No, Churchill non fu il cattivo della Seconda guerra mondiale

Traduzione dell’articolo “No, Churchill Was Not the Villain“, Andrew Roberts, The Washington Free Beacon, 6 settembre 2024


Lo storico Darryl Cooper, in un’intervista al programma di Tucker Carlson, ha sostenuto che Winston Churchillè stato il principale cattivo della Seconda Guerra Mondiale”, il che sarebbe interessante, addirittura scioccante, se la sua tesi non si basasse su un’ignoranza e un disprezzo per i fatti storici così sconcertanti da poter essere completamente ignorati.

Il primo punto della tesi di Cooper è che Churchill “è stato il principale responsabile del fatto che quella guerra sia diventata ciò che è diventata, qualcosa di più grande di un’invasione della Polonia”. Eppure, nel momento in cui Adolf Hitler invase il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo all’alba del 10 maggio 1940, Winston Churchill non era nemmeno primo ministro. A meno che il signor Cooper non voglia sostenere che dalla sua posizione di Primo Lord dell’Ammiragliato – il capo della marina britannica – Churchill sia stato in qualche modo in grado di costringere Hitler a scatenare la guerra lampo in Occidente, la sua prima argomentazione crolla al suolo.

Hitler aveva pianificato il suo attacco a sorpresa attraverso le Ardenne – la manovra del “colpo di falce” – con alti generali come Erich von Manstein, Erwin Rommel e Gerd von Rundstedt molti mesi prima che l’attacco avesse luogo. Sono loro, e non Churchill, i responsabili “del fatto che quella guerra sia diventata ciò che è diventata”. Inoltre, hanno anche la piena responsabilità dell’invasione immotivata della vicina Polonia, su cui Cooper e Carlson hanno taciuto.

Nell’aprile del 1939, quando Churchill non era nemmeno nel gabinetto, il governo britannico si impegnò a difendere la Polonia. Hitler, quindi, non aveva alcun motivo di sorprendersi quando la Gran Bretagna entrò in guerra con la Germania dopo l’attacco di quest’ultima alla Polonia.

L’errore successivo di Cooper è stato quello di attribuire la colpa dell’Operazione Barbarossa alla percezione di Hitler di una minaccia da parte di Stalin, o di un piano sovietico per catturare i giacimenti petroliferi rumeni, ignorando completamente la vera ragione, che era la pretesa nazista del Lebensraum – “spazio vitale” in Europa orientale, specialmente in Bielorussia e Ucraina. Ci si chiede se Cooper abbia mai letto il Mein Kampf, in cui le intenzioni finali di Hitler erano chiare. In un’altra parte dell’intervista afferma in modo stravagante che Hitler “non pensava più alla Russia come a un movimento comunista internazionale”, il che contraddice tutte le prove delle dichiarazioni pubbliche e private di Hitler prima di scatenare il Barbarossa.

Cooper ha poi affermato che i milioni di prigionieri di guerra sovietici che morirono in prigionia tedesca lo fecero perché la leadership nazista “non aveva piani per i prigionieri di guerra”, ignorando il fatto ovvio, ben supportato dalle fonti, che in realtà la morte di milioni di prigionieri di guerra sovietici era il deliberato piano nazista su cosa fare con loro.

Cooper continua a criticare Churchill per non aver accettato le proposte di pace di Hitler durante lo stallo dall’ottobre 1939 al maggio 1940, affermando che Hitler “non voleva combattere contro la Francia o la Gran Bretagna”. Tuttavia, a quel punto aveva già invaso la Polonia e non aveva alcuna intenzione di liberarla, per cui il casus belli originario rimaneva.

La guerra era finita e i tedeschi avevano vinto nell’autunno del 1940”, afferma Cooper. Non è così. I tedeschi avevano effettivamente costretto i britannici a lasciare il continente a Dunkerque nel giugno 1940, ma la gloria eterna e incancellabile di Churchill sta nel fatto che egli mantenne la Gran Bretagna in guerra fino a quando il male nazista non fu estirpato. La guerra in mare continuava, così come quella sul litorale nordafricano. La Grecia entrò nel conflitto nell’aprile 1941, attirando le forze tedesche a sud due mesi prima dell’Operazione Barbarossa. La battaglia fu persa dalla Gran Bretagna, è vero, ma la guerra era tutt’altro che vinta da Hitler.

Le lamentele di Cooper sul fatto che Churchill rifiutò le offerte di pace di Hitler non tiene conto del fatto che se la Gran Bretagna avesse accettato una pace ignobile nel 1940, Hitler sarebbe stato in grado di concentrare tutte le sue forze a est nell’invasione della Russia nel giugno 1941. Invece, fu costretto a mantenere il 30% della Luftwaffe e considerevoli forze terrestri nella parte occidentale dell’Europa. Fu forse il più grande calcolo strategico di Churchill, quello di un eroe piuttosto che “il principale cattivo della Seconda Guerra Mondiale”.

Quando Cooper incolpa Churchill di aver “demonizzato [Neville] Chamberlain” nel 1940, presumibilmente ignora il fatto che Churchill chiese a Chamberlain di entrare a far parte del suo Gabinetto di Guerra, dove lavorò a stretto contatto e cordialmente con lui, e poi tenne uno dei suoi più grandi discorsi come elogio a Chamberlain nel novembre 1940.

Churchill voleva una guerra”, ha affermato Cooper. “Voleva combattere la Germania”. Non è così. Dal momento in cui Hitler salì al potere in Germania, Churchill avvertì della minaccia che i nazisti rappresentavano per la pace mondiale e di quanto l’Occidente fosse debole militarmente, ma la sua soluzione fu il riarmo, non la guerra. Aveva combattuto in trincea nella Grande Guerra e aveva perso troppi amici per volere un’altra guerra, ma era disposto a subirla se le uniche alternative erano il disonore e la vergogna.

Cooper ha poi sostenuto, sempre senza alcuna prova, che Churchill voleva la guerra perché “gli interessi a lungo termine dell’Impero britannico erano minacciati dall’ascesa di una potenza come la Germania”. Ancora una volta, non è così. Tutti gli alti responsabili politici britannici riconobbero che le minacce all’Impero provenivano dal Giappone in Estremo Oriente, dall’Italia fascista nell’Africa nord-orientale e dalla Russia nel Vicino Oriente. La Germania non aveva confini contigui con l’Impero britannico. Un’occhiata a una carta geografica avrebbe mostrato a Cooper questo fatto.

Ce l’ho tanto con Churchill [perché] ha tenuto in piedi la guerra quando non aveva modo di combatterla”, ha detto Cooper. “Aveva solo bombardieri”. Non è così. La flotta britannica all’epoca era la più potente del mondo e nella Prima Guerra Mondiale aveva bloccato la Germania in modo estremamente efficace. L’Impero stava inoltre fornendo un numero enorme di uomini per la causa della libertà, tanto che l’India aveva fornito la più grande forza di volontari nella storia dell’umanità. I caccia della Royal Air Force avevano vinto la Battaglia d’Inghilterra nel settembre 1940, nove mesi prima di Barbarossa.

Cooper accusa poi Churchill di aver scatenato un bombardamento terroristico sulla Germania, che definisce “il più grande attacco terroristico della storia mondiale”. A parte il fatto che l’offensiva combinata dei bombardieri non fu un attacco terroristico ma una legittima offensiva militare, e come dimostrano i documenti del Dipartimento di Intelligence della RAF sul bombardamento della Foresta Nera e molto altro, fu intrapresa solo dopo che Hitler e Göring avevano già bombardato Varsavia, Rotterdam e Londra. “Perché l’avrebbe fatto?”, ha chiesto incredulo Tucker Carlson. “Per ridurre la produzione bellica tedesca” sarebbe l’ovvia risposta.

Cooper ha detto correttamente che Churchill e la Gran Bretagna hanno fatto il possibile per coinvolgere gli Stati Uniti nella guerra, ma non ha sottolineato che tutti questi tentativi sono falliti e che è stata la dichiarazione di guerra di Hitler agli Stati Uniti l’11 dicembre 1941, quattro giorni dopo Pearl Harbor, a far entrare gli Stati Uniti in guerra.

Cooper ha fatto quello che Carlson ha definito “il sorriso più ironico che abbia mai visto” rispondendo alla domanda ingenua di Carlson: “Qual era il motivo di [Churchill]?” nel voler combattere la Seconda Guerra Mondiale. Il vero motivo era che Churchill sapeva di dover estirpare il nazismo, ma secondo Cooper era perché “Churchill ha una storia lunga e complicata” che aveva bisogno di “redenzione” perché “Churchill era stato umiliato dalla sua performance nella Prima guerra mondiale”.

Questa psicologia da quattro soldi non sta in piedi. Churchill nella Prima Guerra Mondiale è stato l’uomo che ha preparato la Royal Navy per la guerra, che ha trasportato l’intera Forza di Spedizione Britannica in Francia senza perdere un uomo nell’agosto del 1914, che ha difeso Anversa durante un periodo cruciale nell’ottobre dello stesso anno, che ha intrapreso 30 raid di trincea nella terra di nessuno come tenente colonnello e che è stato il ministro delle munizioni che ha fornito all’esercito britannico gran parte dell’armamento necessario per vincere nel 1918. L’idea che il disastro di Gallipoli, di cui Churchill fu in ultima analisi anche se non l’unico responsabile, gli abbia fatto sentire il bisogno di una “redenzione” un quarto di secolo dopo è una sciocchezza.

Cooper descrive poi Churchill come “uno psicopatico”, il che sicuramente dice di più sul suo stato mentale che su quello di Churchill. Prosegue con l’accusa che Churchill “era un ubriacone”, cosa che non era, anche se certamente beveva molto. Churchill era in grado di reggere l’alcol e durante la Seconda Guerra Mondiale si è ubriacato una sola volta, un risultato sorprendente se si considera la pressione a cui era sottoposto.

Era molto infantile sotto molti aspetti”, afferma Cooper dell’uomo che ha scritto 37 libri, ha formato due governi, ha avvertito dell’imminente guerra fredda nel suo discorso sulla cortina di ferro, e che tutt’oggi è simbolo di leadership. Quando Cooper vincerà il Premio Nobel per la Letteratura, come Churchill, sarò più propenso ad ascoltare le sue farneticazioni.

Cooper ha poi sferrato un attacco al sionismo di Churchill, affermando che “era in bancarotta e aveva bisogno di soldi e [veniva] salvato dai sionisti. … Non aveva bisogno di essere corrotto, ma era stato messo al suo posto dai finanzieri [e] dal complesso dei media che volevano assicurarsi che fosse lui a rappresentare la Gran Bretagna in quel conflitto”. Per favore.

È falso. Churchill non è mai andato in bancarotta, anche se ha sempre avuto bisogno di soldi perché le sue spese erano enormi. Alcune delle sue perdite in borsa durante il crollo di Wall Street furono sostenute da Bernard Baruch, ma ciò avvenne quattro anni prima che Hitler salisse al potere. Un altro amico ebreo, Sir Henry Strakosch, gli lasciò in eredità un’ingente somma di denaro, ma difficilmente poteva trattarsi di una tangente, per ovvie ragioni. Churchill non era sionista o antinazista perché era stato corrotto da finanzieri ebrei, ma perché credeva in entrambe le posizioni con ogni fibra del suo essere.

Inoltre, in un momento in cui l’antisemitismo è in aumento in tutto il mondo, è stato profondamente irresponsabile da parte di Cooper e Carlson fare le insinuazioni che hanno fatto in quella parte dell’intervista. Questa tesi – se un tale vomito di vecchie bugie e un apologismo hitleriano alla David Irving può essere definito tale – sarà accolta con favore in alcune zone della “Palestina”, in Turingia e in Sassonia, e nei recessi più oscuri del cyberspazio, ma non in luoghi dove la verità storica è ancora rispettata.

Lungi dall’essere sostenuto dal “complesso dei media”, Churchill fu ridicolizzato e osteggiato dalla maggior parte dei giornali per la maggior parte della sua carriera, e gli editori si avvicinarono al suo ingresso nel governo solo nel luglio 1939, una volta chiarito che tutti i suoi avvertimenti su Hitler e i nazisti si erano dimostrati corretti in ogni particolare.

Quando Carlson ha lodato la “fede nell’accuratezza e nell’onestà” di Cooper, ha rappresentato l’unico momento comico dell’intera intervista, a meno che non si consideri anche la valutazione di Carlson secondo cui Cooper, che confesso di non aver mai sentito prima, è “lo storico più importante degli Stati Uniti”.

È interessante che in tutta l’intervista Darryl Cooper non sia riuscito a sferrare un solo colpo alla reputazione di Winston Churchill che fosse supportato da una qualsiasi prova. In effetti, Churchill commise diversi errori nella sua carriera, come attesta ogni suo biografo responsabile. “Non avrei fatto nulla se non avessi commesso errori”, disse alla moglie Clementine nel 1916.

Tuttavia, nelle tre più grandi minacce alla democrazia e alla civiltà occidentale del XX secolo – dalla Germania guglielmina nella Prima Guerra Mondiale, da Adolf Hitler e dai nazisti nella Seconda Guerra Mondiale e dal comunismo sovietico nella Guerra Fredda – Winston Churchill le ha previste tutte e tre e ha fornito gran parte della resilienza e della saggezza necessarie per sconfiggerle. In questo modo è stata salvata la libertà di parola, una libertà che è stata così squallidamente abusata dall’intellettualmente vacuo ma presuntuoso sberleffo dei signori Cooper e Carlson.


ANDREW ROBERTS, nato a Londra nel 1963, è storico e giornalista. Autore di documentari e pubblicazioni di successo, ha vinto molti premi, tra cui il Wolfson History Prize e il British Army Military Book of the Year. Esperto internazionale di storia della Seconda guerra mondiale, è autore di una recente biografia monumentale di Winston Churchill, “Churchill: Walking with Destiny“.

I nazisti erano socialisti? La risposta nelle parole di Joseph Goebbels

Invecchiando ci si rende conto che alcune cose non cambieranno mai.

