J. R. R. TOLKIEN E IL LIBERALISMO
Il Signore degli Anelli, di John Ronald Reuel Tolkien, è considerato l’opera fantasy più acclamata del XX secolo, con circa 150 milioni di lettori in tutto il mondo. Nella prefazione, Tolkien, che sentiva la necessità di spiegare in maniera più dettagliata l’obiettivo della sua opera, scrisse che:
Il motivo primo è stato il desiderio di un narratore di provare a cimentarsi in una storia veramente lunga che potesse attirare l’attenzione dei lettori, divertirli, deliziarli e a tratti anche eccitarli o commuoverli.
Per Tolkien, dunque, l’obiettivo principale dell’opera era dilettare e divertire se stesso e, come ogni autore che si rispetti, desiderava che la sua storia fosse divertente da leggere quanto lo era stato per lui scriverla. Diede vita alla Terra di Mezzo solo perché sentiva la necessità di dare un contesto ai propri piacevoli esercizi linguistici – adorava creare nuove lingue, grammatiche, ortografie, etc. – e successivamente si innamorò di questo nuovo mondo, che continuava a crescere in profondità ed estensione.
La Terra di Mezzo di Tolkien è, in fin dei conti, un prodotto eminentemente individuale, specchio del proprio essere. Ed egli prende la felice decisione di condividere una parte di questa sua visione del mondo con i suoi lettori, ossia, con tutti noi: la sua opera riflette tutto ciò che l’autore considera buono, spregevole, gradevole, sgradevole, morale, immorale. Ed è proprio la particolare visione del mondo di Tolkien, satura di profonde e personali impressioni filosofiche, teologiche e politiche, che ha finito per regalarci una delle opere più meravigliose del suo genere. Un’opera repleta del più puro liberalismo e della più sincera difesa dell’individuo!
È possibile analizzare l’opera di Tolkien attraverso diverse “chiavi di lettura”, ma mi atterrò, per ovvie ragioni, alla chiave di lettura politica.
Nella prima opera pubblicata, Tolkien dà i natali a una razza molto particolare: gli Hobbit. Questi sono un riflesso dell’autore stesso, della sua visione del mondo e dell’importanza che egli dava alle cose: l’Hobbit è un piccolo-borghese, avvezzo alla vita nei campi, attaccato alle piccole comodità domestiche (come i 6 pasti quotidiani), che, improvvisamente, viene chiamato ad essere protagonista dei grandi eventi della propria epoca, e non si nega a tale ruolo.
Tolkien era un umile professore universitario che all’improvviso si vide catapultato nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Bilbo era un Hobbit semplice e mite che inaspettatamente si ritrovò alla ricerca dei tesori nascosti nella Montagna Solitaria, che era stata saccheggiata e conquistata dal terribile drago Smaug, responsabile della sottomissione del più grande regno dei Nani dell’epoca.
La storia di Bilbo Baggins, in tal senso, mostra la fede di Tolkien nella capacità dell’individuo – anche del più semplice e pacato, anzi, talvolta proprio del più semplice e pacato – di realizzare grandi sacrifici, di uscire dalla propria comfort zone, di prendere in mano le redini del proprio destino e di essere capace di grandi atti di coraggio ed eroismo in nome di una giusta causa.
Ma Lo Hobbit – mi perdonino i fan più appassionati dell’opera prima di Tolkien – è un semplice assaggio rispetto alla grandezza che ci aspetta ne Il Signore degli Anelli. Ivi veniamo a contatto, grazie alla genialità di Tolkien, con il liberalismo nella sua forma più pura: la diffidenza nei confronti del Potere.
Lord Acton, il celebre storiografo britannico, affermò una volta, giustamente, che:
Il potere tende a corrompere, il potere assoluto corrompe in modo assoluto. I grandi uomini sono quasi sempre malvagi.
Tale visione del mondo rappresenta l’essenza stessa de Il Signore degli Anelli, com’è possibile percepire in diversi momenti dell’opera. Cercherò di raccontarvi gli episodi che considero più rivelatori, giacché, data la vastità dell’opera, la sua densità e la ricchezza di dettagli, non mi sarebbe possibile esaurire l’argomento in un breve articolo.
