L’oscurantismo comunista minaccia le università

Il fatto

La mattina del 27 Novembre, all’Università “La Sapienza” di Roma, una legittima opinione ha dovuto nuovamente combattere contro l’oscurantismo comunista e il rifiuto che gli appartenenti a questa setta, fra le più sanguinarie della storia, hanno verso qualunque opinione non riconosca nel Comunismo il bene assoluto, eterno ed universale. Nell’atrio della facoltà di Lettere sono stati esposti dei pannelli che raccontano la Rivoluzione d’Ottobre dal punto di vista di un movimento studentesco vicino a Comunione e Liberazione, associazione cattolica italiana.

Naturalmente la versione raccontata difende la Russia zarista e cristiana, portando dati a sostegno della tesi per cui la Russia, prima dell’Ottobre, vantasse un’economia in espansione e un principio di progresso che la Rivoluzione bloccò. I baldi giovani comunisti della FGC, allergici alle libere opinioni come io lo sono al polline, davanti ad un’idea diversa dalla loro hanno avuto un attacco di starnuti e lacrimazione. Hanno dunque deciso di salvare dagli sbalzi di salute gli altri che, certamente intolleranti come loro alla libertà di pensiero, ne avrebbero potuto soffrire.

Pertanto, la mattina hanno coperto i pannelli incriminati con la loro “controinformazione”, con la loro “verità”, in un blitz o falsh mob che è stato rivendicato il giorno stesso sulla loro pagina Facebook. Questo non è certamente il primo episodio di questo genere in un’Università, anzi è ormai una prassi consolidata che mina sempre più la libertà di parola e pensiero negli atenei. Chi volesse, in preda a non so quale follia, permettersi di esporre una propria opinione che non citi testualmente il Capitale di Karl Marx in un’Università sa a quale rischio va incontro.

 

Una prassi consolidata

Qualche mese fa il collettivo Link Sapienza ha cacciato dalla stessa facoltà degli studenti che facevano una campagna di sensibilizzazione pro-Vita, costringendoli a sgomberare il loro presidio, regolarmente concesso dal Rettore dell’università. Ma si sa, chi è un banale rettore davanti a dieci gloriosi imbecilli? Qualche anno fa, ennesimo esempio che mi viene in mente, ma che non è che una goccia di un oceano. Alla Federico II di Napoli gli studenti del centro sociale che poi formò Potere al Popolo occuparono una facoltà per impedire a Massimo D’Alema di parlare.

L’Università, per eccellenza luogo di incontro, analisi, dibattito e confronto è evidentemente sotto attacco. La libertà di pensiero e di manifestazione che l’hanno sempre contraddistinta sono in pericolo. Ma da un attacco, naturalmente, ci si deve sempre difendere. E se non se ne ha il potere, si fa appello a chi lo ha affinché lo eserciti.

Per cui chiedo, e se vorrete unirvi a me dirò “chiediamo”, perché mai se un tifoso ripetutamente crea disordini allo stadio, impedendo agli altri di godere di ciò per cui ha pagato, questi viene interdetto dal frequentare quella sede con un Daspo, mentre le associazioni comuniste che ripetutamente violano uno dei principi fondanti non solo dell’Università, ma anche del nostro Stato, rivendicando fra l’altro il tutto ogni volta su Facebook, possono fare il buono e cattivo tempo liberamente senza che vengano presi provvedimenti?

Non vanno neanche scovati o cercati, ogni volta che tappano la bocca a chi esprime un’opinione diversa dalla loro producono un ridondante comunicato in cui spiegano quanto sono stati vigliacchi. Perché alle liste che portano lo squadrismo dentro gli atenei è permesso di candidarsi alle elezioni del Consiglio? Perché nessuna ripercussione sugli studenti che ne fanno parte viene minacciata? Ma soprattutto mi chiedo questo, non sapendo darmene risposta: perché i giovani comunisti hanno una tale riluttanza verso le opinioni che non appartengono al Vangelo secondo Marx?

 

Comunismo e ignoranza dogmatica

Come è possibile che non si riescano a capacitare del fatto che le opinioni diverse sono una ricchezza? Perché, cari comunisti, non riuscite a rispettare chi la pensa diversamente, perché non riuscite a guardare gli altri esprimere le proprie convinzioni per poi, pacificamente ed educatamente, esporre le vostre in antitesi? La vostra ideologia deriva da Marx e quindi da Hegel, per cui il meccanismo della dialettica dovreste averlo presente, ammesso sempre che abbiate la minima idea di ciò di cui parlate. Lasciate le tesi dei giovani di Comunione e Liberazione affisse nella facoltà e chiedete al Rettore di esporre le vostre quando le loro verranno ritirate. In un Paese liberale si fa così. E dal momento che sembrate non volerne rispettare le leggi e i principi, non lamentatevi della repressione delle vostre idee, quando siete i primi a reprimere chi invoca la libertà di opinione.

 

 

Disclaimer

Il giornalista deve cercare di esprimere le proprie opinioni il meno possibile per conservare la propria obiettività, ma mai averne vergogna. E dato che già sento le accuse che mi saranno mosse contro, ossia di simpatizzare per Comunione e Liberazione, di essere contro l’aborto o di amare alla follia D’Alema, la violenza di opinioni che in questi tempi devasta questo Paese mi costringe a fare uno strappo alla regola per mettere le mani avanti e per dimostrare che qualcuno che commenterà non avrà letto fino in fondo, come ormai troppi fanno.

Perciò: non credo che la Russia zarista fosse un esempio di economia ruggente, ma anzi la considero un regime illiberale che andava certamente superato. Ho antipatia verso il movimento di Comunione e Liberazione e sono ateo, per giunta non battezzato. Infine sono per la libertà di scelta in materia di aborto e ho poca simpatia verso Massimo D’Alema. È solo che, cari compagni, ho un terribile ed inguaribile feticismo per la libertà di opinione.

Che liberale sei? Cinque liberali per trovare la tua strada

Il liberalismo ha sicuramente dei valori fondanti, ma non esiste un manifesto del partito liberale e potremmo dire che ogni liberale ha la sua personale ideologia, che poi può essere raggruppata in una delle macroaree che compongono il liberalismo.

In questo articolo parleremo di cinque liberali diversi tra loro, anche in modo radicale, per dare alcuni spunti ai lettori.

