I socialisti del sesso: gli Incel

Una lotta di classe da combattere, una casta privilegiata da abbattere, dei mezzi di (ri)produzione da ridistribuire. No, non si tratta dei socialisti stavolta, bensì di una loro incarnazione più moderna, più vicina quindi ai grandi problemi della vita nell’Occidente di oggi: gli Incel.

Molti senz’altro troveranno eccessivo, o addirittura offensivo, accostare Marx, “Il Capitale” e l’Internazionale ai misogini più odiati del web. Tuttavia, se si considerano le idee dietro alla rabbia degli Incel, i punti di contatto con il socialismo appaiono evidenti.

La visione del mondo degli Incel, come quella dei socialisti, si basa sulla constatazione che, al mondo, non vi è una vera uguaglianza fra gli individui. Mentre i secondi però si focalizzano sull’aspetto economico (c’è chi è ricco e chi non lo è), i primi si concentrano sulle relazioni sociali e affettive (c’è chi ha successo con le donne e chi no).

Entrambi, quindi, concepiscono la società come il campo di battaglia di una lotta di classe fra una casta privilegiata (per i socialisti sono i capitalisti, per gli Incel sono i “Chad”, persone che hanno successo galante) ed un gruppo socialmente subordinato (i proletari nel primo caso, gli Incel stessi nel secondo).

In un’ottica marxista, gli Incel considerano le donne come semplici mezzi di (ri)produzione, di cui i Chad possiedono il monopolio. Per raggiungere una vera uguaglianza, questo monopolio dev’essere spezzato, con la coercizione se necessario.

Relativamente a questo punto, come già per i socialisti, è possibile distinguere due scuole di pensiero all’interno del mondo Incel, una di “destra” ed una di “sinistra”, entrambe unite dall’odio e dal disprezzo per l’Occidente moderno.

Secondo gli Incel di “destra”, le loro sofferenze sono dovute al declino morale dell’Occidente, che ha abbandonato l’ordine naturale e la famiglia tradizionale in favore della promiscuità (emancipazione femminile).

Essi quindi propongono, per risollevare le sorti della società, di adottare la soluzione già implementata con così tanto successo dai Talebani in Afghanistan. Considerando le 72 vergini che allietano il loro paradiso, le ragioni dietro alla simpatia di questi Incel per l’Islam radicale diventano assai più chiare.

Secondo gli Incel di “sinistra”, invece, quello ad una vita sessuale attiva è un diritto umano, esattamente come quello al lavoro o all’assistenza sanitaria. Di conseguenza lo Stato, che deve assicurare tutti questi diritti, deve fornire una “partner di cittadinanza” a tutti gli uomini che ne hanno bisogno.

Solo uno Stato freddo e senza cuore, ragionano, uno Stato asservito al mondo della finanza ed al neoliberismo potrebbe ignorare il diritto dei suoi cittadini ad un coito regolare.

Studiare il pensiero degli Incel è interessante in quanto esso presenta, esasperate ai limiti del ridicolo, le stesse fallacie logiche dell’ideologia socialista. Viene quindi da chiedersi: se il rigetto delle loro idee è così immediato per la stragrande maggioranza delle persone, perché lo stesso non vale per le idee socialiste?

Tutti, di sicuro, sono d’accordo che non ha senso odiare qualcuno solo perché nato con un viso attraente. Molti, invece, sono d’accordo che nascere nell’agiatezza sia un valido motivo di disprezzo.

Se quel qualcuno, grazie alla propria bellezza, riuscisse a conquistare una donna attraente, non dovrebbe essere poi costretto a condividere la propria partner con i meno fortunati, su questo non c’è dubbio. D’altro canto, molti sono convinti che le persone di successo debbano essere costrette a condividere i loro beni, con la violenza se necessario.

Tutti riconoscono che uno Stato che interviene nella vita sessuale dei suoi cittadini, anche se allo scopo di eliminare le disuguaglianze, sia una minaccia per la libertà. Eppure, molti vogliono uno Stato che segua i suoi cittadini dalla culla alla tomba, uno Stato che abbia il potere di soddisfare tutti i loro bisogni, ma anche di controllare le loro vite.

Quindi, seppur misogini e ben poco affabili, possiamo ringraziare gli Incel per questo: semplicemente esistendo, essi mostrano il vero volto del socialismo, spogliato di tutte le belle immagini (uguaglianza, solidarietà, progresso) con le quali generazioni di politicanti hanno cercato di renderlo più attraente per le masse.

Chernobyl e l’incalcolabile prezzo delle menzogne

Se prima temevo il prezzo della verità, ora io mi chiedo solamente: qual è il prezzo delle menzogne?
– Valery Legasov

L’ultima produzione di HBO, ampiamente acclamata dalla critica[1] e dal pubblico, è la serie Chernobyl. In 5 tesissimi episodi, la serie televisiva espone tutti i dettagli e i retroscena della famosa tragedia nucleare sovietica in maniera ineditamente cruda, feroce, viscerale.

Chernobyl riesce a esplorare tutta la carica drammatica di un nemico implacabile e invisibile: le radiazioni. Questo fantasma prende vita dai resti dell’esploso reattore 4 della Centrale Nucleare Vladimir I. Lenin, la famosa Centrale di Chernobyl, rendendo la storia di tutti i personaggi un vero supplizio. Tutti sono consapevoli di essere già stati condannati a morte – alcuni moriranno nel giro di giorni, altri in qualche mese, altri ancora in pochi anni.

Non si può scappare dalle radiazioni. Il fisico nucleare Legasov afferma a un certo punto che the atom is a humbling thing (traducibile con “l’atomo è qualcosa che ci rende più umili”), appena per sentirsi ribattere dal ministro Shcherbina it’s not humbling, it’s humiliating (parafrasando, non ci rende più umili, ci umilia). Nel contesto della serie, entrambi hanno ragione: i personaggi, tutti, senza esclusioni, si sentono tanto umili quanto umiliati di fronte all’ineluttabilità della catastrofe che li circonda. Il tocco finale è la colonna sonora, interamente registrata proprio all’interno di alcune centrali nucleari, che è capace di mantenere il telespettatore in un’estasi di suspense soffocante.

Come dicevo, Chernobyl vanta numerosi meriti cinematografici e i produttori hanno avuto la singolare capacità di far sì che il pubblico riuscisse a vivere l’ampia gamma di emozioni e angustie che le vittime della cittadina sovietica di Pripyat provarono all’epoca del disastro. Ma la serie va ben oltre: se molte volte rimaniamo soffocati di fronte al peso dell’ecatombe nucleare che si sviluppa davanti ai nostri occhi, non possiamo non rimanere asfissiati in maniera analoga di fronte al peso della devastazione sociale sovietica che fa da background alle tragedie narrate. Ed è quest’ultimo la causa del primo, concetto che è bene che risulti chiaro a tutti fin dal principio.

Mi spiego meglio: il catastrofico incidente nucleare di Chernobyl, responsabile della devastazione di una ricchissima regione, tale da renderla simile ai peggiori scenari dei film post-apocalittici[2], non è la vera – o, comunque, non l’unica – tragedia raccontata dalla serie.

Il vero flagello della serie è umano, troppo umano, ed è responsabile delle terribili conseguenze che destano l’orrore del pubblico durante 5 interi episodi. Chernobyl ci offre alcuni dei migliori insight circa le conseguenze della tirannia e della menzogna.

Jordan Peterson afferma che “in a true tyranny, everyone lies about everything all the time. And that’s why it’s hell”. 