L’Unico Anello, l’Anello del Potere, rappresenta il fulcro del libro e si configura come la rappresentazione più esplicita del “Potere”, appunto, che può essere assimilato al concetto di “Stato”. Il dialogo tra Boromir e Aragorn ne La Compagnia dell’Anello è, in tal senso, rivelatore. Quando a Gran Burrone Boromir scopre che Gandalf e Frodo possiedono l’Anello, propone, con molta naturalezza, che venga utilizzato per combattere Sauron, ossia, per combattere il Male[1].
Per Boromir, chi è in possesso del “Potere”, ha davanti a sé un immenso ventaglio di opportunità: è possibile usare il Potere per correggere – magari addirittura sconfiggere – il Male. Il Potere Assoluto, chiaramente, potrebbe addirittura annientare il Male Assoluto: potrebbe concederci “il Paradiso in Terra”. Boromir è un costruttivista, crede che sia possibile la disgregazione dello status quo in favore della costruzione di un futuro migliore, ideale, perfetto, dove il Male non esista. Ritiene che sia possibile costruire, in maniera premeditata, il Paradiso in Terra. Come? È sufficiente usare l’Anello, riunire nelle proprie mani il Potere Assoluto con buone intenzioni e l’obiettivo di fare del bene. Boromir è, purtroppo, la rappresentazione della mentalità maggioritaria dei nostri giorni, della fede puerile nella capacità di riscrivere tutto da zero. La convinzione che, con le persone giuste, si possa raggiungere qualsiasi obiettivo.
Aragorn controbatte con fermezza che è da ingenui pensare che l’Anello possa rispondere a qualcuno al di fuori di Sauron – ossia, che il Potere possa rispondere a qualcosa di diverso dal Male. In altre parole, non è possibile fare del bene attraverso il Potere, per quanto buone possano essere le intenzioni di chi lo adopera. Infatti, è evidente come Aragorn non dubiti della purezza e della virtù degli intenti di Boromir, ma semplicemente nutra una profonda diffidenza nella possibilità di usare il Potere per (ri)costruire qualcosa di positivo – e la sua storia familiare, ossia la morte del Dùnedain Isildur ai Campi Iridati, rappresentava per lui il più fulgido ricordo dei risultati di questo tipo di fede.
Tolkien, come il buon liberale che era e in virtù della naturale sfiducia che nutriva nei confronti del Potere, si servì di altri due momenti e di due personaggi totalmente distinti per dimostrare la fallacia e l’ingenuità del raziocinio costruttivista, oltre alla necessità di una fortissima convinzione e di principi ben radicati per resistere alla soluzione più semplice (e catastrofica).
Il primo personaggio è Gandalf.
Quando Frodo, all’inizio de La Compagnia dell’Anello, atterrito dall’immensa responsabilità che rappresentava l’Anello di Bilbo appena ricevuto, decide di offrirlo a Gandalf, il mago, personificazione della prudenza e della saggezza, nonché della coscienza stessa di Tolkien, risponde:
“No!” gridò Gandalf, saltando in piedi […] “Non mi tentare! Non desidero eguagliare l’Oscuro Signore. Se il mio cuore lo desidera, è solo per pietà, pietà per i deboli e bisogno di forza per compiere il bene. Ma non mi tentare! Non oso prenderlo, nemmeno per custodirlo senza adoperarlo”[2].
Per Frodo, Gandalf è un uomo molto più saggio e assennato di quanto egli stesso potrebbe mai sognare di essere, per cui decide, in nome della prudenza, di affidargli l’Anello. E Gandalf, proprio per essere un uomo tanto saggio e assennato, riconosce l’Anello come un oggetto oscuro, degno del più profondo timore, e non osa toccarlo neanche per un solo istante, riconoscendo la tentazione irresistibile che esso rappresenta.
L’Anello (o il Potere) ci si offre come la soluzione più semplice a tutti i nostri intenti, anche ai più puri, lodevoli e irreprensibili, come la pietà verso i deboli, la misericordia e la necessità premente di fare del bene. La risposta dell’Unico Anello ai nostri più profondi desideri è ciò che vi è di più tentatore: “il mondo è una successione infinita di ingiustizie, ma, se mi terrai con te, avrai nelle tue mani tutto il Potere che occorre per correggerle e sanarle. Io ti darò il Potere di aggiustare tutto. Ti basta mettermi al dito”.