Margaret Thatcher: Liberismo conservatore

Margaret Hilda Thatcher, primo ministro inglese dal 1979 al 1990 fu protagonista di una vera e propria rinascita economica del Regno Unito, all’epoca lacerato da sindacati che dettavano legge, lavori inutili per l’economia ma intoccabili e, in generale, da una società ancora ancorata all’economia pre guerra mondiale.

La Thatcher si contraddistinse per la sua giusta caparbietà: Nota è la sua frase “The lady’s not for turning“, non si torna indietro. Infatti nei primi anni le sue politiche, eliminando lavori inutili, crearono disoccupazione che solo dopo qualche anno rientrò nella norma, dimostrando come in effetti il mercato sia stato in grado di regolarsi.

Credeva inoltre fortemente nel principio per cui tutti sono capitalisti: Favorì infatti la vendita delle case popolari a chi ci viveva dentro e la vendita delle azioni delle aziende statali, privatizzate, ai lavoratori.

Durante il suo governo si vide un’ampia crescita del PIL, una riduzione del debito ma soprattutto un calo costante dell’inflazione.

A dispetto del nome dell’ideologia per la sua epoca la Thatcher si rivelò abbastanza progressista: Fu tra i pochi deputati tory a votare la depenalizzazione dell’omosessualità maschile e dell’aborto e, mentre in USA si faceva la guerra alla droga senza quartiere, prese misure per tenere i tossicodipendenti al sicuro dall’HIV, ad esempio fornendo aghi puliti per prevenire gli scambi.

Luigi Einaudi: Ordoliberalismo all’italiana

Luigi Einaudi fu il secondo Presidente della Repubblica Italiana, monarchico e membro del Partito Liberale come il suo predecessore Enrico De Nicola.

Nominato Senatore del Regno nel 1919, supportò per le elezioni dello stesso anno una piattaforma che proponeva il decentramento, la fine del protezionismo e l’europeismo ante litteram, supportò la prima politica economica fascista in risposta ai dazi doganali del governo Giolitti per poi distaccarsene e diventare profondamente antifascista.

Dopo il referendum del 1946 divenne ministro nell’area dell’economia, dove pose le basi per il boom economico degli anni ’50 e ’60.

Einaudi era fortemente contrario ai sussidi, che riteneva svantaggiosi e dannosi per il progresso, e supportava una tassazione proporzionale, a patto che ad essa corrispondessero servizi migliori e infrastrutture più efficienti e non fosse un vuoto sistema per raggiungere una presunta giustizia sociale.

Pim Fortuyn: Liberalismo conservatore

Pim Fortuyn fu un politico olandese, dipinto dai giornali di sinistra come paradosso: Gay ma fortemente anti islamico.

Il paradosso, ovviamente, non c’è da nessuna parte: Pim Fortuyn, barbaramente assassinato da un estremista ambientalista che voleva difendere “le minoranze”, credeva semplicemente che una società islamizzata non potesse garantire alcuna delle libertà a cui egli fortemente teneva come i diritti gay, l’uguaglianza tra i sessi e la libertà di parola.

In economia Fortuyn era fortemente liberista: Amante di Margaret Thatcher sosteneva la deregulation, il laissez faire e il governo minimo, oltre che repubblicano.

Fortuyn fu dunque un conservatore nel senso più nobile della parola: Voleva conservare le libertà dal nemico che voleva abbatterle e che, in Olanda, era più l’islamismo che il comunismo. A molti non piace dirlo ma è ovvio: Una società che ha come costituzione il Corano non può aver nulla a che fare col liberalismo.

Inoltre ebbe una forma di comunicazione populista, aprendo una stagione di liberalismo populista ancor oggi esistente: Il motto della sua lista era “at your service” ed è ben noto un video in cui Fortuyn fa il saluto militare agli elettori ponendosi al loro servizio.

Vaclav Havel: Liberalismo verde

Classificare politicamente Vaclav Havel, ultimo presidente della Cecoslovacchia e primo della Cechia è abbastanza difficile perché ricoprì sempre ruoli più onorifici che pratici. Si potrebbe dire che Havel fu un amante della libertà nel senso più ampio del termine, che sviluppò il suo pensiero politico, forse inconsapevolmente, nel solco dell’ordoliberalismo.

Fu grande avversario sul campo di Vaclav Klaus, suo successore alla presidenza e noto liberista hayekiano: Si oppose principalmente alle privatizzazioni a voucher, col timore che portassero a povertà e magheggi, come accadde ad esempio in Russia.

Punti principali dell’idea di Havel furono l’ambientalismo, tanto da portarlo ad aderire ai Verdi Cechi, partito di centro, dal 2004 alla sua morte (prima supportava l’Alleanza Civica Democratica, partito di centrodestra che candidò per la prima volta Karel Schwarzenberg, altro nome del liberalismo ceco nonché consigliere di Havel) e l’esistenza di una società civile, idea invece fortemente avversata da Klaus.

Havel è ritenuto uno dei più importanti avversari del comunismo nell’Europa orientale e ha goduto del plauso di gran parte del mondo libero e, grazie alla sua propensione al dialogo, ha unito gran parte della società ceca: Dalla destra conservatrice al centrosinistra socialdemocratico passando per il centro cattolico o hussita.

Camillo Benso: Liberalismo classico

Camillo Benso, Conte di Cavour, primo ministro italiano e fautore dell’Unità d’Italia. Benso fu uno dei pochi liberali classici della storia: Sostenitore di un modello italiano semi-federale a livello regionale, sosteneva l’integrazione europea su modello confederale e riteneva il libero mercato la base di tutto e le infrastrutture, da costruire con aiuto pubblico ma da parte di privati, il sistema operativo di esso. Ovviamente si oppose con forza ai dazi, da evitare a tutti i costi a suo parere.

Benso propose dunque un’Italia, purtroppo, mai attuata: Decentrata, liberale ed europea, un modello ancor oggi vincente e, soprattutto, possibile

Stipendio Minimo, ossia come affossare il mercato del lavoro

Breve storia della follia socialista

Negli ultimi 20 anni i movimenti liberal* e progressisti statunitensi hanno chiesto al Congresso, sempre più insistentemente, prima l’approvazione, poi l’aumento, del Minimum Wage, il salario minimo garantito. Nel 2009, sotto la presidenza di Barack Obama è stato stabilito a livello federale un salario minimo garantito di $7,25 all’ora. Nonostante questo provvedimento drastico e discutibile, dal 2009 in poi, sempre più numerosi membri della sinistra americana sostengono che $7,25 non siano sufficienti e che, addirittura, bisognerebbe raddoppiare il Minimum Wage, portandolo a $15,00/h.