La tragedia affonda ivi le proprie radici, nella persistente e completa negazione della realtà. In un regime totalitario regna il più assoluto dei relativismi. Non esiste ciò che è giusto e ciò che è sbagliato: esiste solamente la cieca obbedienza. Obbedire è essere liberi, se mi permettete di parafrasare le parole di George Orwell. Per tale motivo, tutti mentono su tutto. Tutti hanno bisogno di mentire su tutto per tutto il tempo.

E questa negazione della realtà, nel 1986, è una bomba a orologeria pronta a esplodere.

Il fatto che l’incidente in questione sia avvenuto proprio in una centrale nucleare intitolata a Vladimir I. Lenin è una di quelle tristi ironie della storia umana che non passa inosservata a uno sguardo attento. Il sistema delle centrali nucleari era, all’epoca, il grande orgoglio sovietico. L’Unione Sovietica possedeva un numero di centrali maggiore rispetto a qualsiasi altro Paese e la complessa rete di energia nucleare rappresentava la perfezione del socialismo, della pianificazione centralizzata, dei piani quinquennali di Stalin e del sistema istituzionale votato a obbedienza, gerarchia e ordine. Era una prova del fatto che il socialismo era in grado di raggiungere anche il più avanzato livello tecnologico: era sufficiente obbligare le persone a perseguirlo.

L’esplosione del reattore 4 seppellisce questa favola lungamente decantata. Dopo la catastrofe, il mondo intero nota che “il re è nudo” (e lo è sempre stato), anche i più alti esponenti del Partito Comunista Sovietico. Lo stesso Gorbachev, nelle sue memorie, sostiene espressamente che l’incidente è stato il grande responsabile della caduta dell’URSS.

Nella serie, egli afferma “our power comes from the perception of our power”, ossia che il reale potere dell’Unione Sovietica deriva dalla percezione che si ha di tale potere. È possibile sostituire il regime sovietico con qualsiasi regime collettivista, o, più semplicemente, con qualsiasi regime che, in maggiore o minor misura, preferisce appiattire l’individuo, trasformandolo in un mero ingranaggio del sistema. Laddove gli individui sono dei semplici mezzi, e non dei fini, le tragedie sono sempre all’orizzonte.

Continuando l’analisi, l’URSS si autosostenta grazie al potere delle apparenze, della percezione, della menzogna. Sfortunatamente per i sovietici, la Verità è già di per sé un potere, un potere in grado di annichilare le apparenze.

La Verità, così come la radioattività – che lascia il pubblico senza fiato in ogni singolo minuto della serie –, è ineluttabile, trascendentale, e può essere mortale. E Chernobyl è stata in grado d’intrecciare simbolo e tragedia numerose volte nei 5 episodi. Il pubblico si sente soffocato, sì, perché le radiazioni rappresentano una minaccia troppo grande alla vita di tutti i personaggi, ma si sente anche, talvolta incoscientemente, asfissiato dal peso incontestabile della Verità, della realtà che s’impone con la forza anche con chi si rifiuta di vederla e affrontarla.

Risulta chiaro fin dall’inizio che l’incidente della centrale nucleare è il risultato di una serie di menzogne in crescendo, che finiscono per sommergere tutta la delicata attività dell’impianto in un mare d’ignoranza e decisioni irresponsabili e imprudenti. Non poteva esservi un altro finale possibile in un contesto del genere.

Gli operatori addetti alla sala di controllo mentono a loro stessi, accettando l’autorità abusiva e insignificante di Anatoly Dyatlov, per paura del potere che questi detiene all’interno del regime. I superiori di Dyatlov, a loro volta, hanno mentito più e più volte nel programma dei test della centrale, disobbedendo a tutti i protocolli e alle linee guida delle operazioni di controllo di sicurezza: il reattore 4 era stato inaugurato anni prima dell’incidente e i responsabili della centrale erano stati insigniti con tutti gli onori sovietici possibili in una cerimonia che altro non era che una pantomima, dal momento che l’ultimo test di sicurezza previsto, requisito essenziale per garantire il corretto funzionamento del reattore, non era mai stato eseguito. Tutta la ricerca e la progettazione delle centrali nucleari dell’Unione Sovietica era una grande farsa, in cui era stato possibile occultare e distruggere pagine e pagine di ricerca scientifica i cui risultati potevano risultare scomodi per il regime.

E lo stesso processo atto a individuare i colpevoli di questo disastro finisce con l’essere anch’esso una farsa,  una vera e propria montatura, che acquisisce un senso solo per gli individui coinvolti, parte integrante di un sistema schiavo della menzogna, delle apparenze, della forma e della liturgia insensata.

Se non ti piace o ti risulta scomoda la Verità contenuta nella conclusione di una ricerca scientifica in ambito fisico-nucleare, non vi è nulla di più semplice che distruggerla ed esiliare il ricercatore. È in questo modo che i sovietici affrontavano la Verità. Pensavano che fosse il metodo più facile. Ma aveva ragione Ayn Rand, quando diceva che “puoi anche ignorare la realtà, ma non puoi ignorare le conseguenze della realtà”.

Distruggere tutti i registri dei centri di ricerca nucleare in cui si fa riferimento al fatto che i reattori RMBK non sarebbero sicuri, non li rende sicuri, ma semplicemente ostacola la ricerca di metodi e protocolli atti a incrementarne la sicurezza e a ridurre rischi operazionali potenzialmente letali. Quei reattori non erano dotati di un sistema di spegnimento d’emergenza che fosse realmente efficace. E, seppur consci di ciò, gli scienziati responsabili portarono comunque avanti il progetto. Il risultato di questo climax di menzogne non poteva essere diverso da quello che poi avvenne: il reattore 4 esplose durante un test di sicurezza, creando un immenso Nuclear Wasteland.

Chernobyl è la prova che l’uomo, in fin dei conti, può scegliere se aggrapparsi alla menzogna o alla Verità, ma la sua scelta avrà necessariamente un costo, delle conseguenze. È impossibile fuggire dalle conseguenze.

Ignorare la tragedia – o mentire su di essa – è una scelta. Purtroppo però la realtà ti divorerà comunque, che tu la riconosca oppure no.

L’altra opzione è accettare la realtà, e, in tal caso, l’uomo è portato al sacrificio finale. Il sacrificio è il pesante fardello che portiamo e, se siamo in grado di sopportarlo, se lo portiamo con coscienza, possiamo affrontare a testa alta le dure conseguenze della realtà. Perseverare nella menzogna non solo coltiva tragedie, ma ci priva anche della capacità di affrontarle quando queste accadono davanti ai nostri occhi.

Questo è uno dei punti forti della serie.

Chernobyl dimostra che l’unica forma di salvarsi e salvare il prossimo è accettare la realtà. Legasov e Shcherbina interrompono il ciclo di menzogne e sono i primi ad accettare come un fatto il verificarsi dell’esplosione. Tutti gli altri personaggi prima di loro non fanno che ripetere l’insana domanda “ma come può un reattore RBMK esplodere?”, come se la supposta impossibilità teorica – o la ripetizione delle proprie convinzioni – possa essere capace di cambiare la realtà. Dyatlov non ammetteva l’esplosione del reattore, neanche dopo i reiterati rapporti dei suoi sottoposti, che entravano nella sala di comando vomitando, col viso ustionato, la pelle che si disfaceva sotto i loro occhi, la disperazione stampata sul volto. “State avendo delle allucinazioni”, concludeva Dyatlov.

