Perché abolirei le case popolari?

Il collettivismo moderno è un tentativo di ritorno allo stato selvaggio. Cit. Gerard Radnitzky

Se vi chiedessi di abolire le case popolari e rivenderle agli attuali inquilini di lungo periodo, voi come rispondereste? Nel Manifesto Liberale de L’Individualista Feroce ( che potrete trovare nella nostra pagina Facebook ), sul tema Welfare e Politiche Sociali, ho affrontato la questione dell’abolizione delle case popolari e la sostituzione di essi con il Buono Affitto. Una proposta forte se consideriamo che oggi, in campagna elettorale, si discute tanto delle priorità, tra chi esclama “Prima gli Italiani” (anche nelle graduatorie delle case popolari, ndr) e chi è per l’accoglienza e l’assistenzialismo universale.

Ma andiamo per ordine. La situazione delle case popolari (e delle aziende municipali che gestiscono il servizio) sono arrivate ad un livello quasi poco sostenibile. Vi invito a fare un gioco. Scrivete su Google, sul motore di ricerca, tre parole come “debiti case popolari“. Il risultato vi sorprenderà. Vi troverete una marea di fatti che raccontano uno scenario davvero angosciante. Morosità milionari, debiti colossali, rischio pignoramento, criminalità, abusivismo. L’elenco potrebbe continuare all’infinito. Per non parlare dell’influenza negativa che hanno alcuni palazzi popolari sul mercato immobiliare dei condomini privati, in quanto la presenza di abusivi e di inquilini poco raccomandabili tendono a peggiorare, non solo il condominio ma anche il quartiere. Nel frattempo ci sono una marea famiglie in difficoltà economiche che aspettano da anni nelle graduatorie.

Non è tutto negativo tutto ciò che riguarda le case popolari, poiché ci sono tante famiglie e persone pacifiche che vivono in questi alloggi da tantissimi anni. Proprio per loro che ritengo sia opportuno prendere una decisione per rimediare alla situazione davvero preoccupante delle case popolari. Iniziamo a vendere, a prezzo di mercato, gli alloggi a partire dagli attuali inquilini che godranno del Diritto di Prelazione. Sarebbe importante quantificare quanto ha pagato l’inquilino nel periodo precedente, in modo tale che chi ha vissuto maggiormente nell’immobile, possa acquistare quest’ultimo con un prezzo inferiore rispetto a quello di mercato. Per il resto, saranno venduti gli immobili al libero mercato.

Io da buon liberale, credo nella Mano Invisibile del cittadino, perciò ritengo che sia la mano del cittadino che acquista e che investe, l’unica vera strada per far rivalutare certi quartieri popolari ormai in crisi per colpa della criminalità e dell’abusivismo.
Inoltre, ritengo che chiudere le aziende che gestiscono le case popolari darebbe davvero una boccata d’aria alla Pubblica Amministrazione locale, regionale e nazionale che si appresta a dare un servizio, pagare dei stipendi a dei dipendenti in attesa di ricevere un canone di locazione che non arriverà mai, costringendo le Regioni a chiedere prestiti per “mettere una pezza”.

Visto che si dice “morto un papa se ne fa un altro”, lo stesso discorso vale anche per la situazione abitativa. La mia proposta sarebbe quella di sostituire le case popolari con il Buono Affitto. Il Buono Affitto è un sostegno economico alle famiglie con un basso reddito nel pagamento del canone di locazione. Io non credo nell’assistenzialismo, perciò ritengo che il sostegno economico non dovrà avvenire attraverso il trasferimento in denaro dallo Stato al Cittadino, bensì sotto forma di Ticket (come il Buono Pasto), utile strumento di pagamento dell’affitto. In questo modo, non ci sarà alcun rischio che la politica di welfare per le famiglie in difficoltà non diventi l’ennesimo pretesto per far abituare il cittadino a vivere, a corrente alternata, di economia “in nero” e di assistenzialismo di Stato.

Per concludere, invito tutti ad un minimo di fantasia. Sono consapevole che allo stato attuale, ci sono tanti cittadini in difficoltà, tra chi è disoccupato e chi è “aggredito” delle tasse. Infatti, proprio perché siamo un’associazione che si impegna nella divulgazione delle idee liberali, gradiremo che le principali riforme da adottare siano proprio quelle dell’abbassamento delle tasse e della riduzione delle funzioni della Pubblica Amministrazione, in quanto siamo convinti che il lavoro e la crescita economica di un Paese sia possibile solo attraverso il profitto e che quest’ultimo non venga “mangiato” da tasse e burocrazia. A tal proposito ritengo giusto concludere con una citazione di Margaret Thatcher:

I Paesi ricchi sono quelli i cui governi incoraggiano la creatività dell’uomo, perché possa riuscire a lavorare con altri nel produrre beni e servizi che la gente vuole comprare.

È arrivato il populismo in America?

Abbiamo assistito alla rivalsa del populismo in tutto il mondo, dalla Le Pen all’austriaco Sebastian Kurz, e pare abbia contagiato anche il nuovo continente.
Trump ha sostenuto una campagna elettorale estremamente populista, dal populismo culturale a quello economico, in una linea che potremmo definire “reazionaria”.

Quando è arrivato questo populismo in America?

Nel 2012 c’è stata la sconfitta per un soffio di Mitt Romney, appartenente all’ala moderata del Partito Repubblicano, in lizza con Obama. Romney era il tipico candidato repubblicano, forse troppo tipico per riuscire a vincere.

Nel 2016 ci siamo ritrovati con questo show-man miliardario e galvanizzante, totalmente su un altro piano rispetto all’establishment conservatore o ai rivoluzionari del Tea Party. Eppure il populismo era nato già da alcuni anni. Anzi, si potrebbe dire che il populismo fosse nato prima in America che in Europa.

Gli USA si dichiarano indipendenti nel 1776, il loro primo presidente sarà il liberale classico George Washington dal 1789 al 1797. Dopo il mandato di John Adams dal 1797 al 1801, arriva Thomas Jefferson: ecco il primo vero populista della storia degli Stati Uniti d’America. (Sicuramente un populista molto, molto differente da Trump)

Esatto, proprio colui che scrisse “tutti gli uomini sono creati uguali” e che fu consultato per la stesura della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino.

Perché Jefferson era un populista?

Volente o nolente, Jefferson dava al popolo un nemico da combattere: prima Re Giorgio, poi i banchieri e gli affaristi. Era il tipico populista un po’ giustizialista che accusava i poteri forti, eppure -sebbene tutto ciò nel 2018 può sembrare estremamente stupido- è ciò che ha permesso agli States di costruire un apparato libero dalla corruzione ed una società in cui l’Individuo è al primo posto. Sempre in prima linea per combattere chiunque potesse e volesse monopolizzare il potere.

A Jefferson dobbiamo l’idea della Nazione sottomessa al Popolo, in contrasto con la linea di Adams e dei federalisti secondo i quali il potere dovesse andare agli illuminati e ai produttori di benessere.

Tutta la tradizione populista jeffersoniana ha permeato la politica statunitense per centinaia di anni, avendo sempre come focus la lotta all’aristocrazia e all’elitismo dei banchieri, dei mercanti, dei grandi proprietari terrieri per un solo scopo: permettere agli Individui di essere liberi.