La sinistra liberal, i progressisti, e il partito Democratico in primis, credono che questa misura sia efficace e fondamentale per:

  • ridurre la povertà
  • ridistribuire ricchezza
  • garantire la possibilità di vivere dignitosamente anche lavorando full-time a salario minimo
  • creare posti di lavoro
  • aumentare la quantità di denaro circolante (e quindi i consumi)
  • ridurre i programmi di assistenza sociale

 

Questo provvedimento, come tutte le crociate di giustizia sociale, presenta tuttavia dei gravi difetti. Si concentra infatti sui risultati nel breve termine, è un salasso economico per le piccole-medie imprese. Inoltre distorcendo completamente il mercato e le sue leggi, ottiene l’effetto opposto ai propositi di partenza:

  • non riduce la povertà, la accresce
  • non ridistribuisce la ricchezza, la riduce
  • non crea posti di lavoro, crea disoccupati

 

Perché solo 15$/h? Perché non 45$/h?

Per capire l’errore di fondo del Minimum Wage e le sue nefaste conseguenze dobbiamo prima ricordare qual è il significato del salario.

Siamo pagati per i benefici e i miglioramenti che apportiamo alla società in termini materiali o morali. Lo stipendio, in quanto corrispettivo di questo miglioramento, tiene conto della complessità della mansione svolta, del relativo rischio, della sua unicità o peculiarità. È quindi evidente che un lavoratore scarsamente qualificato debba necessariamente avere uno stipendio inferiore rispetto a uno altamente qualificato. Questo non per fare un torto, ma perché la sua specifica mansione potrebbe essere svolta da una qualunque persona con una preparazione minima e senza particolari titoli di studio.

 

L’errore del Minimun Wage

Il Minimum Wage è una radicale distorsione delle necessità di mercato, della legge della domanda e dell’offerta e perfino dell’umano buon senso. Se l’attuale salario minimo di 7,25$/h è un provvedimento discutibile, 15$/h sarebbero un colpo devastante anche per un mercato del lavoro mobile ed elastico come quello statunitense. I più importanti difetti di questa misura sono:

  • aumento radicale del costo del lavoro e della manodopera
  • onere pesantissimo, soprattutto per le piccole-medie imprese
  • obbligo per i datori di lavoro di ridurre le ore di lavoro dei dipendenti per contenere i costi di produzione
  • fine per i giovani delle possibilità di trovare facilmente uno “starting job” ed inserirsi nel mondo del lavoro
  • contrazione della domanda di manodopera e aumento della disoccupazione
  • chiusura di attività produttive perché nell’impossibilità di sostenere l’aumento dei costi di produzione
  • ricorso a macchine per sostituire la manodopera umana ormai troppo cara

 

Per concludere, vorrei ricordare una delle più profonde e significative argomentazione della sinistra americana a favore del Minimun Wage, e cioè che chiunque, lavorando full-time da McDonald’s, dovrebbe essere in grado di condurre una vita dignitosa. Nonostante il lavoratore abbia tutta la mia simpatia, il problema è che, in un mercato del lavoro flessibile ed insaziabile come quello americano, in cui il tasso di disoccupazione ha toccato i minimi storici del 3,5%, non si dovrebbe anche solo lontanamente credere che McDonald’s possa o debba offrire posti di lavoro che permettano di vivere dignitosamente lavorando 40 ore a settimana.

 

 

*con il termine statunitense liberal si indica una corrente politica che in Europa verrebbe definita “socialista”. Il termine liberal non ha alcuna affinità con il Liberismo economico, il Liberalismo classico, o il Libertarismo americano.

 

 

Dall’economia alla cultura: l’evoluzione del Marxismo

Spesso da oltreoceano arrivano neologismi come “marxismo culturale”, tradotti nel nostro Paese con espressioni come “radical chic” o anche “buonisti”.
Ci si riferisce con questi epiteti a personaggi come Roberto Saviano, Laura Boldrini e, più recentemente, Domenico Lucano, il discusso sindaco di Riace.

Un elemento che però non viene mai discusso da questi esponenti culturali/politici è l’economia, stessa cosa per i loro corrispondenti d’oltreoceano: le battaglie che li vedono protagonisti sono quelle sociali, tanto da dare via al fenomeno del “social justice warrior” negli Stati Uniti e in Italia dei “buonisti del politicamente corretto”.

Ma l’espressione “marxismo culturale” è vista come invenzione delle destre populiste per giustificare il loro razzismo, sessismo ed omofobia.
Eppure, i leader socialisti scrivono di questa strategia da decenni ormai.

Per esempio, il il libro scritto dai teorici socialisti Ernesto Laclau e Chantal Mouffe del 1985 intitolato “Egemonia e strategia socialista”,
ispirato dall’articolo da loro scritto nel 1981 con il titolo “strategia socialista, e ora?”. Ma cosa scrissero in questo articolo? Per gli autori la “lotta politica socialista” era entrata in una nuova era:
la tradizionale lotta di classe e l’analisi delle contraddizioni economiche del capitalismo hanno avuto difficoltà ad affermarsi (visti anche gli orrori delle dittature comuniste).
Pertanto, la nozione di lotta di classe doveva essere modificata, includendo gruppi non classificabili in una classe economica.

Il loro desiderio era dunque di incorporare donne, minoranze etniche, omosessuali e movimenti anti-istituzionali in un movimento socialista modificando oppressi ed oppressori: non più proletari oppressi da borghesi ma donne oppresse da uomini, neri oppressi da bianchi, omosessuali oppressi da eterosessuali e così via; perché la società ora non era solo più capitalista, era anche sessista e patriarcale, oltre che razzista ed omofoba.

La sfida per Laclau e Mouffe era riunire tutte queste categorie con obiettivi differenti sotto l’egida del socialismo, sviluppando un’ideologia organica: non è un caso che il socialismo si sia allineato negli ultimi trent’anni al movimento femminista ed in esso si sia sviluppato il concetto di intersezionalità per descrivere la sovrapposizione (o “intersezione”) di diverse identità sociali e le relative possibili particolari discriminazioni, oppressioni o dominazioni.