Legasov, al contrario, accetta la realtà dell’esplosione del reattore fin dall’inizio. A partire da lì, con il fortunato aiuto del ministro Shcherbina, decide di sacrificarsi per impedire la trasformazione di mezza Europa in un deserto nucleare, con la consequenziale morte di decine o centinaia di milioni di persone. Il sacrificio può essere compiuto solo dopo essere entrati effettivamente in comunione con la Verità – o con la realtà. Ed è pertanto possibile solo una volta interrotto il ciclo di (auto)inganni, dopo aver percepito che non sono gli altri ad avere le allucinazioni.

In un determinato momento della serie, l’incisivo Shcherbina dice a Legasov: “Hai già lavorato in miniera? Ti do un consiglio: di’ la verità. Questi uomini lavorano nell’oscurità. Vedono tutto”.

Gli unici qualificati per cercare di stabilizzare l’azione potenzialmente distruttiva del nucleo – che potrebbe causare un’esplosione termoelettrica in grado di far saltare in aria gli altri 3 reattori di Chernobyl – sono i minatori, incaricati di scavare un tunnel sotto il reattore per consentirne il raffreddamento prima che il nucleo incandescente sciolga le strutture circostanti raggiungendo le cisterne d’acqua. I minatori sono anche uomini che vivono nell’oscurità e che non sopportano le menzogne; si importano della vita dei propri compagni e ricercano la verità in ogni parola. Proprio per questo, sono uomini che non accettano le menzogne ufficiali delle autorità statali.

I minatori possono anche obbedire agli ordini del governo sovietico – cosa che effettivamente fanno, votandosi volontariamente al sacrificio finale –, ma solamente dopo aver saputo esattamente cosa stanno affrontando. Difatti, sono disposti a morire pur di non vendere la propria coscienza ai burocrati sovietici, nel caso in cui non mostrino loro i fatti così come stavano. Fatto sta che i minatori impediscono che la menzogna penetri nelle loro coscienze.

A causa dell’attività del nucleo di uranio, il calore durante gli scavi aumenta tanto che questi sono costretti a lavorare nudi per poterlo sopportare. Ciò non sminuisce la loro dignità, bensì la mette ancor più in evidenza agli occhi degli altri. I minatori non si vergognano di essere nudi di fronte alle autorità e al resto del mondo. In realtà, simbolicamente, i minatori sono sempre stati nudi, ancora prima di togliersi i vestiti.

La serie termina con Legasov che, in una delle più profonde conclusioni di una serie TV, sentenzia: “i nostri segreti e le nostre menzogne sono praticamente ciò che ci definisce. Quando la verità offende, noi mentiamo, ancora e ancora, fino a dimenticarci della sua esistenza… ma la verità continua a esistere. Ogni menzogna che raccontiamo genera un debito con la verità. E prima o poi questo debito va pagato.”

“Quando la verità offende, noi mentiamo”. Nonostante ciò, Chernobyl e Ayn Rand ci provano che mentire è impossibile, perché il debito (per Chernobyl) e le conseguenze (per la Rand) dovranno inevitabilmente essere pagati.

La menzogna altro non è che un modo per ritardare un’esazione inevitabile da parte della realtà, il più puntuale dei creditori.

Ogni domanda scomoda che scegliamo di non fare per quieto vivere, ogni volta che accettiamo a capo chino le più evidenti distorsioni della realtà, ogni verità che ci offende, è semplicemente un indebitamento crescente nei confronti della realtà. Sempre Peterson ci insegna che “dire la verità è trarre all’Essere la più accettabile delle realtà. La verità costruisce edifici che possono rimanere in piedi per migliaia di anni. La verità alimenta e veste i poveri, e rende le nazioni ricche e sicure. […] La verità è la più grande e inesauribile risorsa naturale. È la luce nell’oscurità. […] In Paradiso, tutti dicono la verità. È questo che lo rende il Paradiso”.

Chernobyl ci fa pensare alla nostra civiltà, che accetta sempre più che vengano corrotte le proprie istituzioni, il proprio linguaggio e i propri valori fondanti, tra cui il più grande di essi, la libertà. Ci mostra che si cede sempre maggior spazio, codardamente e convenientemente, al politicamente corretto, alle reiterate farse ideologiche e allo stretto prisma marxista per l’interpretazione della complessa e ricchissima realtà sociale. Chernobyl ci dimostra come la nostra civiltà, una volta basata nella Verità e nella ragione, sia stata ora ricostruita sulle fragili basi della menzogna e del relativismo. Ci costringe a guardarci allo specchio, e ciò che vediamo non ci piace.

In una delle ultime scene, la telecamera riprende un dipinto sulla parete di una vecchia scuola della cittadina di Pripyat, in cui è rappresentata una donna con un bambino in braccio. La parete risulta scollata e la bocca della donna, distrutta.

La serie si chiude così, con un’eloquente allerta sui costi del silenzio e della nostra distruttiva passività. La radioattività, la centrale nucleare, l’esplosione, Pripyat. Nulla avviene per caso, niente è fortuito. La Verità è il più puntuale e severo dei creditori e, a questo ritmo, il sacrificio può finire con l’essere la nostra unica via d’uscita possibile.

Il registro ufficiale russo dichiara ancora oggi che vi furono solamente 31 vittime nell’incidente di Chernobyl.

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[1] Chernobyl ha ottenuto il voto 9.6 sul sito IMDb, il che la rende la serie TV meglio valutata della storia, superando anche serie di alto livello come Breaking Bad e Game of Thrones.

[2] Secondo le stime, quell’immensa regione rimarrà inospitale per i prossimi 24.000 anni.

 

Liechtenstein, uno Stato liberale retto da un monarca miniarchico

Lassù, sul giovane Reno, sporge dalle alture alpine il Liechtenstein. Queste sono le prime parole dell’inno di uno dei Paesi più particolari del mondo, il Liechtenstein.

Frutto della necessità della famiglia austriaca Von Liechtenstein di avere un territorio sotto il governo diretto dell’Imperatore per partecipare alla Dieta, solo nel 1938, dopo più di 200 anni, i principi del Liechtenstein vanno a viverci.

Da una prima occhiata, pare uno Stato poco interessante per un progetto liberale: monarchia costituzionale con un forte potere del Principe regnante che può nominare giudici, sciogliere il governo e porre veto su ogni legge. Inoltre è uno Stato fortemente cattolico: la fede cattolica è ufficiale e, ad esempio, l’aborto è vietato quasi in ogni caso.

Basta tuttavia un’analisi più approfondita per convincersi dell’utilità di analizzare il caso del Principato del Liechtenstein: è uno dei Paesi con il PIL pro capite più alto al mondo; la pressione fiscale è di poco superiore al 15% e c’è un forte uso della democrazia diretta. Ma, soprattutto, c’è uno Stato leggero che lascia ai propri cittadini un’enorme libertà di scelta. Libertà solo nella propria scelta economica ma anche su questioni che in Italia sarebbero impensabili, come rovesciare la monarchia, cambiare regnante o secedere.

Abituati culturalmente a considerare la monarchia come un retaggio del passato che vuole conservare l’antichità, potremmo immaginare che il popolo del Liechtenstein abbia conquistato queste libertà in una costante lotta contro un tradizionalismo monarchico.

Ma il vero catalizzatore di queste riforme, alle volte così estreme da venir rigettate dal popolo, è stato il Principe del Liechtenstein Giovanni Adamo II. Questo, incaricato dal padre negli anni ’70 di riordinare il patrimonio di famiglia, si convinse di come per uno Stato fosse necessaria un’ampia decentralizzazione, la possibilità di cambiare Stato o di fondarne uno nuovo per le comunità locali. Ciò visto anche come incentivo allo Stato a rimanere concorrenziale e utile e, in generale, invertendo il paradigma che quindi vede lo Stato al servizio del cittadino.