Nel 1891 tale tradizione venne ereditata dal People’s Party, incentrato molto più nel ruralismo e nel migliorare il sistema economico vigente che nello sviluppo industriale, e che venne inglobato nel Partito Democratico nel 1896.

Tralasciando l’analisi di quest’ultima parentesi molto complessa, il populismo negli Stati Uniti ha sempre prodotto benefici enormi, fra cui la più elevata mobilità sociale (passaggio effettuato da un individuo da un ceto a un altro, generalmente verso l’alto) di sempre, crescita e progresso.

Perché, allora, il nuovo populismo non è ben visto? E Trump?

Negli USA il populismo ha funzionato perché è nato come una corrente di pensiero secondo la quale si mette in discussione ogni forma di potere, partendo dal dibattito per giungere a scelte razionali. Non parlava alla pancia delle persone, ma al loro cervello.

Ecco il primo motivo per cui il populismo altrove ha fallito: cavalcando gli umori della popolazione, il populismo (soprattutto di matrice marxista-hegeliana) ha fatto leva sull’invidia sociale, sulla lotta di classe e sulla redistribuzione delle risorse e/o dei mezzi di produzione.

Il nemico dei diritti e dell’Individuo, il nemico di “Noi, il popolo” non viene più affrontato con criteri di razionalità, bensì con la rabbia.

Ecco che arriva Trump: in un momento storico nel quale l’indignazione dei Social Justice Warriors raggiunge livelli vertiginosi ed il marxismo culturale permea le frange estreme dei Democratici, la risposta è l’avanzare del politically incorrect (=“una verità che i democratici trovano troppo dolorosa da riconoscere e quindi non vogliono venga espressa“, Dennis Prager) e di una nuova corrispettiva risposta: il populismo “grassroot” (di base) di Trump e Sanders.

Aldilà delle opinioni su Trump, il suo non è populismo Jeffersoniano, ma è una nuova specie che rischia di distorcere la tradizione popolare americana. La sua stessa metodologia potrebbe essere usata contro di lui, soprattutto ora che i moderati nei due principali partiti sono diventati marginali.

Dunque, torniamo alla domanda da cui siamo partiti: è arrivato il populismo in America? No. Allora, è arrivato un nuovo populismo in America? Sì.

Prospettive di Libertà radicali: For a new Liberty, M.N. Rothbard ( Parte 1)

 

In questo articolo vogliamo offrirvi una diversa prospettiva sulla Libertà, ovvero il  punto di vista  di Murray Newton Rothbard (qui il link alla pagina Wikipedia a lui dedicata), considerato, a ragione, il “padre” del Libertarismo contemporaneo. Rothbard è stato un economista appartenente alla Scuola Austriaca e, partendo dalle premesse metodologiche individualistiche di Mises, di cui fu allievo, dal Giusnaturalismo proprietarista di matrice lockeana e dalla tradizione dell’anarchismo filosofico americano, giunse a dare corpo a quello che è il Libertarismo contemporaneo.

Questa breve premessa introduttiva serve per esplicitare qual è l’universo del discorso all’interno del quale si situa “For a new Liberty” (disponibile in italiano grazie a Liberilibri), il “manifesto libertario”. Questo manifesto venne scritto da Rothbard con un intento sia divulgativo, per raggiungere più persone possibili e metterle in contatto con le idee libertarie, sia per creare una sorta di punto di riferimento in cui più libertari potessero riconoscersi. Ovviamente, come ogni manifesto, ha intenzioni anche pratiche: nella parte conclusiva, Rothbard cerca di delineare strategie, modalità, temi e persone verso le quali il libertarismo si deve rivolgere per giungere a compimento. Il tutto rigorosamente nel rispetto dei diritti inviolabili delle persone e senza l’uso della violenza.

“For a new Liberty” si snoda attraverso tre parti – il credo libertario, soluzioni libertarie a problemi attuali e un epilogo – il tutto preceduto da una premessa storica che cerca di inquadrare il libertarismo in una tradizione ben precisa. Infatti, il libertarismo è una prospettiva radicale sulla libertà, figlia del continente americano – il manifesto si rivolge continuamente e assiduamente ai cittadini degli USA seppure è un manifesto per tutti gli uomini –  e continuatrice della tradizione del movimento liberale classico del XVIII e XIX secolo. Coloro che sono individuati come “antenati genetici” del libertarismo sono Locke, il cui contributo giusnaturalista è il cardine del libertarismo, i Livellatori della Rivoluzione inglese, John Trenchard e Thomas Gordon autori di Cato’s Letters, opera che fu molto letta nel periodo che portò alla Rivoluzione americana, Thomas Jefferson, Thomas Paine, autore di “Common Sense”, pamphlet decisivo per l’opinione pubblica nella Rivoluzione americana, Jackson, Lysander Spooner e molti altri.

Quello che Rothbard chiama il “credo libertario” è sostanzialmente la riproposizione del Giusnaturalismo di matrice Lockeana (diritti naturali, self-ownership, diritto all’homesteading) il tutto arricchito da quello che è denominato “non-aggression principle”, anche conosciuto come “assioma di non aggressione” (abbreviato NAP); l’assioma è così riassunto da Rothbard:

«Il credo libertario si basa su un assioma centrale: nessuno può aggredire la persona o la proprietà altrui. Lo si potrebbe chiamare “assioma della non aggressione”. L”‘aggressione” viene definita come l’uso o la minaccia della violenza fisica contro la persona o la proprietà di altri. Aggressione è quindi sinonimo di invasione.»

Questo assioma, che secondo Rothbard è una verità morale che si impone alla nostra ragione, mostra l’enorme valore attribuito alla libertà individuale dai libertari. Ma in questo contesto ci troviamo davanti ad una formulazione della libertà e dei diritti di carattere negativo; la libertà è sostanzialmente l’assenza di coercizione e l’uomo non possiede tutti quei diritti che possiamo definire di “seconda generazione”: diritto alla salute, istruzione, lavoro ecc. Il libertario difenderà quelle libertà che possiamo definire “civili”: libertà di parola, di assemblea, di stampa ecc. e il diritto di contrattare liberamente, di scambiare liberamente beni. Ovviamente alla base vi sono i diritti di proprietà.

A differenza degli anarco-collettivisti, dei marxisti e di tutte le possibili declinazioni dell’ideologia comunista, così come di Hobbes, l’antropologia alla base del Libertarismo è “neutra”: essa non ritiene che l’uomo sia nella sua essenza egoista, né che sia lupo ad ogni suo simile. Il libertario si limita a constatare che gli uomini a volte si comportano in maniera altruistica, altre volte in maniera egoistica, alcune volte sono “buoni” e altre “cattivi” ed evidenzia come la raggiera di comportamenti che un uomo può assumere sono molteplici e vari, ma il discrimine fondamentale è il rispetto del NAP. Cosa ancora più importante è la differenza con i comunisti: nell’idea libertaria non è contenuta nessuna pretesa di cambiamento radicale dell’uomo. Essa è una analisi realistica e come tale non prospetta né promuove un cambiamento nello spirito o nell’essenza dell’uomo, non prospetta l’avvento di nessun “Uomo Libertario”.