Gli appassionati di sport discuteranno sempre  del fuorigioco e di chi sia il miglior pugile di tutti i tempi (Muhammad Ali). Gli appassionati di cinema non saranno mai d’accordo su quale film del Padrino sia il migliore (il primo). E le trombe annunceranno la seconda venuta di Cristo prima che liberali e socialisti si saranno accordati sulla questione: i nazisti erano socialisti?

Quest’ultima questione mi ha sempre lasciato perplesso, lo confesso, e non solo perché la risposta è proprio nel nome: “nazionalsocialismo”. Se si leggono i discorsi e le conversazioni private dei gerarchi nazisti risulta evidente che amavano il socialismo e disprezzavano l’individualismo e il capitalismo.

Nel suo nuovo libro “Hitler’s National Socialism“, lo storico Rainer Zitelmann offre una visione a tutto tondo sulle idee che hanno plasmato uomini come Hitler e Goebbels. Sebbene sia chiaro che essi considerassero il loro socialismo come distinto dal marxismo (e su questo punto ci soffermeremo più avanti), non c’è dubbio che vedessero nel socialismo l’ideologia del futuro e disprezzassero il capitalismo e la borghesia.

Consideriamo, ad esempio, le seguenti citazioni di Joseph Goebbels, il Ministro della Propaganda del partito nazionalsocialista:

  1. “Il socialismo è l’ideologia del futuro.” – Lettera a Ernst Graf zu Reventlow, riportata in “Goebbels: A Biography
  2. “La borghesia deve cedere alla classe operaia […] Tutto ciò che sta per cadere deve essere spinto a terra. Siamo tutti soldati della rivoluzione. Vogliamo la vittoria dei lavoratori sullo sporco profitto. Questo è il socialismo.” – Citato in “Doctor Goebbels: His Life and Death
  3. “Siamo socialisti perché vediamo nel socialismo, cioè nella dipendenza di tutti i compagni gli uni dagli altri, l’unica possibilità per la conservazione della nostra genetica razziale e quindi per la riconquista della nostra libertà politica e per il ringiovanimento dello Stato tedesco”. – Citato in “Perché siamo socialisti?“, Der Angriff, 16 Luglio 1928.
  4. “Non siamo un’istituzione caritatevole, ma un partito di socialisti rivoluzionari”. Editoriale del Der Angriff, 27 maggio 1929
  5. “Il capitalismo assume forme insopportabili nel momento in cui gli interessi personali che serve sono contrari all’interesse della collettività. Esso si fonda sulle cose e non sulle persone. Il denaro è l’asse attorno al quale ruota tutto. Per il socialismo è il contrario. La visione del mondo socialista inizia con la gente e poi passa alle cose. Le cose sono asservite al popolo; il socialista mette il popolo al di sopra di tutto, e le cose sono solo mezzi per un fine”. – “Capitalismo“, Der Angriff, 15 luglio 1929
  6. “Nel 1918 il socialista tedesco aveva un solo compito: tenere le armi e difendere il socialismo tedesco” – “Capitalismo“, Der Angriff, 15 luglio 1929
  7. “Essere socialista significa lasciare che l’io serva il prossimo, sacrificare l’io per il tutto. Nel suo senso più profondo, il socialismo è altruismo.” – Note del diario, 1926
  8. “Le linee del socialismo tedesco sono nitide e il nostro cammino è chiaro. Siamo contro la borghesia politica e per un autentico nazionalismo! Siamo contro il marxismo, ma per il vero socialismo!” – “Those Damn Nazis: Why Are We Socialists?“, 1932
  9. “Siamo socialisti perché vediamo la questione sociale come una questione di necessità e di giustizia per l’esistenza stessa di uno Stato per il nostro popolo, non come una questione di pietà a buon mercato o di insulso sentimentalismo. Il lavoratore ha diritto a un tenore di vita che corrisponda a ciò che produce”. – “Those Damn Nazis: Why Are We Socialists?“, 1932
  10. “L’Inghilterra è una democrazia capitalista. La Germania è uno Stato popolar-socialista” – “Englands Schuld” (il discorso non è datato, ma probabilmente è stato pronunciato nel 1939).
  11. “Poiché siamo socialisti abbiamo sentito le più profonde benedizioni della nazione, e poiché siamo nazionalisti vogliamo promuovere la giustizia socialista in una nuova Germania” – “Die verfluchten Hakenkreuzler. Etwas zum Nachdenken“, 1932
  12. “Il peccato del pensiero liberale è stato quello di trascurare i punti di forza del socialismo nella costruzione della nazione, permettendo così alle sue energie di andare in direzioni antinazionali”. – “Die verfluchten Hakenkreuzler. Etwas zum Nachdenken“, 1932
  13. “Essere socialisti significa sottomettere l’io al tu; il socialismo è sacrificare l’individuo al tutto. Il socialismo è nel suo senso più profondo servizio”. – Citato in “Fuga dalla libertà“, Erich Fromm
  14. “Siamo un partito operaio perché vediamo nella prossima battaglia tra finanza e lavoro l’inizio e la fine della struttura del ventesimo secolo. Siamo dalla parte del lavoro e contro la finanza […] Il valore del lavoro sotto il socialismo sarà determinato dal suo valore per lo Stato, per l’intera comunità” – “Those Damn Nazis: Why Are We Socialists?“, 1932

Queste citazioni rappresentano solo un’infarinatura della concezione di Goebbels del socialismo. Si può notare che per molti versi i nazisti parlavano in modo molto simile a Karl Marx.

Frasi come “siamo un partito operaio“, “l’operaio ha diritto a un tenore di vita corrispondente a ciò che produce“, “il denaro è l’opposto del socialismo” e “siamo contro la borghesia politica” potrebbero essere facilmente estrapolate dai discorsi e dagli scritti dello stesso Marx, ma è chiaro che Goebbels disprezzava Marx e vedeva il suo modello di “nazionalsocialismo” come distinto dal marxismo.

Cosa distingue dunque il nazionalsocialismo dal marxismo? Le differenze principali sono due.

La prima è che Hitler e Goebbels fusero il loro socialismo con il nazionalismo e il razzismo tedeschi, rifiutando lo spirito internazionale del marxismo – lavoratori di tutto il mondo unitevi! – per uno più pratico che enfatizzava il movimento popolare tedesco.

Questa fu un’abile mossa da parte dei nazisti. Come ha sottolineato il premio Nobel per l’economia F. A. Hayek, essa rese il socialismo più appetibile a molti tedeschi che non erano in grado di vedere il nazismo per quello che era veramente:

“La tragedia suprema è che ancora non ci si rende conto che in Germania sono state in gran parte le persone di buona volontà che, con le loro politiche socialiste, hanno preparato la strada alle forze che rappresentano tutto ciò che detestano”, scrisse Hayek in “La via della schiavitù” (1944). “Pochi riconoscono che l’ascesa del fascismo […] non fu una reazione contro le tendenze socialiste del periodo precedente, ma un risultato necessario di quelle tendenze”.

La seconda differenza è che i nazionalsocialisti erano meno propensi a controllare direttamente i mezzi di produzione.

Nel suo libro del 1940 “German Economy“, Gustav Stolper, economista e giornalista austro-tedesco, spiegò che sebbene il nazionalsocialismo fosse anti-capitalista fin dall’inizio, era anche in diretta competizione con il marxismo dopo la Prima Guerra Mondiale. Per questo motivo, i nazionalsocialisti decisero di “corteggiare le masse” da tre diverse angolazioni.

“La prima era il principio morale, la seconda il sistema finanziario, la terza la questione della proprietà. Il principio morale era la comunità prima dell’interesse personale. La promessa finanziaria era rompere la schiavitù dagli interessi. Il programma industriale era la nazionalizzazione di tutte le grandi imprese. Accettando il principio ‘la comunità prima dell’interesse personale’, il nazionalsocialismo enfatizzava semplicemente il suo antagonismo allo spirito di una società competitiva, rappresentato presumibilmente dal capitalismo democratico […]. Ma per i nazisti questo principio significava anche la completa subordinazione dell’individuo alle esigenze dello Stato. E in questo senso il nazionalsocialismo è indiscutibilmente un sistema socialista”.

Stolper, fuggito dalla Germania agli Stati Uniti dopo l’ascesa al potere di Hitler, notò che i nazisti non avviarono mai una nazionalizzazione diffusa dell’industria, ma spiegò che questo non comportò alcuna differenza con il socialismo.

“La nazionalizzazione dell’intero apparato produttivo tedesco, sia agricolo che industriale, fu ottenuta con metodi diversi dall’espropriazione, in misura molto maggiore e su una scala incommensurabilmente più ampia di quanto gli autori del programma del partito nel 1920 probabilmente avessero mai immaginato. Infatti, non solo i grandi trust furono gradualmente ma rapidamente sottoposti al controllo statale, ma anche ogni tipo di attività economica, lasciando solo il titolo di proprietà privata”.

Nel suo libro del 1939 “The Vampire Economy: Doing Business Under Fascism“, Guenter Reimann giunse a una conclusione simile.

Lo storico dell’economia Richard Ebeling osserva che:

“Sebbene la maggior parte dei mezzi di produzione non fosse stata nazionalizzata, era stata comunque politicizzata e collettivizzata sotto un’intricata rete di obiettivi di pianificazione nazista, di regolamenti sui prezzi e sui salari, di regole e quote di produzione e di severi limiti e restrizioni all’azione e alle decisioni di coloro che erano rimasti, nominalmente, i proprietari delle imprese private in tutto il Paese. Ogni imprenditore tedesco sapeva che la sua condotta era prestabilita dallo Stato e collocata all’interno dei più ampi obiettivi di pianificazione del regime nazionalsocialista”.

La documentazione storica è chiara: il fascismo europeo era semplicemente una sfumatura diversa del socialismo, il che aiuta a spiegare, come ha notato Hayek, perché così tanti fascisti erano “ex” socialisti, “da Mussolini in avanti“.

Come Marx, i nazisti detestavano il capitalismo e consideravano la volontà e i diritti individuali subordinati agli interessi dello Stato. Non dovrebbe sorprendere che queste diverse sfumature di socialismo abbiano ottenuto risultati simili: povertà e miseria.

I socialisti continueranno a sostenere che il nazismo non era il “vero” socialismo, ma le parole del famigerato ministro della propaganda nazista suggeriscono il contrario.

(Traduzione dell’articolo Joseph Goebbels’ Own Words Show He Loved Socialism and Saw It as ‘the Future’, J. Miltimore, FEE.org)

Sul pensiero di Bastiat

Innamoratevi della libertà. Amare la libertà significa, tra le altre cose, interiorizzare il pensiero di Frèdèric Bastiat (1801-1850), economista, filosofo e giornalista francese. La filosofia economica di Bastiat è controcorrente e molto attuale: l’economista francese fu un liberale, un libertario e un liberista ante litteram.

In una società italiana oppressa dallo statalismo più soffocante, le riflessioni di Bastiat sono uno spiraglio di luce. 

Bastiat ha il pregio di essere attuale senza mai sbiadire nel tempo; non si conformò al pensiero economico o filosofico accademico e mainstream, basato su assunti (totalmente fallaci) come il progressismo, la giustizia sociale o il politicamente corretto. Il suo stile di scrittura fu limpido e chiaro, ispirato al giornalismo. Non è un caso che Schumpeter lo definì come il più grande giornalista economico del suo tempo.

 

La prima lezione di Bastiat, che dobbiamo rivendicare ancora con più forza ai giorni nostri, è la teoria della difesa dell’individuo.

Nella sua opera “La legge”, Bastiat difese la concezione del diritto naturale (Ius naturae), ereditata da Grozio e Locke. L’individuo unico e irripetibile della tradizione cristiana e liberale possiede dei diritti inalienabili, come la vita, la proprietà e la libertà, che derivano direttamente da Dio. Bastiat operò una sforbiciata alla “Ockham” e ribaltò la concezione negativa di Bentham sui diritti naturali o individuali.

I reali “nonsensi sui trampoli” (secondo un’espressione dello stesso Bentham) sono il diritto statale e le sue norme positive e arbitrarie vigenti in un determinato territorio.

 

La seconda straordinaria lezione che possiamo ricavare da Bastiat è la critica dello statalismo. Con il suo inchiostro limpido, il pensatore francese smontò i pregiudizi cristallizzati degli statalisti e le loro opinioni fittizie. Pensiamo solo alla politica economica. L’intervento dello Stato in economia non solo produce inefficienze e disfunzionalità, ma apporta “storture” all’equilibrio del mercato e alla libera iniziativa privata.

La teoria dominante ed in voga nei dipartimenti economici – ovvero la teoria keynesiana – concepisce lo Stato come una sorta di pianificatore retto e morale, guidato dall’intervento dei policy maker, degli ingegneri sociali, ovvero i politici (e i tecnici loro amici). Questa concezione non è solo falsa ma è anche smentita dalla realtà dei fatti.

Bastiat ci mise in guardia in “Quello che si vede e quello che non si vede” sui rischi dell’interventismo statale (con il famoso racconto della “Finestra Rotta”). Inoltre, criticò il monopolio pubblico su certe merci e prodotti, così come sulla moneta e sull’istruzione.

 

Bastiat non fu solo un ottimo pensatore; egli applicò sul campo le sue idee. Pensiamo solo alla politica fiscale. Bastiat fu un apologeta del libero commercio, del laissez faire, dell’ordine spontaneo del mercato e dei suoi meccanismi interni (a partire dalla “mano invisibile” che guida le scelte degli operatori economici). Per questo motivo attaccò senza sosta la politica fiscale francese dell’epoca.

Lo Stato, per l’economista francese, non solo non produce nulla, non solo offre sul mercato, rispetto ai concorrenti privati, servizi o beni costosi e scadenti; ma soprattutto lo Stato non possiede risorse proprie ed è per questo motivo che ambisce a detenere un “patrimonio preda” attraverso la spoliazione legale dei contribuenti.

Attraverso la tassazione lo Stato nutre se stesso e le proprie “élite”, danneggiando in questo modo i produttori della ricchezza, spogliati “legalmente” del frutto del proprio lavoro e delle proprie fatiche. Per Bastiat tutto questo è ingiusto e intollerabile.

