La perfetta scuola per comunisti, spiegata da un liberale

Vi stupirà sapere che un liberale classico come me, quando legge i post del Fronte della Gioventù Comunista, non resta amareggiato, almeno fino ai tre quarti del post.

Infatti il FGC ha varie volte fatto notare problemi palesi dell’istruzione italiana, l’ultimo in ordine temporale quello dei problemi dell’edilizia scolastica. Giusto per capirci: c’è un crollo nelle scuole pubbliche ogni tre giorni e, aprendo un giornale a caso della provincia lombarda, il dato è confermato empiricamente: A distanza di due giorni è crollato l’intonaco in una scuola di Caravaggio, appena costruita, e in un’altra di Treviglio. E sono due paesi confinanti.

Ma ciò che mi lascia sempre l’amaro in bocca è vedere questi giovani disposti a mettersi in gioco per cambiare le cose dare la colpa a chi non c’entra nulla: il liberismo.

La scuola pubblica italiana è quanto più lontano esista dal liberalismo economico. E’ gestita dallo Stato, in un regime di quasi-monopolio: essendo l’alternativa a pagamento, nonostante si sia già pagata la propria parte con la tassazione, la concorrenza è disincentivata. E in certe regioni del Sud, più disagiate economicamente, è un monopolio totale (in Calabria solo l’1% frequenta scuole non statali, infatti è la peggiore istruzione d’Italia), senza cura per alcuna logica di costi, tant’è che spende 3000€ in più ad alunno rispetto ad un largo e generoso sistema a voucher.

Ed è da ciò, dall’essere statale, che derivano questi problemi.

Pensateci: gli studenti, per la scuola statale, sono di fatto un peso. Non apportano alcun contributo tangibile, a parte accrescere le spese di gestione.

Ma, al contempo, queste spese non hanno bisogno di un vero controllo, non c’è un vero e proprio bilancio da rispettare. Risultato? Lo Stato ha trasformato l’istruzione pubblica in un gran poltronificio e, siccome i ragazzi non votano per praticamente tutto il proprio percorso scolastico, ai politici non interessano.

Loro puntano ai voti di chi aspetta il concorsone per entrare in ruolo.
Quando chiedete più soldi, di fatto, state facendo il loro gioco, perché così potranno assumere più persone per scopi clientelari. Non useranno mai quei soldi per voi, perché non votate.

Ma arriviamo al vostro istituto, una piccola periferia dello Stato. Questo sistema clientelare l’ha essenzialmente lasciato con pochi soldi, quindi non può fare cose come: rendere sicuro l’edificio, sistemare il riscaldamento, comperare la carta igienica o effettuare interventi ecologici. Cosa potete fare voi?

Oh, nulla, perché la scuola è pubblica e voi siete solo un numero in un database del MIUR. Non è come qualunque altro business dove, se non soddisfatti, avreste la possibilità di spostare altrove il vostro capitale.

Non siete in possesso di alcun peso contrattuale da poter usare contro una dirigenza negligente, una minaccia simile a “se non sistemi il riscaldamento vado dalla concorrenza” non avrebbe alcun effetto.

Anche perché, nascosti dietro una coltre di vittimismo, o dirigenti potranno fare poco: è Roma che ha deciso di assumere più gente del dovuto, lasciando voi e la vostra scuola in braghe di tela.

Provate a pensare ad una cosa: concorrenza nelle scuole. Scuole di enti locali, scuole sociali (potreste aprirne una anche voi!) e scuole private per profitto che competono per avervi come studenti. Lo Stato, invece di provare a fare il tuttologo fallendo miseramente paga l’istituto di vostra scelta per istruirvi e certifica, con degli esami, i vostri progressi. Questo è il sistema a voucher.

Ah, l’orribile logica del profitto! Ma chi ha un profitto dalla vostra istruzione sarebbe incentivato ad offrirvi un buon servizio, sapendo che potete cambiare istituto e che creare nuovi istituti non richiede un lungo processo. Anzi, potrebbe essere tranquillamente la società civile di un luogo ad aprire una scuola. In sostanza una riforma del genere toglierebbe allo Stato per dare a noi cittadini.

Gli istituti sarebbero incentivati non solo ad offrirvi una buona didattica, cosa che spesso l’attuale scuola statale non fa, ma anche ad offrire un ambiente positivo, sicuro, dignitoso e anche ecologico, dato che pagherebbero le bollette e una scuola coibentata spende meno di una con spifferi in ogni dove. In sostanza, un sistema che risponde a voi. Chi andrebbe mai in una scuola con risultati negativi e che cade a pezzi?

La gran parte di coloro che frequentano la scuola pubblica. Perché essa non lascia libertà di scelta e risponde ai politici. E, come già detto, a loro voi non interessate.

Quindi, ascoltate un liberale: volete un’istruzione dove siate persone e non numeri, dove non dovete aspettare mesi per un prof, dove non rischiate che vi crolli in testa mezza scuola, dove tutti, dal figlio dell’operaio a quello del dirigente di banca abbiano le medesime opportunità? Bene, la voglio anche io.

Ma lo Stato non ce la darà mai. Solo un sistema dove noi, non un burocrate, scegliamo può darcelo. Un cambiamento reale arriverà solo in questo modo.

Qualcuno vorrà credere nella favoletta che l’istruzione in Italia sia schiava del neoliberismo, dei tagli per colpa delle private e che sia necessario più Stato per cambiare le cose. Ebbene, costoro sono liberissimi di coltivare questa opinione; ma abbiano almeno la decenza di non scendere in piazza a chiedere proprio ciò che ha rovinato l’istruzione italiana, almeno per rispetto di chi ha vissuto sulla propria pelle i disagi di essere un numero in una scuola che non si cura degli interessi dei suoi studenti.

Professore, perché dovresti volere il voucher scuola

Il voucher scuola, ossia il modello che prevede scuole in competizione, pagate su base individuale con un buono statale, sembra come fumo negli occhi per i sindacati dei professori, che parlano di più scuola pubblica, più Stato e meno mercato e di no imperativi a qualsiasi ipotesi di regionalizzazione o privatizzazione dell’istruzione.

Eppure, da un punto di vista individuale, i professori avrebbero grandi benefici da un modello del genere. Probabilmente chi insegna, ormai abituato all’attuale sistema, nemmeno arriva a immaginare un’alternativa, e se la immagina crede che sia una totale distruzione della professione di docente.

Ma così non è, e in questo articolo mostreremo come il sistema a voucher sia benefico, oltre che per gli alunni, anche per gli insegnanti.

Più dignità

Sarebbe stato troppo semplice iniziare con discorsi economici individuali. Iniziamo parlando di dignità.

Parliamo un secondo di costi standard, in sostanza quanto costa istruire uno studente nel modo in cui lo si fa nella scuola italiana. In una scuola paritaria tale costo è solitamente di poco inferiore ai 5000€, mentre nelle scuole pubbliche è di poco più di 8000€.

Eppure la scuola pubblica, nonostante abbia di più in termini economici rispetto al privato deve contare non solo sui contributi volontari dei propri alunni ma, spesso, sulla carità di aziende private come i supermercati.

Tutto ciò non è dignitoso. Né per l’istituzione in sé né per chi vi insegna all’interno. La domanda è: come si arriva alle migliori pratiche nel settore in modo da spendere meno e usare meglio?

In fin dei conti la scuola privata può offrire un servizio identico a quello della pubblica spendendo meno. Come mai?

Perché, anche quando non profit, hanno un bilancio e devono ragionare come un’impresa. La scuola pubblica non lo fa e quando si inizia a non seguire la miglior pratica dal punto di vista economico spesso si tende a non farlo anche negli altri campi. Così, negli anni, siamo arrivati al paradosso di una scuola pubblica che deve puntare sui voucher dell’Esselunga per poter accedere a dotazioni tecnologiche.