Per le loro posizioni, a volte i libertari sono etichettati come di destra, quando promuovo ad esempio il libero mercato, la libertà di contratto, i diritti di proprietà, e a volte come di sinistra come quando promuovo la libertà sessuale, l’aborto, libertà di stampa. Il fatto è che alla base di tutte queste prese di posizioni vi è il rispetto dei diritti di proprietà individuali, rimarcati dal NAP. Questa strenua difesa della libertà e dei diritti porta, se si vuol essere coerenti fino in fondo con i principi suesposti, ad una applicazione della legge morale a tutti, anche allo Stato, ricollegando quindi politica e morale. Per questo motivo libertario è sinonimo di anarchico.

Lo Stato è l’oggetto di critica di tutto il manifesto, l’obiettivo polemico verso cui Rothbard si scaglia continuamente: lo Stato è un ente che si basa sulla coercizione, sulla violenza, sulla minaccia, sul furto e sull’omicidio di massa. Infatti, se noi applichiamo coerentemente il NAP allora dovremmo considerare la tassazione un furto, la coscrizione obbligatoria un rapimento organizzato e la guerra un omicidio di massa.

Per Rothbard lo Stato è un prodotto storico ed umano che nel corso della storia si è imposto, apparentemente, come unica alternativa al “caos dell’anarchia dello stato di natura”, come unico ente razionale ordinatore della realtà. Ma esso non ha diritto di imporsi sulla libertà delle persone ed inoltre è anche causa di inefficienze e sprechi, per non parlar dell’incalcolabile numero di morti dovuti alle guerre condotte nel nome dell’interesse nazionale e del bene comune. La provocazione di Rothbard è questa: se un ladro vi dicesse che la rapina che sta commettendo su di voi è per il bene di molte altre persone, voi sareste portati a non ritenere ciò un furto? Non è forse così che funziona la tassazione?

Lo Stato viene paragonato ad una gang, ad un gruppo di banditi che si sono imposti su un territorio nel quale si sostentano con la rapina e l’estorsione sistematica, praticano la schiavitù (coscrizione obbligatoria) e l’omicidio di massa, ma il tutto è effettuato per il bene dei cittadini. Inoltre, Rothbard critica la propaganda, la manipolazione continua delle coscienze, perseguita grazie alle feste laiche e alle celebrazioni dell’ideale nazionale e patriottico che portano gli individui a ritenere che il potere dello Stato sia inevitabile, supremamente giusto e buono.

Ovviamente, come si può intuire dalle affermazioni precedenti, l’obiettivo del libertarismo è l’instaurarsi di una società libertaria, quindi anarchica, priva dello Stato, nella quale gli individui possano essere, finalmente, realmente liberi.

(continuerà nella Parte 2 che uscirà nei prossimi giorni)

Breve apologia dell’individualismo

Sentir usare la parola individualismo in senso positivo fa storcere il naso a molti. Essa è una parola che ha assunto un valore negativo per la maggior parte delle persone, basti pensare alla dicotomia individuo-società, dove il polo positivo è rappresentato, nel senso comune, dal secondo termine. Per i più questa è una opposizione binaria perfetta che riesce a descrivere la realtà. Però, dal punto di vista liberale, le cose sono leggermente diverse.

Innanzitutto, partiamo dal presupposto che il termine individualismo può assumere diverse sfumature in base al contesto in cui è usata e da chi ne fa uso.  Queste sfumature sono molto diverse tra loro e parlare di individualismo senza aver ben chiaro di cosa si parla può portare a cadere in luoghi comuni e banalità.

Senza pretese di alcun tipo, questo articolo si propone di illustrare alcuni dei significati del termine individualismo, con l’auspicio di essere un incipit per una riflessione sul tema stesso.

In primo luogo, l’individualismo è un approccio metodologico ben preciso. Esso è il principio di indagine alla base della riflessione sulla società e l’economia di Mises, poi ripreso anche da Rothbard. Utilizzando le parole del pensatore newyorkese, questo approccio metodologico può essere così sintetizzato: «solo gli individui hanno fini e possono agire per perseguirli. Non esistono fini delle azioni imputabili a “gruppi”, “collettività” o “Stati” che non possano essere ricondotti ad azioni di specifici individui».[1] Ciò significa utilizzare un certo filtro nel leggere i fenomeni economico-sociali, nell’analisi del diritto e così discorrendo. In questa maniera è possibile vedere cosa c’è alla base della società: essa non è altro che l’insieme degli individui e delle loro relazioni reciproche.

Questa analisi può sembrare banale, ma essa demistifica una visione della società che ha avuto enorme fortuna, ovvero l’idea di una società organica che viene prima dell’individuo e anzi ne è il fondamento. È sostanzialmente la concezione platonico-aristotelica, ripresa poi da Hegel. La dicotomia individuo-società è importante, ma bisogna capovolgere il rapporto rispetto a come comunemente viene inteso. Inoltre, non si può attribuire un valore morale negativo o positivo ad uno dei due termini. Semmai sono le azioni degli individui a poter essere biasimate o lodate. La società, se intesa alla maniera comune, diviene una sorta di ente metafisico che “tiene all’essere l’individuo” il quale, fuori di essa, non può esistere. In realtà, quest’ultima affermazione non è del tutto sbagliata se si prescinde dall’utilizzo dei vari termini attinenti alla metafisica. L’individuo ha bisogno della società. Non può vivere senza di essa, è veramente animale sociale. Ma non è la società ad essere alla base dell’individuo, semmai è il contrario e questo è un punto fermo da tenere a mente.

Quindi, una volta preso atto di ciò, non si può rimproverare ad un individualista di voler essere contrario alla società, di essere una mina vagante. Un individualista non cerca di recidere i legami che tengono insieme il tessuto sociale, ha soltanto preso atto dell’importanza della sua posizione all’interno di quel reticolo.

Individualismo significa anche autonomia, ovvero la capacità di darsi fini liberamente posti e di perseguirli; significa scegliere liberamente cosa fare e come portare avanti le proprie iniziative; significa cercare di realizzarsi il più possibile. Tutto questo non può avvenire al di fuori della società.

Spesso si cerca di descrivere negativamente gli individualisti ricorrendo al concetto di monade o di atomo. Infatti, si rimprovera agli individualisti di essere chiusi in sé stessi, senza finestre sul mondo esterno, egoisticamente arroccati nel proprio rifugio mettendo a repentaglio la società. Ma, come insegna la chimica, gli atomi hanno delle configurazioni elettroniche che li portano a legarsi con altri atomi in maniera da avere una situazione più favorevole ad entrambi. Così si formano molecole via via sempre più grandi fino ad arrivare agli oggetti della quotidianità. Non è forse così che si forma una società? Sono gli interessi individuali ad essere la linfa della società stessa.

[1] Rothbard (1962), p.2.

Democrazia è sinonimo di uguaglianza, giustizia e bene comune?

La libera scelta può esistere almeno in una dittatura che può limitarsi, ma non sotto il governo di una democrazia illimitata che non può”, Friedrich Von Hayek.

Partendo da questa  famosa citazione dello studioso austriaco, in questo articolo tratteremo il tema della demarchia, ovvero dello stato minimo in regime di democrazia, il cui potere è quindi limitato.