Il Principe si dimostra essere fermamente contrario al protezionismo, che considera come una misura che rallenta il progresso e favorisce la povertà, ed anche al proibizionismo sulle droghe, a supporto della lotta alla malavita. Ha sottolineato come l’inventore della guerra alla droga sarebbe un buon candidato ad un ipotetico premio Nobel per la stupidità. In questo, comunque, il popolo non l’ha seguito e le droghe sono tuttora illegali nel Principato.

Pur avendo ampi poteri, non ne ha mai abusato e non ha mai usato il suo diritto di veto. Il padre lo usò solo una volta, per porre veto su una legge sulle riserve di caccia; il figlio, reggente, l’ha minacciato due volte: sull’aborto e sul potere di veto stesso.

Nel 2003, Giovanni Adamo vince un referendum che permette alla Costituzione da lui emendata di entrare in vigore e inserire questi principi nel suo Stato. Ma già da prima si impegnò per essi: nel 1993, poco dopo l’ingresso del Liechtenstein nelle Nazioni Unite, fece all’Assemblea Generale un discorso difendendo il diritto di autodeterminazione e chiedendone una reale applicazione e garanzia a livello internazionale. Gli Stati nazionali, ovviamente, hanno rigettato la proposta.

Ma l’obiettivo del principe era ben più libertario: avrebbe voluto stabilire persino il diritto di secedere dallo Stato per il singolo individuo. A impedirlo è stata semplicemente l’impossibilità di coniugare tale norma con il diritto internazionale, che difficilmente prevede la fattispecie di Stati-individuo.

Nel 2009 viene pubblicato il suo volume “Lo Stato nel Terzo Millennio” in cui, dopo un’attenta analisi storica, ipotizza un nuovo modello di Stato applicabile sia a grandi Stati come l’Italia sia agli Stati piccoli come il Principato. Un modello basato sullo Stato come impresa pacifica al servizio dell’umanità e dei propri cittadini, che decentri fortemente spese e amministrazioni e garantendo i diritti fondamentali delegando le infrastrutture alle autonomie ed ai comuni.

È chiaro come il successo del Liechtenstein sia dovuto anche al non aver dovuto affrontare spese militari e diplomatiche, essendo il tutto demandato alla vicina Confederazione Svizzera. Ma se gli Stati europei agissero in tal modo, riducendo il peso dello Stato nella vita dei cittadini, riconoscendo il loro diritto di scegliere nel libero mercato e riconoscendo decentramento e autodeterminazione delegando la difesa ad un’entità unica (magari lasciando il diritto di essere armati ai cittadini) non sarebbe già un inizio?

Riformiamo il sistema detentivo guardando a San Marino

La vicina Repubblica di San Marino è uno Stato all’avanguardia in materia di sistema penale.

Sarà per contingenza, dato che l’unico carcere della Repubblica ha sei celle, sarà perché è noto che gli Stati piccoli curano di più gli individui che ci vivono rispetto a quelli grossi, che tendono a punirli e basta.

Cosa possiamo imparare dalla piccola Repubblica del Titano?

Riforma della giustizia

Ha poco senso parlare di riforma del sistema detentivo finché il codice penale italiano resta quello fascista, che come scopo aveva quello di instillare nei cittadini il Sacro Timor di Stato.

Dobbiamo abolire i reati senza vittima, iniziare un ampio piano di legalizzazione della droga e introdurre, come già accade in altri Stati, l’azione penale facoltativa, la giustizia bagatellare e i danni punitivi, che vanno ad escludere l’azione penale creando, però, l’effetto deterrente.

In tal modo si alleggerirà di netto il sistema penale e carcerario: Non vi verranno immessi spacciatori e taccheggiatori, affidati alla giustizia bagatellare, né piccoli criminali, che potrebbero cavarsela con un danno punitivo pagato alla vittima.

Niente cautele

In Italia si fa ampio uso della custodia cautelare, col risultato che chi viene assolto dovrà essere risarcito, a spese dei contribuenti  e non del giudice. Se, intanto, l’ingiustamente detenuto è membro di qualche categoria “cattiva”, come ad esempio un imprenditore maschio e donnaiolo, non si può escludere che il giudice che l’ha mandato in galera sia stato mandato in Parlamento.

A San Marino le misure cautelari sono scarsamente utilizzate. Oltre a far pagare ai giudici le spese per l’ingiusta detenzione l’Italia dovrebbe adottare altre misure cautelari come il divieto di avvicinamento ad una persona specifica o ad un luogo ed, eventualmente, il concetto di cauzione.

Misure alternative

Ma la vera vittoria della Serenissima Repubblica sta nella riabilitazione: Invece di rinchiudere chi sbaglia, come se fosse un’onta da nascondere, esiste una commissione nazionale che si occupa di riabilitazione ed ogni condannato ha un tutor che deve reinserirlo, consigliandolo come un amico, nella società e nel mondo del lavoro.

Se indubbiamente alcune persone, come mafiosi e assassini gravi, è meglio tenerle chiuse e separate, almeno temporaneamente, dalla società è innegabile che tanti reati oggi puniti col carcere potrebbero essere  gestiti in modo migliore per tutti tramite un sistema di riparazione, compensazione e, per lievi reati dovuti alla povertà, al reinserimento nel mondo del lavoro, con una cesura minima tra l’individuo che ha sbagliato e la società, riducendo anche il rischio di reiterazione.

Milton Friedman e la (sua) Flat Tax

Era il 1956 quando la mente brillante di Milton Friedman (1912-2006) elaborò l’idea della Flat Tax. Sono passati 63 anni ed oggi la sua proposta politica è diventata oggetto di numerose discussioni in tutte le economie mondiali, seppur con qualche imprecisione. Imprecisioni sia da parte di chi la sostiene, specie in Italia, che da parte di chi non la sostiene.

Questo è un indizio di come già in quell’epoca Friedman prevedeva le pecche, i difetti, i limiti del sistema statalista. In quel tempo, l’Europa era nel pieno del boom economico e l’interventismo statale era considerato un bene, ma lo stesso economista statunitense rilevava quei problemi che oggi sono ormai evidenti, in Italia e nella stessa Europa.

Come tutti sanno, la proposta della Flat Tax è uno dei cavalli di battaglia del partito Lega Nord. Lo stesso Matteo Salvini, oggi viceministro del consiglio, ha inserito la proposta di Friedman come il pilastro portante per assicurare una Pace Fiscale ai cittadini.

A tal proposito, nella proposta leghista si riscontrano alcune piccole ma significative differenze rispetto all’idea originaria. Pertanto, ritengo opportuno parlare della Flat Tax, raccontando semplicemente come lo stesso Friedman se lo immaginava.

Come punto di partenza, non possiamo non parlare della moneta e del suo rapporto con la persona. Per l’economista statunitense, la moneta è un “bene di lusso”. Pertanto, la considerazione di essa cambia a seconda del reddito della persona. Se la persona possiede un basso reddito, la moneta è molto veloce, dinamica. Basti pensare al fatto che il basso stipendio di una persona finisce molto rapidamente tra spese primarie o secondarie. Quando il reddito tende a salire, la moneta inizia ad avere una polifunzione. Non solo sarà utilizzata con lo scopo di soddisfare le spese primarie e secondarie, ma permette anche di fare investimenti oppure di organizzare la moneta in risparmi.