In un sistema a voucher il costo standard stesso sarebbe il voucher. Le scuole avrebbero più responsabilità economica e dovrebbero iniziare ad adottare le migliori pratiche che andrebbero, alla fine, a favorire chi nella scuola insegna e chi la frequenta.

Basta incubo graduatorie

Le graduatorie scolastiche sono un incubo. Non scherzo, sono così complesse che ricordano una matrioshka: graduatorie nazionali che costituiscono in parte graduatorie d’istituto che servirebbero a coprire le supplenze, che però restano scoperte rendendo necessario l’istituto della messa a disposizione.

Le graduatorie, oltre a non funzionare, portano i docenti ad assurde manovre per salire di posto: la già citata messa a disposizione, che servirebbe per sopperire a qualche supplenza non programmata è divenuta un vero e proprio business, con siti e aziende che si occupano di spedire le richieste dei docenti alle scuole di tutta Italia, ovviamente dietro compenso.

Ancor peggio, alcune scuole paritarie con pochi scrupoli sottopagano i docenti, arrivando addirittura a pagare loro solamente i contributi pensionistici. Tutto ciò per permettere a questi docenti di ottenere posti in questa graduatoria.

Ma il meccanismo della graduatoria è profondamente ingiusto ed obbliga i docenti ad una vera e propria prostituzione professionale per salire in questa mitologica lista.

In un sistema a voucher tutto ciò non accadrebbe. Essendo ogni scuola libera nelle assunzioni non esisterebbe una lista dove si pesca chi insegna ma, come per ogni altro lavoro, ci sarebbero colloqui, prove e libertà di scelta anche per il docente, che potrebbe scegliere dove candidarsi e, poi, scegliere in quale scuola effettivamente insegnare, con una competizione anche su stipendi, orari e autonoma d’insegnamento.

Cattedra? Meglio il tempo indeterminato

La cattedra, alias il ruolo, obiettivo di ogni docente. In un sistema a voucher non sarebbe più un cammino fisso e determinato ma un cammino individuale, che riflette le qualità individuali del docente.

Una scuola, infatti, ha beneficio nell’avere un buon docente, sia in termini di fama diretta – un buon professore può presentare ad eventi e open days – sia indiretta, ossia nel miglioramento dei risultati.

Immaginate di essere a capo di una scuola e di trovarvi davanti un giovane docente molto talentuoso. Vi rendete conto che può fare carriera e che può portare beneficio averlo nella scuola.

Cosa fate? Beh, un contratto a tempo indeterminato! Non ha senso aspettare se c’è il concreto rischio che ti soffino il docente.

Nella scuola pubblica invece la rapidità di carriera dipende poco dalla competenza quanto da meri numeri ottenuti in un concorso. Una cosa che può andar bene nell’esercito, forse, ma non dovrebbe essere lo standard nell’istruzione.

Certificazione migliore

Avrete sentito, qualche volta, in TV proteste in materia di abilitazione. In sostanza lo Stato, per dare il ruolo, chiede delle abilitazioni, che tuttavia cambiano ogni tanto. Quindi, chi ha i vecchi criteri e accede a un nuovo concorso rischia di venirne escluso, da qui le proteste.

Se le scuole fossero libere le certificazioni conterebbero, ma fino a un certo punto. Chiaramente le scuole tenderebbero ad assumere persone con buone credenziali, ma non sarebbero le uniche cose a contare. Quindi un buon docente non dovrebbe preoccuparsi di un pezzo di carta che diviene improvvisamente carta straccia a causa di un aggiornamento di normativa, quanto di restare effettivamente aggiornato per restare appetibile per le scuole.

Nuovi orizzonti: Aprire una scuola

Un docente, oggi, non ha molte opzioni oltre al lavoro dipendente. Può dare ripetizioni, certo, ma c’è chi preferisce insegnare in classe. Ebbene, in un sistema a voucher nulla vieta di aprire una scuola.

Non è chiaramente una cosa a costo zero, ma esistono numerosi casi in cui aprire una scuola può essere un qualcosa di utile alla comunità e di redditizio.

Steve Jobs, ad esempio, sosteneva che in un sistema a voucher sarebbero sorte scuole come sorgono start-up: egli, infatti, dovette pagare centinaia di migliaia di dollari per dare una buona istruzione alla figlia e riteneva fortemente ingiusto che ciò fosse riservato solo ai figli dei ricchi.

Sarebbe possibile, quindi, per dei professori consorziati aprire il proprio istituto sostenendo i propri metodi didattici appresi dall’esperienza, oppure per dei giovani neolaureati, ancora freschi d’apprendimento, provare ad aprire una scuola basata su ciò che ritengono le migliori pratiche nel settore.

In ogni caso, un sistema a voucher porta ad un certo decentramento dell’istruzione. Se detta così può sembrare una cosa negativa, beh, non lo è affatto. Né per gli studenti, che possono beneficiare di un’istruzione mirata – si pensi a quei quartieri che hanno sia zone benestanti sia zone povere e piagate dall’abbandono scolastico – né per i docenti, che hanno più libertà di scegliere dove, e quindi come, insegnare.

Lo Stato sociale distrugge la generosità

Lo Stato sociale europeo, oltre ad essere abbastanza vicino alla definizione di schema di Ponzi, ha un altro problema: uccide la generosità. Ma, piaccia o no, il nostro retaggio culturale è cristiano, quindi la generosità è vista come un bene positivo, portando la politica statalista ad aberrazioni enormi.

Ma lasciatemi spiegare: provate a chiedere all’americano medio chi deve pensare ai poveri e, se non vi trovate in qualche college particolarmente liberal o alla convention di Bernie Sanders è probabile che la risposta sia “la Chiesa/le fondazioni private/la famiglia e, solo in caso di fallimento di essi, il governo”. Fate la stessa domanda all’europeo medio e risponderà convinto “lo Stato”.

Quindi se in America, vedendo situazioni di disagio, viene spontaneo chiedersi “cosa posso fare IO“, in Europa invece “cosa può fare il governo” è il primo pensiero.

E, infatti, in USA si dona molto di più che in Europa. Sia perché in USA ci sono tasse minori e quindi fisicamente ci sono più soldi da donare sia per questo fattore sociale: in Europa ci aspettiamo che sia il governo a pensarci, non la comunità.

Eppure il welfare più è lontano meno è efficiente, oltre a risultare inviso alla popolazione che non ne fa uso. Cito Giovanni Adamo:

Lo Stato sociale prova ad applicare per vie legali il modello sociale tradizionale dei piccoli gruppi alla popolazione generale. Un’enorme burocrazia è necessaria per controllare e gestire il processo. Oltre all’alto costo, il sistema minaccia la libertà dell’individuo e in una democrazia dà ai partiti politici la possibilità di comperare voti con il danaro dei contribuenti.

Ed è verissimo. Sarà capitato ad ognuno di noi di vedere qualcuno trovare un lavoro ad un amico o parente in difficoltà ma di buona lena in pochi giorni e a spesa zero mentre lo Stato, per fare una cosa simile, ha dei costosissimi e poco efficienti centri per l’impiego. Ma gli esempi potrebbero andare avanti a lungo…

Questi sono i danni dello Stato sociale: smettere di farci contare l’uno sull’altro ma sperare che un’entità centrale faccia, con un grande sovrapprezzo, ciò che la società civile può fare con molto meno. E poi dicono che il liberalismo distrugge la società.

Con questo non diciamo che il governo non debba avere alcun ruolo, anzi, ma che debba essere o un garante (come nella scuola o nella sanità) o una risorsa alla quale ci si appella dopo che ogni altra possibilità è esaurita o impossibile, mentre oggi ci sono centinaia di migliaia se non di milioni di persone che vedono nello Stato il faro della propria vita.