Per un liberale di stampo evoluzionista l’accento va posto non sul “chi governa” ma sul “quanto potere ha chi governa”, la demarchia mostra proprio questa propensione alla ricerca di porre dei limiti al potere di chi governa, chiunque sia.

Il significato del termine “democrazia” è con il tempo diventato, ingiustificatamente ed in modo prettamente retorico, sinonimo di giustizia ed uguaglianza.

Come tutti sanno invece esso indica il governo del demos, ossia del popolo, non si tratta quindi di una caratteristica del governo ma è proprio la modalità, per citare nuovamente Hayek “indica un metodo per determinare decisioni politiche, non una qualità sostanziale”.

Si è assistito quindi alla degenerazione del concetto di modo di governo, approvando di fatto un sistema che rappresenta l’insieme incoerente di interessi particolari (non del demos quindi), a favore di un gruppo che riesce mantiene lo status quo grazie al proprio limitato consenso popolare.

Nella attuale democrazia, la maggioranza ripudia la limitazione del potere (necessaria per evitare la tirannia) perché qualunque suo desiderio viene ritenuto giusto per il semplice fatto che sia la maggioranza stessa a determinarlo.

Se il potere legislativo e quello esecutivo sono espressione della medesima maggioranza, a questo punto non vengono sottoposti a nessuna limitazione e il loro agire sarà indirizzato al mantenimento del loro consenso per non uscire dallo status quo, redistribuendo ad esempio reddito in nome di una fantomatica giustizia sociale (giustizia determinata dalla maggioranza).

Il governo dovrebbe essere soggetto alla Legge, non avere un potere illimitato, diventando così impossibilitato a rendere conto agli interessi particolari dei gruppi di consenso, non avendo modo di soddisfarli. L’emanazione poi di sole leggi generali ed astratte, valenti erga omnes, renderebbero i cittadini liberi di muoversi nella propria sfera di autonomia delimitata appunto da esse.

L’indiscutibilità del parlamento e del governo derivano da principi collettivisti il cui assunto è che le norme derivino da società preesistenti, quando nella realtà la società si è creata inintenzionalmente con l’interazione tra singoli individui che sulla base di principi comuni si sono uniti e si sono sottomessi a questi principi (estrinsecati nella Costituzione della Nazione) .

E’ necessaria quindi una sottomissione dei poteri legislativo ed esecutivo ai fondamenti della società creatasi in intenzionalmente, pena cadere nella tirannia della maggioranza.

La DEMARCHIA Heyekiana è una democrazia il cui potere non è illimitato giustificato dal fatto di essere espressione della maggioranza, ma limitato perché sottomesso ai principi sui quali si fonda la società.

Questo concetto non è mai stato più attuale di oggi, l’unica speranza di poter superare l’attuale imbarazzante stasi Istituzionale è proprio quella di poter muoversi verso la direzione demarchica, annullando di fatto la “tirannia” dei gruppi di consenso e dell’apparato burocratico, in nome della libertà e del merito.

La Cina è ancora comunista?

La Cina è ancora comunista? La risposta a questa domanda è complessa ed è possibile scinderla in due parti distinte, che rispondono alla dimensione sociale e alla dimensione economica. La “Repubblica” Popolare Cinese è tutt’ora guidata da una dittatura comunista a partito unico, nella quale il dissenso viene represso anche violentemente.

Società

La situazione dei diritti umani in Cina continua a subire numerose critiche da parte della maggior parte delle associazioni internazionali che si occupano di diritti umani, le quali riportano numerose testimonianze di abusi ben documentati in violazione delle norme internazionali. Il sistema legale è stato spesso criticato come arbitrario, corrotto e incapace di fornire la salvaguardia delle libertà e dei diritti fondamentali.

La Cina è il Paese al mondo in cui si eseguono più condanne a morte, sebbene le autorità si rifiutino di rendere pubblica alcuna statistica ufficiale. Riguardo le condanne eseguite nel 2007, Amnesty International  ha raccolto notizie su 470 esecuzioni, ma ne stima un totale di almeno 6000 nell’arco dell’anno. Nessuno tocchi Caino stima una cifra simile di almeno 5000 esecuzioni nello stesso periodo, con un’incidenza dell’85,4% sul totale mondiale. Entrambe le associazioni riconoscono però che c’è stata una diminuzione nel numero delle esecuzioni, dopo che è stata reintrodotta la norma per cui tutte le condanne a morte devono essere confermate dalla Corte suprema del popolo: ciò consente di attutire la piaga delle condanne a morte comminate dopo processi sommari e iniqui. Alcune stime, tuttavia, sono ben più pessimistiche: un esponente politico cinese, Chen Zhonglin, delegato della municipalità di Chongqing, giurista e preside della facoltà di legge dell’Università Sudorientale Cinese, in un’intervista al China Youth Daily ha parlato di 10.000 esecuzioni l’anno. In quell’occasione Chen dichiarava la sua intenzione di lavorare per migliorare la situazione dei diritti umani in Cina.

Secondo quanto rivelato dal viceministro della salute Huang Jiefu nel corso del 2005, è dai condannati a morte che proviene la maggioranza degli organi espiantati in Cina, spesso senza che il donatore abbia dato il suo consenso, sebbene la legge lo esiga. L’espianto non consensuale pare che venga praticato sistematicamente ai condannati appartenenti al movimento spirituale del Falun Gong, perseguitato dal regime di Pechino ufficialmente dal 20 Luglio 1999, quando l’allora leader del PCC mobilitò le forze di Stato per sradicare il Falun Gong e i suoi praticanti. Questo fenomeno, che ha determinato di fatto un traffico illegale di organi umani, ha generato il sospetto che le condanne vengano eseguite quando c’è richiesta di organi compatibili con il condannato.

Nel 2006 l’avvocato per i diritti umani David Matas e l’ex segretario di Stato canadese David Kilgour, hanno condotto in un’indagine indipendente dimostrando che il personale militare e sanitario nelle carceri e negli ospedali cinesi rimuove forzatamente gli organi dei praticanti del Falun Gong ancora in vita per scopo di lucro. Secondo il loro rapporto, denominato “Bloody Harvest”, tra il 2000 e il 2005 quasi 41.500 praticanti sono morti per questo motivo, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto. Il governo cinese si è frequentemente macchiato di violazioni dei diritti umani nei confronti di minoranze etniche e religiose e dissidenti politici: l’esempio più celebre, per l’opera di sensibilizzazione mondiale in cui si è prodigato il Dalai Lama, è l’occupazione armata del suolo tibetano, oltre che il sopracitato esempio della pratica di qigong del Falun Gong.

Il governo cinese assicura di dispensare la pena capitale solo in caso di gravi reati (omicidio, strage, terrorismo…), escludendo reati politici o di qualsiasi altro genere, e ha pubblicato sul web una copia del proprio codice penale che conferma questa versione. Tuttavia Amnesty International afferma che in Cina sono 68 i crimini punibili con la pena di morte, inclusi reati non violenti come l’evasione fiscale, l’appropriazione indebita, l’incasso di tangenti e alcuni reati connessi al traffico di droga.