 

Il suo lavoro mina le false certezze che contraddistinguono la nostra atmosfera culturale, frutto dell’egemonia di una ristretta minoranza astiosa verso il lavoro, la responsabilità e le fatiche. Una delle opere fondamentali del suo sterminato pantheon economico porta il titolo di “Sofismi economici”. I sofismi sono frutto di un errore della ragione e della logica umana. Al posto della verità si mettono simulacri tanto sbagliati quanto pericolosi. Ed ecco che in economia come in filosofia, nella letteratura come nel giornalismo, dominano opinioni prive di qualunque fondamento. Bastiat ci insegna ad usare la logica e a fare a meno di queste idee false e obsolete.

 

Bastiat è stato un precursore di molti dei concetti espressi in seguito da un grande gruppo di economisti: la Scuola Economica Austriaca. La linfa vitale di questo approccio economico è la libertà, il rigore analitico e la critica di tutti quei substrati che si oppongono al mercato (in primis il marxismo). Accanto al collettivismo sono messi in stato d’accusa i principi della pianificazione centrale. Gli austriaci rivendicano la libertà economica, contro socialisti e statalisti vari.

Leggete quindi Bastiat, per non perdere mai la speranza nemmeno nei momenti difficili che sono parte integrante della storia. Siate dei “Bastiat contrari”, per non adeguare la vostra mentalità al conformismo della nostra epoca.

Un tributo a F.A. von Hayek – di Ludwig von Mises

(Scritto per essere letto durante una cena in onore di Hayek, Chicago, 24 Maggio 1962)

Mi dispiace che per una serie di motivi — la geografia, la mia agenda fitta di impegni e non ultimo la mia età — non sia riuscito a partecipare a questa cena. Se fossi stato lì presente, avrei detto qualche parola sul conto del professor Hayek e sui suoi traguardi. Per come stanno le cose, devo mettere per iscritto questi pensieri e ringraziare i nostri amici che lo leggeranno per me.

Per apprezzare pienamente i risultati del professor Hayek, bisogna tener conto delle condizioni politiche, economiche e ideologiche prevalenti in Europa, e soprattutto a Vienna, alla fine della Prima Guerra Mondiale.

Per secoli, i popoli d’Europa hanno cercato la libertà e hanno tentato di liberarsi da governanti tirannici per istituire governi rappresentativi. Tutti gli uomini ragionevoli chiedevano la sostituzione del potere arbitrario di principi ed oligarchi ereditari con l’istituzione di uno stato di diritto. Questa accettazione generale del principio di libertà era talmente radicata che anche i partiti marxisti furono costretti a fare ad essa concessioni verbali. Decisero di definirsi socialdemocratici. Questo riferimento alla democrazia era, naturalmente, un tentativo di gettare il fumo negli occhi agli elettori, poiché i seguaci di Marx erano pienamente consapevoli del fatto che il socialismo non significa libertà dell’individuo, ma la sua completa sottomissione agli ordini dell’autorità centrale. Ma i milioni di persone che hanno votato i partiti socialisti erano convinti che la progressiva dissoluzione dello Stato significasse libertà illimitata per tutti e non sapevano come interpretare l’oscura espressione “dittatura del proletariato”.

Ma ora c’era di nuovo un dittatore all’opera, un uomo che – sulla scia di Cromwell e di Napoleone – scioglieva il Parlamento liberamente eletto a suffragio e liquidava senza pietà tutti coloro che osavano opporsi a lui. Questo nuovo dittatore rivendicava un potere illimitato non solo nel suo Paese, ma in tutti i Paesi. Migliaia e migliaia di sedicenti intellettuali di tutte le nazioni sostenevano con entusiasmo la sua rivendicazione.

Solo chi ha vissuto in Europa Centrale in quegli anni critici tra la caduta dell’impero zarista e il tracollo definitivo delle valute dell’Europa Centrale sa quanto fosse difficile per un giovane, in quel periodo, non arrendersi al comunismo o a uno degli altri partiti dittatoriali che ben presto sorsero come scadenti imitazioni del modello russo. Friedrich von Hayek faceva parte di questo piccolo gruppo di dissidenti che si rifiutò di unirsi a quello che Julien Benda chiamò appropriatamente il “tradimento degli intellettuali”[1]. Hayek era un solerte allievo della Facoltà di Giurisprudenza e Scienze Sociali dell’Università di Vienna e a tempo debito ottenne il dottorato. Poi gli fu offerta l’opportunità di trascorrere un anno e diversi mesi a New York come segretario del professor Jeremiah Jenks della New York University, un grande esperto nel campo delle politiche monetarie internazionali.

Qualche tempo dopo il suo ritorno a Vienna, gli fu affidata la gestione di un ente di ricerca di recente fondazione, l’Istituto Austriaco per la Ricerca sul Ciclo Economico. Svolse un brillante lavoro in questo ambito, non solo come economista ma anche come statistico e amministratore. Ma in tutti questi anni il suo principale interesse fu quello degli studi economici. Era uno dei giovani che parteciparono alle lezioni e alle discussioni presso il mio Seminario Privato all’Università di Vienna. Pubblicò diversi ottimi saggi sui problemi del denaro, dei prezzi e del ciclo economico.

Le condizioni politiche in Austria rendevano piuttosto complicata la sua nomina a professore ordinario in un’università austriaca. Ma l’Inghilterra, a quel tempo, era ancora libera da pregiudizi nei confronti dell’economia di libero mercato. Così, nel 1931, Hayek fu nominato professore di scienze economiche e statistiche all’Università di Londra. Liberato dalle responsabilità amministrative che avevano ridotto il tempo che poteva dedicare al lavoro scientifico a Vienna, ora poteva pubblicare una serie di importanti contributi alla teoria economica e alla loro applicazione nella politica. Ben presto fu considerato uno dei più importanti economisti del nostro tempo.

L’economista non è un semplice teorico il cui lavoro è di diretto interesse solo per gli altri economisti ed è raramente letto e compreso da persone al di fuori degli “addetti ai lavori”. Quando si occupa degli effetti delle politiche economiche, si trova per forza di cose sempre in mezzo alle controversie che ruotano attorno alle politiche, e quindi al destino, delle nazioni. Che gli piaccia o no, è costretto a lottare per le sue idee e a difenderle da attacchi feroci.

Il dottor Hayek ha pubblicato molti libri e saggi importanti e il suo nome sarà ricordato come uno dei più grandi economisti. Ma ciò che lo ha fatto conoscere da un giorno all’altro a tutte le persone in Occidente, è stato un breve saggio pubblicato nel 1944, La via della schiavitù.

In quel momento, le nazioni occidentali stavano combattendo le dittature nazi-fasciste, in nome della libertà e dei diritti dell’uomo. Per come la vedevano gli Alleati, i loro avversari erano schiavi, mentre loro stessi erano risolutamente dediti alla conservazione dei grandi ideali dell’individualismo. Ma Hayek scoprì il carattere illusorio di questa interpretazione. Egli mostrò che tutte quelle caratteristiche del sistema economico nazista che apparivano come riprovevoli agli occhi degli inglesi e anche dei loro alleati occidentali, erano proprio il risultato necessario delle politiche a cui miravano i cosiddetti progressisti, i pianificatori, i socialisti e, negli Stati Uniti, i sostenitori del New Deal. Mentre combattevano il totalitarismo, gli inglesi e i loro alleati si entusiasmarono per i piani di trasformazione dei loro paesi in regimi totalitari e procedevano sempre più lontano su questa strada verso la schiavitù.

Nel giro di poche settimane, il libro divenne un bestseller e fu tradotto in tutte le lingue più diffuse. Molti sono così gentili da chiamarmi uno dei padri della rinascita del liberalismo classico. Mi chiedo se sia davvero così. Ma non c’è alcun dubbio che il professor Hayek con la sua Via della schiavitù abbia spianato la strada alla formazione di un’organizzazione internazionale degli amici della libertà. È stata la sua iniziativa che ha portato, nel 1947, alla fondazione della Mont Pelerin Society, in cui collaborano eminenti liberali e libertari di tutti i Paesi di questo lato della cortina di ferro.

Dopo aver dedicato trent’anni allo studio dei problemi della teoria economica e dell’epistemologia delle scienze sociali e aver svolto un lavoro pionieristico nel trattamento di molti di questi problemi, il professor Hayek si è rivolto alla filosofia generale della libertà. Il risultato dei suoi studi è il monumentale saggio La Società Libera, pubblicato due anni fa. È il frutto degli anni trascorsi in questo Paese come professore all’Università di Chicago. È particolarmente significativo che questo rampollo di origine austriaca della Scuola Austriaca di Economia, che ha insegnato per molti anni a Londra, abbia scritto il suo libro sulla libertà nel Paese di Jefferson e Thoreau.

Non stiamo perdendo del tutto il professor Hayek. D’ora in poi insegnerà in un’università tedesca, ma siamo certi che di tanto in tanto tornerà in questo Paese per conferenze e congressi. E siamo certi che, in queste visite, avrà molto da dire sull’epistemologia, sul capitale e sul capitalismo, sul denaro, sulle banche e sul ciclo del commercio, e, prima di tutto, anche sulla libertà. In attesa di ciò, possiamo considerare un buon auspicio che il nome della città dove insegnerà sia Friburgo, Freiburg in tedesco. “Frei” – che significa libera.

Non consideriamo l’evento di stasera come una festa di addio. Non diciamo “addio”, diciamo “alla prossima volta”.

Traduzione a cura di Gabriele Pierguidi e Alessio Langiano

Fonte: https://mises.org/library/tribute-fa-von-hayek

[1] Riferimento all’opera di Julien Benda The Treason of the Intellectuals (1928), tradotta in italiano come “Il tradimento dei chierici”.

La rivoluzione americana è stata radicale? – di Murray N. Rothbard

La visione neo-conservatrice della Rivoluzione Americana

Soprattutto a partire dai primi anni Cinquanta, l’America si è opposta alle rivoluzioni in tutto il mondo; nel farlo ha generato una storiografia che nega il proprio passato rivoluzionario. Questa visione neo-conservatrice della Rivoluzione Americana, facendo eco allo scrittore reazionario al soldo dei governi austriaco e inglese dei primi anni del XIX secolo, Friedrich von Gentz[1], cerca di isolare la Rivoluzione Americana da tutte le rivoluzioni del mondo occidentale che l’hanno preceduta e seguita.

La Rivoluzione Americana, secondo questo punto di vista, è stata unica. L’unica di tutte le rivoluzioni moderne a non essere stata davvero rivoluzionaria; è stata invece moderata, conservatrice, dedita solo a difendere le istituzioni esistenti dall’aggressione britannica. Inoltre era meravigliosamente armoniosa e consensuale, come tutto in America. A differenza della malvagia Rivoluzione Francese e di altre rivoluzioni in Europa, la Rivoluzione Americana non ha quindi sconvolto o cambiato nulla. Non è stata dunque una vera e propria rivoluzione; e certamente non è stata radicale.

 

Le rivoluzioni sono una reazione all’oppressione

Ora, questa visione, in primo luogo, dimostra un’estrema ingenuità sulla natura della rivoluzione. Nessuna rivoluzione è mai scaturita dal vertice della società esistente, completamente formata e armata di tutto punto come Atena scaturì dalla testa di Zeus; nessuna rivoluzione è mai emersa da un vuoto. Nessuna rivoluzione è mai nata solo dalle idee, ma solo da una lunga serie di abusi e da una lunga storia di preparazione, ideologica e istituzionale. E nessuna rivoluzione, neanche la più radicale, dalla Rivoluzione Inglese del XVII secolo alle molte rivoluzioni del Terzo Mondo del XX secolo,  è mai nata se non come reazione a una crescente oppressione da parte dell’apparato statale esistente.

In questo senso ogni rivoluzione è una reazione alla crescente oppressione; e in questo senso, tutte le rivoluzioni possono essere definite “conservatrici”; ma questo creerebbe confusione intorno al significato dei concetti ideologici. Se le rivoluzioni Francese e Russa possono essere definite “conservatrici”, allora lo stesso vale per quella Americana. Si applica alla ribellione di Bacon[2] della fine del XVII secolo come alla Rivoluzione americana della fine del XVIII secolo. Come ha giustamente sottolineato la Dichiarazione d’Indipendenza (una buona fonte per comprendere la Rivoluzione):

La prudenza, certamente, impone che i governi di antica data non siano cambiati per cause leggere e transitorie; e tutta l’esperienza ha dimostrato che l’umanità è più disposta a soffrire i torti di un cattivo governo, finché sopportabili, che a farsi giustizia abolendo le forme a cui è abituata. Ma quando una lunga serie di abusi e di usurpazioni… rivela un progetto per ridurli sotto un dispotismo assoluto, è allora loro diritto e loro dovere respingere tale governo. …”

Ci vuole una lunga serie di abusi per persuadere la massa a rinunciare alle proprie abitudini e alla propria lealtà e a fare la rivoluzione; da qui l’assurdità di definire la Rivoluzione Americana come “conservatrice” in questo senso. In effetti, proprio questa svolta contro le abitudini esistenti, l’atto stesso della rivoluzione, è di conseguenza un atto straordinariamente radicale. Tutte le rivoluzioni di massa, anzi, tutte le rivoluzioni che si distinguono dai meri colpi di Stato, portando le masse all’azione violenta, sono quindi di per sé eventi estremamente radicali. Tutte le rivoluzioni sono radicali.

 

La tradizione radicale americana

Ma il profondo radicalismo della Rivoluzione Americana va ben oltre ciò. È stato indissolubilmente legato sia alle rivoluzioni radicali che l’hanno preceduta che a quelle che le sono succeduta, in particolare la Rivoluzione Francese. Le ricerche di Caroline Robbins e Bernard Bailyn hanno mostrato l’imprescindibile nesso fra l’ideologia radicale dei rivoluzionari repubblicani inglesi del XVII secolo e i rivoluzionari francesi e americani, passando attraverso i Commonwealth Men[3] di fine XVII secolo e inizio XVIII secolo. E questa ideologia dei diritti naturali e della libertà individuale era rivoluzionaria fino al midollo. Come Lord Acton[4] ha sottolineato a proposito del liberalismo radicale, nel porre “ciò che dovrebbe essere” come rigoroso punto di riferimento per giudicare “ciò che è”, ha in pratica creato uno standard di rivoluzione.