E ciò, almeno nell’Italia culturalmente cattolica, porta ad una conseguenza particolare: i politici vorrebbero imporre questi valori per legge, dopo averli tolti sempre per legge. Quante volte, dalla “destra” alla “sinistra” passando per il “centrosinistra”, avete sentito volontà di misure coercitive per insegnare valori come la solidarietà o la generosità? Io fin troppe volte, direi.

Ecco, io credo che se i politici invece di pretendere che persone libere sacrifichino un tot della propria vita a nome del Dio Stato/Dio Europa/Dio Società iniziassero a limitare il peso dello Stato in questi campi dando più potere e possibilità all’individuo e alle relazioni volontarie tra di essi gli italiani diventerebbero più generosi.

Perché non lo fanno? Sarà perché fare l’asta al rialzo dei benefit coi soldi altrui è il loro lavoro?

L’unico buon socialismo è quello del potere: la decentralizzazione

Benché i liberals (nell’accezione americana) ed i socialisti suonino insieme il tamburo dell’abbattimento della disuguaglianza economica, spesso finiscono per voler togliere il vero potere a tutti gli individui, cioè quello di poter partecipare al processo decisionale più attivamente. Questo potere si ha solo ottenendo la più alta decentralizzazione possibile, redistribuendo quindi non la ricchezza, ma il potere.

La decentralizzazione è la distribuzione di competenze e potere decisionale dal blocco principale ad organi periferici. In questa configurazione quindi un’organizzazione (come un’impresa od un governo) delega alcune materie ai livelli più bassi e in un’ottica governativa si traduce nella maggior autonomia in materia decisionale degli enti locali (comuni, province e regioni).

Ad una maggior decentralizzazione corrisponde dunque una maggior autonomia ai livelli più bassi (dal governo nazionale al comune). Esempi di paesi ad alto livello di decentralizzazione sono Svizzera, Stati Uniti, Canada, Australia e Germania, dove paesi come Regno Unito, Francia, Italia e Cina mostrano un basso livello di decentralizzazione, attribuendo un numero elevato di competenze al governo nazionale.

Il motivo per cui preferire la decentralizzazione è semplice: avvicinando il potere ai cittadini essi possono controllare meglio l’operato dei loro rappresentanti che vicini alle persone che influenzano con le loro decisioni sono soggetti a maggior scrutinio ed un malgoverno si traduce in effettive punizioni o ricompense.

Non solo: cittadini insoddisfatti del governo in una zona possono facilmente trasferirsi rafforzando il cosiddetto “voto con i piedi”, dove i contribuenti cambiano zona geografica in base alla miglior offerta non solo fiscale (tasse più basse) ma anche di costumi (per esempio leggi più o meno restrittive sull’aborto), innescando un vero e proprio processo di concorrenza tra apparati governativi che, come tutto ciò che è in competizione, si traduce in miglior offerta a costi più bassi.

Nel mondo di oggi, complesso e poco standardizzabile, le soluzioni che implicano centralizzazione hanno sempre meno spazio, limitandosi solo a casi di necessità di scalabilità (come difesa) e/o a basso contenuto di informazioni (come scegliere il tipo di presa elettrica). Dove queste condizioni non si verificano un approccio top-down si traduce in enorme perdita di informazioni e quindi alla creazione di sacche di inefficienza.

Vi è anche una forte correlazione tra decentralizzazione e prosperità, come evidenziato da un paper dell’OCSE, ma non solo: paesi più decentralizzati resistono meglio alle crisi economiche, con l’esempio di Svizzera e Stati Uniti, paesi altamente decentralizzati che durante la grande recessione in Occidente del 2009 hanno registrato bassa decrescita in percentuale e riprendendosi rapidamente.

Questi ritrovamenti sono confermati anche da un paper nel CESifo Economic Studies, che sottolinea anche la minor tendenza a fare deficit per spesa improduttiva, tendenza, ahinoi, tristemente comune in Italia. Quindi non solo paesi decentralizzati sono più resilienti e prosperi, ma anche più virtuosi e riescono ad allocare meglio le risorse.

Non è quindi un caso che i paesi più poveri siano non solo poco liberi economicamente, ma anche più centralizzati: socialismo ed accentramento del potere vanno a braccetto, con la scusa di livellare la disuguaglianza economica ma dimenticandosi di aggiungere che l’equalizzazione volge verso il basso, dando vita a paesi fragili e ricchi esclusivamente di tensioni sociali. E non serve nemmeno citare i soliti paesi comunisti che sono ormai un fallimento conclamato: la centralista Francia è infinitamente meno efficiente e desiderabile della più decentralizzata Germania.

In questo l’Unione Europea gioca un ruolo cruciale: la promozione del decentramento e l’idea di confederazione devono prevalere sul desiderio di centralizzazione e di Stati Uniti d’Europa, che riporterebbero l’Europa indietro in tutte le dimensioni di libertà, con l’armonizzazione fiscale come concetto più pericoloso in assoluto.

L’unica redistribuzione morale, efficace ed efficiente è quella del potere.

Riferimenti:
https://data.worldbank.org/indicator/ny.gdp.mktp.kd.zg?end=2009&name_desc=false&start=2009&view=map&year=2009

https://www.oecd.org/regional/regional-policy/Decentralisation-trends-in-OECD-countries.pdf

https://academic.oup.com/cesifo/article-abstract/64/3/456/4080209?redirectedFrom=fulltext

Dal Fascismo a Putin, il nostro è vero amore

Mentre in TV e sui social si parlava soltanto di Bibbiano, del figlio di Salvini e dell’assassinio del poliziotto per mano di due americani, sembra che ancora una volta ci si sia dimenticati dello scandalo più importante che non solo dovrebbe causare rabbia e scalpore, ma soprattutto paura: i rapporti tra Italia e Russia

In men che non si dica tutto è stato dimenticato: i finanziamenti illeciti e la felicità nel volto di Putin mentre affermava come i rapporti tra i due paesi proseguissero in modo ottimale. 

Purtroppo l’oblio della memoria in Italia non stupisce. La penisola è piena di cittadini che sostengono senza alcun rimorso (e senza aver studiato la storia, a quanto pare) come Mussolini abbia “fatto anche cose buone”, come dare vita al sistema pensionistico o rendere tutti più ricchi. Queste, naturalmente, sono falsità.

Nessuno sembra ricordare il delitto Matteotti, la repressione della libertà d’espressione e di stampa o la propaganda fascista che inebriava la mente dei bambini con preghiere e lodi al duce. Infatti, esattamente come ai tempi degli Atzechi e degli Egiziani, durante il fascismo il dittatore veniva visto come una sorta di semidio.

Si è totalmente dimenticata anche la povertà di quel periodo causata dalla pessima politica economica del governo fascista. Nessuno parla di come fu introdotta, ad esempio, la tessera del pane o tessera annonaria, che limitava la quantità acquistabile di beni primari (pane, farina, olio) a causa della grandissima crisi.

Così come ci si è dimenticati dell’Italia Fascista, con una rapidità disarmante oggi ci si dimentica della Russia: un regime oligarchico nel quale pochi potenti possiedono ricchezza e potere, mentre al popolo vanno le briciole. 

Le costanti del regime putiniano sono corruzione, dispotismo, repressione e assassinio politico. Non a caso oltre 150 giornalisti, tra cui Alexander Litvinenko, Anna Politkovskaja, Boris Nemcov, Stanislav Markelov, Sergej Magnitskij, sono stati uccisi solamente per aver reso noto il clima che si respira nella nazione che oggi tanto si acclama in Italia.

La Russia, infatti, è una dittatura: come tale, la libertà di espressione, economica e d’informazione sono solo illusorie. Questa Russia in Italia sembra piacere. In fondo, i cittadini italiani vedono Putin come un grandissimo statista che ha portato la Russia alla grandezza.

Ma se ci trovassimo in qualsiasi altro Paese democratico, le reazioni ai rapporti e agli scandali politici italo-russi sarebbero esattamente contrarie dando spazio ad una ferma opposizione politica, culturale e mediatica da parte della società che si rifiuterebbe di trovare affinità con una dittatura oligarchica antidemocratica.