Ebbene, la Flat Tax ha lo scopo primario di permettere alle persone di costruirsi i propri risparmi e investimenti. Non solo, ma se la riforma fiscale venisse fatta con i sani criteri previsti dall’economista, sarebbe una vera e propria svolta per la società italiana. Oggi, la moneta vive un momento non felice. Se prima abbiamo sostenuto che la moneta, per una persona con basso reddito, è veloce e dinamica, nel caso di chi ha un reddito più alto, la situazione diventa preoccupante. Oggi abbiamo un fisco invadente che contribuisce a mortificare le persone da qualsiasi tentativo di risparmio o di investimento. Lo stesso regime progressivo lo dimostra, in quanto chi possiede un reddito maggiore deve pagare un’aliquota più alta, quasi come se fosse un reato guadagnare di più.

Come già accennato in precedenza, la Lega Nord è favorevole alla Flat Tax e già dalla campagna elettorale per le elezioni del 4 marzo proponeva un’aliquota fissa per le imposte sui redditi delle persone fisiche e delle imprese compresa tra il 15% e il 23%. Ma le intenzioni o gli obiettivi non sono gli stessi. Infatti, non prevale l’intenzione di far respirare le tasche dei cittadini, bensì quella di semplificare il rapporto cittadino-fisco e di diminuire l’evasione fiscale. Della serie “dietro una proposta liberista, si nasconde la stessa logica socialstatalista”.

La Flat Tax non deve essere un diversivo per arricchire diversamente le casse dello Stato. Altrimenti qui rischiamo di andare verso il principio “pagare tutti le tasse per pagare meno”. La Flat Tax deve avere come unico scopo quello di alleggerire gli italiani. Alleggerire per permettere loro dei consumi migliori, dei risparmi certi e degli investimenti stimolanti.

Sul semplificare possiamo, invece, andare tutti d’accordo. Oggi il sistema fiscale in italiano è sempre più garbugliato, confusionario, ma ha la straordinaria dote di costringere l’imprenditore o il libero professionista a chiudere la partita IVA o a trasferirsi altrove. Il lavoratore sente meno questo problema, perché oggi abbiamo la figura del sostituto d’imposta, ossia è il datore di lavoro ad occuparsi delle tasse del suo dipendente. Il Sostituto d’Imposta è la più grande genialità mai realizzata dai socialisti, poiché il lavoratore dipendente non avrà la piena consapevolezza di quanti soldi versa allo Stato ogni mese.

Secondo l’idea di Friedman, l’unica forma di progressività attraverso la creazione di una Flat Tax è attraverso una no tax area e con conseguente eliminazione della politica degli sgravi fiscali. In parallelo, lo stesso economista statunitense ha parlato di Tassazione Negativa di Reddito, specie per coloro che possiedono un reddito al di sotto di una certa soglia.
Altro dettaglio fondamentale, oggi trascurato da chi sostiene la Flat Tax, è che questa riforma può funzionare solo in un regime di bassa spesa pubblica. Da non trascurare se consideriamo che la spesa pubblica in Italia è giunta ad un livello molto più che preoccupante.

Prima di concludere ecco alcune significative affermazioni di Milton Friedman sul tema della Flat Tax

“[…] ciò costituirebbe una difesa contro l’aumento dell’aliquota. Adesso ogni volta che c’è un aumento di aliquota lo si giustifica dicendo che va a colpire qualcun altro. Non si tassa mai sé stessi ma il proprio vicino. In questo modo si nasconde il fatto che alla fine vengono tassati tutti. Con l’aliquota unica, con un’unica percentuale, pagata da tutti ad esclusione di quelli che hanno un reddito inferiore al minimo, sarà molto più difficile ottenere il sostegno popolare per un aumento di aliquota”

“Flat Tax non sostituisce le altre imposte? Certo, non ho mai sostenuto che l’imposta ad aliquota unica potrà, ad esempio negli Stati Uniti, sostituire altre tasse quali l’imposta sulla proprietà. Dubito che vi sarà il sostegno politico alla proposta di sostituire l’imposta sugli alcolici, sul tabacco, sulla benzina. Queste imposte sono di natura diversa fra loro. La tassa sulla benzina, per esempio, è una forma di finanziamento da parte degli utenti per la manutenzione delle autostrade.
Si tratta, se così si può dire, di una tassa per un servizio più che di una comune imposta.”

Perché Greta Thunberg non salverà l’ambiente (ma il capitalismo sì)

La società negli ultimi duecento anni attraverso l’industrializzazione ha raggiunto livelli di comfort inauditi. Abbiamo sconfitto i grandi morbi dei secoli scorsi come mortalità infantile, poliomielite, meningite, malaria e fame. In cambio abbiamo ottenuto ricchezza, cibo a volontà e mezzi per spostarci in ogni parte del mondo.

Tutto ciò però ci è costato tanto. A causa dell’enorme crescita industriale, le emissioni di gas serra sono aumentate vertiginosamente provocando un aumento delle temperature. 

Media della temperatura globale

Per questo milioni di persone sono scese in piazza a Roma insieme a Greta Thunberg – giovane attivista svedese per il surriscaldamento globale – a ricordarci ancora una volta perché siamo spacciati e come moriremo tutti se non agiamo con azioni drastiche subito. (Ovviamente non riportando nessun dato scientifico a sostegno della sua tesi).

Secondo Greta il futuro dell’umanità è stato venduto perché poche persone possano fare soldi. L’unico modo per fermare il declino dell’ambiente e porre fine alla distruzione del mondo, che – secondo l’attivista – avverrà intorno al 2030, è quello di ridurre le emissioni del CO2 del 50%.

La giovane attivista propone di agire attraverso azioni concrete, politiche innovative, e soprattutto un nuovo modello di sviluppo. Ma c’è un problema: quali?

Quale sarebbe la magica panacea in grado di favorire lo sviluppo economico e nello stesso tempo salvaguardare l’ambiente?

Purtroppo è comune a tutti gli attivisti raccontare una realtà drammatica e catastrofica distorcendo la società attuale. Saranno sempre pronti a concentrare la nostra attenzione con storie eccitanti e distopiche.

Ma il cambiamento climatico è un problema serio, e come tale va affrontato in maniera razionale e scientifica. Bisogna prendere un bel respiro, analizzare i dati  e stare attenti a non intraprendere azioni drastiche. Gli allarmismi da parte di ragazzini di tutto il mondo non portano a nessuna azione concreta da intraprendere. 

In poche parole per risolvere questo enorme problema bisogna guardare in faccia la realtà.

Cerchiamo di fare il punto

La popolazione mondiale è composta da oltre sette miliardi di individui, dei quali un miliardo e mezzo circa, vivono in paesi sviluppati e hanno a disposizione cibo, acqua e cure a volontà (come gli Americani e gli Europei). I restanti cinque miliardi e mezzo, invece, vivono in paesi in via di sviluppo, cioè in condizioni di vita medio/basse (Cinesi o Indiani).

Ora c’è un problema: non possiamo fermare l’innovazione, non per cattiveria e malvagità ma perché semplicemente non si può pragmaticamente fare. Come si nega a sette miliardi di individui di fermare completamente il processo di industrializzazione per tornare ai livelli di iniquità del pleistocene? È oggettivamente impossibile.

Non si può, come propongono Greta e i suoi compagni d’avventura, dimezzare le emissione di CO2 o di altri gas serra per un semplice motivo: l’economia e la società attuale crollerebbe.

La soluzione quindi deve essere un’altra, anzi esiste già: il liberismo e il sistema economico capitalista.