Il nuovo obiettivo del marxismo diventa dunque, secondo questa nuova ideologia, la soppressione di tutte le relazioni di dominazione e di creare “un’uguaglianza genuina e partecipazione a tutti i livelli della società”.

Ovviamente un’uguaglianza di risultato come nella vecchia teoria socialista di Marx: “da ognuno secondo le proprie capacità, ad ognuno secondo i propri bisogni”.
Il risultato? Il virus del socialismo, implicitamente desiderato da tutte le sinistre, ha contagiato importanti battaglie sociali, snaturandole.

Pur essendo stato sconfessato in tutti i modi dalla storia, il nuovo obiettivo del Marxismo è responsabile delle divisioni in Occidente, creando politiche d’identità che mettono in contrapposizione diversi sessi e diverse razze, frammentando la società. Se vi chiedete da cosa sia scaturita questa divisione così profonda nella società (tanto da dare risalto alle destre populiste), ora avete la risposta.

Il fenomeno del marxismo culturale è quindi tutt’altro che un’invenzione: è una vera e propria strategia di rebranding del socialismo.

Cina e la libertà: una strada senza ritorno

Quando pensiamo alla Cina come Paese, due immagini subito ci vengono in mente: lo stato totalitario e la superpotenza economica. Ed è questa doppia dimensione che continua a sconcertare politici e intellettuali in tutto l’Occidente, abituati a vedere unite libertà e progresso economico. E ad inquietare molti di noi, davanti alla prospettiva di uno Stato ricco e autoritario come mai si è visto prima.

Quando 40 anni fa la Cina decise di aprirsi progressivamente al libero commercio e alla proprietà privata, molti analisti pensarono che fosse solo questione di tempo prima che l’Impero di Mezzo diventasse una democrazia. La repressione operata dopo le rivolte di piazza Tienanmen raffreddò gli animi, ma a lungo restò un ottimismo di fondo. Eppure, con il passare degli anni il controllo del Partito Comunista Cinese (PCC) restò saldissimo e l’entusiasmo si affievolì fino a spegnersi, anche tra i sinologi più esperti.

Cosa pensare dunque? La Cina sembra sfuggire alle nostre categorizzazioni e alle nostre idee preconcette; siamo di fronte a un nuovo modello politico, in grado di coniugare stabilmente autoritarismo politico e libertà economica? Nel mondo accademico molti ne sono oramai convinti; la Cina, dicono, non può essere analizzata con le nostre categorie “occidentali” e deve essere considerata un modello a parte. Si parla delle specificità cinesi, della sua cultura millenaria, per spiegare come mai non segua i comportamenti attesi; e ci si chiede se lo stesso valga per i Paesi arabi e africani. Siamo, insomma, di fronte alla relativizzazione della democrazia e della libertà. Il punto è che tutto questo è completamente errato. Oltre ad essere molto pericoloso.

La visione che in Occidente si ha della Cina è falsata da due pregiudizi: il primo è che in Cina non esista alcuna libertà personale, o comunque che sia molto limitata; il secondo è che il PCC abbia un controllo totale sul Paese. Entrambe queste idee sono infondate.

Partiamo dalla prima: nel 1976, alla morte di Mao, la Cina era uno stato totalitario, dove non esisteva neanche il concetto di libertà individuale o proprietà privata. Oggigiorno, è un Paese con una classe media in forte espansione, dove le persone possono vivere e lavorare in maniera del tutto analoga a quanto facciamo noi; per molti occidentali che vi si trasferiscono, la differenza con gli Stati Uniti o l’Europa è trascurabile. La ragione è che da molti anni a questa parte il Partito Comunista ha rinunciato all’idea di dominare ogni aspetto della vita dei propri cittadini, puntando invece a mantenere un saldo controllo sul potere politico. I cittadini cinesi sanno che non saranno disturbati in alcun modo fintanto che si terranno fuori dall’agone politico, ma che subiranno pesanti conseguenze se dovessero violare questo “patto[1].

Le stesse strategie di repressione si sono evolute e sono diventate molto più raffinate: i dissidenti affrontano esili, incarcerazioni, licenziamenti, ostracismo sociale, con l’obiettivo di isolarli e renderli inoffensivi; ma non sono più fucilati in massa, né vi sono stragi di piazza come nel 1989. Il regime permette e incoraggia anzi un certo livello di confronto sui media e nell’opinione pubblica, fintanto che non si mettono in discussione il sistema stesso o i massimi esponenti del Partito: in questo modo offre una valvola di sfogo ai critici e ottiene una migliore comprensione su dove intervenire nel Paese.

Passiamo ora al secondo punto. Come detto, il PCC ha affrontato una profonda trasformazione negli ultimi 40 anni e ha totalmente cambiato fisionomia, dimostrando la propria flessibilità. Non controlla più direttamente tutto il sistema economico, ma si accontenta di influenzarlo cooptando dirigenti e imprenditori e imponendo membri del partito in punti chiave delle grandi aziende. Il sistema giudiziario è teoricamente indipendente, ma i giudici possono essere rimossi o spostati a piacimento dal regime, che indirizza come vuole le sentenze. I media sono pesantemente censurati, un esteso sistema di sorveglianza fisico e digitale monitora la cittadinanza e tutti i membri del Partito stesso sono a loro volta controllati da un onnipotente organismo chiamato Dipartimento Organizzazione, che ne valuta la fedeltà e dispone ricompense e punizioni.

Agli occhi dell’Occidente, sembra spesso un moloch impossibile da abbattere, un mostro tentacolare capace di controllare e soffocare ogni possibile rivale politico… ma non è così.

Il PCC ha invece diverse grosse difficoltà: la corruzione continua a essere molto alta ed è ormai impossibile fermare la diffusione di notizie sugli scandali; coniugare gli interessi divergenti di industrie e province è sempre più complesso ed è causa di forti dissidi interni; ultimamente, poi, è diventato complesso tenere a bada il nazionalismo dell’opinione pubblica. Ma, soprattutto, il Partito affronta una “crisi di vocazione” senza precedenti: coloro che entrano a farne parte e raggiungono posizioni di vertice provengono da classi sociali elevate, poco rappresentative della popolazione, e hanno scarsa fede nella dottrina socialista; alcuni hanno un generico nazionalismo, altri sono puramente interessati al potere e alla ricchezza che l’adesione al PCC offre.