Tutti gli altri Paesi sembrano tenere alla loro libertà politica e sociale, tranne l’Italia. Appena si percepisce l’idea dell’uomo tutto d’un pezzo, austero e potente, si rimane meravigliati; come un bambino di fronte al mago che tira fuori il coniglio dal cilindro.

Sembra sempre emergere quel substrato culturale fascista degli anni ’20 del “ducetto” che guida la nazione, portandola agli albori di un tempo e facendole guadagnare il rispetto dell’intera comunità globale.

Non a caso i partiti politici sovranisti e populisti italiani, nei vari discorsi costituiti da retorica spicciola ed esclamazioni roboanti, inneggiano sempre a “riportare l’Italia come un tempo” quando “i valori venivano rispettati”.

Sembra essere opinione comune che la nazione non tornerebbe a crescere con una ricetta di riforme economiche e sociali quali una diminuzione della tassazione, un maggiore spazio ad aziende private ed imprenditori ed una privatizzazione di tutte quelle realtà semi-pubbliche che ancora oggi sono in piedi grazie alle tasse dei cittadini.

Al contrario, tornerebbe a farlo grazie ad un singolo uomo che, con rigidità e carisma da leader, permetterà (non si sa come e quando) finalmente alla nazione di tornare al mos maiorum di un tempo. Insomma: Caput Mundi e non più fanalino di coda.

Esattamente questa è l’ideologia che oggi predomina in Italia: una visione semi-fascista della realtà dove i cittadini trasferiscono tutti i loro grandi sogni e le loro preoccupazioni ad un singolo uomo, con la speranza che finalmente un giorno faccia diventare l’Italia ricca di cultura, capitale e benessere sociale: in sostanza la nuova Cuccagna del Medioevo.

Ecco perché oggi si adora Putin: perché si amano i dittatori. Ciò che servirebbe è una forte resistenza intellettuale e politica, capace di attuare un’iconoclastia per svegliare il popolo di una nazione che, dopo Mussolini, non ha mai smesso di credere al mito del Duce.

APPROFONDIMENTI BIBLIOGRAFICI

Il Fascismo eterno, Umberto Eco, La nave di Teseo: https://www.amazon.it/fascismo-eterno-Umberto-Eco/dp/8893442418/ref=sr_1_1?adgrpid=58091645688&hvadid=255187445268&hvdev=c&hvlocphy=20520&hvnetw=g&hvpos=1t1&hvqmt=e&hvrand=9964737245923107530&hvtargid=aud-607158361173%3Akwd-402295763479&hydadcr=28428_1717388&keywords=il+fascismo+eterno&qid=1565539330&s=gateway&sr=8-1

21 lezioni per il XXI secolo, Yuval Noah Harari, Bompiani: https://www.amazon.it/lezioni-secolo-Yuval-Noah-Harari/dp/8845297055/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=ÅMÅŽÕÑ&keywords=21+lezioni+per+il+21esimo+secolo&qid=1565539433&s=gateway&sr=8-1

Perché il Fascismo attira cosi tanto, Ted Talk, Yuval Noah Harari: https://www.youtube.com/watch?v=xHHb7R3kx40

Otto milioni di biciclette. La vita degli italiani nel Ventennio, Romano Bracalini,  Mondadori: https://www.amazon.it/milioni-biciclette-degli-italiani-ventennio/dp/8818032313/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=ÅMÅŽÕÑ&crid=2T9HEFRZN0KP9&keywords=otto+milioni+di+biciclette&qid=1565539691&s=gateway&sprefix=otto+milioni+di%2Caps%2C202&sr=8-1

Putin e gli omicidi politici: https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2017/10/18/putin-gli-omicidi-politici/

Il labirinto di Putin. Spie, omicidi e il cuore nero della nuova Russia, Steve Levine, Il Sirente: https://www.amazon.it/labirinto-Putin-omicidi-cuore-Russia/dp/8887847177

Articolo 81: perché ignoriamo il principio di responsabilità?

Se c’è una cosa che da sempre stimola il dibattito politico e istituzionale italiano è la Costituzione. Non esiste partito politico che non si sia forgiato almeno una volta della retorica del celebre articolo 1: “la sovranità appartiene al popolo!” dicono. E fanno bene.

Peccato che spesso – oltre a dimenticare “i limiti e le forme” che la carta traccia – ci si dimentichi che la nostra Costituzione getti anche le basi per una buona condotta fiscale da parte dello Stato.

Quanti di noi hanno mai sentito nominare nei dibattiti dei salotti televisivi italiani l’articolo 81? Quanti di noi conoscono effettivamente cosa rappresenti questo articolo?

Ecco.

Secondo tale articolo:

 

lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. […] Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princìpi definiti con legge costituzionale.”

Per Luigi Einaudi «costituisce il baluardo rigoroso ed efficace voluto dal legislatore allo scopo di impedire che si facciano nuove o maggiori spese alla leggera, senza avere prima provveduto alle relative entrate».  

Ma perché è così importante avere un quadro costituzionale ordinato in materia economica? 

Deve essere chiara una cosa. L’ampio grado di discrezionalità che ha guidato la politica economica italiana si è rivelato un disastro. 

La legittimazione dei disavanzi e delle politiche economiche in deficit spending, seguite all’abbandono di una prospettiva costituzionale in materia economica e fiscale hanno condotto alla crescita incontrollata della spesa pubblica e del debito pubblico. Per corroborare questa osservazione basta ricordare come il debito, dopo il definitivo abbandono del principio costituzionale qui discusso, sia passato nell’arco di soli quattro anni (1989-1993) dal 98% del Pil a quasi il 120%.

Ad oggi, la spesa pubblica vale il 47% del Pil del paese e ha toccato la cifra mostruosa di 900 miliardi di euro. Per quanto riguarda il debito pubblico (132% del PIL), invece, siamo preceduti soltanto da USA, Giappone e Francia (parlando in termini numerici e non in rapporto al Pil, che per i suddetti stati è maggiore di quello italiano, ndr).

La possibilità da parte dello Stato di spendere a credito, nota argutamente Antonio Martino, aggiunge un altro metodo di “finanziamento” delle spese a quelli ortodossi ed ostacola la valutazione del costo effettivo delle decisioni di spesa. 

Le conseguenze drammatiche sono il drastico aumento della spesa pubblica «irrazionale» e delle asimmetrie nella percezione di costi e benefici della suddetta.  Aumenta quindi l’incentivo a spalmare i benefici su un ristretto gruppo di cittadini a scapito dell’intera collettività. 

Così facendo, infatti, si evitano tensioni interne grazie alle pressioni dei pochi grandi beneficiari e alla consistente negligenza di una collettività danneggiata da oneri di dimensioni ridotte. 

Ricordando un celebre pamphlet di Bastiat, poi, la seconda asimmetria è causata dal rapporto tra i benefici visibili (ciò che si vede, direbbe il filosofo) e i costi invisibili (ciò che non si vede, poiché non avvertiti direttamente dalla collettività).

La mancanza di una prospettiva costituzionale in maniera fiscale, inoltre, è anche la causa della preoccupante e costante instabilità politica del nostro Paese. 

Ogni governo dura in media 10 mesi, e alle prospettive di una breve vita si affianca la necessità di produrre un beneficio immediato a scapito della collettività del domani. Il deficit spending, insomma il modus operandi di chi ritiene come Keynes che “nel lungo periodo saremo tutti morti”, si traduce praticamente in una imposta sulla collettività del futuro.

E per cosa? Per rallentare ulteriormente la crescita della spesa privata produttiva.

Il disavanzo pubblico sottrae di fatto fondi all’investimento privato (i cittadini che richiedono un prestito sanno di doverlo ripagare, di conseguenza cercheranno di investire i capitali nella maniera migliore) per indirizzarli al consumo, dissipando la capacità produttiva del paese intero.