Sembra un’antitesi affermare che il sistema industriale, la causa dei principali fattori di riscaldamento globale, dovrebbe essere lo stesso che ci permetta di risolvere il problema. Ma è cosi. (Prima di chiudere la pagina e tornare alla vostra home di Facebook, per favore continuate a leggere).

Emissioni di CO2 in paesi sviluppati (sinistra) e in paesi in via di sviluppo (destra)

Questi due grafici rappresentano le emissioni di CO2, il principale gas serra, emessi, nel primo, dai paesi sviluppati, mentre nel secondo, da paesi in via di sviluppo.

Grazie ai grafici possiamo sviluppare due asserzioni interessanti:

  1. È evidente come le emissioni dei “greenhouse gas” crescono esponenzialmente nei paesi in via di sviluppo mentre nei paesi sviluppati, dopo una crescita, diminuiscono.
  2. In generale si nota come nella prima fase dello sviluppo economico i paesi, a causa di macchinari e mezzi più vecchi, causano un enorme emissione di gas serra, per poi diminuire nel secondo periodo, nel quale i vari paesi riescono ad ottenere mezzi più efficienti che permettono un migliore uso delle risorse energetiche.

Infatti fra il 2007 e il 2017 le emissioni di CO2 sono diminuite dell’11% in USA e UE e aumentate del 29% in Asia e del 24% in Africa.* [2] E lo stesso sta avvenendo per tutti gli altri gas serra.

Emissioni di CO2 totale in paesi in via di sviluppo (developing Nation) e paesi sviluppati (developed Nation).
Si nota chiaramente come le emissioni nei paesi sviluppati stanno diminuendo.

Questo avviene poiché rispetto alle nazioni in via di sviluppo, i paesi più ricchi adottano sistemi sempre meno inquinanti grazie allo sviluppo capitalistico. 

In poche parole, il capitalismo, la nascita di nuove aziende e innovazioni, salveranno l’ambiente, Greta con la sua retorica apocalittica del “ora o mai più” no. (Anzi, rischia di far solo danni).

Certo, non dobbiamo aspettare le rimodernamenti industriali per salvare il pianeta, occorre nel frattempo assumersi le proprie responsabilità e agire consapevolmente cercando di avere uno stile di vita rispettoso nel confronti del clima e dell’ambiente.

Ma, a differenza di quanto Greta e gli altri attivisti vogliano farci credere, l’umanità non è spacciata, il riscaldamento globale non è un fenomeno irreversibile, bensì risolvibile (se affrontato cautamente con raziocinio), ma soprattutto ci ricorda ancora una volta come il capitalismo possa essere la valida soluzione anche a problemi così complessi.

Note

[1]  https://data.worldbank.org/indicator/en.atm.co2e.kt?end=2014&start=1960&view=chart

[2] https://wattsupwiththat.com/2018/07/03/bp-data-analysis-global-co2-emissions-1965-2017/

[3] https://wattsupwiththat.com/2018/07/03/bp-data-analysis-global-co2-emissions-1965-2017/

* Per il dato numero [2] il merito di averlo divulgato va a Costantino de Blasi su un suo post di Facebook (https://www.facebook.com/Sktrrbrain?epa=SEARCH_BOX)

Oscar Giannino: quando l’opinione diventa una colpa.

“Leggete e dite: che senso ha? Sono io da condannare? Diffamo chi in Rai lavora se dico che è lottizzata? Ma stiamo scherzando? No, è l’amara realtà. Che per me oggi ha un impatto grave, molto grave.” Queste, le parole scritte, nel post di Facebook del 10 Aprile, da Oscar Giannino.

Probabilmente lo avrete già sentito. Nel 2013 si presentò alle elezioni come capo di “Fare per fermare il declino”, una piccola lista composta soprattuto da importanti economisti di orientamento liberale.

Durante la campagna però, si scoprì che la laurea che Giannino sosteneva di aver conseguito all’università di Chicago risultò falsa e lo rivelò, causando un grande scandalo in tutto il paese.

Oggi però è emerso un nuovo scandalo che coinvolge Oscar Giannino.

In realtà l’episodio risale al febbraio del 2008, quando il giornalista scrisse un articolo nella testata giornalistica “Libero Mercato”- di cui era direttore – nel quale descrisse un documento riservato della Rai.

Nell’articolo in questione Giannino fece notare come “di 900 nomi di dirigenti tra società e controllate, oltre 900 si presentavano rossi o blu a seconda del padrinaggio politico, e solo meno di 1 su 3 era verde cioè non politicizzato.”

Naturalmente lo scopo dell’articolo era di dimostrare come all’interno della Rai si scegliesse guardando ai partiti e alla politica, a scapito della valenza e capacità dell’individuo, ergo: occorrerebbe che l’azienda fosse privatizzata.

In tutto ciò, però, – dettaglio importante- nessun nome dei 900 fu divulgato nell’articolo.

La pubblicazione tendeva semplicemente a criticare il sistema di criteri e giudizi con il quale venivano scelti i dipendenti. Non c’era nessuno scopo diffamatorio.

Ebbene, il 4 marzo 2019, dopo più di dieci anni dalla diffusione dell’articolo, Oscar Giannino, per effetto della decisione del giudice civile favorevole alla richiesta avanzata da numerosi dirigenti RAI, viene condannato a ben 144 342 euro di pignoramento. 

L’articolo citato pubblicato da Oscar nel 2008. Trovate le immagini nel post Facebook del giornalista.

No, non è un errore. Solamente per avere espresso la propria opinione riguardo la politicizzazione della RAI, Oscar si ritroverà a pagare ben -lo scrivo in lettere per confermare – centoquarantaquattromila euro.

Tutto ciò per confermare un labile presentimento che ormai in Italia si avverte da decenni. La libertà di parola si, ma sino ad un certo punto. Che vale intraprendere la carriera di giornalista, scrittore, divulgatore o politico se poi certi temi non si possono toccare poiché tenuti sotto controllo dalla politica?

La falsa libertà in Italia ha sempre fatto da padrone. Dal fascismo ad oggi si può criticare tutto purché non si tocchino certi tasti, che di certo, comodo non fanno.

A differenza dell’epoca di Mussolini, oggi però non ce ne rendiamo conto, rischiando di trovar soppressa da un giorno all’altro la nostra libertà d’opinione e d’espressione.

Notizie del genere non possono passare inosservate. Ci si ritrova davanti un giornalista, che pur con i suoi errori che egli stesso ha ammesso, ritrova un pignoramento di 144 mila euro semplicemente per aver espresso la propria opinione.

Secondo la RAI e il giudice civile, l’articolo causerebbe danni di credibilità e professionalità ai dirigenti. Ma dove? Dove sono nomi e cognomi, e dove le accuse e calunnie? 

Come al solito il cavallo di troia irrompe, chiedendo la difesa dei propri diritti, quando in realtà li si vuole negare a qualcun altro.

Non a caso, infatti, l’Italia ha uno dei tassi di libertà di stampa più bassi di tutta l’Unione Europea, classificandosi al 46esimo posto della comunità globale.

La percentuale della libertà di stampa italiana è del 70%. Viene considerato come un paese “mediamente libero”.

Italiani sveglia. Abbiamo combattuto con ferro, fiamme e sangue di nostri concittadini per ottenere la libertà di parola, e oggi, poiché non si vuole ammettere che, come al solito, le aziende pubbliche controllate dalla politica causano più danno che bene, la stiamo perdendo.

È veramente tutta colpa del capitalismo?