In Cina vengono applicate gravi limitazioni alla libertà di informazione, alla libertà religiosa, quella di parola e persino alla libertà di movimento dei cittadini. L’evento più conosciuto in occidente delle azioni di forza perpetrate dalla Cina nei confronti dei dissidenti politici è rappresentato dalla repressione della Protesta di piazza Tiananmen il 4 giugno 1989, in cui perse la vita un numero imprecisato di manifestanti e soldati (200 secondo il governo cinese, tra 2 e 7 mila secondo alcuni dissidenti).

In Cina non esistono sindacati indipendenti, ma solo quello governativo ed è severamente vietato lo sciopero. Lo stato, almeno sulla carta, assicura i diritti dei lavoratori, ma la quantità annua di morti sul lavoro ha destato molte preoccupazioni e parecchie critiche e denunce non solo da organizzazioni umanitarie, ma anche dall’interno degli stessi organi di governo cinesi.

Un’altra accusa di lesione dei diritti umani rivolta al governo cinese è la pianificazione familiare obbligatoria, voluta dallo stesso Mao Zedong e tutt’ora impiegata. La legge che la regola, in vigore dal 1979, è la “Legge eugenetica e protezione della salute”, altrimenti detta ‘’Legge del figlio minore” che si è successivamente evoluta nella cosiddetta “Legge del Figlio Unico“, introdotta nel 2002 e abrogata dalla Corte Suprema cinese nel 2013. Secondo le fonti governative, grazie all’introduzione di questa pratica le nascite evitate nella Repubblica Popolare Cinese sono state 300 milioni. La legge prevedeva che una coppia potesse avere un figlio nelle zone urbane, e due in quelle rurali. I trasgressori potevano portare a termine un’eventuale gravidanza dietro pagamento di un’ingente multa, oppure erano obbligati a rinunciare al figlio.

Le accuse verso questo progetto sono molto pesanti: la lesione della libertà dei genitori; l’uso massiccio e obbligatorio dell’aborto, per di più in modi particolarmente dolorosi; le dure repressioni contro i cittadini che, specialmente in zone rurali o povere, opponevano resistenza al progetto; la violenza verso le donne, visti i casi certificati di sterilizzazioni forzate, operate in molti casi ai danni delle colpevoli; discriminazione verso le donne; in moltissime famiglie (dato anche il divieto di diagnosticare il sesso del nascituro), specialmente nelle zone rurali, le neonate sarebbero uccise, oppure non registrate all’anagrafe (costringendole alla totale assenza di diritti politici e alla rinuncia di istruzione e di qualunque assistenza sanitaria); discriminazioni sociali, perché il sistema fa in modo che i più facoltosi possano “pagarsi” il diritto al secondo (o al terzo) figlio pagando la sanzione corrispondente (in genere di 50.000 yuan, circa 7.700 dollari, 6.400 euro).

Da questi semplici esempi è possibile vedere che il tanto osannato paradiso socialista Cinese esiste solo nella mente dei suoi ignoranti sostenitori.

Economia

Dal punto di vista economico, invece, la situazione è ben diversa. Da circa 40 anni, il PCC ha progressivamente abbandonato il Comunismo Maoista, il quale si rivelò fallimentare e lesivo della società (gli storici stimano che “il Grande Balzo in Avanti”, cioè le riforme economiche volute da Mao per un’industrializzazione forzata della Cina fra il 1958 e il 1961, abbia causato una gravissima carestia nel 1960 che provocò fra i 14 e i 43 milioni di morti, a seconda delle fonti).

Nel 1976, a seguito della morte di Mao Zedong, Deng Xiaoping assurse a leader de facto del PCC. Deng era consapevole che la politica economica attuata dal suo predecessore non avrebbe portato alla crescita, e perciò una volta ottenuto il potere si prodigò per riformare l’economia cinese. Archiviata definitivamente la lotta di classe come elemento fondamentale della società, insieme alla Rivoluzione Culturale voluta da Mao, Deng pose, come obiettivo del governo cinese, lo sviluppo economico del paese.

Nel 1978 Deng presentò al congresso del PCC la riforma delle “Quattro Modernizzazioni”, una riforma destinata cioè a modernizzare quattro settori: agricoltura, scienza e tecnologia, industria e difesa nazionale. Alla base della riforma c’era il cambiamento degli obiettivi strategici dei piani di sviluppo: l’industria pesante, che fino ad allora era stato il settore trainante dell’economia, cedette il posto ad agricoltura ed industria leggera. In particolare il settore agricolo fu profondamente riformato in quanto non più in grado di soddisfare le necessità della popolazione: il problema principale stava nelle tecniche agricole arcaiche utilizzate, rimase immutate per secoli, che il piano economico di Mao non aveva neanche lontanamente pensato di modernizzare.

Ma il vero fulcro della riforma che consentì il boom economico negli anni ’80 e ’90, fu la ristrutturazione dell’apparato statale. In particolare, Deng capì l’importanza di creare un sistema economico nel quale l’industria fosse libera dall’ingerenza dell’amministrazione statale. Per consentire un più stabile collegamento tra imprese locali, statali e collettive e per abbattere le barriere amministrative che ostacolavano la fluidità del processo produttivo, si ricorse alla suddivisione e specializzazione del lavoro. Particolare attenzione fu posta nella preparazione del personale tecnico specializzato e molti studenti cinesi furono mandati all’estero per apprendere le più moderne tecniche produttive. L’attenzione fu focalizzata sulle richieste del mercato, che avrebbe guidato le scelte produttive ed impegnato gli imprenditori a incrementare la competitività e la produzione.

Importanti e decisive furono le iniziative intese a incoraggiare gli investimenti esteri. A questo fine furono istituite le “Zone ad economia speciale“, nel sud-est del Paese, nelle province del Guangdong e del Fujian, Zhuhai, Shenzhen, Shantou e Xiamen, seguite poi, nel 1988, dall’intera isola di Hainan elevata a provincia. In queste zone vennero previsti dei trattamenti preferenziali riservati agli stranieri che avevano intenzione di investire in Cina.

L’apertura verso l’estero e l’introduzione del libero mercato rappresentarono così il cardine del disegno politico voluto da Deng Xiaoping. La dottrina “un Paese, due sistemi”, consentì di giungere tra il 1984 e il 1987 agli accordi fra Pechino e Londra e fra Pechino e Lisbona per il ritorno di Hong Kong e Macao alla madrepatria rispettivamente nel 1997 e nel 1999.I due territori avrebbero avuto lo status di “zone economiche speciali” e un alto grado di autonomia e poteri legislativi e giudiziari indipendenti.

Le riforme messe in atto hanno portato a quella che lo stesso Deng Xiaoping definì “economia socialista di mercato” o “socialismo con caratteristiche cinesi”, una nuova struttura economica che combinava il socialismo, che reggeva la struttura amministrativa ed istituzionale, ad un sistema economico che prevedeva il libero mercato e il libero scambio.

Il concetto di Economia Socialista di Mercato fu portata avanti dai successori di Deng, e la Cina è entrata nel nuovo millennio come attore di primo piano nella politica internazionale. Addirittura nel 1997, il quindicesimo congresso del partito riconobbe l’importanza per l’economia cinese dell’impresa privata, fino ad allora considerata una forza secondaria rispetto alle aziende di stato. Infatti, sebbene le più grandi aziende cinesi siano ancora quelle controllate dallo stato, l’economia è stata trainata dalla crescita del settore privato. Per fare un esempio tra i tanti, secondo un recente rapporto di McKinsey la Cina ha dato vita a un terzo del numero globale di start up tecnologiche “unicorno” (aziende private valutate più di un miliardo di dollari).