La tentazione dell’Anello – o la tentazione del Potere, ai giorni nostri – è in grado di corrompere anche i migliori di noi e nel buio incatenarli. E Gandalf, il liberale, ne era consapevole.
Il secondo personaggio è Faramir, fratello di Boromir.
Frodo e Sam, nel loro viaggio verso il Monte Fato per distruggere l’Anello, lo incontrano insieme ai suoi soldati, di pattuglia nel territorio di Gondor. Il prudente e lungimirante Faramir, prima di eseguire i rigidi ordini del Signore di Gondor (sentenziare a morte qualsiasi individuo si aggirasse per il regno senza autorizzazione), decide di ascoltare ciò che i due piccoli uomini sconosciuti – che successivamente scopre essere “Hobbit” – hanno da dire.
Faramir viene così a sapere che Frodo e Sam fanno parte della Società dell’Anello insieme a suo fratello Boromir e finisce per ricevere la conferma della morte di questi. Frodo e Sam, visibilmente a disagio una volta saputa la parentela di Faramir e Boromir, dal momento che quest’ultimo aveva cercato di convincerli con la forza a consegnargli l’Anello proprio prima di morire in un’imboscata degli Orchi, rimangono sorpresi dalla schiettezza e dalla cautela di Faramir, che sembra “meno ambizioso e orgoglioso, e al tempo stesso più saggio e severo”[3] del fratello:
“Che cosa sia in realtà tale Oggetto, ancora non saprei dire; ma deve trattarsi di qualcosa di assai potente e periglioso. Un’arma crudele forse […] Se questo oggetto poteva procurare vantaggi a un guerriero, comprendo bene come Boromir, fiero e spericolato, sovente avventato, sempre ansioso di vedere la vittoria di Minas Tirith (e con essa la propria gloria), potesse desiderarlo ed esserne attratto. Ahimè, perché partì lui per quella missione? Mio padre e gli anziani avrebbero dovuto scegliere me, ma egli si fece avanti, essendo il maggiore e il più ardito, e non si lasciò distogliere da nessuno”[4].
E, vedendo come gli Hobbit siano ancora molto timorosi e sospettosi, Faramir conclude, in uno dei momenti più profondi e intrisi di significato dell’opera:
Ma non avere più timore! Io non m’impadronirei di codesto oggetto, neppure se lo trovassi lungo la strada, neppure se Minas Tirith stesse cadendo in rovina e io solo potessi salvarla, usando così l’arma dell’Oscuro Signore per il bene della mia città”.
Con queste parole e con questo esempio, Faramir, che ha Sam e Frodo sotto custodia militare e può benissimo impadronirsi dell’Anello (il Potere Massimo e Assoluto) e servirsene (per raggiungere il bene comune) a proprio piacimento, rappresenta per la seconda volta e in una circostanza critica del libro l’atteggiamento di un autentico liberale.
Faramir, come Gandalf, come Aragorn e come lo stesso Tolkien, diffida del Potere. E tale diffidenza lo conduce attraverso un sentiero etico e morale talmente solido da portarlo ad affermare che non si servirebbe del Potere neanche se ne entrasse in possesso per caso (cioè se lo ottenesse senza sforzo e senza coercizione) o se rappresentasse l’unica possibilità di salvezza e di fare del bene per il proprio regno in rovina.
E, considerando la situazione in cui fa tale affermazione, Faramir non sta solo pronunciando belle parole prive di significato.
In quel momento, mentre le proferisce, ha appena incontrato per caso il Potere Assoluto e, per quanto ne sa, l’Anello rappresenta l’unica possibilità di salvare Gondor dalla rovina causata dalle orde quasi infinite del Signore Oscuro. Ciononostante, non se ne appropria. Pronunciando quelle parole, Faramir le mette in pratica: parla e agisce in accordo con i propri principi di libertà.
Con tale affermazione, Faramir si configura come un gigante liberale. In tale contesto, si dimostra più grande di quanto il più grande guerriero di Gondor, suo fratello Boromir, sia mai stato. Perché la cautela di Faramir è la risposta giusta, non l’ansia di salvare tutto e tutti, costi quel che costi, di Boromir.