Gli americani erano sempre stati intrattabili, ribelli, insofferenti all’oppressione, come testimoniano le numerose ribellioni della fine del XVII secolo; avevano anche una loro eredità individualista e libertaria, i loro Anne Hutchinsons[5] e i quasi anarchici del Rhode Island, alcuni direttamente collegati con l’ala sinistra della Rivoluzione inglese. Ora, rafforzati e guidati dall’ideologia libertaria dei diritti naturali sviluppata nel XVIII secolo, e reagendo all’aggressione dello Stato imperiale britannico nella sfera economica, costituzionale e religiosa, gli americani, nel corso di scontri sempre più intensi e radicalizzati con la Gran Bretagna, fecero e vinsero la loro Rivoluzione. Nel farlo, questa rivoluzione basata sull’ideologia libertaria che pervadeva sempre più l’opinione illuminata in Europa diede uno slancio incommensurabile al movimento rivoluzionario liberale in tutto il Vecchio Mondo, perché costituiva l’esempio vivente di una rivoluzione liberale che aveva colto un’audace opportunità contro lo Stato più potente del mondo e contro ogni previsione aveva avuto successo. Essa, in effetti, era diventata un faro luminoso per tutti i popoli oppressi del mondo!

La rivoluzione americana è stata radicale in molti altri modi. Fu la prima guerra di liberazione nazionale di successo contro l’imperialismo occidentale. Una guerra popolare, condotta dalla maggioranza degli americani che avevano il coraggio e il fervore di sollevarsi contro il governo “legittimo” costituito, riuscì a cacciare il “sovrano”. Una guerra rivoluzionaria condotta da “fanatici” e zelosi che respingevano i richiami al compromesso e all’adeguarsi al sistema esistente.

Come guerra popolare, fu vittoriosa perché contro l’esercito britannico, meglio armato e meglio addestrato, furono impiegate strategia e tattiche di guerriglia – strategia e tattiche di conflitto prolungato basate proprio sul sostegno di massa. Le tattiche di assalto, di mobilità, di sorpresa, di logoramento e di attacco alle linee di rifornimento portarono infine all’accerchiamento del nemico. Considerando che la teoria della guerriglia non era ancora stata sviluppata, è stato notevole che gli americani abbiano avuto il coraggio e l’iniziativa di impiegarla. Tutte le loro vittorie si basavano su concetti di guerriglia, mentre tutte le sconfitte americane provenivano dall’ostinata insistenza di uomini come Washington su un convenzionale confronto militare in campo aperto, di tipo europeo.

 

La guerra civile all’interno della Rivoluzione Americana

Inoltre, come ogni guerra popolare, la Rivoluzione Americana inevitabilmente spaccò la società in due. La Rivoluzione non è stata un’emanazione pacifica di un generale “consenso” americano; al contrario, come abbiamo visto, fu una guerra civile che portò all’espulsione permanente di 100.000 Tories[6] dagli Stati Uniti. I lealisti furono cacciati, perseguitati, a volte uccisi e i loro beni confiscati; cosa c’è di più radicale di questo? Come in tante altre cose, la Rivoluzione Francese fu anticipata in questo dagli americani.

La contraddizione interna fra l’obiettivo della libertà e la lotta contro i Tories durante la Rivoluzione ha mostrato come le rivoluzioni siano tentate di tradire i propri principi nella foga della battaglia. La Rivoluzione Americana ha prefigurato anche l’uso improprio dell’inflazione di cartamoneta, e dei severi controlli sui prezzi e sui salari che si dimostrarono altrettanto impraticabili in America come in Francia. E, poiché il governo costituito veniva ignorato o rovesciato, gli americani hanno fatto ricorso a nuove forme di governo quasi anarchiche: comitati locali spontanei. In effetti, il nuovo Stato e i futuri governi federali sono spesso emersi da federazioni e alleanze di comitati locali e di contea. Anche in questo caso, “comitati d’ispezione”, “comitati di sicurezza pubblica”, ecc., anticipavano la via francese e altre vie rivoluzionarie. Ciò significava, come fu illustrato nel modo più chiaro in Pennsylvania, l’innovazione rivoluzionaria di istituzioni parallele, di doppi poteri, che sfidavano e alla fine semplicemente sostituivano le vecchie e consolidate forme di governo. Niente, in questo quadro della Rivoluzione americana, avrebbe potuto essere più radicale, più rivoluzionario.

Ma, si può dire, in fondo si trattava solo di una rivoluzione esterna; anche se la Rivoluzione Americana era radicale, era solo un radicalismo diretto contro la Gran Bretagna. Non c’è stato alcuno sconvolgimento radicale in patria, nessuna “rivoluzione interna”. Anche qui, tale visione tradisce un concetto molto ingenuo di rivoluzione e di guerre di liberazione nazionale. Se il bersaglio della sollevazione era ovviamente la Gran Bretagna, l’inevitabile conseguenza indiretta fu un cambiamento radicale all’interno degli Stati Uniti. La prima e più ovvia conseguenza fu che il successo della rivoluzione significò inevitabilmente il rovesciamento e lo sfollamento delle élite conservatrici lealiste, in particolare degli oligarchi locali e dei membri dei consigli dei governatori creati e sostenuti dal governo britannico. La liberazione del commercio e della manifattura dalle catene imperiali britanniche significò anche qui la cacciata dei Tory da posizioni di privilegio economico.

La confisca dei possedimenti dei Tory, soprattutto nello Stato semi-feudale di New York ebbe un forte effetto democratizzante e liberalizzante sulla struttura della proprietà terriera negli Stati Uniti. Uniti. Questo processo fu anche notevolmente promosso dall’inevitabile espropriazione delle vaste proprietà terriere britanniche in Pennsylvania, Maryland, Virginia e North Carolina. L’inattesa acquisizione del territorio a ovest degli Appalachi con il trattato di pace aprì vaste quantità di terre vergini alla liberalizzazione ulteriore della struttura fondiaria, a condizione che le società di speculazione terriera, come era sempre più chiaro, fossero tenute a bada. La rivoluzione portò anche un inevitabile ritorno della libertà religiosa con la liberazione di molti Stati, soprattutto nel Sud, dall’anglicanesimo imposto dagli inglesi.

 

Gli sconvolgimenti interni portati dalla Rivoluzione

Con questi radicali processi avviati inevitabilmente dallo scoppio della guerra contro la Gran Bretagna, non sorprende che questo percorso rivoluzionario interno andasse oltre. All’attacco al feudalesimo si aggiunse una spinta contro i retaggi dell’inalienabilità e della primogenitura; dall’ideologia della libertà individuale – e dalla partecipazione britannica alla tratta degli schiavi – venne un attacco generale a quel commercio, e, nel Nord, una spinta governativa contro la schiavitù stessa, che ebbe successo.

Un altro corollario necessario, e spesso trascurato, della Rivoluzione fu che l’evento stesso della rivoluzione (escludendo il Connecticut e il Rhode Island, dove già prima non esisteva alcun governo britannico) destituì il regime locale esistente. L’improvvisa eliminazione di quel regime riportò il governo in una forma frammentata, locale, quasi anarchica.

Se consideriamo anche che la Rivoluzione fu consapevolmente e fortemente diretta contro le tasse e contro il potere del governo centrale, l’inevitabile spinta della Rivoluzione per una trasformazione radicale verso la libertà diventa chiarissima. Non sorprende quindi che le tredici colonie ribelli fossero separate e decentralizzate, e che per diversi anni anche i governi statali separati non abbiano osato imporre tasse alla popolazione. Inoltre, dal momento che il controllo reale nelle colonie aveva significato il controllo del potere esecutivo, giudiziario e legislativo (sulla camera alta) da parte degli incaricati reali, la spinta libertaria della Rivoluzione era inevitabilmente contro questi strumenti di oligarchia e a favore di forme democratiche rispondenti e facilmente controllabili dal popolo. Non è un caso che gli Stati in cui questo tipo di rivoluzione interna contro l’oligarchia fece più progressi erano quelli in cui l’oligarchia era più riluttante a rompere con la Gran Bretagna.

In Pennsylvania per esempio la spinta radicale per l’indipendenza ebbe come conseguenza che l’oligarchia riluttante dovesse essere messa da parte, e questo processo condusse alla costituzione più liberale e democratica di tutti gli stati. (Una costituzione notevolmente liberale e democratica è anche il risultato della necessità del Vermont di ribellarsi contro l’imperialismo di New York e del New Hampshire verso le terre del Vermont). D’altra parte, il Rhode Island e il Connecticut, dove non esisteva alcun governo britannico locale, non subirono un tale cataclisma interno.

La rivoluzione interna arrivò quindi dall’esterno, ma avvenne comunque. A causa di questi inevitabili effetti libertari interni, la spinta al ripristino del governo centrale attraverso la tassazione e il mercantilismo dovette essere un progetto consapevole e determinato da parte dei conservatori – una spinta contro le conseguenze naturali della Rivoluzione.

 

La Rivoluzione come guerra popolare

Poiché la Rivoluzione è stata una guerra popolare, la portata della partecipazione di massa nelle milizie e nei comitati condusse necessariamente a una democratizzazione del suffragio nei nuovi Stati. Inoltre, il principio di “nessuna tassazione senza rappresentanza” poteva essere facilmente applicato internamente, così come le restrizioni britanniche al principio di “un uomo, un voto”. Anche se recenti ricerche hanno dimostrato che i requisiti del suffragio coloniale erano molto più liberali di quanto si fosse pensato, è vero che il suffragio fu significativamente ampliato dalla Rivoluzione in metà degli Stati.

Questo allargamento è stato aiutato ovunque dal deprezzamento dell’unità monetaria (e quindi dei requisiti di proprietà esistenti) provocato dall’inflazione che contribuì a finanziare la guerra. Chilton Williamson, il più attento e giudizioso degli storici recenti del suffragio americano, ne ha concluso che:

La Rivoluzione operò probabilmente per aumentare le dimensioni di quel gruppo di maschi adulti che era stato in grado di soddisfare i vecchi criteri di possesso terriero e di libera proprietà prima del 1776. (…)

L’aumento del numero di elettori non fu probabilmente così significativo come il fatto che la Rivoluzione aveva reso esplicita l’idea di base che il voto aveva poco o nulla a che fare con la proprietà immobiliare e che questa idea doveva riflettersi accuratamente nella legge. (…)

I cambiamenti di suffragio apportati durante la Rivoluzione sono stati i più importanti di tutta la storia della riforma del suffragio americano. In retrospettiva è chiaro che i rivoluzionari hanno impegnato il paese verso un suffragio democratico.”[7]

Anche se molte delle costituzioni statali, sotto l’influenza di pensatori conservatori, si rivelarono essere testi reazionari opposti agli iniziali sviluppi rivoluzionari, l’atto stesso di farle fu radicale e rivoluzionario, perché significava che ciò che i pensatori radicali e illuministi avevano detto era in effetti vero: gli uomini non dovevano sottomettersi ciecamente all’abitudine, al costume, a “prescrizioni” irrazionali. Dopo aver violentemente cacciato il governo prestabilito, potevano sedersi e creare coscientemente il proprio governo con l’uso della ragione. Qui c’era davvero il radicalismo. Inoltre, con i Bills of Rights[8] i legislatori aggiunsero un tentativo significativo e consapevolmente libertario di impedire al governo di invadere la sfera dei diritti naturali dell’individuo, diritti che avevano appreso dalla grande tradizione libertaria inglese del secolo scorso.

 

La Rivoluzione Americana è stata radicale

Per tutti questi motivi, per la sua violenza di massa e per i suoi obiettivi libertari, la Rivoluzione americana fu ineluttabilmente radicale. Non ultima dimostrazione del suo radicalismo è l’impatto di questa rivoluzione nell’inspirare e generare le rivoluzioni dichiaratamente radicali in Europa, un impatto internazionale che è stato studiato a fondo da Robert Palmer e Jacques Godechot. Palmer ha riassunto in modo eloquente il significato che la Rivoluzione americana ha avuto per l’Europa:

La rivoluzione americana ha coinciso con il culmine dell’età dell’Illuminismo. È stata essa stessa, in qualche modo, il prodotto di quest’epoca. Molti in Europa, così come in America, videro nella rivoluzione americana una lezione e un incoraggiamento per l’umanità. Dimostrò che le idee liberali dell’Illuminismo potevano essere messe in pratica. Dimostrò, o si supponeva che dimostrasse, che le idee sui diritti dell’uomo e il contratto sociale, della libertà e dell’uguaglianza, della cittadinanza responsabile e della sovranità popolare, della libertà religiosa, della libertà di pensiero e di parola, della separazione dei poteri e delle costituzioni pianificate liberamente, non devono restare nel regno della speculazione, tra gli scrittori di libri; ma potrebbero diventare il vero tessuto della vita pubblica tra persone reali, in questo mondo, ora.[9]

 

 

 

Traduzione a cura di Giulia Forghieri e Alessio Langiano

Articolo originale: https://mises.org/library/was-american-revolution-radical

[1] Diplomatico e scrittore tedesco (1764-1832), dopo un iniziale sostegno alla Rivoluzione Francese, ne divenne un deciso oppositore, tanto da diventare il segretario del cancelliere austriaco Metternich e sostenere la reazione conservatrice e anti-liberale in Prussia e Austria dopo il Congresso di Vienna del 1815 (NdT).

[2] Sollevazione guidata dall’allevatore Nathaniel Bacon in Virginia nel 1676 e soffocata nel giro di qualche mese dalle truppe fedeli al governo britannico (NdT).

[3] I Commonwealth Men erano i membri di un movimento riformista britannico attivo alla fine del XVII e inizio XVIII secolo. Fra essi vi furono John Trenchard e Thomas Gordon, autori delle celebri Cato’s Letters del 1720-23, opera fondamentale per la cultura libertaria inglese ed americana (NdT).

[4] John Dalberg-Acton (1834-1902), storico e politico britannico, fra i più importanti pensatori liberali del XIX secolo (NdT).