La crisi del 2008, i cambiamenti climatici, il lavoro sempre più asfissiante, lo stress in aumento, i poveri sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi, insomma, per qualsiasi male di questo mondo la colpa è del capitalismo . È il nuovo morbo del ventunesimo secolo, tutti gli danno la caccia, ma nessuno sa cosa sia. 

Una parola che ormai ha perso il suo vero significato, un orpello ideologico a cui dare la colpa se qualcosa non funziona. Ma cerchiamo di capirne qualcosa.

Il capitalismo è l’attuazione di quell’ideologia chiamata “liberismo”. Ma il liberismo in realtà non esiste, non è mai esistito e non esisterà mai. É semplicemente la libera cooperazione di individui, che senza aver bisogno di un “progettista”, lo stato o il dittatore che sia, fanno fronte alle difficoltà installando relazioni l’un l’altro per trovare la soluzione ai problemi. 

L’unica regola da accettare per un sistema capitalista è la seguente: lasciare gli individui liberi di approcciarsi alla propria vita e ai propri beni come vogliono, a patto di non danneggiare gli altri.  John Locke, John Stuart Mill, Immanuel Kant, Karl Popper, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, tutti questi pensatori si sono battuti per enunciare qualcosa di fondamentale alla società: la libertà personale non produce caos, povertà e iniquità ma bensì armonia, progresso e benessere.

Se qualsiasi sistema sociale non ha mai funzionato, se controllato da qualcuno o da qualcosa, il motivo è semplice: la realtà è estremamente complessa per capirla. In un sistema liberista, non c’è nessuna presunzione di conoscere la realtà in quanto tale, ed è proprio per questo che il capitalismo ha creato un benessere esponenziale.

Basti pensare ai grandi obbiettivi raggiunti negli ultimi anni. In cinquant’anni la popolazione mondiale è raddoppiata[1], sintomo che il benessere è aumentato e le malattie mortali diminuite.

Infatti è grazie alla cooperazione internazionale di menti di tutto il mondo che abbiamo debellato malattie un tempo endemiche come la meningite e il vaiolo. Inoltre la penuria non è più un problema, e le morti per incidenza di omicidi sono al di sotto del 1%.[2]

In soli cento anni abbiamo avuto, l’iPhone, la lavatrice, il PC, internet, l’aria condizionata e un aumento della ricchezza generale di ogni individuo. 

Secondo i critici del capitalismo, la crescita della popolazione non è una giustificazione, infatti, dicono, le diseguaglianze sono aumentate rendendo i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Se si analizzano i dati, però, si nota come se ne 1820 l’84 % delle popolazione mondiale viveva ancora in condizioni di estrema povertà, oggi la percentuale è scesa al di sotto del 10 per cento e continuare ad andare giù!

I decessi per carestia sono infimi rispetto al passato, il reddito pro capite è oggi il decuplo di quanto fosse nel 1850 e l’italiano medio è quindici volte più ricco che nel 1880. [3]

Per i più scettici, osserviamo l’esempio della Cina: da quanto si è aperta al capitalismo, 700 milioni di cinesi sono stati sottrarti alla povertà estrema. [4]

In poche parole, oggi, grazie al capitalismo tanto odiato; viviamo più a lungo, siamo pieni di cibo, le malattie non sono più un problema e siamo tutti più ricchi.

Ma di fronte questo benessere allora perché il capitalismo ci sta antipatico? Dietro i giudizi più drastici e negativi sul sistema capitalista ci sono in realtà umanissimi bisogni di trovare un ordine nelle cose e cercare un colpevole per i nostri problemi personali: e c’è la furbizia tutta politica di attribuirli alle forze impersonali dell’economia.

Il bias della negatività è non è mai stato più forte; tendiamo ad esagerare l’importanza delle cose che vanno male dimenticando quelle che invece vanno bene. Il liberismo è il capro espiatorio, il colpevole a cui attribuire ogni complicazione della vita.

La società moderna ha ancora molti problemi da affrontare, ma se oggi abbiamo raggiunto gli obbiettivi così ambiti in passato, è grazie a quel capitalismo che tutti odiano.

[1] https://ourworldindata.org/world-population-growth

[2] Yuval Noah Harari, “Homo Deus”, p. 19-20, Ediz. Bompiani

[3] Rutger Bregman, “Utopia per realisti”, p 2-3-4 Ediz. Feltrinelli

[4] Rutger Bregman “Utopia per realisti”, p 7 Ediz. Feltrinelli

 

 

 

Legalize them all: perché droghe libere.

Prima di analizzare le varie conseguenze positive che la legalizzazione di sostanze stupefacenti porterebbe al nostro bel Paese, occorre chiederci una domanda fondamentale: in tutti questi anni il protezionismo, la lotta alle droghe ed i controlli sempre più severi hanno raggiunto il loro obbiettivo? Come vedremo, la risposta è no.

Attenzione: con questo articolo non voglio promuovere nessun uso di sostanze stupefacenti, qualsiasi droga fa male, e ne sconsiglio vivamente l’uso.

Fatta questa doverosa premessa, possiamo iniziare.

È l’uso eccessivo del telefono che causa problemi, non il telefono in se. Lo stesso vale per le droghe, è l’abuso della sostanza che porta a problematiche psicologiche, economiche e sociali serie per l’individuo. La condanna a priori di un qualsiasi oggetto o sostanza è sbagliata. Ragionando in questo modo dovremmo proibire qualsiasi bene poiché, in fondo, anche l’acqua in dosi eccessivi provoca danni.

Il mercato, cioè dove avvengono gli scambi di prodotti, beni e servizi, è soggetto alla legge della “domanda e offerta”. Cioè alla richiesta di un bene (domanda), il produttore risponde creando il bene richiesto (offerta) stabilendo un prezzo che varierà in base alla dimensione della domanda. L’obbiettivo del proibizionismo è, attraverso arresti e sanzioni, l’eliminazione dell’offerta del bene richiesto, per far si che non venga consumato.

Come la storia insegna, però, il protezionismo non ha mai eliminato nulla. Il mercato prosegue lo stesso. L’unica differenza è che lo scambio del prodotto diventa illegale. Semplicemente “dove non c’è mercato, c’è mercato nero” direbbe Alberto Mingardi. Economicamente parlando, quando è presente un’offerta e una domanda, il meccanismo non può essere eliminato dallo Stato.

Non solo il proibizionismo non ha diminuito lo scambio e l’uso di droghe ma lo ha aumentato! 

Un esempio lampante è la proibizione di alcool avvenuta in America dagli anni ’20 agli anni ’30.

Ho fatto i soldi fornendo un prodotto richiesto dalla gente. Se questo è illegale, anche i miei clienti, centinaia di persone della buona società, infrangono la legge. La sola differenza fra noi è che io vendo e loro comprano. Tutti mi chiamano gangster. Io mi definisco un uomo d’affari.

-Al Capone in una celebre intervista

L’uso di alcool è effettivamente diminuito, ma soltanto per i primi 365 giorni. Infatti a partire dal secondo anno in poi dall’entrata in vigore della legge, il consumo è aumentato rispetto a quando fosse legale. La diminuzione del consumo nel primo anno è dovuta semplicemente ad un periodo di assestamento nel quale la criminalità organizzata doveva preparare la propria strategia per la vendita di alcolici. 

Il proibizionismo fu così efficace che il governo fu costretto a rendere di nuovo legale la vendita di alcool provocando, nei 10 anni di protezionismo, danni ingenti che ancora oggi vengono pagati.