Lo stesso Xi Jinping, attuale presidente della Repubblica Popolare Cinese, nel suo discorso in occasione del XIX Congresso del Partito Comunista Cinese, ha parlato esplicitamente di continuazione del processo di liberalizzazione dei cambi e dei tassi d’interesse, assicurando che “la porta della Cina è stata aperta e non sarà chiusa, ma si aprirà di più”.

Tuttavia, ombre si allungano sulla Cina: come in qualsiasi altro Paese caratterizzato da un potere centrale dittatoriale, anche lì è possibile vedere la mano dello Stato smorzare e reprimere le libertà dei cittadini, sia in ambito sociale che in ambito economico:

  • l’indipendenza futura del settore privato è fragile. Negli ultimi mesi il governo cinese ha effettuato un giro di vite su quegli imprenditori che sembrerebbero avviati a diventare degli oligarchi in stile russo. Ha inoltre cercato di frenare le acquisizioni all’estero, oltre che le attività delle principali aziende tecnologiche cinesi, come Alibaba e Tencent;
  • nel 1987, il tredicesimo congresso di partito aveva presentato un ambizioso programma di riforme politiche che secondo Zhao Ziyang, all’epoca Segretario Generale, erano finalizzate a rendere la dirigenza cinese più pluralistica, trasparente e responsabile (pur evitando la democrazia multipartitica, come imposto da Deng Xiaoping). Oggi assistiamo a un indebolimento della società civile dopo anni di repressione politica e ad un rafforzamento dell’autoritarismo. L’obiettivo delle riforme politiche all’interno del partito sembra esser stato soffocato dalla campagna anticorruzione di Xi, che ha effettuato purghe contro funzionari corrotti ma anche contro i suoi avversari politici;
  • nel 1997, il quindicesimo Congresso del Partito ha celebrato il passaggio della sovranità su Hong Kong dal Regno Unito alla Cina: il territorio sarebbe stato amministrato secondo la politica di “un Paese, due sistemi”. Nel 2012 e 2014 sono esplose delle proteste, confluite poi nel “movimento degli ombrelli” del 2014, che ha portato le lotte di Hong Kong all’attenzione del mondo. Eppure, in quegli anni il modello dei “due sistemi” sembrava solido. Oggi, invece, l’elemento più preoccupante della questione di Hong Kong è quanto sia diventato fragile questo stesso modello. Joshua Wong, giovane leader degli attivisti di Hong Kong nel periodo precedente al diciottesimo Congresso del Partito del 2012, oggi è un prigioniero politico. Carrie Lam, succeduta a C.Y. Leung nel ruolo di chief executive di Hong Kong dal luglio di quest’anno (scelta tramite una procedura pilotata in modo da fare emergere una figura gradita a Pechino) ha invitato a enfatizzare i temi patriottici nelle scuole locali. Xi ha chiarito che è determinato a fare tutto quel che potrà per minimizzare le differenze tra le modalità di governo di Hong Kong e quelle delle altre città.

In conclusione, è possibile affermare che l’attuazione di politiche liberiste, seppur molto annacquate dalla pervasiva presenza dello Stato nella vita pubblica, sia stata la principale causa del successo e della prosperità economica cinese. Consapevole che solo un’economia di mercato avrebbe portato allo sviluppo economico, Deng Xiaoping e i suoi successori hanno tacitamente sacrificato l’ideologia all’economia, mantenendo inalterati solo i meccanismi tipici dei regimi totalitari che consentirono a pochi uomini il controllo assoluto della Cina. Ma la prosperità economica non basta, e la Cina potrà definirsi veramente grande solo quando affronterà la “Quinta Modernizzazione”, tanto voluta da Wei Jingsheng e altri riformisti, e cioè la transizione del sistema politico cinese da un regime dittatoriale a una democrazia multi-partitica, nella quale i cittadini cinesi non siano semplici numeri asserviti alla macchina statale, ma uomini con diritti e libertà inalienabili.

A dispetto di quanto dicano molti nostalgici maoisti, la Cina non ha bisogno di una nuova Rivoluzione Culturale, volta alla dittatura del proletariato, ma piuttosto di una vera Rivoluzione Liberale.

La concorrenza è sleale o più efficiente? È questione di distruzione creativa

James Taggart, Il presidente di una compagnia ferroviaria discute con uno dei suoi dipendenti, Eddie Wilers, il quale gli fa notare che il loro servizio è pessimo da mesi e che stanno perdendo tutti i loro clienti:

«Jim! Non capisci che la nostra linea, la Rio Norte Line, sta andando in rovina, che qualcuno ci biasimi o no?»

«La gente la userebbe, sarebbe costretta a usarla… se non fosse per la Phoenix–Durango.»

Vide il viso di Eddie irrigidirsi. Continuò: «Nessuno si è mai lamentato della Rio Norte Line, finché non è venuta in campo la Phoenix–Durango!»

«La Phoenix–Durango sta facendo un magnifico lavoro.»

«Immagina, una cosa che si chiama Phoenix–Durango che fa concorrenza alla Taggart Transcontinental! Non era che una linea locale adibita al trasporto del latte, dieci anni fa.»

«Ora, però, ha ottenuto la maggior parte dei trasporti dell’Arizona, del Nuovo Messico e del Colorado.»

Dopo questo breve estratto del discorso fra Eddie e James dal romanzo La Rivolta di Atlante di Ayn Rand, mi viene in mente un solo concetto: la Distruzione Creativa di Schumpeter, ovvero l’innovazione che permette di produrre nuovi beni, offrire migliori servizi, aprire nuovi mercati, il tutto magari a costi ancora più convenienti.

Sì, le aziende che non si innovano vengono “distrutte”. E cosa c’è di male? Abbiamo visto tutti la fine della grandiosa Olivetti, l’impero industriale che ha influito sul mercato mondiale con i suoi prodotti, la stessa Olivetti che è passata da 26’000 dipendenti alla fine degli anni ’90 ad oggi con poco più di 500. La domanda e l’offerta si evolvono nel tempo, non è possibile rimanere ancorati al passato se si vuole guardare al futuro, anche con la propria azienda.

Ma allora perché questa distruzione è creativa? Perché la società si sviluppa, avanza tecnologicamente e nuove aziende con prodotti e servizi più adatti o migliori sostituiscono le aziende precedenti.

La situazione che permette tutto ciò è la concorrenza. Perché?
Un albero che è da solo nel campo cresce storto e spande lontano i suoi rami, mentre un albero che è in mezzo al bosco, con l’opposizione degli alberi vicini cresce dritto e cerca l’aria e il sole sopra di sé” (Immanuel Kant, Lezione sulla Pedagogia)

La concorrenza è il fulcro della sopravvivenza e dell’autodeterminazione, è la capacità di migliorare e migliorarsi per non rimanere indietro; è anche possibile fare una’analogia con l’eros platonico, la forza che permette al mondo di andare avanti e di evolversi. Si potrebbe anche dire che l’Individuo ha la tendenza a competere con la propria persona, per superarsi e migliorarsi, ma andrei in un altro, bellissimo ambito.