[5] Teologa inglese puritana (1591-1643), fondò una nuova congregazione nelle colonie americane, sfidando le gerarchie puritane in quanto donna e per le sue dottrine religiose e politiche (NdT).

[6] Per “Tories” si intendevano i coloni americani lealisti, rimasti fedeli alla corona d’Inghilterra (NdT).

[7] Chilton Williamson, American Suffrage from Property in Democracy, 1760–1860 (Princeton, N.J.: Princeton University Press), pp. 111–12, 115–16.

[8] Per Bills of Rights si intendono in questo caso gli emendamenti alla Costituzione Americana proposti da James Madison nel 1789 e in gran parte approvati dal Congresso Americano e che comprendono, ad esempio, il Primo Emendamento, che garantisce la libertà religiosa, ed il Secondo Emendamento, che conferisce il diritto di portare armi (NdT).

[9] Robert Palmer, The Age of Democratic Revolution I: The Challenge (Princeton, N.J.: Princeton University Press, 1959), pp. 239–40.

Inflazione e controllo dei prezzi – di Ludwig von Mises

(articolo apparso su Commercial and Financial Chronicle, 20 dicembre 1945)

 

L’inutilità del controllo dei prezzi

Con il socialismo la produzione è interamente guidata dagli ordini del consiglio centrale di gestione della produzione. L’intera nazione è un “esercito industriale” (termine usato da Karl Marx nel Manifesto del Partito Comunista) e ogni cittadino è tenuto ad obbedire agli ordini del suo superiore. Ognuno deve contribuire all’esecuzione del piano globale adottato dal governo.

In un’economia libera nessuno “Zar della produzione” dice a un uomo cosa deve fare. Ognuno pianifica e agisce per sé stesso. Il coordinamento delle attività dei vari individui, e la loro integrazione in un sistema armonico per fornire ai consumatori i beni e i servizi che essi richiedono, è determinato dal processo di mercato e dalla struttura dei prezzi che esso genera.

Il mercato guida l’economia capitalistica. Indirizza le attività di ciascuno verso quei canali in cui serve al meglio i desideri dei suoi simili. Il mercato di per sé mette in ordine l’intero sistema sociale della proprietà privata dei mezzi di produzione e della libera impresa e gli fornisce senso e significato.

Non c’è nulla di automatico o misterioso nel funzionamento del mercato. Le uniche forze che determinano lo stato di continua fluttuazione dei prezzi sono le attribuzioni di valore dei vari individui che agiscono guidati da questi stessi giudizi. Il motore ultimo del mercato è lo sforzo di ogni uomo di soddisfare i propri bisogni e desideri nel miglior modo possibile. La supremazia del mercato equivale alla supremazia dei consumatori. Con il loro acquisto, e con la loro astensione dall’acquisto, i consumatori determinano non solo la struttura dei prezzi, ma anche ciò che deve essere prodotto e in quale quantità, qualità e da chi. Essi determinano il profitto o la perdita di ogni imprenditore, e decidono quindi chi deve possedere il capitale e gestire gli impianti. I consumatori impoveriscono alcuni ricchi e arricchiscono alcuni poveri. Il sistema del profitto è essenzialmente la produzione per l’uso, poiché i profitti possono essere ottenuti solo se si riesce a fornire ai consumatori nel modo migliore e più economico possibile le merci che essi vogliono utilizzare.

Segue che la manomissione della struttura dei prezzi del mercato da parte del governo dirotta la produzione altrove rispetto a dove i consumatori vogliono dirigerla. In un mercato non manipolato dall’interferenza del governo prevale la tendenza a espandere la produzione di ogni articolo fino al punto in cui un’ulteriore espansione non pagherebbe perché le entrate realizzate non supererebbero i costi. Se il governo fissa un prezzo massimo per alcuni prodotti al di sotto del livello che il mercato libero avrebbe determinato per loro e rende illegale la vendita al prezzo di mercato potenziale, la produzione comporta una perdita per i produttori marginali. Coloro che producono con i costi più elevati abbandonano l’attività e impiegano i loro impianti per la produzione di altri prodotti di base, non interessati dai massimali di prezzo. L’interferenza del governo sul prezzo di una merce limita l’offerta disponibile per il consumo. Questo risultato è contrario alle intenzioni che hanno motivato il tetto dei prezzi. Il governo ha voluto facilitare l’ottenimento dell’articolo in questione. Ma il suo intervento si traduce in una riduzione dell’offerta prodotta e messa in vendita.

Se questa spiacevole esperienza non insegna alle autorità che il controllo dei prezzi è inutile e che la politica migliore sarebbe quella di astenersi da qualsiasi tentativo di controllare i prezzi, diventa necessario aggiungere alla prima misura, che fissava semplicemente un tetto al prezzo di uno o più beni di consumo, delle ulteriori misure. Diventa necessario fissare i prezzi dei fattori di produzione necessari per la produzione dei beni di consumo in questione.

Poi la stessa storia si ripete su un piano più remoto. L’offerta di quei fattori di produzione i cui prezzi sono stati limitati si riduce. E di nuovo il governo deve ampliare la sua sfera di controllo dei prezzi. Deve fissare i prezzi dei fattori di produzione secondari necessari per la produzione di questi fattori primari. Così il governo deve andare sempre più lontano. Deve fissare i prezzi di tutti i beni di consumo e di tutti i fattori di produzione, compreso il lavoro, e deve obbligare ogni imprenditore e ogni lavoratore a continuare la produzione a questi prezzi e salari. Nessun ramo della produzione deve essere escluso da questo controllo a tutto campo dei prezzi e dei salari e da questo comando generale di continuare la produzione. Se alcuni rami fossero lasciati liberi, il risultato sarebbe uno spostamento di capitale e di lavoro verso di essi e un corrispondente calo dell’offerta dei beni di cui il governo ha fissato i prezzi. Tuttavia sono proprio questi beni che il governo considera particolarmente importanti per la soddisfazione dei bisogni delle masse.

Ma quando si raggiunge un tale stato di controllo a tutto tondo delle imprese, l’economia di mercato è stata sostituita da un sistema di pianificazione centralizzata, dal socialismo. Non sono più i consumatori, ma il governo a decidere cosa deve essere prodotto e in quale quantità e qualità. Gli imprenditori non sono più imprenditori. Sono stati ridotti allo status di gestori di negozi – o Betriebsführer, come dicevano i nazisti – e sono tenuti ad obbedire agli ordini emessi dal consiglio centrale di gestione della produzione dello Stato. I lavoratori sono obbligati a lavorare negli stabilimenti a cui le autorità li hanno assegnati; il loro salario è determinato da leggi autoritarie. Il governo è supremo. Esso determina il reddito e il tenore di vita di ogni cittadino. È totalitario.

Il controllo dei prezzi è in contrasto con il suo stesso scopo se è limitato solo ad alcune materie prime. Non può funzionare in modo soddisfacente all’interno di un’economia di mercato. Gli sforzi per farlo funzionare devono ampliare la sfera delle materie prime soggette al controllo dei prezzi fino a quando i prezzi di tutte le materie prime e servizi non saranno regolati per mezzo di decreti autoritari e il mercato non cesserà di funzionare.

La produzione può essere guidata dai prezzi fissati sul mercato attraverso l’acquisto o l’astensione dall’acquisto da parte del pubblico; oppure può essere diretta dagli uffici governativi. Non esiste una terza soluzione. Il controllo governativo di una parte dei prezzi comporta solo uno stato di cose che – senza alcuna eccezione – tutti considerano assurdo e in contrasto con il suo stesso scopo. Il suo inevitabile risultato è il caos, il disordine sociale.

 

Il controllo dei prezzi in Germania

È stato ripetutamente affermato che l’esperienza tedesca ha dimostrato che il controllo dei prezzi è fattibile e può raggiungere i fini ricercati dal governo che ne fa uso. Nulla può essere più sbagliato.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il Reich tedesco adottò immediatamente una politica inflattiva. Per scongiurare l’inevitabile esito dell’inflazione, ossia un aumento generale dei prezzi, ricorse contemporaneamente al controllo dei prezzi. La tanto decantata efficienza della polizia tedesca riuscì a far rispettare questi prezzi massimi. Non esisteva un mercato nero. Ma l’offerta delle materie prime soggette al controllo dei prezzi diminuì rapidamente. I prezzi non aumentarono. Ma il pubblico non aveva più la possibilità di acquistare cibo, vestiti e scarpe. Il razionamento fu un fallimento. Anche se il governo riduceva sempre più le razioni assegnate a ciascun individuo, solo poche persone avevano la fortuna di ottenere tutto ciò che la tessera di razionamento prevedeva. Nei loro sforzi per far funzionare il sistema di controllo dei prezzi, le autorità ampliarono passo dopo passo la sfera delle materie prime soggette allo stesso. Un ramo di attività dopo l’altro venne centralizzato e messo sotto la gestione di un commissario governativo. Il governo ottenne il pieno controllo di tutti i rami vitali della produzione. Ma anche questo non fu sufficiente, altri rami dell’industria erano ancora liberi. Così il governo decise di spingersi ancora più in là.

Il Programma Hindenburg mirava a una pianificazione a tutto tondo della produzione. L’idea era di affidare la direzione di tutte le attività commerciali alle autorità. Se il Programma Hindenburg fosse stato eseguito, avrebbe trasformato la Germania in uno Stato puramente totalitario. Avrebbe realizzato l’ideale di Othmar Spann, il campione del socialismo “tedesco”, di fare della Germania un paese in cui la proprietà privata esiste solo in senso formale e legale, mentre in realtà esiste solo proprietà pubblica.

Tuttavia, il programma Hindenburg non era ancora stato completamente attuato quando il Reich crollò. La disintegrazione della burocrazia imperiale spazzò via tutto l’apparato del controllo dei prezzi e del socialismo di guerra. Ma gli autori nazionalisti continuarono a esaltare i meriti della Zwangswirtswirtschaft, l’economia obbligatoria. Era, dicevano, il metodo più perfetto per la realizzazione del socialismo in un paese prevalentemente industriale come la Germania. Festeggiarono quando il cancelliere Brüning nel 1931 tornò alle disposizioni essenziali del Programma Hindenburg e quando più tardi i nazisti applicarono questi decreti con la massima brutalità.

I nazisti non hanno imposto il controllo dei prezzi all’interno di un’economia di mercato, come sostengono i loro ammiratori stranieri. Con loro il controllo dei prezzi era solo un dispositivo nell’ambito di un sistema di pianificazione centrale a tutto campo. Nell’economia nazista non si parlava di iniziativa privata e di libera impresa. Tutte le attività di produzione erano dirette dal Reichswirtschaftsministerium. Nessuna impresa era libera di discostarsi dagli ordini emessi dal governo nello svolgimento della propria attività. Il controllo dei prezzi era solo un dispositivo nel complesso di innumerevoli decreti e ordini che regolavano i minimi dettagli di ogni attività commerciale e fissavano con precisione i compiti di ogni individuo, da un lato, e il suo reddito e il suo tenore di vita, dall’altro.

Ciò che rendeva difficile per molti comprendere la natura stessa del sistema economico nazista era il fatto che i nazisti non espropriarono apertamente gli imprenditori e i capitalisti e che non adottarono il principio di uguaglianza dei redditi che i bolscevichi sposarono nei primi anni del dominio sovietico e scartarono solo in seguito. Eppure i nazisti sottrassero completamente il controllo alla borghesia. Quegli imprenditori che non erano né ebrei né sospettati di avere tendenze liberali e pacifiste mantennero le loro posizioni nella struttura economica. Ma erano praticamente solo dipendenti pubblici salariati, tenuti a rispettare incondizionatamente gli ordini dei loro superiori, i burocrati del Reich e del partito nazista. I capitalisti ottennero i loro dividendi (fortemente ridotti). Ma come gli altri cittadini, non erano liberi di spendere una parte del loro reddito superiore a quella che il Partito riteneva adeguata al loro status e al loro rango nella gerarchia della leadership graduata. L’eccedenza doveva essere investita esattamente in conformità con gli ordini del Ministero dell’Economia.

L’esperienza della Germania nazista non ha certo smentito l’affermazione che il controllo dei prezzi è destinato al fallimento in un’economia non completamente socializzata. I sostenitori del controllo dei prezzi che fingono di voler preservare il sistema dell’iniziativa privata e della libera impresa si sbagliano di grosso. Quello che fanno veramente è paralizzare il funzionamento del dispositivo di guida di questo sistema. Non si preserva un sistema distruggendo il suo nervo vitale; così lo si uccide.

 

Fallacie popolari sull’inflazione

L’inflazione è il processo che determina un aumento lordo della quantità di denaro in circolazione. Il suo principale veicolo nell’Europa continentale è l’emissione di banconote a corso legale non rimborsabili. In questo paese [gli Stati Uniti, NdT] l’inflazione consiste principalmente nell’assunzione di prestiti governativi dalle banche commerciali e anche in un aumento della quantità di moneta cartacea e metallica di vario tipo. Il governo finanzia la sua spesa in deficit con l’inflazione.

L’inflazione si tradurrà in una tendenza generale all’aumento dei prezzi. Chi si trova nelle tasche la quantità aggiuntiva di valuta è in grado di espandere la propria domanda di beni e servizi vendibili. Una domanda aggiuntiva, a parità di altre condizioni, aumenterà i prezzi. Nessun sofisma e nessun sillogismo può far dimenticare questa inevitabile conseguenza dell’inflazione.

La rivoluzione semantica, che è uno dei tratti caratteristici dei nostri giorni, ha oscurato e confuso questo fatto. Il termine inflazione è usato con una nuova connotazione. Ciò che oggi la gente chiama “inflazione” non è l’inflazione, cioè l’aumento della quantità di denaro e di sostituti del denaro, ma l’aumento generale dei prezzi delle materie prime e dei salari, che è la conseguenza inevitabile dell’inflazione. Questa innovazione semantica non è affatto innocua.