Sotto il suo aspetto minaccioso, il regime cinese è molto fragile e si tiene in piedi grazie a due fattori: il favore popolare dovuto al continuo progresso economico e la paura – sia della repressione che della libertà. E tutto questo non può durare in eterno. Ad un certo punto vi sarà una crisi economica importante e il regime sarà messo in discussione; o forse crollerà dall’interno, a causa di lotte intestine ormai fuori controllo. Il fatto è che il PCC non può più ignorare le forze economiche e sociali all’interno del Paese, che sono cresciute grazie alla svolta di Deng Xiaoping: la strada verso la libertà è senza ritorno.

[1] Fanno eccezione le comunità religiose, che in molti casi continuano ad essere perseguitate.

Quante bugie sullo sfruttamento dei lavoratori

Si è detto e ridetto di tutto sul tema dello sfruttamento. Ieri come oggi si tende a parlare di numerose tematiche in riferimento al lavoratore sfruttato sul posto di lavoro. In particolare, viene associato il tema sullo sfruttamento alle politiche neoliberiste che sarebbero state attuate dai governanti, in Italia e in Europa. Ne parlò Marx rispetto alle condizioni in cui vivevano i lavoratori durante il boom della rivoluzione industriale, ne parlano oggi i socialisti e i collettivisti quando pensano a certe realtà, come Amazon.

Per il socialista, sfruttamento del lavoratore vuol dire che siamo in un’economia capitalista e liberista. Una sentenza del genere, ritengo sia una sentenza molto illusoria e molto ingenua. Ma andiamo per ordine.

Innanzitutto, in un’economia liberista e capitalista si presuppone che chiunque sia un lavoratore, a prescindere dal suo ruolo all’interno dell’azienda. Il capitalista o l’imprenditore di turno, non solo gestisce l’azienda, non solo è il proprietario dell’azienda, ma è anche un lavoratore. Non solo, ma in un’economia liberista e capitalista, si presuppone che chiunque sia un capitalista. Basti pensare a quante persone, nonostante non abbiano mai gestito un’azienda, si ritrovano in situazioni in cui si comportano come dei capitalisti, vedi Subito.It.

[…] lo sfruttamento quale “essenza” dell’economia borghese è un vuoto assoluto circondato di chiacchere
Sergio Ricossa

Diceva molto bene Sergio Ricossa. Alla sua citazione, aggiungerei, anche di ipocrisia. Nonostante l’Italia sia stata dominata, nel corso della sua storia repubblicana, dal pensiero socialcomunista e cattolico, chi si lamenta dello sfruttamento dei lavoratori in Italia, sono proprio i socialcomunisti e i cattolici.

Lo sfruttamento dei lavoratori è un fenomeno che esiste, ma che esisterebbe in qualsiasi sistema politico. Se non vi convince abbastanza saper che l’Italia non è un paese liberista e capitalista (lo dimostrano gli indici di libertà economica), vi consiglierei di leggere alcuni pensieri politici, prevalenti anche negli ambienti del governo. Mi riferisco al pensiero socialnazionalista, nel quale l’individuo si deve “sottomettere” per il bene della nazione. Più sfruttato di così. Allo stesso tempo, ritengo che sia fisiologico e normale che esistano dei capitalisti sfruttatori.

Quindi, se è un dato di fatto che lo sfruttamento del lavoratore è possibile in qualsiasi sistema politico, è opportuno capire come mai i socialcomunisti non abbiamo mai smesso di denunciare le fantomatiche politiche neo-liberiste. Non si dovrebbe mai fare di tutta l’erba un fascio, ma direi che i politici socialcomunisti siano delle persone pessimiste e diffidenti nei confronti del prossimo. Amano il collettivismo, ma diffidano del comportamento di uno dei membri del collettivo.

Lo sfruttamento dei lavoratori viene considerato un fenomeno figlio dell’iniziativa privata, della voglia di profitto, della voglia di fare imprenditoria, proponendo come soluzione finale, la fine della proprietà privata e l’intervento sempre più decisivo dello Stato sulle dinamiche di mercato. Non possiamo pensare di bloccare un processo naturale di progresso economico per un fenomeno che è sempre esistito e che sempre esisterà. Le politiche di flessibilità del lavoro non sono un apriporte allo sfruttamento del lavoratore. Non possiamo pensare di tutelare un lavoratore, indebolendo il processo decisionale del datore di lavoro.

Individuare il capitalismo e il libero mercato come responsabili dello sfruttamento presente in Italia oppure nel Terzo Mondo è davvero una perdita di tempo, oltreché pura ingenuità. Una volta, un socialista di nome Tinbergen, premio Nobel per l’economia, affermò:

” Una filosofia (quella socialista) fondata sull’invidia non è l’atteggiamento più saggio né più comprensivo da avere nella vita”

Inutile dire che questa frase calzi davvero “a pennello“.

Se il pensiero socialista si fonda soprattutto sull’invidia, il pensiero liberista si fonda sulla competizione, sulla meritocrazia, sul riconoscimento. Essere sfruttati non è obbligatoriamente un fenomeno negativo. Se io vengo sfruttato perché ho dei valori da esprimere, ritengo sia una cosa positiva. Se io lavoratore vengo sfruttato a dovere dal datore di lavoro perché quest’ultimo è convinto che io un potenziale da esprimere, perché dovrei provare invidia, odio per chi crede in me?

Ma chi propugna politiche socialiste non lo capirà mai. Forse, perché non ha mai lavorato in vita sua e non sopporterebbe di essere alle dipendenze di qualcuno, specie per lavorare.

Perché non possiamo (e non dobbiamo) essere “liberal”

Già decenni or sono uno dei padri del pensiero liberale, Friedrich Von Hayekdeprecava il furto del termine “liberal” da parte dei movimenti di sinistra americani. Non c’è da sorprendersi, dunque, se oggi a definirsi “liberal” siano figure come Bernie Sanders, Michael Moore e Alexandria Ocasio-Cortez, le quali nulla hanno da spartire con coloro che credono veramente nella libertà. Al di là della somiglianza fonetica, infatti, il liberalismo americano è quanto di più lontano vi sia dal Liberalismo.