In sostanza, è sleale che qualcuno dia il meglio di sé, quando le regole sono le stesse per tutti? No, tutt’altro: è sbagliato fermarsi ed aspettarsi che la situazione diventi statica una volta arrivati al vertice. Bill Gates non sarebbe il primo nella lista di Forbes da lustri se non avesse saputo innovarsi, ma James Taggart -come milioni di persone nel nostro paese- era obnubilato da quella mentalità che non consente di vedere oltre il proprio naso, quella mentalità che preferisce preservare l’ordine anziché sovvertirlo per esaudire i propri sogni e al contempo migliorare la società.

Il liberalismo può essere considerato un antidoto patriottico?

Il liberalismo può essere considerato un antidoto patriottico? Dipende da cosa intendiamo come patriottismo. Il patriottismo è spesso associato al nazionalismo, nonostante siano in realtà due pensieri politici molto diversi. Se un giorno dovessi spiegare che differenze ci siano tra i due pensieri, direi che il nazionalismo  è un aspetto oggettivo e il patriottismo un aspetto soggettivo.
 
Con il nazionalismo è lo Stato o il Governo che dice cosa dobbiamo fare per rendere forte l’Italia, con il patriottismo siamo noi cittadini che diamo qualcosa per rendere forte l’Italia. Facciamoci caso, i movimenti nazionalisti della storia italiana si sono sempre espressi come partiti socialisti, in quanto i cittadini si devono “sottomettere” al governo per il bene della nazione.
 
Queste politiche finivano sempre con il rafforzare qualcuno, mentre tanti finivano con l’essere indeboliti. Il socialismo rafforza chi rientra nelle grazie del Governo e dello Stato, ma indebolisce e rende poveri tutti gli altri cittadini.
 
Con il patriottismo, la situazione è molto diversa. Con il patriottismo, sono i cittadini che si rendono disponibili per il proprio Paese. Con i propri doveri, ciascun cittadino contribuisce per migliorare il proprio Paese.
 
In tutto ciò che rapporto esiste tra liberalismo e patriottismo? Se con il socialismo, non solo non siamo liberi, ma tendiamo a ricevere ingiustizie e tendiamo a diventare sempre meno civili con il prossimo, con il liberalismo, invece, nessuno è più penalizzato da tasse e tutti sono posti sullo stesso piano formale.
 
Essere costantemente “aggrediti” dalle tasse vuol dire che il reddito che noi produciamo, non solo finisce alle persone che non producono reddito, ma non riceviamo lo stesso equivalente in servizi da parte dello Stato. Questo provoca malumori, inciviltà e cattiva propensione verso la solidarietà.
 
In Italia la solidarietà imposta dallo Stato ha fallito.
 
Dunque è opportuno iniziare a cambiare questo Paese, iniziando a dare più potere ai cittadini e meno allo Stato. La solidarietà e il civismo possono essere stimolati anche senza ricorrere alle tasse. La solidarietà e il civismo non si stimolano rendendoci tutti “poveri” come pretendono di fare i movimenti o partiti socialisti.
 
In sostanza, il pensiero liberale è l’unico a poter sostenere e incoraggiare le virtù dei cittadini, in modo tale che grazie ai nostri comportamenti, altruisti o egoisti che siano, l’Italia possa essere forte, non solo nel proprio quartiere, ma anche nel mondo.
 
Avere una cultura liberale vuol dire sostenere la nazione senza dover penalizzare altre persone. Si tratta di approcci diversi, in quanto secondo le culture non liberali il cittadino deve sacrificarsi per il bene di tutti. Un liberale, invece, ritiene che il successo di una nazione dipenda dall’insieme dei successi dei suoi cittadini, permettendo a loro di poter dare il meglio di sé.

I postmodernisti della giustizia sociale vogliono la fine dell’Occidente liberale

Il tribalismo, il marxismo culturale e l’antiliberalismo che permeano la scena politica italiana sono nettamente evidenti a chiunque abbia prestato interesse al fenomeno della crescita metastatica dei movimenti contemporanei di “giustizia sociale”.

Il liberalismo nella sua interezza e nella sua filosofia ha sempre sostenuto valori come libertà di parola e di espressione, la discussione civile e il libero scambio di idee, ha sempre reputato corretto giudicare gli individui in base al loro carattere e alle loro qualità, e non per mezzo di caratteristiche superficiali come il colore della pelle o il genere di appartenenza.

Dati alla mano, i movimenti giustizialisti e illiberali si oppongono a questo complesso di idee e valori, e per capire il motivo è prima necessario approfondire l’ideologia dietro alla “giustizia sociale”.

Nel fulcro del pensiero, la filosofia del movimento per la giustizia sociale è saldamente radicata nel marxismo culturale. Proprio come Karl Marx vide il capitalista come l’oppressore sfruttatore della classe operaia, il collettivismo illiberale adotta una visione del mondo in cui gli uomini bianchi eterosessuali sono la classe degli oppressori e le minoranze, come stranieri e donne, sono gli oppressi.

Oppure, nel caso opposto ma sempre di un altro tipo di collettivismo illiberale, la visione è quella di un mondo in cui i diritti dei bianchi sono messi in discussione dai non bianchi.

Potremmo persino essere d’accordo con chi promuove attualmente le parità, se non fosse per la chiara divergenza nell’affrontare la questione: il collettivismo illiberale ha respinto la tendenza del liberalismo a giudicare gli individui come individui e ha invece adottato l’approccio marxista di giudicare le persone sulla base del gruppo a cui appartengono, interscambiando le identità di etnia e di genere per quelle economiche.

L’ascesa del populismo di destra è in parte una reazione alla politica dell’identità della sinistra socialista che dipinge gli uomini bianchi in una luce negativa.

Qualche tempo fa, in Inghilterra, è passata una notizia che può dare l’esempio più lampante dei classici “giustizieri sociali”; una donna, dopo aver impedito l’accesso ad un evento agli individui di sesso maschile, ha affermato di fronte ai giornalisti:

“I, as an ethnic minority woman, cannot be racist or sexist towards white men, because racism and sexism describe structures of privilege based on race and gender, and therefore women of colour and non-binary genders cannot be racist or sexist as we do not stand to benefit from such a system.”

(Fonte: The Guardian https://www.theguardian.com/world/2015/may/20/goldsmiths-racism-row-divides-students-bahar-mustafa )

La traduzione:

Io, una donna appartenente alle minoranze etniche, non posso essere razzista o sessista nei confronti degli uomini bianchi, perché il razzismo e il sessismo descrivono strutture di privilegio basate sulla razza e sul genere, e quindi le donne di sesso e di genere non binario non possono essere razziste o sessiste, dunque non siamo in grado di beneficiare di un simile sistema.

Come? Pensi sia una supercazzola del Conte Raffaello Mascetti?

Ovviamente, è innegabile la presenza del razzismo sul suolo nazionale ed europeo e non voglio assolutamente difenderlo in alcun modo, poiché è sintomo di una fortissima ignoranza proveniente da una mentalità pregiudizievole.