Innanzitutto, non è più disponibile un termine per indicare ciò che significava l’inflazione. È impossibile combattere un male che non si può nominare. I politici non hanno più la possibilità di ricorrere a una terminologia accettata e compresa dal pubblico quando vogliono descrivere la politica finanziaria a cui si oppongono. Ogni volta che vogliono fare riferimento a questa politica, essi devono procedere a un’analisi e a una descrizione particolareggiata di questa politica, con tutti i suoi dettagli e le sue minuzie, e devono ripetere questa fastidiosa procedura in ogni frase in cui trattano questo argomento. Non potendo nominare la politica che aumenta la quantità del denaro in circolo, essa va avanti in modo sfrenato.

Il secondo problema è che coloro che sono impegnati in tentativi futili e senza speranza di combattere le inevitabili conseguenze dell’inflazione – l’aumento dei prezzi – pretendono di star lottando contro l’inflazione. Mentre combattono i sintomi, fingono di combattere le cause alla radice del male. E poiché non comprendono il rapporto di causalità tra l’aumento del denaro in circolazione e l’espansione del credito da un lato e l’aumento dei prezzi dall’altro, in pratica peggiorano le cose.

L’esempio migliore è dato dai sussidi. Come è stato sottolineato, le limitazioni di prezzo riducono l’offerta perché la produzione comporta una perdita per i produttori marginali. Per evitare questo risultato i governi spesso concedono sussidi agli agricoltori che operano con i costi più elevati. Questi sussidi sono finanziati da un’ulteriore espansione del credito. In questo modo I sussidi si traducono in un aumento della pressione inflazionistica. Se i consumatori dovessero pagare prezzi più alti per i prodotti in questione, non si verificherebbe nessun ulteriore effetto inflazionistico. I consumatori dovrebbero utilizzare per tali pagamenti eccedentari solo denaro già messo in circolazione. Così la presunta brillante idea di combattere l’inflazione con i sussidi porta di fatto ad un aumento dell’inflazione.

 

Le fallacie non devono essere importate

Oggi non c’è praticamente bisogno di discutere dell’inflazione relativamente leggera e innocua che, in un sistema gold standard, può essere causata da un grande aumento della produzione di oro. I problemi che il mondo deve affrontare oggi sono quelli dell’inflazione incontrollata. Una tale inflazione è sempre il risultato di una politica governativa intenzionale. Lo Stato da un lato non è disposto a limitare le proprie spese e dall’altro non vuole equilibrare il suo bilancio con le tasse riscosse o con i prestiti del pubblico. Sceglie quindi l’inflazione perché la considera il male minore. Continua ad espandere il credito e ad aumentare la quantità di denaro in circolazione perché non vede le conseguenze inevitabili di una tale politica.

Non c’è motivo di allarmarsi troppo per la misura in cui l’inflazione è già presente in questa nazione. Anche se si è spinta molto lontano e ha fatto molto male, non ha certo creato un disastro irreparabile. Non c’è dubbio che gli Stati Uniti siano ancora liberi di cambiare i loro metodi di finanziamento e di tornare a una sana politica monetaria.

Il vero pericolo non consiste in ciò che è accaduto finora, ma nelle dottrine pretestuose da cui sono scaturiti questi eventi. La superstizione che sia possibile per il governo evitare le inesorabili conseguenze dell’inflazione attraverso il controllo dei prezzi è il pericolo principale. Perché questa dottrina distoglie l’attenzione dell’opinione pubblica dal nocciolo del problema. Mentre le autorità sono impegnate in un’inutile lotta contro i fenomeni che ne derivano, solo poche persone attaccano la fonte del male, ovvero i metodi usati dal Tesoro per provvedere alle enormi spese. Mentre i burocrati fanno notizia con le loro attività, i dati statistici relativi all’aumento della moneta nazionale sono relegati in un posto poco appariscente nelle pagine finanziarie dei giornali.

Anche in questo caso l’esempio della Germania può essere un avvertimento. La tremenda inflazione tedesca che nel 1923 ridusse il potere d’acquisto del marco a un miliardesimo del suo valore prima della guerra non è stato un atto di Dio. Sarebbe stato possibile riequilibrare il bilancio tedesco del dopoguerra senza ricorrere alla macchina da stampa della Reichsbank. La prova è che il bilancio del Reich è stato facilmente messo in pareggio non appena il fallimento della vecchia Reichsbank ha costretto il governo ad abbandonare la sua politica inflazionistica. Ma prima che ciò accadesse, tutti gli aspiranti esperti tedeschi negavano ostinatamente che l’aumento dei prezzi delle materie prime, dei salari e dei tassi di cambio avesse qualcosa a che fare con il metodo di spesa sconsiderata del governo. Ai loro occhi la colpa era solo del profitto. Essi sostenevano una rigorosa applicazione del controllo dei prezzi come panacea e chiamavano “deflazionisti” coloro che raccomandavano un cambiamento dei metodi finanziari.

I nazionalisti tedeschi furono sconfitti nelle due guerre più terribili della storia. Ma le fallacie economiche che hanno spinto la Germania nelle sue nefaste aggressioni purtroppo sopravvivono. Gli errori monetari sviluppati da professori tedeschi come Lexis e Knapp e messi in atto da Havenstein, il presidente della Reichsbank negli anni critici della sua grande inflazione, sono oggi la dottrina ufficiale della Francia e di molti altri paesi europei. Non c’è bisogno che gli Stati Uniti importino queste assurdità.

 

Traduzione a cura di Alessandro Sforza e Alessio Langiano

Fonte: https://mises.org/library/inflation-and-price-control

In difesa del capitalismo – Henry Hazlitt

La guerra ideologica in corso

Oggi tutto il mondo è coinvolto in una dura guerra tra ideologie. Il conflitto attuale sembra essere stranamente simile alle guerre di religione medievali. Le dottrine dibattute a quel tempo sono oggi per noi incomprensibili, eppure ci sono alcuni punti di discussione altrettanto bizzarri anche nell’attuale guerra ideologica.

I comunisti hanno dato il via alla lotta, coscienti sin da subito non solo a cosa fossero avversi, il capitalismo, ma anche a cosa fossero favorevoli. Su entrambe le questioni la loro direzione politica è stata stabilita sin dal principio. Non ammettono alcun cambiamento, pena l’ostracismo, l’imprigionamento, la tortura o la morte. Eppure, dall’altro lato, la maggior parte di coloro contrari al comunismo non si erano nemmeno accorti della guerra ideologica in corso; e che nessuna pacificazione, nessuna conciliazione, nessun tentativo di serena convivenza, era possibile. I comunisti non lo avrebbero mai permesso. Nonostante ciò, i non-comunisti non avevano idea di essere impegnati in una lotta di sopravvivenza.

Ma questo ci porta ad altre contraddizioni. Non esiste un gruppo coeso di anticomunisti. Molte persone importanti affermano ancora oggi: “È vero, i russi non hanno il diritto di imporre a noi il loro sistema, però nemmeno dovremmo noi cercare di imporre a loro il nostro sistema. Il capitalismo, o la democrazia, è probabilmente il miglior sistema per noi come il comunismo lo è per loro. Se smettiamo di armarci contro i comunisti e combattere contro di loro, le loro diffidenze si dissolveranno col tempo e ognuno vivrà pacificamente a modo suo”. Questa visione persiste ancora, nonostante la sua infondatezza, soprattutto perché riesce a incoraggiare la speranza.

Le divergenze tra gli anticomunisti

Inoltre, anche gli anticomunisti non sono uniti. Sono sì contro il comunismo, ma non hanno una vera e propria idea di cosa questo rappresenti. Pochi di loro si rendono conto che il comunismo è principalmente una dottrina economica. Invece la maggior parte lo considera in primo luogo un sistema politico o culturale. Ciò che ripudiano è il dispotismo, la totale soppressione della libertà, politica, religiosa o artistica che sia, le crudeltà, le confessioni forzate, le bugie sistematiche, le violenze e le congiure, le incessanti campagne diffamatorie, le minacce di interventi militari.

Tutte queste cose sono certamente orribili. Eppure, molti anticomunisti non riescono a capire che sono il semplice ed inevitabile risultato della dottrina economica alla base del comunismo. Esse sono ciò che Karl Marx, riferendosi al capitalismo, avrebbe chiamato “sovrastruttura”.

Tra gli anticomunisti circolano varie idee diverse riguardo il sistema economico che intendono sostituire al comunismo. Si passa dai fautori del libero mercato ai socialisti di sinistra, con ogni varietà di ammiratori del New Deal[1], pianificatori e statalisti in mezzo. I fautori del New Deal, in particolare, sembrano decisi a ripudiare il laissez-faire tanto quanto il comunismo. E in fatto di organizzazione economica della società, i socialisti sono pronti a schierarsi con i comunisti per combattere il capitalismo.

A causa delle profonde divisioni tra gli anticomunisti, sono nate svariate idee contrastanti riguardo la corretta “strategia” contro il comunismo. Alcuni pensano che definirsi anticomunisti sia sufficiente per essere uniti. Il comunismo, dicono, non è una dottrina da analizzare, ma una cospirazione da sopprimere. È necessario dare la caccia ai comunisti – nelle istituzioni, nell’esercito, nelle Nazioni Unite, nelle scuole e nelle università – smascherarli e liberarcene. Qualsiasi altra cosa, sostengono, o non conta o è fuorviante.

È sufficiente la democrazia?

C’è un altro gruppo di anticomunisti che non si limita a schierarsi contro il comunismo. Pensano che gli oppositori del comunismo debbano condividere una filosofia comune. Ripongono la loro fede nella democrazia, e credono essa sia sufficiente. Questa è stata sostanzialmente la posizione del Dipartimento di Stato e della Voice of America[2] sotto Truman. È la posizione della maggior parte della stampa americana.

Cos’è la democrazia?

Questa posizione non regge ad una accurata indagine. “Democrazia” è una di quelle parole così vaghe che assumono mille significati diversi a seconda di chi ne parla. Può essere estesa o ridotta, come una fisarmonica, per rispondere alle diverse esigenze del momento. Il concetto univoco di “democrazia” è diventato difatti quasi un’elusione semantica. Per alcuni corrisponde a un sistema politico nel quale il governo dipende a tal punto dalla libera volontà popolare, da poter essere cambiato pacificamente qualora cambi la volontà del popolo. Per altri si riduce invece ad uno smisurato controllo di massa nel quale per legge sono tutti uguali, a prescindere dal proprio valore e dalle proprie capacità. È un sistema in cui le minoranze non hanno diritti che la maggioranza deve rispettare, in cui la proprietà privata può essere confiscata e ridistribuita a chi non ha fatto nulla per guadagnarsela, in cui tutti devono percepire lo stesso stipendio, nonostante l’evidente differenza di capacità, impegno e contributo fornito. Questo secondo concetto di democrazia si avvicina inevitabilmente a un sistema comunista, non di certo ad uno libero.

La parola “democrazia”, quindi, non solo è diventata così vaga da essere quasi priva di significato, ma ha perso anche quasi tutto il suo valore anche come strumento semantico. Il nemico se ne è impadronito e l’ha usata per i propri scopi. I comunisti chiamano il loro sistema (in maniera ingannevole ma non per questo meno accattivante) una “democrazia popolare” e sostengono che la democrazia capitalista è una contraddizione in termini.

Anche se il concetto di “democrazia” non fosse così ambiguo, si riferirebbe comunque in primo luogo a un sistema politico. Tuttavia, il comunismo rappresenta principalmente un sistema economico, di cui l’aspetto politico costituisce una conseguenza o una sovrastruttura. Quindi “democrazia” è comunque un’antitesi errata al comunismo. È come dichiarare che l’ovest è l’opposto del nord, o il freddo è l’opposto del nero.

Comunismo contro capitalismo

Il vero opposto del comunismo è il capitalismo. I comunisti lo sanno, ma molti fra noi anticomunisti no.

Questa è la vera ragione della debolezza ideologica di chi si oppone al comunismo, e dell’inefficacia della maggior parte della propaganda contro quest’ultimo, soprattutto quella del Dipartimento di Stato, del Voice of America e dei governi occidentali in generale. Tutti loro pongono la democrazia in contrapposizione al comunismo, in parte perché sono sufficientemente confusi da crederlo veramente e in parte perché non hanno né la volontà né il coraggio di difendere il capitalismo.

Ci sono diverse ragioni alla base di questa riluttanza. Per cominciare, la stessa parola “capitalismo” è stata coniata e diffusa da Marx ed Engels. È stata deliberatamente concepito come una parola dall’accezione negativa. Doveva indicare quello che probabilmente molti ancora credono: un sistema fatto dai capitalisti per i capitalisti.

La stragrande maggioranza dei burocrati nei Paesi occidentali non crede veramente nei principi fondamentali del capitalismo. La libertà economica insita in esso è estranea alla loro mentalità. Non è naturale per coloro che dirigono lo Stato credere in minore potere statale. Inoltre, non capiscono davvero come funzioni il capitalismo o quali misure sono compatibili con esso. Per natura preferiscono favorire l’inefficiente sistema dei sussidi statali. Quindi si dichiarano a favore di enormi programmi di sussidi esteri, come Point Four[3], degli interventi del Fondo Monetario Internazionale e delle interminabili ingerenze delle Nazioni Unite. Non si rendono conto che queste misure e istituzioni in realtà ritardano o impediscono la libertà di commercio e il libero flusso internazionale di investimenti privati da cui dipendono la ripresa reale, la crescita economica e la produttività.

Infine, anche quando un funzionario pubblico americano comprende e preferisce il capitalismo, è imbarazzato dal fatto che molti dei nostri più importanti alleati europei siano così vicini al socialismo. Pertanto, non osa elogiare particolarmente il capitalismo per paura di offendere indirettamente i nostri alleati socialisti. La vera critica al comunismo non è quasi mai fatta pubblicamente.

Cosa fa la libertà

Il diffuso utilizzo del termine “capitalismo” con intento diffamatorio fa sì che nessuno sarebbe disposto a morire per il capitalismo – certamente non sotto questo nome. Al contrario, milioni di persone sono morte per le fantasie comuniste. Eppure, il termine “capitalismo” è semplicemente l’epiteto marxista per il sistema del libero mercato, della concorrenza privata, del sistema in base al quale ciascuno può guadagnare e godere del frutto del proprio lavoro – in breve, la libertà economica.