Nell’ansia di salvare Gondor, Boromir quasi la distrugge. Mentre, in un momento di cautela liberale – che sembra anticipare i brillanti insegnamenti di Hayek [5] – Faramir la salva.
Dunque, alla fine del libro, tocca al piccolo Frodo Baggins compiere la difficile missione che nessun uomo, per quanto grande e nobile fosse, era stato fino ad allora in grado di portare a termine: lanciare l’Anello tra le fiamme del Monte Fato, spazzando via per sempre il Potere Assoluto dalla Terra di Mezzo. Se neanche il leggendario Dùnedain Isildur ci era riuscito, come può Gandalf affidare una missione così difficile a Frodo? Come può un piccolo uomo riuscire dove anche i più grandi uomini hanno fallito?
Per Tolkien, non vi è di che sorprendersi. Nella sua visione del mondo, la domanda si inverte: come potrebbe l’umile e semplice Frodo non farcela? E, pensandola come Tolkien (o pensandola come un liberale, che è lo stesso), si comprende molto facilmente la scelta di Gandalf.
Mi spiego: mentre Saruman è ossessionato dalle antiche pergamene, dagli affari della Corte di Gondor, dal Regno degli Uomini, dalla grandezza e dalla gloria di Númenor (insomma, dalla storia dei “grandi uomini” di Lord Acton), Gandalf si è sempre interessato agli Hobbit. Interesse estremamente indicativo della visione del mondo del mago.
In uno dei pochi momenti in cui la trilogia The Hobbit di Peter Jackson riesce a captare con profondità la visione del mondo di Tolkien, Gandalf, interrogato da Galadriel sulla ragione per la quale ha scelto proprio un Hobbit per compiere quella missione, afferma:
Saruman ritiene che soltanto un grande potere riesca a tenere il male sotto scacco. Ma non è ciò che ho scoperto io. Ho scoperto che sono le piccole cose… le azioni quotidiane della gente comune che tengono a bada l’oscurità. Semplici atti di gentilezza e amore.
Ed è ciò che Frodo, nella storia, rappresenta per Tolkien. Egli è un medio termine tra l’uomo con common sense di Chesterton e l’introspezione liberale, con un pizzico di rassegnazione stoica. È proprio in virtù del suo essere piccolo, del suo non essere superbo, che riesce a non cedere, per tutto il suo lungo viaggio, alle tentazioni del Potere. È il suo essere piccolo, umile, che lo spinge a distruggerlo, anziché a usarlo. Frodo riconosce i propri limiti umani e, così facendo, riconosce i limiti dell’intera umanità. Pertanto, egli sa che nessuno sarebbe capace di fare un buon uso di un Potere così grande.
Egli non vuole a tutti i costi risolvere tutti i problemi del mondo, è pienamente cosciente del fatto di non conoscere il metodo infallibile per risolvere e correggere tutto – o per cercare di attuare lo stesso piano di sempre, fallendo per la millesima volta (“perché stavolta andrà tutto bene, lo giuro!”). Frodo è Hayek che afferma che il curioso compito dell’economia è insegnarci quanto poco sappiamo riguardo a ciò che crediamo di sapere. Frodo è Tolkien, che sostiene:
My political opinions lean more and more to Anarchy (philosophically understood, meaning abolition of control not whiskered men with bombs) – or to ‘unconstitutional’ Monarchy. […] Anyway, the proper study of Man is anything but Man; and the most improper job of any man, even saints (who at any rate were at least unwilling to take it on), is bossing other men. Not one in a million is fit for it, and least of all those who seek the opportunity. And at least it is done only to a small group of men who know who their master is. The medievals were only too right in taking “nolo episcopari” as the best reason a man could give to others for making him a bishop. [6].
E, come previsto da Gandalf, questo piccolo uomo riesce laddove tutti prima di lui hanno fallito: porta l’Unico Anello al Monte Fato, a Mordor, e lo distrugge tra le fiamme.
Tutta l’opera letteraria di Tolkien è straordinaria e incredibile, e spero quanto prima di poter scrivere un articolo riguardo a Il Silmarillion. Per il momento, mi piacerebbe reiterare quanto ho affermato all’inizio, con la speranza che questa chiave di lettura politica sia stata utile per tutti i lettori giunti fino alla conclusione di questo articolo.