Cominciamo quindi dalla base su cui si fonda tutta l’ideologia liberal, la giustizia socialeLa giustizia sociale è la scusa dietro la quale sono pronti a trincerarsi i socialisti per giustificare le loro misure più scellerate. L’idea di base è giusta: tutti gli individui devono essere messi in condizione di poter realizzare pienamente il proprio potenziale.

I liberali rispondono a questa esigenza con la meritocraziail che significa uguaglianza di opportunità: a chi possiede talento e spirito di sacrificio dev’essere offerta l’opportunità di elevarsi, ma solo l’opportunità. Non si possono e non si devono eliminare le disuguaglianze, dal momento che ogni individuo è diverso dall’altro, ma si può e si deve lavorare per “livellare il piano di gioco”.

La risposta dei liberal, invece, è per l’appunto la giustizia socialeuguaglianza di esiti. Non importa che per natura esistano persone più dotate ed altre meno, tutti devono ottenere gli stessi risultati, anche a costo di abbassare gli standard accademici o lavorativi, tutti devono guadagnare lo stesso stipendio, tutta la società dev’essere omologata.

A causa delle peculiarità della storia americana, poi, la giustizia sociale dei liberal si è tinta di razzismo. Da qui il “white privilege”, l’idea assurda che demonizza i bianchi (peggio se maschi, peggio se eterosessuali), e riduce a vittime le minoranze, rendendo di fatto impossibile qualsiasi vera emancipazione.

Se poi un individuo parte di una minoranza decide di non considerarsi una vittima, e di non aderire all’ideologia liberal, diventa oggetto di disprezzo, se non di odio. Lo sanno bene gli afroamericani che votano per il GOP.

A dispetto di quanto auspicato da Martin Luther King, ed in antitesi con qualsiasi principio liberaleil colore della pelle è tornato ad essere il criterio in base al quale assegnare un valore agli individui, tutto ciò con il plauso dei “Social Justice Warrior” affiliati ai liberal. E l’odio razziale fomentato dai SJW è solo l’inizio.

Il conflitto fra i bianchi e le minoranze, infatti, è secondario nella loro visione del mondo rispetto al conflitto storico, quello fra ricchi e poveri. L’idea marxista della lotta di classe si sta imponendo sempre di più negli ambienti liberal, soprattutto grazie al successo dei Socialisti Democratici.

Anche in America, tuttavia, l’amore per i poveri dei socialisti (cioè dei liberal) è superato dal loro odio per i ricchiQuel che è peggio, gran parte dei media è in mano loro, ed essi usano questo potente mezzo per diffondere le loro idee. Basta dare un’occhiata alla cinematografia degli ultimi anni.

Il cattivo per eccellenza, nei film che vediamo, è l’uomo d’affari, l’imprenditoreQuesta figura viene quasi sempre dipinta come un Gordon Gekko, una specie di sociopatico che rovina le vite della gente comune per il proprio tornaconto.

Anni di propaganda hanno dato i loro frutti. Oggi, proprio nel Paese che ha sconfitto l’Impero del Male, una fetta sempre più vasta della popolazione preferisce l’economia pianificata alla libera impresail marxismo al capitalismo. La cosa peggiore è che si tratta soprattutto di giovani, gli stessi che vanno ad ingrossare i ranghi dei Socialisti Democratici.

In conclusione, il rimprovero di Hayek ai liberali americani è oggi più valido che mai. Questi, permettendo ai socialisti di impadronirsi della propria terminologia, hanno dato loro gli strumenti per influenzare la coscienza popolare senza dare troppo nell’occhio. Potremmo dire infatti che solo recentemente i liberal sono usciti allo scoperto, ma ormai il danno è fatto.

Tuttavia, non è detta l’ultima parola. Se non altro, ora che l’inganno è stato svelato è possibile cominciare a combattere questa confusione ideologica, e forse arriverà il giorno in cui gli americani che credono veramente nella libertà potranno tornare a chiamarsi con il loro nome, liberali“liberal”.

Quando l’Ungheria era comunista

Nel 1945, centinaia di migliaia di Ungheresi entrarono in possesso di terreno coltivabile grazie alla redistribuzione delle terre. Dopo aver subito gli orrori del nazismo, i vecchi e nuovi proprietari confidavano che la propria stabilità economica non fosse più in pericolo. Tuttavia una nuova minaccia incombeva sull’Ungheria: il comunismo.

 

Nonostante la guerra fosse terminata,

i contadini dovevano continuare a pagare dei dazi molto ingenti. La popolazione ungherese doveva provvedere alle spese statali, alle provvigioni delle truppe sovietiche occupanti e alla produzione delle derrate alimentari per l’indennità di guerra. Il prodotto era dunque diviso in tre parti inique: una restava nelle mani del contadino e della sua famiglia, una veniva messa da parte per assicurare il raccolto dell’anno successivo, e la terza doveva essere ceduta ai sovietici.

Contemporaneamente alla presa del potere, i comunisti intrapresero una spietata campagna contro la borghesia Ungherese. Fra il 1948 e il 1953 triplicarono i già ingenti dazi che i contadini erano tenuti a versare. Nel 1952 cambiarono anche l’ordine della distribuzione: prima di tutto i contadini dovevano cedere la quota prevista ai sovietici, per poi mantenere una quota da parte per l’anno successivo. Solo il poco rimanente, ammesso che ce ne fosse, sarebbe rimasto a disposizione dei contadini.

Molto spesso alle famiglie non rimaneva abbastanza di che vivere. Quando alcuni coraggiosi si rifiutavano di pagare, iniziavano le intimidazioni: gli ufficiali esattori arrivavano insieme agli uomini dell’ AVH, la polizia segreta comunista ungherese, che terrorizzava l’intero borgo.

 

Qual era il folle disegno dell’Unione Sovietica?

In preparazione di una terza guerra mondiale, l’Unione Sovietica e i suoi stati satellite, compresa l’Ungheria, dovevano provvedere a enormi investimenti per favorire l’industria pesante. Ragion per cui i burocrati sottraevano ingiustamente ai borghesi gran parte dei loro averi. Inoltre iniziava a sorgere il bisogno di manodopera da sfruttare.