Il capitalismo si aggiudica il merito di miglior sistema produttivo del mondo grazie alle sue libertà e alla sicurezza che assicura. Non ha bisogno di “provare” la sua superiorità al socialismo o al comunismo. Lo ha già dimostrato mille volte, sia che si confronti la produttività o che si guardi alle libertà individuali. È sbagliato affermare che il capitalismo sia il sistema migliore per i ricchi o per i datori di lavoro. Al contrario, è il sistema migliore proprio per il lavoratore e per i poveri. Il capitalismo ha dato la possibilità ai lavoratori di migliorare il proprio status, il proprio salario e il proprio benessere a livelli tali che prima della rivoluzione industriale sarebbero stati impensabili. Ancora oggi la crescita non si è arrestata, ma è addirittura accelerata.

La risposta al comunismo è dunque il capitalismo. Ed una volta compreso questo, i dubbi di “strategia ideologica” che abbiamo a lungo discusso iniziano a dissolversi. Non dobbiamo chiederci se stiamo “predicando nel deserto”. Questa stessa domanda si basa su un’idea infondata, come se stessimo parlando di un’azione legale, in cui c’è la “nostra parte” contro la “loro parte”. In questo senso entra inconsapevolmente in gioco la teoria marxista di un vero conflitto di interessi tra “classi” economiche – imprenditori contro lavoratori, ricchi contro poveri. Ma una volta che riconosciamo che il sistema del capitalismo è l’unico praticabile, l’unico che promuove l’interesse sia dei datori di lavoro che dei lavoratori, l’unico che fornisce il massimo delle opportunità per i poveri di uscire dalla miseria, allora la vera distinzione è tra coloro che comprendono il sistema e chi no. Una persona in grado di capire un problema non predicherà mai nel deserto; tutti coloro che sono desiderosi di comprendere saranno pronti ad ascoltarla.

Non dobbiamo nemmeno più chiederci se sia necessario limitarsi esclusivamente a combattere il comunismo, in quanto è un complotto ed una minaccia militare, o se possiamo più semplicemente ignorarlo – in base al fatto che è stato già denunciato in abbondanza – e concentrarci sulla lotta contro le misure di stampo socialiste perché è molto più probabile che esse vengano adottare anche in casa nostra.

La soluzione è semplice. C’è solo una risposta giusta alla somma di 2 + 2 e un numero infinito di risposte sbagliate. Dimostrare che 2 + 2 fa 4 è sufficiente per escludere tutte le altre opzioni erronee. Il comunismo non è altro che la più pericolosa delle risposte errate al problema sociale di base. Il socialismo propone le stesse misure economiche di base del comunismo, nel lungo termine solo leggermente meno aggressive e meno pericolose. La pianificazione, il controllo dei prezzi, l’inflazione e il keynesianismo sono altre risposte errate. Come in aritmetica, esistono infinite risposte erronee. Ma una volta trovata quella corretta, possiamo dimostrare perché tutte le altre siano sbagliate usando quella giusta come base.

In ambito sociale ed economico, dobbiamo impegnarci a sviluppare un programma produttivo. Quel programma è il miglioramento e la diffusione del capitalismo.

Traduzione a cura di Laura Pizzorusso

Fonte: https://mises.org/library/lets-defend-capitalism

[1] Riferimento al programma economico di forte interventismo statale adottato dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt negli anni ’30 del XX secolo

[2] Servizio radiotelevisivo statunitense

[3] Point Four è stato un programma di assistenza tecnica per Paesi in via di sviluppo introdotto dal presidente americano Harry Truman nel 1949

Come calcoliamo il valore? – di Ludwig von Mises

[Da “Socialismo: un’analisi economica e sociologica” di Ludwig Von Mises, pp. 113-22.]

L’azione umana come scelta

Ogni azione umana, finché è razionale, si presenta come lo scambio di una condizione per un’altra. Gli uomini indirizzano beni economici, tempo e lavoro nella direzione che, in determinate circostanze, promette loro il più alto grado di soddisfazione, e rinunciano al soddisfacimento di necessità secondarie in modo tale da soddisfare quelle più urgenti. Questa è l’essenza dell’attività economica – la realizzazione di atti di scambio[1] [2].

Ogni uomo che nel corso di un’attività economica sceglie tra la soddisfazione di due necessità, una sola delle quali può essere soddisfatta, compie giudizi di valore. Tali giudizi riguardano inizialmente e direttamente le soddisfazioni stesse; è da queste che si riflettono poi sui beni.

Normalmente, chiunque sia in possesso dei propri sensi è subito capace di valutare i beni di consumo. In condizioni molto semplici non dovrebbe neanche avere difficoltà a formarsi un’idea circa il valore che i fattori di produzione hanno per lui. Quando però le condizioni sono più complicate, e risulta più difficile individuare la connessione tra le cose, servono calcoli più delicati per valutare tali strumenti. Un singolo individuo può facilmente decidere se prolungare la sua caccia o la coltivazione. I processi di produzione che deve considerare sono relativamente brevi. La spesa che richiedono e il prodotto che offrono possono essere facilmente concepiti in modo organico. Ma scegliere se dovremmo usare una cascata per produrre elettricità o continuare l’attività di estrazione del carbone e utilizzare meglio l’energia in esso contenuta, è una cosa piuttosto diversa. In questo caso i processi sono così numerosi e lunghi, le condizioni necessarie per il successo dell’impresa così tante, che non ci si può accontentare di idee vaghe. Per decidere se un’impresa è valida si devono fare degli attenti calcoli.

L’importanza del calcolo

Ma il calcolo richiede unità di misura. E non può esserci una unità di misura delle risorse di uso-valore soggettivo. L’utilità marginale non offre alcuna unità di valore. Il valore di due unità di una data risorsa non è due volte più grande di uno – seppur sia necessariamente più grande o più piccolo di uno. I giudizi di valore non misurano: stimano, valutano[3]. Se si affida solo alla valutazione soggettiva, nemmeno il singolo individuo può arrivare ad una decisione basata su calcoli più o meno esatti in casi in cui la soluzione non è immediatamente evidente. Per migliorare i suoi calcoli deve presupporre relazioni di sostituzione tra i beni. Normalmente non sarà capace di ridurre tutto ad un’unità comune. Ma potrebbe riuscire a ridurre tutti gli elementi del calcolo a beni che può valutare immediatamente, ovvero, i beni di consumo, e può poi basare la sua decisione su tale considerazione. È ovvio che anche questo è possibile solo in casi molto semplici. Per processi di produzione lunghi e complicati risulta fuori discussione.

In un’economia di scambio, il valore oggettivo di scambio dei prodotti diventa l’unità di calcolo. Questo porta un triplice vantaggio. In primis possiamo prendere come base del calcolo la valutazione di tutti gli individui che partecipano agli scambi. La valutazione soggettiva di un individuo non è essere direttamente correlabile alla valutazione soggettiva degli altri. Diventa tale solo in quanto si origina un valore di scambio dall’interazione delle valutazioni soggettive di tutti quelli che prendono parte alla compravendita di beni. In secondo luogo, calcoli di questo genere forniscono un controllo sull’uso appropriato dei mezzi di produzione. Permettono a coloro che desiderano calcolare il costo di complicati processi di produzione di vedere subito se stanno lavorando efficacemente come gli altri. Se sotto i prezzi di mercato prevalenti non riescono a portare avanti il processo fino al profitto, questa è una chiara prova che gli altri sono più bravi a fare buon conto dei beni strumentali in questione. Infine, calcoli basati sui valori di scambio ci permettono di ridurre i valori a un’unità comune. Dato che l’oscillazione del mercato stabilisce relazioni di sostituzione tra le merci, qualsiasi merce desiderata può essere scelta per questa finalità. In un’economia monetaria, la moneta è la merce scelta.

I calcoli con la moneta hanno i loro limiti. La moneta non è unità di misura né del valore né dei prezzi. La moneta non misura il valore. Né i prezzi sono misurati in moneta: sono quantità di moneta. E, nonostante quelli che descrivono la moneta come uno “standard dei pagamenti differiti” lo presuppongano in modo ingenuo, come bene non è stabile nel valore. La relazione tra il denaro e i beni fluttua continuamente non solo dal “lato dei beni”, ma anche dal “lato del denaro”. Di norma, in effetti, queste fluttuazioni non sono troppo violente. Non compromettono troppo il calcolo economico, perché in uno stato di continui cambiamenti di tutte le condizioni economiche, questo calcolo prende in considerazione solo comparativamente periodi brevi, in cui almeno la moneta “sana” non cambia il suo potere d’acquisto in misura molto grande.

Le mancanze dei calcoli con la moneta si originano per la maggior parte non perché essi sono fatti usando un mezzo di scambio generale, la moneta, ma perché sono basati su valori di scambio piuttosto che su valori di uso soggettivi. Per questa ragione, tutti gli elementi del valore che non sono soggetto di scambio eludono tali calcoli. Se, per esempio, stiamo considerando se una centrale idraulica sarebbe profittevole o meno non possiamo includere nel calcolo il danno che verrebbe fatto alla bellezza delle cascate a meno che non si tenga conto della diminuzione del loro valore per via del calo del traffico turistico. Ciononostante, dobbiamo sicuramente tenere a mente queste considerazioni quando stiamo decidendo se un’iniziativa dovrebbe essere portata avanti o meno.

La soggettività dei giudizi di valore

Considerazioni di questo tipo sono spesso etichettate come “non-economiche”. E possiamo accettare questa espressione perché le dispute sulla terminologia non portano a nulla. Ma non tutte le considerazioni di questo genere dovrebbero essere definite irrazionali. La bellezza di un luogo o di un edificio, la salute della razza, l’onore degli individui o delle nazioni, anche se non si inseriscono nelle relazioni di scambio (perché non vengono trattati sul mercato) sono comunque motivazioni di azioni razionali, ammesso che le persone le ritengano importanti, proprio come quelle che sono normalmente chiamate economiche. Il fatto che non si possano inserire nei calcoli monetari deriva dalla stessa natura di questi calcoli. Ma questo non diminuisce minimamente il valore dei calcoli monetari in questioni economiche ordinarie. Perché tutti questi beni morali sono beni di primo grado. Possiamo valutarli direttamente; e quindi non abbiamo alcuna difficoltà nel considerarli, nonostante si trovino al di fuori della sfera dei calcoli monetari.

Il fatto che eludano tali calcoli non rende in nessun modo più difficile tenerli a mente. Se sappiamo precisamente quanto dobbiamo pagare per bellezza, salute, onore, orgoglio, ecc., nulla deve impedirci di dare loro la dovuta considerazione. Le persone sensibili potrebbero soffrire se dovessero scegliere tra ideale e materiale. Ma questo non è colpa di un’economia monetaria. È la natura delle cose. Perché anche dove possiamo dare giudizi di valore senza calcoli monetari non possiamo evitare questa scelta. Sia il singolo individuo che le comunità socialiste dovranno comportarsi allo stesso modo, e le persone veramente sensibili non lo troveranno mai doloroso. Chiamati a scegliere tra pane e onore, non dubiteranno mai su come agire. Se l’onore non può essere mangiato, si può almeno rinunciare a mangiare per l’onore. Solo coloro che temono l’agonia della scelta perché segretamente sanno di non poter rinunciare ai beni materiali, si riferiranno alla necessità della scelta come a una profanazione.

I calcoli monetari hanno significato solo per fini di calcolo economico. In questo caso sono usati affinché lo scambio delle merci possa essere conforme a criteri economici. E tali calcoli prendono in considerazione le merci solo nella proporzione in cui, in date condizioni, si scambiano con denaro. Ogni estensione della sfera del calcolo monetario è fuorviante. È fuorviante quando nelle ricerche storiche è impiegato come misura dei valori passati delle merci. È fuorviante quando è impiegato per valutare l’entrata pro-capite o nazionale dei Paesi. È fuorviante quando è impiegato per stimare il valore delle cose che non sono scambiabili come, per esempio, quando le persone tentano di stimare la perdita dovuta all’emigrazione o alla guerra[4]. Tutte queste valutazioni sono dilettantesche – anche quando sono effettuate dagli economisti più competenti.

Ma entro questi limiti (che nella vita di tutti i giorni non vengono oltrepassati) il calcolo monetario fa tutto ciò che abbiamo diritto di chiedergli. Fornisce una guida in mezzo alla sconcertante moltitudine delle possibilità economiche. Ci permette di estendere i giudizi di valore che si applicano direttamente solo a beni di consumo (o nella migliore delle ipotesi alla produzione di beni di ordine più basso) e a beni di ordine più alto. Senza di esso, intraprendere una produzione che richiede processi lunghi e tortuosi sarebbe uguale a camminare nel buio.

Le condizioni per il calcolo monetario

Sono necessarie due cose se si devono fare calcoli di valore in termini di denaro. Per prima cosa, devono essere scambiabili sia i beni pronti al consumo che i beni di grado più alto. Se così non fosse, non potrebbe avere origine un sistema di relazioni di scambio. È vero che se un singolo individuo sta “scambiando” fatica e farina per il pane all’interno della sua casa, le considerazioni che deve fare non sono differenti da quelle che farebbe se dovesse scambiare pane con vestiti sul mercato. Ed è dunque del tutto corretto considerare tutta l’attività economica, anche l’attività economica di un singolo individuo, come uno scambio. Ma nessun singolo individuo, nemmeno il genio più grande mai esistito, ha un intelletto capace di stabilire l’importanza relativa di ognuno dell’infinito numero di beni di grado più alto. Nessun individuo potrebbe distinguere a tal punto tra l’infinito numero di metodi alternativi di produzione da arrivare a fare giudizi diretti sul loro valore relativo senza l’utilizzo di calcoli ausiliari. Nelle società basate sulla divisione del lavoro, la distribuzione dei diritti di proprietà crea un tipo di divisione mentale del lavoro, senza cui né l’economia né la produzione sistematica sarebbero possibili.

In secondo luogo, deve essere in uso un generale mezzo di scambio, una moneta. E questo mezzo deve servire come intermediario nello scambio di merci di produzione in modo uguale. Se non fosse così, sarebbe impossibile ridurre tutte le relazioni di scambio a un comune denominatore.