Il Signore degli Anelli è un’opera grandiosa, dotata di un’intensità e di una ricchezza di dettagli impareggiabili. Ma soprattutto, in diversi momenti, sembra rivolgersi direttamente a noi, sembra dialogare intimamente con noi riguardo a diverse questioni contemporanee. Mi piace pensare che ciò si debba all’essenza profondamente liberale dell’opera, che fa sì che non invecchi mai, conservando sempre la sua innata freschezza e genuinità.
Mi sembra evidente che in Tolkien scorgiamo la soluzione a molti dei nostri problemi. Egli ci insegna a riconoscere i nostri limiti e, in tal modo, a riconoscere i limiti delle altre persone. Egli ci dice che un individuo, anche il più piccolo, è capace di atti di coraggio ed eroismo. E questo individuo non ha bisogno e mai avrà bisogno dell’Anello per salvare se stesso e gli altri dalla rovina – e non deve mai cadere nella tentazione di pensare il contrario. Questa è la lezione che dobbiamo imparare da Tolkien.
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[1] Il Male, che nel libro viene impersonificato da Sauron, ex-generale di Morgoth, può (e deve) essere inteso, in tale analisi politica, non come qualcosa di astratto, ma come qualcosa di molto concreto. Il Male è tutto ciò che si considera sbagliato, come la miseria, la disuguaglianza, la mancanza di opportunità, l’ingiustizia, le istituzioni imperfette, etc. Il male è tutto ciò che non dovrebbe essere, ma che, purtroppo, è.
[2] TOLKIEN, J. R. R. La Compagnia dell’Anello, Bompiani, p. 135.
[3] TOLKIEN, J. R. R. Le Due Torri, Bompiani, p. 415.
[4] TOLKIEN, J. R. R. Le Due Torri, Bompiani, p. 424/425.
[5] Discorso di Hayek in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel per l’Economia del 1974: “Agire nella convinzione di avere la conoscenza e il potere che ci permettono di modellare i processi della società interamente a nostro piacere, conoscenza che in realtà non possediamo, probabilmente ci porterà ad arrecare molti danni. Nelle scienze fisiche ci possono essere poche obiezioni al tentativo di fare l’impossibile; si potrebbe persino pensare che non si debba scoraggiare il presuntuoso o l’arrogante, perché i suoi esperimenti potrebbero, dopotutto, produrre qualche nuova intuizione. Ma nel campo sociale, la convinzione errata secondo cui esercitare un certo potere avrebbe conseguenze favorevoli, è probabile porti all’affidare a una certa autorità un nuovo potere di coercizione sugli uomini. Anche se tale potere non è in sé cattivo, il suo esercizio è probabile impedisca il funzionamento di quelle forze d’ordine spontaneo da cui, senza capirle, l’uomo è, in effetti, è aiutato tantissimo nel perseguimento dei suoi obiettivi. […] Se l’uomo non deve fare più male che bene nei suoi sforzi per migliorare l’ordine sociale, dovrà imparare che in questo, come in tutti gli altri campi in cui la complessità essenziale di un genere organizzato prevale, non può acquisire la conoscenza completa che permette la padronanza degli eventi. Quindi dovrà usare la conoscenza che può ottenere, non per modellare i risultati come l’artigiano modella i suoi oggetti, ma per coltivare una crescita fornendo l’ambiente adatto, così come fa il giardiniere per le sue piante. C’è un pericolo, nell’esuberante sensazione di sempre maggiore potere che il progresso delle scienze fisiche ha generato e che tenta l’uomo, ‘ubriaco di successo’ per usare una frase caratteristica del primo comunismo, a cercare di soggiogare al controllo della volontà umana non solo il nostro ambiente naturale ma anche quello umano. Il riconoscimento dei limiti insormontabili alla sua conoscenza deve, effettivamente, insegnare allo studioso della società una lezione di umiltà, la quale dovrebbe impedirgli di diventare complice nel fatale tentativo di controllare la società – un tentativo tale da renderlo non solo un tiranno dei suoi compagni, ma il distruttore di una civiltà non progettata da nessun cervello, ma nata dagli sforzi liberi di milioni di individui”.
[6] The Letters of J. R. R. Tolkien; Lettera 52.