Le numerose spese per trasferimenti e per gli investimenti delle aziende passive pubbliche, infatti, non apportano nessun miglioramento alla produttività nazionale. Senza considerare poi il rallentamento degli investimenti causato dalla paura dell’aggiunta in futuro di imposte per ripagare il debito spropositato o i relativi e sempre crescenti interessi (proprio quelli che i cultori dell’avanzo primario italiano ignorano).

È così importante, dunque, che i governi seguano una rigida disciplina fiscale e che non si lascino guidare dalla discrezionalità? Decisamente. 

Solo in questo modo, attraverso una norma costituzionale e un vincolo all’arbitrio nelle decisioni di spesa, ci si può aspettare di creare una finanza e un governo responsabili.

Cinque ragioni per preferire il sistema pensionistico a capitalizzazione

Oggi il sistema pensionistico in Italia, così come nella gran parte del mondo, è a ripartizione: chi lavora oggi paga per chi è pensionato oggi. Il sistema funzionava bene quando venne creato: la gente non viveva a lungo, quindi c’erano tantissimi lavoratori che potevano pagare la pensione ai pochi anziani in vita.

Oggi le cose sono cambiate: per ogni pensionato ci sono solo 1,4 lavoratori. E infatti il sistema pensionistico a ripartizione fa sempre più acqua da tutte le parti: tra riforme contabili come quella Fornero (che non è una riforma liberista, è una semplice riforma contabile) e aumenti sempre più necessari dell’età pensionabile, che sono tuttavia avversati dalla classe politica, il sistema va in buona parte a debito. Per capirci, in Italia spendiamo 280 miliardi l’anno in pensioni. Un po’ meno della metà, 110 miliardi, viene dalla fiscalità generale.

Ma esiste un’alternativa? Certo, il sistema a capitalizzazione individuale. In questo sistema la pensione non è altro che un investimento sicuro, garantito e a lungo termine che il lavoratore fa: quando arriva l’età pensionabile può disporre dei propri soldi o acquistare con essi un’assicurazione a vita. Lo Stato non si occuperebbe di tutti ma solamente degli indigenti.

E quali sarebbero i principali vantaggi? Vediamone cinque.

Sono soldi vostri

Nell’attuale sistema i soldi della vostra pensione non sono vostri. Se non avete risparmi e contate solo sulla pensione state, in sostanza, vivendo di un qualcosa che traballa fortemente.

I soldi che mettete in un fondo pensione sono, invece, vostri. Hanno chiaramente alcuni vincoli ma sono soldi vostri. Non dipendete da nessuno, se non da voi stessi, dal vostro impegno e da ciò che avete messo via.

Creano lavoro e valore

I soldi attualmente spesi in pensioni sono solitamente a basso rendimento: i pensionati di solito spendono poco e conservano molto.

In un sistema a capitalizzazione, invece, i soldi difficilmente verrebbero lasciati fermi: Verrebbero investiti, in modo da farli aumentare. E, spesso, gli investimenti creano lavoro e valore.

Increduli? In Cile i risparmi pensionistici costituiscono il 20% del PIL, arrivando in certi momenti della storia cilena al 70%, e hanno fornito molto denaro utile, assieme alle riforme liberiste, per passare da povero paese a Stato più ricco del Sudamerica.

I politici non possono giocarci

I pensionati sono, forse, la lobby elettorale più forte di questo Paese: non c’è un singolo partito in Parlamento che non moduli le proprie proposte con particolare riguardo per questa categoria.

I pensionati devono la propria ricchezza allo Stato e, di media, come ogni persona ne vogliono di più. Solo che questo volerne di più qualcuno lo pagherà, e questo qualcuno è chi paga le tasse e lavora.

Come già detto nel sistema a capitalizzazione i soldi sono i vostri: avete risparmiato molto? Avrete una pensione più alta. Avete comperato una casa bella risparmiando sui contributi? Avrete una pensione più bassa e, in caso, una casa da vendere. Avete speso tutto al bingo e avete una pensione appena appena sufficiente a vivere? Affaracci vostri.

Sia chiaro, non è che la pensione a capitalizzazione impedisce di comperarsi i voti di chicchessia. Rende, però, più difficile farlo.

Più libertà di scelta

La concorrenza porta a libertà di scelta. Oggi che il sistema pensionistico è uno e statale non c’è flessibilità: si va in pensione tutti allo stesso modo e, al massimo, c’è qualche finestra di prepensionamento.

Ma se c’è concorrenza i fondi pensione dovranno fare qualcosa per accaparrarsi la clientela. E ciò vorrà dire provare ad offrire tassi d’interesse migliore, consulenze buone e puntuali, informazioni e app migliori ma soprattutto più opzioni.

Immaginate prenotare un appuntamento col proprio consulente INPS per cambiare il proprio regime pensionistico con uno più fruttifero, ma un pelo più rischioso, e nel mentre annunciare di voler ridurre il contributo per qualche anno per poter pagare una casa più grande scegliendo di investire meno su un dato servizio accessorio (reversibilità se il fondo non è più ereditabile o contributo a spese sanitarie, per esempio). Impensabile, no? In fin dei conti, il sistema INPS è “uno e indivisibile”, paghi quello che ti dicono e ricevi ciò che ti dicono.

Ma in un sistema che dà libertà di scelta chi sceglierebbe un fondo così rigido? Nessuno. Quindi la situazione che ho descritto, che applicata all’INPS causerebbe quasi ilarità, è decisamente possibile in un sistema a capitalizzazione.

Altro punto è la possibilità di lavorare liberamente nel mondo: Se l’Europa Unita scegliesse tale modello non sarebbe più un problema lavorare un anno in Italia, tre in Slovacchia, due in Austria e sei mesi in Germania: ciò che versate non deve fare giri complicati tra le varie agenzie nazionali ma sarà versato direttamente nel vostro conto, dove frutterà.

È più semplice avere una pensione

In un sistema privato è più semplice avere una pensione. Pensate ad uno scenario relativamente comune, anche se ultimamente meno diffuso rispetto al passato: una donna che, lavorando, si sposa e quando nasce il primo figlio lascia il lavoro. Ha versato alcuni anni di contributi, ma se smette di contribuire perderà quegli anni. Sembra un ricatto e, in effetti, lo è.

E pensiamo che, sfortuna voglia, questa donna che ha lasciato il lavoro a 30 anni continui a versare e a 65, il giorno della prima pensione venga tirata sotto da un’auto e muoia: ha perso tutti i soldi versati.

In un sistema a capitalizzazione ciò non succederebbe, essendo i soldi della donna: potrebbe ritirarli o continuare a versare una somma ridotta fino ad ottenere una pensione ridotta per integrare quella del marito.

Idem vale per gli universitari: invece di una complicata procedura di riscatto possono semplicemente aprire il proprio conto, versarci qualche soldo ogni mese – prendendolo dalle mance o da qualche prestazione occasionale – per avere già qualche soldo via quando inizierà a lavorare e a versare completamente.

Sia chiaro, si può fare già oggi, ma è un sistema complementare rispetto a quello ufficiale, che resta ingessato dallo statalismo (e che obbliga ad versare comunque una parte consistente del reddito personale – ndr). Perché mantenere questi limiti, allora?

Cinque ragioni per abolire la scuola di Stato

“L’istruzione non dovrebbe seguire logiche di mercato, è un bene primario che deve restare sotto il controllo dello Stato”. Quante volte avete sentito questa frase discutendo di privatizzazioni? Beh, io tante, soprattutto perché difendo la libertà di scelta in materia di istruzione da vari anni.

Restando in tema attualità, ho sentito spesso dire che la regionalizzazione della scuola, prevista in alcune iniziali bozze dell’accordo sull’autonomia differenziata tra le Regioni del Nord che hanno fatto richiesta e lo Stato, sarebbe il primo passo verso la privatizzazione definitiva della scuola.