Il Partito non risparmiò alcuno sforzo nel distruggere lo stile di vita tradizionale della campagna e a deportare i lavoratori non in grado di provvedere alle spese imposte. In ogni caso, il sistema comunista non poteva sopportare la sopravvivenza di una comunità economica indipendente. Per protrarre il proprio dominio dittatoriale all’intera nazione, lo Stato-Partito organizzò la sistematica eliminazione della classe di proprietari terrieri Ungheresi, ancora legata ai suoi valori conservatori, ai propri costumi e alle proprie tradizioni.

 

Chi era nel mirino dello Stato-Partito?

Il bersaglio degli attacchi era il “Kulako” secondo il modello Sovietico. Il termine Kulako non ha equivalente nella lingua ungherese. Chiunque non vivesse in condizioni di povertà assoluta, in qualsiasi momento, poteva diventare un Kulako: nemico pubblico e preda dei comunisti.

Gli amministratori stilavano le liste dei Kulaki e i contadini più eminenti e di successo nel villaggio apparivano su di esse. Stava ai funzionari di partito, che puntualmente abusavano del proprio potere, decidere chi punire. I burocrati vessavano continuamente i Kulaki con tasse speciali, quote sempre maggiori, sottratte attraverso torture fisiche e psicologiche.

I comunisti assemblarono delle brigate e le addestrarono a tenere la popolazione sottomessa attraverso punizioni pubbliche, violenze e ispezioni continue. Gli agenti controllavano anche la spazzatura dei contadini, per assicurarsi che non nascondessero nulla allo stato.

I sovietici provarono a spezzare lo spirito delle persone attraverso lavoro forzato, evacuazioni improvvise e confische di proprietà ingiustificate, misero in piedi centinaia di migliaia di accuse false, migliaia di processi, che portavano sempre a prigionia prolungata e spesso ad esecuzioni. Processarono e incarcerarono quattrocentomila civili per “crimini contro la produzione comunitaria”, inoltre perseguitarono innumerevoli vittime senza un motivo giuridico. La resistenza era punita con la morte.

 

Il risultato? Disastroso.

Non è sorprendente che nel negli anni 50′ trecentomila lavoratori abbandonarono la propria terra, fuggendo nell’Europa liberale. I contadini rimasti persero la volontà di continuare a lavorare, dato che creando profitto avrebbero rischiato la propria vita. La situazione portò ad una drammatica scarsità di viveri. Il partito reintrodusse il razionamento del cibo e condannò i “sabotatori”.

 

Sabotatori?

Dato che il sistema socialista attribuiva ogni fallimento al sabotaggio di un nemico sconosciuto, era necessario trovare un capro espiatorio. I comunisti attribuirono la carenza di cibo ad alcuni dirigenti ungheresi di spicco. Furono tutti giustiziati. Vennero introdotti nuovi fantasiosi modi per punire i contadini: il reato di “Sabotaggio della trebbiatura” portava alla pena di morte. I comunisti punivano il macello di animali non autorizzato dall’autorità con imprigionamenti prolungati.

Come se non bastasse, il partito applicò il “Sistema d’Avanguardia dell’Agricoltura Sovietica” in tutta Ungheria: un modello terribilmente inefficiente. I comunisti svilupparono in Ungheria un piano di agricoltura direttamente orchestrato dal partito. I privati contadini erano costretti a coltivare secondo le direttive dei gerarchi, spesso controproducenti e inattuabili. Un tentativo notoriamente goffo fu la produzione forzata di cotone e riso, allora virtualmente non coltivabili in Ungheria.

Alla fine ogni resistenza della borghesia fu spezzata, e le ultime fattorie private vennero sottratte e collettivizzate.

 

La giustizia Ungherese, su modello Sovietico,

si liberò della presunzione di innocenza garantita dallo stato liberale, con il risultato che i carnefici potevano utilizzare accuse false contro le vittime. Le confessioni ottenute sotto tortura erano sufficienti. Le testimonianze parlano di pestaggi che spesso portavano alla morte. Era usanza colpire la vittima con un randello, per rompere denti e costole, per poi costringerlo a ingerire fino ad un chilogrammo di sale grosso. Non stava all’accusatore provare la colpevolezza dell’accusato, ma l’imputato doveva provare la propria innocenza, cosa ovviamente resa impossibile dalle circostanze.

La legge non proteggeva il cittadino, era anzi un’arma dello stato per colpirlo. Dieci anni dopo la fine della guerra, i comunisti continuavano ad uccidere e a rendere un inferno la vita di chiunque avesse a che fare con loro.

 

Socialismo significa schiavitù.
-Lord Acton

Giornalismo: il cane da guardia del potere

Siamo tutti cresciuti con la dicotomia destra e sinistra. L’estrema destra fascista contro l’estrema sinistra comunista. Che tu ti muova verso destra o verso sinistra sulla scala politica il punto di arrivo è lo stesso: uno stato enorme.
Non è un caso che la lotta politica rappresentata dai mainstream media interessi due entità che non mettono in dubbio l’istituzione statale ma bensì la rafforzano.
La lotta politica attuale è uno specchietto per le allodole. Lo stato ha usato il giornalismo (e l’istruzione) per far uscire di scena l’unico attore che ne minava l’esistenza: il liberalismo (e gli ha pure rubato il nome).

COME HA FATTO?

Prima dell’avvento delle tecnologie di informazione e comunicazione (ICT), l’offerta sul mercato dell’informazione era molto limitata. Ciò permetteva di tenere i prezzi relativamente alti.
Per leggere le ultime news su un quotidiano dovevi spendere 1500 lire. Per riceverle dalla tv o dalla radio pagavi le tasse. Gli introiti erano abbastanza non solo per retribuire i giornalisti ma anche per fare dell’informazione un business redditizio.

Perchè l’offerta era limitata? Perchè l’informazione è potere. Controllare il popolo senza limitare l’informazione è impossibile.
Lo stato ha sempre sfruttato i canali di informazione pubblici e anche quelli privati (attraverso scambi di favori con le lobby) per fare propaganda.

Essendo proprietario delle infrastrutture tecnologiche che ne permettono il funzionamento, ha sempre eretto e controllato le barriere all’entrata del mercato.
Ha sempre filtrato e bloccato le iniziative private scomode.

Tutti questi canali di informazione offrivano un, limitato e oculatamente selezionato, spettro di opinioni e punti di vista.

Il giornalismo non è mai stato il garante della democrazia bensì il cane da guardia del potere.

