, il conservatorismo statalista cercava di fare manovre di salvataggio con tasse di eccezione o tagli “a indovinare”. Ma senza toccare le principali voci della spesa pubblica, i taglietti o le tasse speciali non solo non risolvevano i problemi, ma tendevano anzi ad amplificarli.

Fino a giungere ad oggi, dove la povertà è dominante. Se i redditi stagnano da vent’anni, il costo della vita è cresciuto tantissimo. Come ho già scritto sopra, più alto è il costo della vita, più alto è il desiderio di essere assistiti dallo Stato. Ma questo vuol dire avere più intervento statale, più tasse e più povertà. Il circolo vizioso continua, purtroppo.

Come il “politically correct” ci rende persone peggiori

Se mai è esistita una società attenta a non urtare la sensibilità altrui, è senz’alcun dubbio la nostra. In nome del “politically correct”, grandi crociate sono state portate avanti per trovare e condannare i promotori d’idee ritenute, per un motivo o per l’altro, offensive. Eppure, dopo anni di sforzi, basta un breve giro in rete per rendersi conto del marcio dietro a questa facciata di progresso. Questo perché il “politically correct” non ci rende persone migliori. Anzi, esso contribuisce attivamente a renderci persone peggiori.

La via per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, ed il “politically correct” non fa eccezione. Certamente esistono molte persone che, in buona fede, considerano la cultura politicamente corretta (PC culture) come uno strumento in grado di rendere il mondo un posto più accogliente e gradevole per tutti. Sfortunatamente, non è così che essa si manifesta nella vita quotidiana.

Il “politically correct” si manifesta, innanzitutto, come censura. Se un’idea è politicamente scorretta, cioè offensiva, allora non merita di essere discussa. Se questa offende molte persone, allora non si può consentire ai suoi sostenitori di parlarne, per il bene superiore. I sentimenti della maggioranza, infatti, sono più importanti della libertà di parola della minoranza.

Una simile intransigenza è, in primo luogo, incompatibile con i valori che hanno reso grande l’Occidente. La speculazione ed il dibattito fra tesi opposte sono la base del vero progresso, e non possono essere soggetti a censura. Ma questo non è l’unico problema della “PC culture”. Essa, infatti, è anche inutile e controproducente.

Il “politically correct” è inutile, in quanto non elimina il marcio, ma si limita a nasconderlo. I fanatici e gli zeloti di tutte le bandiere, infatti, non sono scomparsi, si sono solo nascosti. Inoltre, hanno elaborato sofisticate strategie per aggirare gli ostacoli dovuti alla PC culture”. L’esempio più comune è il dog whistle”.

Il dog whistle”, come suggerisce il nome, è un segnale, un messaggio che solo un pubblico ben preciso è in grado di recepire. Per esempio i neonazisti, per non essere riconosciuti come tali, hanno a disposizione una vasta gamma di termini, gesti e simboli. Inseriti in un discorso, solo altri neonazisti coglieranno il vero significato del messaggio, che passerà invece inosservato agli occhi degli altri.

Il “politically correct”, dunque, non è efficace contro i target della sua attività, ma non solo. Esso è controproducente, in quanto contribuisce alla formazione di nuovi fanatici e zeloti. Questo meccanismo è diabolico nella sua estrema semplicità.

I veri bersagli dalla “PC culture”, infatti, sono persone che hanno idee più conservatrici rispetto alla massa, specie in ambito sociale. Ma non sono jihadisti, neonazisti o ultraconservatori. Sono solo persone normali un po’ più all’antica, che non vogliono imporre agli altri le loro idee, ma non vogliono neanche rinunciarvi.

Questo è inaccettabile per i paladini del “politically correct”, per i quali il mondo si divide in progressisti (loro) e non progressisti (tutti gli altri). Ma se non sei un progressista, allora devi essere automaticamente un nazista/omofobo/sessista. Di conseguenza, o rinneghi in toto le tue idee, o diventi un paria.

Quindi è comprensibile, anche se non condivisibile, che molte di queste persone un po’ all’antica finiscano con l’essere attratte, in cerca di sostegno, dall’estremità opposta dello spettro ideologico. Del resto, come detto in precedenza, i fanatici sono diventati abili nel mascherare il loro fanatismo.

Pertanto la gente, nauseata dal “politically correct”, si rivolge verso il politicamente scorretto. Ed utilizzando il politicamente scorretto come esca, i veri estremisti conquistano un pubblico e potenziali nuovi seguaci.

Sfatiamo anche questo mito: il politicamente scorretto non è un baluardo contro le follie della PC culture. Il politicamente scorretto è una conseguenza della “PC culture”, che spesso gente priva di scrupoli usa a proprio vantaggio, per ottenere denaro, fama o sostenitori.

Ma se neanche il politicamente scorretto può fornire una via d’uscita da questo circolo vizioso, che è alimentato dall’intransigenza e dal fanatismo delle persone, e che genera a sua volta fanatici ed intransigenti, allora com’è possibile fermarlo?

Per farlo, bisogna ricorrere allo strumento che tutti gli estremisti temono: il dibattito, e di conseguenza la libertà di parola. Molti pensano che la censura sia un male necessario per difendere la libertà di parola, ma questo è un ossimoro: censurando le parole delle persone, non le cambi nel loro intimo.

Con la censura, le persone razionali continuano ad essere tali, così come i fanatici. Ma con la libertà di parola, e quindi con il dibattito, c’è la possibilità di combattere i nemici della società aperta, mostrando alla gente chi sono veramente.

Certo, se si sceglie la libertà di parola bisogna anche accettare il rischio opposto, cioè che demagoghi senza scrupoli la usino per i loro scopi. Ma questo, purtroppo, è un rischio insito nella democrazia stessa.

Per questo la libertà di parola è così importante: senza un dibattito costante che convinca le persone dell’importanza della libertà, si apre la porta ai fanatici, e quando i fanatici conquistano il potere, solo le pallottole possono toglierglielo.