Mi chiedo, dove sarebbe in tutto ciò il problema? Tutti i discorsi pro scuola pubblica e statale sono basati sull’assunto che l’istruzione non sia un qualcosa di mercatizzabile e che quindi debba essere fornita dallo Stato.

Tutto ciò non è, però, semplicemente vero: Il mercato può tranquillamente occuparsi d’istruzione. In realtà già lo fa, solo che chi sceglie di affidarsi ad esso, nella gran parte dei casi, paga due volte: Per l’istruzione statale e per la propria.

Soprattutto, introdurre la concorrenza nell’istruzione non può che avere effetti positivi. In questo articolo vedremo cinque aspetti positivi e, anche, gli aspetti negativi.

Costi minori

Quanto costa istruire uno scolaro, in Italia? Ai genitori, direttamente, poco, ma allo Stato tanto: più di 8’000€ l’anno. Ovviamente finanziati con le imposte generali.

Allora, come mai la scuola privata normale è in grado di fare la medesima cosa con, al massimo, 5’000€? Magari, nel mentre, ottenendo pure un profitto.

Se decidessimo di introdurre un voucher scuola da 5’000€, che è una cifra alta e in linea di massima riducibile, risparmieremmo 23 miliardi ogni anno. Questo è, per capirci, quanto serve ad evitare l’aumento IVA nel 2020.

Starebbe poi alla classe politica decidere come usare quei 23 miliardi: se reinvestirli nella scuola, ridurci il debito o usarli per ridurre le tasse, ma sta di fatto che sprecare 23 miliardi ogni anno non è socialismo, non è attenzione alla giustizia sociale: è semplicemente stupido.

Più libertà di scelta e qualità

La concorrenza, solitamente, crea qualità. Nel caso della scuola la concorrenza può riguardare il metodo didattico, la comunicazione, le risorse, gli orari, il sostegno personale e tanto altro. In un sistema del genere si deve offrire un’istruzione a misura di individuo per ottenere i soldi del voucher.

Esiste quindi una concorrenza che porta l’individuo – lo studente – a beneficiare di una libertà di scelta maggiore: nuovi metodi didattici, orari, disposizione dell’orario didattico, focus su alcune o altre materie, immersione linguistica, scuole comunitarie e tanto altro, cose che persino non possiamo immaginare, visto che in un sistema del genere potenzialmente chiunque può aprire una scuola e provare ad attirare alunni con metodi che ritiene migliori e sarà il mercato, non un burocrate a Roma, a premiarlo.

Un pubblico migliore

Di per sè avere scuole appartenenti ad enti pubblici non è affatto un male, a patto che siano istituite da enti vicini ai cittadini come i comuni o simili. Solo in tal modo, infatti, il cittadino potrà rendersi conto di ciò che sta accadendo e decidere se, ad esempio, vuole assumere più personale o aumentare i sussidi oltre al voucher scuola. Soprattutto, la concorrenza tra comuni renderà la scuola migliore, visto che il pagamento, essendo ad alunno, permette l’accesso anche ad allievi esterni al comune che per una qualche ragione preferiscano istruirsi in tale comune.

Studi mostrano come la scuola pubblica, quando messa in competizione col privato, migliori in qualità. Inoltre, cosa non da ignorare, una scuola ben gestita e di qualità può divenire una fonte di finanziamento per il comune, visto che si può stabilire come l’ente locale abbia il pieno diritto di conservare il voucher anche se spende meno di quanto esso sia.

Più speranza per le minoranze linguistiche

Da lombardofono non posso non parlare di questo aspetto: oggi in Italia quelle poche lingue regionali che hanno la benedizione di Roma non prosperano quando lo Stato interviene ma quando esso se ne sta ben lontano.

Immaginate questa situazione: un sindaco, sostenitore della diversità linguistica, decide di introdurre l’immersione linguistica (se non sapete cosa sia potete leggere questo mio articolo) nella scuola del comune. Inizialmente c’è scetticismo – tanta gente ha pregiudizi sulle lingue regionali per ragioni culturali – ma qualcuno si iscrive ai corsi immersivi.

L’immersione ha effetti positivi: gli studenti immersi hanno una maggiore competenza nella lingua straniera e i genitori dicono che, di media, si mostrano più curiosi. Le iscrizioni aumentano e anche altri comuni creano le loro sezioni immersive.

In pochi anni esistono varie scuole immersive in quella regione, il modello viene anche copiato da altre regioni e diventa più interessante anche per i privati e le istituzioni no profit, ma nel mentre, non essendo intervenuta una coercizione di Stato, continuano ad esistere scuole esclusivamente in lingua italiana per chi ne ha bisogno o le preferisce. Nel caso ve lo stesse chiedendo, un bilinguismo di massa italo-inglese sarebbe molto più arduo. Ma, in tale sistema, potrebbe esistere comunque, essendovi libertà di scelta.

Favorisce la mobilità sociale

La libertà di scelta sulla scuola favorisce la mobilità sociale per un semplice fatto: la scuola italiana, dovendo soddisfare tutti, è per forza di cose mediocre. C’è un occhio di riguardo per chi ha bisogni speciali per disturbi didattici ma nessuno per chi ha necessità particolari per altre ragioni come particolari talenti in altri campi sportivi o scientifici, ben noto è il caso di una geniale ragazza ai massimi livelli nella robotica osteggiata dalla scuola pubblica per le proprie assenze.

Capito? La “scuola di tutti”, da buon prodotto del socialismo, se sei troppo bravo prova a metterti i bastoni tra le ruote. In fin dei conti è ben noto come si impari di più in un austero liceo della città fondata dai lombardi come avamposto contro il Marchese del Monferrato che al MIT.

In un sistema di libertà di scelta ciò non accadrebbe e non accadrebbe non solo per i geni o per chi può permettersi un’istruzione privata ma anche per il figlio dell’operaio che, per una ragione o per l’altra, non si trova con la scuola pubblica.

Un ragazzo che magari oggi, solo per l’ottusità del sistema di scuola statale, andrebbe in qualche istituto regionale a imparare un lavoro pagato in modo mediocre in un sistema di libertà di scelta potrebbe scegliere, senza costi aggiuntivi, un istituto adatto a lui e cercare un’istruzione migliore.

Ma, come dice il sempre brillante Giovanni Adamo II, nel sistema di scuola pubblica il benessere dei docenti è molto più importante di quello degli alunni. Ribadisco, impedire a un giovane di avere una buona istruzione adatta a lui solo perché ha genitori non facoltosi è socialismo, è attenzione all’uguaglianza e alla giustizia sociale? No, è solo crudele.

I difetti?

Ci sono, ovviamente, dei difetti.

Ad esempio i politici non avrebbero più la possibilità di comperare voti di centinaia di migliaia di persone solo promettendo loro concorsi d’assunzione, visto che ad assumere sarebbero i privati o, al massimo, i comuni.

Inoltre sarebbe più difficile fare populismo scolastico, proponendo ad esempio nuove materie o corsi obbligatori con scopi etici o politici più che didattici.

I sindacati dei docenti perderebbero gran parte del proprio potere politico e dovrebbero ridimensionarsi per diventare assistenti dei docenti nella compilazione di documenti, nel rapporto con le istituzioni e col datore di lavoro.

I docenti migliori sarebbero premiati e incentivati a continuare nel loro lavoro visto che docenti migliori portano alunni, e quindi soldi, alle scuole mentre quelli peggiori verrebbero via via esclusi.

Soprattutto, molte più persone potrebbero accedere ad una preparazione scolastica adatta alle proprie esigenze.

Mi dite che non sono difetti ma, anzi, pregi? Sono perfettamente d’accordo con voi. Eppure per gli statalisti a oltranza sono difetti ed ha perfettamente senso buttare 23 miliardi l’anno per un’istruzione che funziona, parafrasando un motto socialista, “per i pochi, non per i molti”.