L’INFORMAZIONE OGGI

Le cose sono cambiate. Internet ha distrutto le barriere all’entrata, chiunque può creare un canale di informazione senza dover passare dai “custodi della verità”.
E’ arrivata la concorrenza e si è riaperto il mercato delle opinioni.
L’aumento di offerta sul mercato dell’informazione ne ha fatto crollare il prezzo costringendo i vecchi attori al quasi-fallimento.
Quasi, non perchè si siano svegliati ma perchè sono stati salvati dai politici prima che potessero tirare l’ultimo respiro.
Non potevano fare diversamente: lasciare morire il proprio cavallo voleva dire perdere la gara.

Oggi il mercato dell’informazione è spietato e ha margini minimi. In questo ambiente estremo, i mainstream media stanno provando diverse strategie di sopravvivenza:

  1. Essere alla mercè delle forze politiche.
    I politici gestiscono i miliardi delle tasse dei cittadini. Sono ben felici di aiutare i media che ne facilitano la carriera.
  2. Polarizzare il panorama ideologico.
    Possiamo anche definirla “Hooliganizzazione”. Un ultras che va sempre allo stadio, compra il pay per view in tv e ha pure le mutande coi colori della squadra fa incassare molti più soldi rispetto a un tifoso occasionale o moderato. L’ultras ama alla follia la propria squadra e odia quella nemica. Stessa cosa vale per le fazioni politiche. Più i media riescono a creare “ultras” irrazionali più incassano.
  3. Click bait professionale.
    Non solo titoli accattivanti per spingere gli utenti a cliccare in modo da ottenere ritorni pubblicitari, ma articoli sensazionalisti studiati per creare fobie, manie, ossessioni.
    Un cambiamento climatico catastrofico e imminente che crea ambientalisti fanatici e suscita forti emozioni fa incassare di più di un cambiamento climatico incerto.
  4. Fake news e hate speech. Questi ultimi due sono l’arma definitiva partorita dalla simbiosi tra mainstream media e politica per riprendere il controllo della narrativa dominante. Meritano un articolo a sè che verrà pubblicato prossimamente.

 

 

Privatizzazioni e monopoli: a sbagliare è sempre lo Stato

Nazionalizziamo!1!!111!

Il tragico avvenimento del crollo del ponte Morandi a Genova si è purtroppo trasformato nel pretesto ideale per la boriosa massa degli statalisti feroci per chiedere a gran voce la nazionalizzazione delle autostrade italiane.

Il presunto fallimento del gestore privato è dunque la riprova definitiva del fallimento del liberismo, del regime di concorrenza perfetta, delle privatizzazioni. Il mercato ha fallito e lo Stato deve tornare ad essere proprietario e gestore delle infrastrutture nazionali (cosa che detta dai fautori del NO categorico ad ogni investimento per le grandi opere fa già abbastanza ridere).

Inoltre, è di questi giorni la notizia che il Regno Unito, dopo le privatizzazioni “selvagge” operate dal governo Thatcher, sta riconsiderando la nazionalizzazione del sistema ferroviario britannico. Non è forse questa la prova definitiva del fallimento del privato? Non è forse questo il segno definitivo della necessità dell’intervento dello Stato nella gestione delle infrastrutture (prima) e dell’economia (dopo)?

Beh, no.

Il principale errore dello statalista (o del socialista/comunista) medio è credere questo: gli infami Liberali sono per la privatizzazione indiscriminata a prescindere. Tutto questo nel nome del guadagno indiscriminato, senza alcuna preoccupazione per le conseguenze che il povero cittadino dovrà subire (i.e. il crollo di un ponte). Se potessero infatti privatizzerebbero anche l’aria.

Niente di più sbagliato.

Cosa dice il Liberalismo classico

Ogni Liberale classico crede che lo Stato debba avere un ruolo minimo nell’economia. Deve infatti garantire che le infrastrutture fondamentali per lo sviluppo del tessuto economico nazionale siano costruite. Poi lo Stato deve delegarne la gestione a più privati (come non è stato fatto in Italia). Tutto questo all’interno di un regime di concorrenza perfetta (come non è successo in Italia) per garantire la possibilità di scelta e il miglior servizio possibile al cittadino (certamente non in Italia).

Basta guardare la concessione firmata nel 2007 dal governo Prodi, che ha dato ad Autostrade per l’Italia la gestione delle infrastrutture nazionali, per capire che di tutto si è trattato, tranne che di libero mercato. Il regime creato è stato un monopolio a gestore unico, senza concorrenza. La revisione del contratto è praticamente impossibile. Insomma, è stata l’ennesima porcata all’italiana che ha visto il trionfo di un capitalismo marcio di Stato, cosa che susciterebbe giustamente la più assoluta indignazione di ogni Liberale.

Per spostarci all’estero, andando a guardare all’iter di privatizzazione delle ferrovie britanniche negli anni ’80, si può riscontrare un fenomeno analogo. Si è privatizzato, ma non si è liberalizzato.

Ora, lo sciacallaggio di governo ha approfittato di questa tremenda tragedia per lanciare una proposta dal sapore di IRI 2.0 (tra l’altro proprio l’IRI costruì il ponte Morandi nel ’67). La risposta al fallimento del concordato Stato – industriali (che ripetiamo non ha niente a che vedere con un regime di libero mercato) non sta nel nazionalizzare. Riuscite ad immaginare l’intera rete autostradale nazionale gestita dall’ANAS come la Salerno-Reggio Calabria? Trent’anni di cantieri? Continui ritardi? Disagi inimmaginabili? Miliardi di euro dei contribuenti sacrificati sull’altare dell’inefficienza pubblica? Ma manco per sogno.

Liberalizzare per il bene del cittadino

La soluzione è unica ed evidente, ma questo paese la rifiuta categoricamente sin dall’era giolittiana. Deve finalmente cessare lo sporco connubio tra Stato e industria. Privatizzando un settore dell’economia senza liberalizzarlo si finisce semplicemente per passare dal monopolio statale a quello privato. Solo un regime di perfetta concorrenza, con lo Stato relegato alla giusta dimensione di arbitro, può garantire uno sviluppo efficiente delle infrastrutture nazionali. Vogliamo un sistema efficiente e che funzioni, al servizio del cittadino. Non vogliamo che il contribuente venga sfruttato come finanziatore né dello spreco statale né di accordi secretati e monopolistici.

 

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