I primi promotori dell’odio fra classi (che, oltretutto, hanno imposto loro), fra etnie, fra sessi, fra gruppi identitari sono proprio i collettivisti.  Il loro tribalismo illiberale è chiaramente intento a soffocare la libertà di parola, la libertà accademica e il libero scambio di idee, il tutto nel nome della loro visione di giustizia sociale.

Inoltre, sebbene pretendano di ridurre la frammentazione e la segregazione razziale, etnica e sessuale, probabilmente non ha fatto altro che promuoverle. Per il bene della libertà, dell’uguaglianza formale (e non sostanziale!) e della società civile, i liberali occidentali devono fare del loro meglio per convincere i propri concittadini che la cultura regressiva e illiberale non è un’ideologia che merita di essere sostenuta.

Concentriamoci ancora un attimo sul razzismo: per definizione, è la convinzione che alcune razze siano naturalmente superiori alle altre e che la razza sia il fattore determinante principale dei tratti umani. La discriminazione razziale consiste nel trattare le persone in modo diverso esclusivamente sulla base della loro razza e non ha nulla a che fare con “strutture e privilegi”.

I giustizieri sociali come questa donna hanno letteralmente ridefinito il razzismo per giustificare il proprio razzismo. Dal loro punto di vista, le loro azioni sono giustificate in quanto sono una risposta naturale all’oppressione.

Quando a qualcuno viene detto, o è implicito, che ci sono individui cattivi e che lo sono a causa del colore della pelle, dell’orientamento sessuale o quant’altro, è naturale che questi inizino ad associarsi ancora di più con quell’identità di gruppo basata su tali caratteristiche piuttosto che vedere se stessi come individui.

Il metodo utilizzato è il medesimo sia a destra che a sinistra (sia in quel noto movimento giustizialista tanto di moda ultimamente), mentre noi liberali proponiamo l’implicita soluzione adeguatissima al caso.

Invece di promuovere una società unificata in cui le persone si vedono come individui piuttosto che come parte di un particolare gruppo, il movimento per la giustizia sociale è probabilmente responsabile di un’ulteriore divisione delle persone lungo linee tribali. Esistono mezzi molto migliori per sradicare il razzismo e il sessismo dalla società rispetto alla politica dell’identità su cui si basa il movimento per la giustizia sociale.

Perché questi movimenti tribali intolleranti sono anche illiberali?

Il marxismo economico vede i mercati liberi e i diritti di proprietà privata (cioè la libertà economica) come un mezzo per proteggere la classe capitalista dal proletariato che sfruttano per mantenere la loro egemonia socioeconomica.

Il marxismo culturale comprende allo stesso modo le libertà politiche fondamentali, come la libertà di parola e di espressione, come meccanismi con cui coloro che detengono il potere, principalmente uomini eterosessuali bianchi, usano per mantenere la loro egemonia socioeconomica a vantaggio delle minoranze e delle donne.

Perché rispettare i diritti della classe di cui stai cercando di distruggere il potere? E così, secondo il pensiero marxista, i tuoi diritti politici dipendono interamente dalla classe a cui appartieni.

Così, invece di vedere la libertà di parola come un diritto individuale sacrosanto, il tribalismo illiberale la vede come un ostacolo sulla via della giustizia sociale.

Abbiamo sentito parlare della legge sulle fake news, ma il dibattito che si cela dietro è ancor più importante: una buona parte della componente illiberale ritiene sia compito dello Stato la censura delle dichiarazioni offensive alle minoranze.

Questa constatazione è triste, poiché sembra che i giovani siano sempre più inclini a mettere a tacere le persone con cui non sono d’accordo piuttosto che impegnarsi a contrastarli nel dibattito civile. Questa censura sarebbe solo l’inizio di una lunga serie di riforme illiberali.

Quali sono i danni dei sindacati italiani?

 

In principio ci furono le battaglie sindacali degli anni sessanta. Si raggiungessero risultati importanti come lo Statuto dei Lavoratori (1970).
Per i sindacati e gli ambienti del comunismo si trattava di un passaggio storico per l’Italia con l’emancipazione del lavoratore. In realtà, si trattava dell’inizio di una serie di diritti riconosciuti che – con il passare del tempo – iniziavano ad apparire sempre più come dei privilegi.

Molte delle aziende coinvolte erano strategiche per lo Stato (vedasi FIAT) e di medie e grandi dimensioni, perché erano quelle più in grado di mettere in crisi un Paese (con scioperi e manifestazioni) e in difficoltà i governi.
Le lotte sindacali hanno permesso di raggiungere dei risultati, sia dal punto di vista contrattuale, con il contratto a tempo indeterminato sempre più forte e con i contratti collettivi, sia dal punto di vista economico.
Grazie alle lotte sindacali i lavoratori godevano di protezioni statali di ogni genere (malattia, maternità, disoccupazione parziale o temporanea) e di pensioni molto generose. Con le lotte sindacali nasce il famoso “posto fisso” della Prima Repubblica.

Questo modello si manteneva funzionale fino a quando c’era solo il padre di famiglia che lavorava (tranne alcune aziende che assumevano anche donne). Ma con il passare del tempo, con la globalizzazione, le dislocazioni e le diverse esigenze dei cittadini (e non solo dei datori di lavoro), le aziende che rientravano nella categoria dei protetti da Stato e Sindacati iniziarono a vacillare. In parallelo, con l’aumento delle tasse e del costo della vita, non bastava più il lavoro del padre di famiglia, ma serviva anche il lavoro della madre, con tutte le conseguenze che ne determinava, come pagare l’asilo nido.
Ma i sindacati, nonostante si autoproclamavano “difensori dei lavoratori”, si sono concentrarti solo su una parte sempre più minoritaria di lavoratori, ostacolando qualsiasi tentativo di riforma e garantendo proficue pensioni ai lavoratori di queste categorie.

  • Morale della favola è che oggi sono cambiate tante cose, ma dal punto di vista del lavoro:
  • I contratti collettivi a tempo indeterminato e le varie protezioni, nate con le battaglie sindacali, risultano troppo costosi e poco funzionali;
  •  chi è stato assunto fino a metà duemila, oggi risulta un grande costo sia per il datore di lavoro e sia per tutti i cittadini (visto il grande costo tra indennità, pensione e disoccupazione);
  • i datori di lavoro tendono ad assumere con altri contratti che godono di poche protezioni, ma sono meno costosi;
  • Chi viene assunto con contratti non-protetti, è costretto a pagare tante tasse per coloro che hanno avuto o hanno attualmente un contratto protetto.

In sostanza, i sindacati per proteggere una categoria di lavoratori, ha indebolito gravemente il resto dei lavoratori e contribuendo allo sviluppo di lavori irregolari e temporanei. Bisogna, dunque, riformare i contratti di lavoro anche di coloro che sono stati assunti in passato, perché siamo stanchi di vedere delle persone sacrificate per colpa di coloro che sono stati assunti con le condizioni stabilite durante le lotte sindacali. Per quanto riguarda i sindacati, sono per l’abolizione e la sostituzione con mediatori civili che sappiano essere imparziali e propositivi nel far raggiungere un punto d’incontro e per il reciproco rispetto tra datore di lavoro e lavoratori.