Sistemi sanitari a confronto: Bismarck vs Beveridge

Il sistema Bismarck ed il sistema Beveridge sono sistemi sanitari che garantiscono a tutti l’accesso alla sanità e sono i due principali sistemi sanitari d’Europa.

Il primo venne creato, come dice il nome, durante il governo di Bismarck e prevede delle assicurazioni sociali obbligatorie. Lo Stato ha un ruolo di controllo della concorrenza, nella legiferazione in materia e nel sussidiare il sistema, solitamente per i meno abbienti o le persone con condizioni preesistenti. E, di solito, le assicurazioni sono delle mutue no profit.

Questo modello è basato praticamente tutto sulla competizione: Tra pubblico e privato, tra assicurazioni e assicurazioni, tra medici e medici, tra cliniche e cliniche. Il sistema Bismarck è stato coniugato in più modi: In questo articolo trovate una spiegazione del sistema adoperato in Germania, che non solo prevede una competizione tra assicurazioni in generale ma anche tra assicurazioni “di Stato”, mutualistiche e pagate in base al reddito, e private, che coprono di più ma si pagano in base al proprio stato di salute e sono dunque accessibili solo a chi ha un determinato livello di reddito.

Un modello derivato da Bismarck spesso citato come esempio di eccellenza è il modello israeliano, descritto qui, inoltre è ritenuto molto interessante, specie per la rapidità con il quale si è sviluppato dopo la fine del comunismo, il modello ceco, descritto qui. Comunque, ogni Stato che usa un sistema Bismarck ha delle proprie peculiarità che lo caratterizzano e che possono portare vantaggi o svantaggi. Sarebbe impossibile trattare estensivamente ogni variante, quindi in questo articolo mi ispirerò al modello Bismarck in generale e non ad una particolare implementazione nazionale.

Il secondo nacque invece ad opera di William Beveridge, economista social-keynesiano, che nel 1942 pubblicò un rapporto che fu, a furor di popolo, la base del futuro stato sociale inglese.

In questo sistema, che tutti ben conosciamo, la gran parte del settore sanitario è portata avanti dallo Stato o da un ente pubblico: molti medici sono dipendenti pubblici, chi ha bisogno di una visita deve iscriversi in una lista e, quando ci sarà un medico disponibile, potrà farla.

Chiaramente non esiste un modello giusto, né esistono solo sistemi Beveridge puri contro Bismarck puri, tant’è che tra i dieci sistemi sanitari migliori d’Europa si contano sia Bismarck sia Beveridge in quantità simili.

Si può dire che, in uno Stato normale e serio, avere un sistema Bismarck o un Beveridge è una scelta più politica che sanitaria.

Per quale motivo è, a mio parere, preferibile un sistema ispirato a quello Bismarck rispetto a uno puramente statale?

Responsabilità

Nessuno verrebbe lasciato a morire per strada in un Paese occidentale, è chiaro. Però trasformare la sanità da un deus ex machina ad un qualcosa che esiste, si paga e dove esiste una certa libertà di scelta rende l’individuo più partecipe nelle scelte relative alla propria vita e meno succube di un sistema che, più che sanitario, sembra burocratico.

Premiare i comportamenti salubri

Mi capita spesso di leggere di proposte di tagliare i contributi del Servizio Sanitario a chi assume comportamenti autodistruttivi, definizione che varia molto da persona a persona e che spazia dal “chi si fa di cocaina mentre partecipa ad un baccanale senza preservativo” a “chi mangia al fast food”: un sistema Bismarck può risolvere la questione senza lasciare nessuno con spese mediche insostenibili.

Infatti un’assicurazione può avere un prezzo iniziale alto ma che si riduce per chi mantiene comportamenti sani. Soprattutto, l’assicurazione ha un beneficio nel far restare sane le persone, quindi potrebbe offrire attività sane a prezzi convenzionati.

Scegliete di mandare vostro figlio alla scuola bilingue? Ciò può ridurre l’evenienza di malattie neurodegenerative, quindi l’assicurazione potrebbe contribuire ai costi. Andate al lavoro coi mezzi camminando invece che in auto? L’assicurazione ha convenienza a ridurvi la tariffa o a pagare una parte di abbonamento.

Volete mangiare sano e fare esercizio? Potrebbe esserci un menù convenzionato in alcuni ristoranti o una palestra convenzionata dove restare in forma a prezzo ridotto.

L’assicurazione ha più beneficio a mantenervi sani rispetto ad una sanità completamente statale per una semplice ragione: i soldi. Se vi ammalate costate all’assicurazione, mentre in una sanità statale si guarda solo al bilancio corrente, che tanto è tutto nel calderone statale.

Ovviamente nulla vieta di tassare un po’ alcuni beni particolarmente dannosi, come tabacco, alcol o droghe, per finanziare il supporto statale al sistema sanitario e fare ricadere i costi sugli assuntori e non su tutti gli utilizzatori.

Concorrenza

In Italia quando si parla di concorrenza in sanità molti danno di matto. Non a caso una delle ragioni spesso citate contro l’autonomia regionale è che “creerebbe una sanità di serie A e di serie B”. Come se non fosse mai esistita la differenza sanitaria tra Regioni o tra ospedali della stessa città.

La concorrenza in sanità, se regolamentata, è potenzialmente vantaggiosa. Non si può, solitamente, avere una concorrenza totale per il semplice fatto che il fallimento di un’assicurazione può essere un problema grave per i suoi assicurati, come accadde nei primi anni nella Cechia democratica post-comunismo.

Pensate ad una cosa assurda: In Italia abbiamo la ricetta elettronica e il fascicolo elettronico: in sostanza se hai lo SPID accedi un po’ a tutti i tuoi documenti sanitari.

Ma la ricetta te la devi stampare. Perché? Perché in farmacia devono attaccarci le fustelle. Sarà sicuramente un sistema che ha ridotto le truffe ai danni del SSN ma non ha creato utilità al cittadino: anzi, può creargli un disservizio.

In Israele, dove le mutue devono competere per i clienti, la ricetta elettronica è veramente tale e non devi stampare alcun promemoria. Un’assicurazione sanitaria che impone tale procedura senza un significativo altro incentivo perderebbe clienti. Qui non potete andare dalla Regione e dire “non ho voglia di stamparmi le ricette, cambio operatore”.

Concorrenza nel campo sanitario vuol dire, in sostanza, lasciare più libertà all’individuo nello scegliere come essere seguito a seconda delle proprie esigenze.

Progresso (e sempre concorrenza)

Non parliamo ovviamente di progresso scientifico ma nelle tecnologie per rapportarsi col paziente. In Italia, da anni, usiamo essenzialmente lo stesso modello: Medico di Medicina Generale (ex medico di base, termine forse più noto ma formalmente scorretto) e in caso Medico Specialista, per emergenze non gravi e non previste Guardia Medica.

Ci sono ovviamente eccezioni: Il sistema sanitario dell’Emilia-Romagna sta lavorando molto sulle cosiddette “Case della Salute”, ossia dei luoghi dove sono presenti più medici, alcuni specialisti, pediatri e operatori sociali, la Lombardia, invece, punta ad un sistema diverso per i malati cronici, dove per le visite legate alla malattia cronica c’è un “gestore”, che può essere un medico, una struttura pubblica o una privata, che si occupa di assistere e guidare il paziente negli esami e nelle cure.

In altri paesi bismarckiani invece è diffuso il modello dell’ambulatorio di fiducia: Non si ha il proprio medico, bensì un ambulatorio dove si può andare per visite e consulti. E questi ambulatori solitamente non hanno solo medici generali ma anche alcuni specialisti, il che permette di effettuare alcuni approfondimenti nell’immediato, e anche la possibilità di fare immediatamente alcuni esami, solitamente esami del sangue o radiografici.