Rispetto alla politica intrapresa in America, il governo del Portogallo insieme ad una commissione di esperti decise che, per rispondere all’uso eccessivo di droghe (specialmente di eroina dove il tasso era il più alto di tutta Europa), si dovesse ricorrere alla depenalizzazione del possesso e consumo di droghe.

Dopo 17 anni dalla depenalizzazione, i casi di HIV sono calati drasticamente passando da 1016 e 56 nel 2012, mentre le morti per overdose sono scese da 80 a 16. Inoltre anche il consumo generale di droghe, soprattutto di eroina, è diminuito di ben il 70%, classificando il Portogallo tra i paesi europei con il minor uso di sostanze stupefacenti.

Il punto:

La spiegazione di tutto ciò è semplice: grazie alla liberalizzazione, le droghe vengono studiate e vissute come un problema medico e non giuridico. E a conti fatti la situazione è proprio cosi. Perché imprigionare, riempiendo le carceri ed aumentandone le spese, individui che avrebbero bisogno semplicemente di aiuto? L’assistenza medica è molto più efficace della prigione nel convincere un tossicodipendente a non consumare droghe. È grazie al non avere paura di sanzioni o reclusioni che l’individuo è autonomamente più propenso a chiedere aiuto. Ormai la psicologia lo ha dimostrato da cento anni che le punizioni non portano alcun beneficio.

Per non parlare delle ingenti spese statali che potrebbero essere diminuite. Si stima che tra il 2008 e il 2013 lo stato italiano abbia speso circa 180 milioni di euro l’anno in attività di contrasto alle droghe. Nel 2018 le operazioni anti droga nelle scuole sono costate 500 euro a grammo requisito. Spese decisamente eccessive per delle misure che rappresentano il totale fallimento delle azioni repressive contro questo tipo di sostanze.

Dati ancor più allarmanti si trovano analizzando le spese del sistema giudiziario. Il 35% delle persone che oggi è in carcere, lo è per reati legati alla droga. Oltre infatti a far lievitare il numero di detenuti nelle carceri italiane, contribuendo quindi al grave problema del sovraffollamento, le precedenti legislazioni sarebbero state strutturate per colpire i “pesci piccoli,” senza spaventare le associazioni criminali più organizzate.

Inoltre il proibizionismo causa un enorme problema legato alle sostanze nocive inserite di proposito nelle droghe per aumentarne il peso e massimizzare i profitti sul venduto. Quando l’alcol era illegale, in America, veniva miscelato con l’acquaragia. Ancora oggi hashish e cannabis vengono tagliati con ammoniaca, lacca e piombo. La liberalizzazione porterebbe un innalzamento della quantità e qualità dell’informazione, ma soprattutto un incremento dei controlli sulle sostanze. Per quanto la droga possa far male, va ricordato che migliaia di giovani oggi ne fanno uso ed inconsapevolmente introducono ulteriori sostanze che arrecano demenza, tumori, e altri danni che gli stupefacenti da soli non riuscirebbero a provocare.

Quindi la liberalizzazione porterebbe a:

  • Minor utilizzo di droghe;
  • Riduzione di morti per HIV e overdose;
  • Diminuzione delle spese statali;
  • Indebolimento della criminalità organizzata;
  • Maggior disponibilità di celle carcerarie;
  • Crescita dell’efficienza lavorativa di poliziotti e guardia di finanza;
  • Incremento della qualità delle droghe.

Perché continuare a combattere una battaglia già persa in partenza, quando cambiando mentalità potremmo finalmente raggiungere gli obbiettivi tanto ambiti dalla battaglia alle droghe?

Perché essere liberali

È dura essere liberali in Italia. Tanto per cominciare, di solito nessuno sa neanche cosa sia o a cosa creda un liberale. I pochi che lo sanno ti collegano subito a qualche personaggio o partito politico ed è difficile spiegargli che il liberalismo non è esattamente quella cosa lì. Va pure peggio se ti dichiari liberista. Lì sì che capiscono… e ti chiedono subito perché odi i poveri o se godi a sfruttare i bambini (questo è all’incirca il pensiero medio); se poi va proprio male li senti pontificare sulla necessità dello Stato e l’importanza degli stimoli alla domanda (“non sai che Keynes ha risolto la crisi del ’29??[1]”). A quel punto la reazione tipica è tirare un sospiro e provare a spiegare con calma che liberismo non significa né Far West né sfruttamento. Il liberalismo è molto di più: è un’ideologia politica ancor prima che economica.

Non starò qui a raccontare cosa è il liberalismo, tante persone l’hanno già fatto prima e meglio di me. Voglio spiegare invece cosa significa per me essere liberale. Io questa ideologia sono arrivato per caso, ero liberale prima ancora di sapere cosa volesse dire. Ci sono arrivato partendo da una cultura di sinistra (e tuttora continuo a considerarmi di sinistra)e votare tendenzialmente di là), per gradi, a partire da riflessioni personali. Ho scoperto solo in seguito che ciò che sentivo e pensavo era già esposto in brillanti opere scritte molto prima che io nascessi.

Sono diventato liberale perché non mi piacevano le risposte semplici (“noi siamo bravi e intelligenti e potremmo sistemare il mondo, purtroppo il popolo è stupido e non ci capisce”), perché ho un forte senso di giustizia (con che diritto si può obbligare un individuo a essere “solidale” con un altro, ad esempio?), perché non sopporto il group thinking, perché mi fanno ridere coloro che credono di avere tutte le risposte e di poter decidere cosa è meglio per gli altri – anche nella mia vita privata sono così: non amo dare giudizi sulle vite altrui e do consigli solo quando esplicitamente richiesti.

Ma soprattutto sono liberale perché detesto l’idea che qualcuno abbia il diritto di controllarmi e dirmi cosa posso o non posso fare. Voglio poter vivere la vita a modo mio, senza essere obbligato a seguire regole decise da chissà chi. E l’unica ideologia politica che ti propone ciò è il liberalismo. Socialisti, fascisti, fanatici di varie religioni, tutti loro pretendono di insegnarti qual è il giusto modo di vivere, cosa puoi o non puoi leggere e ascoltare, chi devi ammirare e chi odiare, chi puoi e non puoi amare. Al liberalismo tutto ciò non interessa perché sa che ognuno di noi è un individuo unico, diverso da ogni altro: non esistono regole di vita valide per tutti. Siamo delle eccezioni, ognuno di noi. E dobbiamo liberamente cercare la nostra strada.

Il liberalismo è ottimista, ha fiducia nel genere umano e nelle sue capacità. Ritiene gli uomini generalmente buoni e intelligenti, capaci di aiutarsi a vicenda e di inventare continuamente modi per migliorare la condizione della nostra specie. Per questo non ama le regole (se non quelle di base necessarie per una convivenza pacifica): servono solo a controllare e tenere a freno gli esseri umani e la loro naturale bontà e intraprendenza. Lasciati liberi, gli uomini riescono a ottenere risultati straordinari, e la storia degli ultimi 250 anni è lì per dimostrarlo. Non bisogna avere paura della libertà.

Il liberalismo mi ha conquistato perché mi comunica leggerezza e serenità, ottimismo e fiducia. Okay, può essere un po’ naive nel suo credere alla bontà e intelligenza degli uomini. Ma non è meglio un’ideologia che ci insegna a stimare e confidare negli altri esseri umani, piuttosto di quelle che ci vogliono divisi in gruppi e categorie e destinati a odiarci l’un l’altro? Per me la scelta è facile, ed è la scelta della libertà.

[1] Leggersi Rothbard, Friedman et alia per capire perché non è affatto vero