Se avete un animale domestico probabilmente siete abituati: Andate dal veterinario perché ha la zampina dolorante, gli fa la radiografia per vedere se è rotta, scopre che è solo distorta e gli mette una fasciatura. Ecco, in un sistema Bismarck funziona così, solo che invece di pagare voi paga la vostra assicurazione.

Potremmo anche parlare di come alcune assicurazioni israeliane trattano i malati cronici: Con la telemedicina, riducendo dunque il numero di visite inutili e permettendo di controllare l’assunzione dei farmaci.

Ancora, non c’è un sistema migliore. Ma con l’attuale sistema non potete scegliere: Un burocrate sceglie al posto vostro. Se vivete a Caorso e preferite il sistema lombardo dovete cambiare casa, in un sistema Bismarck se la vostra assicurazione non vi soddisfa potete cambiarla.

Lombardia: Un esempio da cui partire?

La sanità lombarda è ritenuta una delle eccellenze italiane, assieme alla sanità emiliano-romagnola. Solo che, a differenza di quest’ultima, non prova a svantaggiare il privato ma a collaborarci. I risultati si vedono: I lombardi possono andare a fare visite con il SSR presso strutture private quasi senza accorgersene e, spesso, fare visite “private agevolate” che costano poco più del ticket ordinario con tempi decisamente minori.

Ironia della sorte, il pubblico qui tende a creare disparità, perché il lombardo disoccupato che ha l’esenzione per reddito – quindi pagherebbe zero – se vuole la visita agevolata deve pagare, putacaso, 45€, mentre il lombardo che ha i soldi paga 45€ invece di 35€. In sostanza la salute del disoccupato vale 45€ interi mentre quella del lombardo che lavora vale solo 10€. Per la cronaca, esisterebbe una scappatoia, se non vi trovano l’esame entro 60 giorni.

Pensiamo se la Lombardia decidesse, improvvisamente, di bismarckizzare una parte dei propri servizi sanitari. La Regione, in competizione con i privati, continuerebbe a gestire ospedali e cliniche, ma rinuncerebbe ad esempio al monopolio della medicina generale.

I medici generali diventerebbero dei liberi professionisti – liberi dunque di associarsi tra di loro e di convenzionarsi con delle assicurazioni, che li pagherebbero le pazienti, oppure dipendenti del sistema assicurativo nel complesso, a seconda del modello scelto.

La Regione fornirebbe una parte di ciò che oggi spende in sanità – o meglio nella sanità che sarebbe bismarckizzata – direttamente ai cittadini, con un voucher per acquistare l’assicurazione. Nel mentre, possono scegliere opzioni ulteriori a pagamento (ad esempio assicurazioni di viaggio, no ticket, per sport pericolosi, per liberi professionisti in caso di malattia).

La Regione, dunque, gestirebbe i servizi d’emergenza come il pronto soccorso o la guardia medica (che potrebbe essere affiancata da un servizio di consulto digitale dell’assicurazione) mentre le assicurazioni gestirebbero la medicina generale. Ci sarebbe una competizione sana, invece, in altri settori quali le visite specialistiche, le degenze o gli interventi: Il pagamento sarebbe effettuato dalle assicurazioni (che sono comunque finanziate e garantite dal servizio pubblico) e, secondo la scelta del paziente, andrà verso una struttura pubblica, privata caritatevole o privata per profitto.

I tempi delle visite calerebbero: non ci sarebbe più una lista a cui iscriversi ma una moltitudine di medici, cliniche ed ambulatori che concorrono per avere i soldi della vostra visita: in sostanza la celerità del privato unita al pagamento nullo o ridotto del pubblico. Idem in campi come la fornitura di farmaci o gli interventi d’emergenza, che sarebbero cofinanziati dall’ente pubblico e dall’assicurazione dell’individuo.

Sarebbe, in sostanza, un Bismarck coperto dal pubblico, uno dei vari sistemi ibridi, dove l’assicurazione d’emergenza è pubblica mentre l’assicurazione generale è privata ma viene garantita nella forma base.

Il proibizionismo è criminale

Negli ultimi anni la cronaca nera italiana è stata più volte scossa da delitti legati al mondo della droga. L’ultimo, in ordine di tempo, è stato l’omicidio del carabiniere Mario Rega, ma potremmo anche parlare dei casi di Pamela e Desirée.

Ciò ha portato vari esponenti politici a concordare sull’esistenza di un’emergenza nazionale riguardante la droga, da combattere assolutamente: Qualche mese fa Matteo Salvini, che la paragonava alla a detta sua inesistente emergenza fascismo, qualche giorno fa Matteo Renzi, che ha parlato di questa emergenza e di come il già menzionato ministro dell’interno non voglia risolverla.

A mio parere la vera emergenza è che ci siano ancora politici che urlano alla guerra alla droga. Nessuno nega che vi sia stata un’emergenza droghe negli anni ’70 e ’80, quando periferie oggi rispettabili e vivibili di varie città italiane avevano alcune strade che al posto dell’asfalto avevano i drogati, ma se oggi sentiamo di crimini legati al mondo della droga la colpa è del proibizionismo. Brutto a dirsi ma lo Stato è complice morale di tanti delitti.

Se oggi sentiamo di crimini legati alla droga è in larga parte dovuto al fatto che il commercio di certe sostanze, invece di essere alla luce del sole, legale e regolamentato, è in mano alla criminalità. Se si parla tanto di un’ipotetica possibilità di passare dalle droghe leggere a quelle pesanti, il cosiddetto effetto gateway, come scusa per vietare anche la cannabis non si parla a sufficienza dell’ovvio effetto gateway della droga verso la criminalità, essendo l’unica che può soddisfare la domanda.

E di chi è la colpa? Dello Stato. Che, in un delirio d’onnipotenza, crede che sia sufficiente vietare un mercato per farlo scomparire. Ma così non è e, infatti, si va a favorire chi la legge non la rispetta: la criminalità. Danneggiando i consumatori, togliendo loro ogni garanzia su ciò che consumano e obbligandoli ad esporsi a situazioni pericolose e criminogene per procurarsi ciò che desiderano.

“Ben gli sta perché si drogano”? Beh, legittima opinione, ma spesso portata avanti, con netta incoerenza, da chi ha capitalizzato consenso sulla morte di Pamela Mastropietro o Desirée Mariottini.

Ebbene, se non mi espongo sul caso di Mario Rega, in fin dei conti sono indagini in corso e non ha senso parlare con dati parziali, mi permetto di dire che, molto probabilmente, i casi di Pamela e Desirée sarebbero potuti non essere così drammatici – drammatici in generale lo sono poiché un consumo così precoce di droghe unito a difficili situazioni familiari non è una bella cosa – se lo Stato non le avesse consegnate direttamente tra le braccia della criminalità. Non serve essere Milton Friedman per comprendere la differenza tra un negozio regolare, una farmacia e uno spacciatore parte di una gang.

Porre fine al proibizionismo non vuol dire porre fine ad ogni crimine legato alle droghe. In fin dei conti esistono anche crimini dovuti all’alcol: C’è chi ruba per comprare il vino, è abbastanza folle pensare che nessuno rubi per comperare la droga, ad esempio. Così come c’è chi potrebbe prostituirsi e finire male per ottenere i soldi necessari a comperare la droga.

Tuttavia, come hanno mostrato l‘esempio americano del proibizionismo sull’alcol e la depenalizzazione portoghese, la riduzione del danno dev’essere la via maestra, a beneficio dei consumatori e dei cittadini tutti.

Ma oggi lo Stato, che sono i politici che abbiamo votato noi, preferisce favorire la criminalità facendo pagare il prezzo a noi e, soprattutto, agli assuntori di sostanze, che invece dovrebbero essere aiutati, non messi in pericolo. Per questo dobbiamo dire no al proibizionismo, per non essere complici di questo schifo ed essere veramente dalla parte dei più deboli e vulnerabili.