Solo in condizioni molto semplici è possibile fare a meno di calcoli monetari. Nello stretto circolo di una famiglia chiusa, dove il padre ha la possibilità di supervisionare tutto, si potrebbe riuscire a valutare alterazioni nei metodi di produzione senza dover ricorrere a fare i conti, perché in tali casi la produzione è portata avanti con un capitale relativamente piccolo. Sono impiegati pochi metodi indiretti di produzione. Di regola, la produzione riguarda i beni di consumo, o beni di grado più alto non troppo lontani dai beni di consumo. La divisione del lavoro si trova ancora nelle sue fasi iniziali. Il lavoratore porta avanti la produzione di una merce dall’inizio alla fine. In una società avanzata tutto questo cambia. È impossibile basarsi sull’esperienza delle società primitive e sostenere che, in condizioni moderne, possiamo fare a meno del denaro.

Nelle semplici condizioni di una famiglia isolata è possibile controllare l’intero processo di produzione dall’inizio alla fine. È possibile giudicare se un particolare processo produce più beni di consumo rispetto a un altro. Ma, nelle condizioni incomparabilmente più complesse dei nostri giorni, ciò non è più possibile. È vero, una società socialista potrebbe vedere se 1000 litri di vino sarebbero meglio di 800 litri. Potrebbe decidere se 1000 litri di vino sarebbero da preferire a 500 litri di olio o meno. Una decisione del genere non necessiterebbe di alcun calcolo. Sarebbe la volontà di qualcuno a decidere. Ma la vera funzione dell’amministrazione economica, cioè l’adattamento dei mezzi ai fini, inizia soltanto quando viene presa una decisione del genere. E solamente il calcolo economico rende questo adattamento possibile. Senza tale assistenza, in mezzo all’incredibile caos di materiali e processi alternativi la mente umana sarebbe completamente in perdita. Ogni qualvolta si dovesse decidere tra processi differenti o centri di produzione differenti, ci troveremmo in alto mare[5].

Il denaro nel sistema socialista

Supporre che una comunità socialista possa sostituire i calcoli in natura ai calcoli in denaro è un’illusione. In una comunità che non pratica lo scambio, i calcoli in natura non possono mai coprire più dei beni di consumo. Sono completamente insufficienti quando si tratta di merci di grado superiore. Quando la società abbandona la libera decisione dei prezzi dei beni di produzione la produzione razionale diventa impossibile. Ogni passo che allontana dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e dall’uso del denaro è un passo che allontana dall’attività economica razionale.

È stato possibile trascurare tutto questo perché il socialismo che conosciamo in prima persona esiste, si potrebbe dire, solo nelle oasi socialiste di quello che per il resto è un sistema basato sul libero scambio e sull’uso del denaro. In questa misura, infatti, potremmo essere d’accordo con la altrimenti insostenibile tesi socialista (impiegata solo per scopi propagandistici) che le imprese nazionalizzate e municipalizzate all’interno di un sistema altrimenti capitalista non sono Socialismo. Perché l’esistenza di un circostante sistema di prezzi liberi sostiene tali imprese nei loro affari economici a tal punto che in esse la peculiarità essenziale dell’attività economica sotto il Socialismo non viene alla luce. Nelle imprese statali e municipali è ancora possibile portare avanti innovazioni tecniche, perché è possibile osservare gli effetti di tali innovazioni in imprese simili sia in territorio domestico che straniero. In tali ambiti è ancora possibile accertare i vantaggi della riorganizzazione perché hanno come sfondo una società che è ancora basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sull’uso del denaro. Per loro è ancora possibile tenere libri contabili e fare calcoli che in ambiti simili di un ambiente puramente socialista sarebbero completamente fuori discussione.

Senza il calcolo, l’attività economica è impossibile. Dato che nel Socialismo il calcolo economico non è possibile, sotto il Socialismo non può esistere un’attività economica come la intendiamo noi. Nelle cose piccole ed insignificanti l’azione razionale potrebbe comunque persistere. Ma per la maggior parte non sarebbe più possibile parlare di produzione razionale. In assenza di criteri di razionalità, la produzione non potrebbe essere coscientemente economica.

Per un po’ di tempo probabilmente la tradizione pregressa di migliaia di anni di libertà economica salverebbe l’arte dell’amministrazione economica dalla completa disintegrazione. Gli uomini manterrebbero i vecchi processi non tanto perché sono razionali, ma perché sono santificati dalla tradizione. Nel frattempo, comunque, al cambiare delle condizioni diverrebbero irrazionali. Diverrebbero antieconomici poiché sono il risultato di cambiamenti portati avanti dal generale declino del pensiero economico. È vero che la produzione non sarebbe più “anarchica”. Il comando di un’autorità suprema governerebbe l’attività di fornitura. Al posto dell’economia di produzione “anarchica” si imporrebbe l’ordine insensato di una macchina irrazionale. Gli ingranaggi girerebbero, ma senza produrre alcun effetto.

Proviamo ad immaginare la posizione di una comunità socialista. Ci sarebbero centinaia e migliaia di stabilimenti in cui viene portato avanti il lavoro. Una piccola parte di questi produrrà beni pronti al consumo. La maggioranza produrrà beni strumentali e semi-lavorati. Tutti questi stabilimenti sarebbero strettamente connessi tra loro. Ogni merce prodotta passerà attraverso un’intera sequenza di stabilimenti simili prima di essere pronta al consumo. Ma nell’incessante cammino di tutti questi processi l’amministrazione economica non avrebbe alcuna reale direzione. Non avrebbe alcun mezzo per verificare se un dato lavoro sia realmente necessario, né se lavoro e materiale vengano sprecati per completarlo. Come riuscirebbe mai a capire quale tra due processi risulta più soddisfacente? Al massimo, potrebbe comparare la quantità di prodotti finali. Ma solo raramente potrebbe comparare la spesa legata alla produzione. Saprebbe esattamente – o immaginerebbe di sapere – cosa avrebbe voluto produrre. Deve quindi prendere una decisione in merito all’ottenere i risultati desiderati con la minor spesa possibile. Ma per fare questo dovrebbe saper fare dei calcoli. E tali calcoli devono essere calcoli di valore. Non potrebbero essere meramente “tecnici”, non potrebbero essere calcoli oggettivi dell’uso-valore delle merci e dei servizi. Questo è talmente ovvio da non richiedere ulteriori dimostrazioni.

L’impossibilità del calcolo senza proprietà privata

In un sistema basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, la scala di valori è il risultato delle azioni di ogni singolo membro della società. Ognuno ricopre un doppio ruolo nel suo stabilimento, in primo luogo come consumatore, poi come produttore. Come consumatore stabilisce il valore delle merci pronte al consumo. Come produttore guida la produzione delle merci verso quegli usi che rendono la produzione più elevata. In questo modo tutti i beni di livello più alto sono anche stimati in modo appropriato basandosi sulle esistenti condizioni di produzione e sulle necessità della società. L’interazione tra questi due processi assicura che il principio economico venga osservato sia nel consumo che nella produzione. In questo modo si origina il sistema dei prezzi correttamente graduato, che permette a tutti di esprimere la propria domanda di beni su basi economiche.

Sotto il Socialismo tutto questo viene necessariamente a mancare. L’amministrazione economica dovrebbe infatti sapere esattamente di quali merci vi è urgente bisogno. Ma questa è solo una metà del problema. L’altra metà, la valutazione dei mezzi di produzione, non si può risolvere. Il socialismo può accertare il valore della totalità di tali strumenti. Questo è ovviamente uguale al valore delle soddisfazioni che offrono. Se calcola la perdita che si originerebbe se venissero ritirati, può anche accertare il valore dei singoli strumenti di produzione. Ma il socialismo non può assimilarli ad un comune denominatore di prezzo, cosa che può invece essere fatta in un sistema di libertà economica e prezzi monetari.

Non è necessario che il Socialismo faccia completamente a meno del denaro. È possibile concepire dei sistemi che permettano l’uso del denaro per lo scambio dei beni dei consumatori. Ma dal momento che i prezzi dei vari fattori di produzione (incluso il lavoro) non potrebbero essere espressi in denaro, il denaro non potrebbe ricoprire alcun ruolo nei calcoli economici[6].

Supponiamo che, ad esempio, il governo socialista stia pensando ad una nuova linea ferroviaria. Sarebbe una buona cosa una linea ferroviaria nuova? Se sì, quale delle innumerevoli vie dovrebbe coprire? In un sistema di proprietà privata potremmo utilizzare i calcoli monetari per decidere in merito a tali questioni. La nuova linea renderebbe meno costoso il trasporto di certi articoli, e, sulla base di questo, potremmo stimare se la riduzione dei costi del trasporto risulterebbe abbastanza importante da compensare la spesa che la costruzione e la messa in funzione della linea richiederebbero. Un calcolo del genere potrebbe essere fatto solamente in termini di denaro. Non potremmo farlo paragonando varie classi di spese e risparmi in natura.

È fuori discussione ridurre ad una comune unità le quantità di varie tipologie di lavoro specializzato e non, di ferro, di carbone, di differenti tipi di materiale da costruzione, di macchinari e manutenzione di cui le linee ferroviarie hanno bisogno, dunque è impossibile renderle il soggetto del calcolo economico. Siamo in grado di creare piani economici sistematici solo quando tutte le merci che dobbiamo prendere in considerazione possono essere assimilate al denaro. È vero, i calcoli monetari sono incompleti. È vero, hanno profonde carenze. Ma non abbiamo nulla di meglio che possa sostituirli. E in condizioni monetarie normali sono sufficienti per gli scopi pratici. Se li mettiamo in disparte, il calcolo economico risulta assolutamente impossibile.

Ciò non significa che una comunità socialista sarebbe completamente persa. Deciderebbe in ogni caso se essere pro o contro la suddetta iniziativa ed emanerebbe una legge. Ma nel migliore dei casi tale decisione verrebbe presa sulla base di valutazioni vaghe. Non potrebbe essere basata su calcoli esatti di valore.

Una società stazionaria potrebbe effettivamente fare a meno di questi calcoli. Perché lì le operazioni economiche semplicemente si ripetono. Se supponiamo che il sistema socialista di produzione fosse basato sul più recente stato del sistema di libertà economica che ha sostituito, e che non si dovessero apportare cambiamenti in futuro, potremmo quindi concepire un Socialismo razionale ed economico. Ma solo nella teoria. Un sistema economico stazionario non può mai esistere. Le cose cambiano continuamente e lo stato stazionario, nonostante sia un supporto necessario per la speculazione, è comunque un’assunzione teoretica priva riscontro nella realtà. E a parte questo, mantenere tale connessione con lo stato più recente dello scambio economico risulterebbe impossibile, dato che il passaggio al Socialismo con la equalizzazione dei salari trasformerebbe necessariamente l’intero “sistema” di consumo e produzione. E avremo così una comunità socialista che deve attraversare l’intero oceano di tutti i cambiamenti economici possibili ed immaginabili senza la bussola del calcolo economico.

Ogni cambiamento economico riguarderebbe quindi delle operazioni il cui valore non potrebbe essere né predetto a priori né accertato a posteriori. Tutto sarebbe un salto nel buio. Il Socialismo è la rinuncia ad un’economia razionale.

Traduzione a cura di Linda Nicole Sonnati e Alessio Langiano

Fonte: https://mises.org/library/how-do-we-calculate-value

[1] Schumpeter, Das Wesen und der Hauptinhalt der theoretischen Nationalökonomie (Leipzig 1908), pp. 50, 80.

[2] Le seguenti osservazioni riproducono parti del mio scritto “Die Wirtschaftsrechnung im sozialistischen Gemeinwesen”, Archiv für Sozialwissenschaft 47 (1920): 86–121.

[3] Cuhel, Zur Lehre yon den Bedürfnissen (Innsbruck, 1907), p. 198.

[4] Wieser, Über den Ursprung und die Hauptgesetze des wirtschaftlichen Werthes (Wien, 1884), p. 185 et leq.

[5] Gottl-Ottlilienfeld, Wirtschaft und Technik, vol. 2 di Grundriss der Sozialökonomik (Tübingen 1914), p. 216.

[6] Anche Neurath ammise questo. In Durch die Kriegswirtschaft zur Naturalwirtschaft (München 1919, p. 216 et seq.) asserisce che ogni amministrazione economica completa (economia pianificata) è alla fine un’economia naturale (sistema del baratto). “Socializzare significa quindi far avanzare l’economia naturale.” Neurath però non riconobbe le difficoltà insormontabili del calcolo economico che si incontrerebbero in una comunità socialista.

Come nasce uno stato di polizia: lo Schutzhaft nella Germania nazista

PROLOGO

Nel maggio del 1933, nell’ufficio del responsabile prussiano alla detenzione preventiva Hans Mittelbach si presentò una donna brandendo della biancheria intrisa di sangue che suo marito, Erich Mühsam, le aveva spedito dal campo di concentramento di Sonnenburg. Mittelbach era ben consapevole delle condizioni di Mühsam.

Questi era stato arrestato nella notte del 28 febbraio 1933, qualche ora dopo l’incendio del Reichstag. Quella notte, come tanti altri comunisti, socialisti e liberali, era stato sorpreso nel sonno dalla polizia o dai gruppi paramilitari associati al NSDAP e condotto in vari luoghi di detenzione, legale o extralegale, fino al famigerato campo di concentramento di Sonnenburg. Mühsam era un noto anarchico e al suo arrivo a Sonnenburg le SA gli diedero il benvenuto a bastonate.

Le violenze proseguirono anche nei giorni successivi e furono gravi al punto che Mittelbach, nell’aprile del 1933, si recò in visita al campo per chiedere agli ufficiali di evitare maltrattamenti ai prigionieri. La richiesta fu vana.

Dopo le denunce della moglie di Mühsam, Mittelbach si recò di persona a prendere il prigioniero per condurlo nel carcere di stato a Berlino dove il trattamento sarebbe stato sicuramente migliore poiché gestito da uomini della polizia. Purtroppo per Mühsam, la carriera del suo salvatore finì di lì a poco, si crede proprio a causa della sua “indulgenza”.

Mühsam fu spostato al campo di Oranienburg, dove le SS lo strangolarono con una corda da bucato e gettarono il corpo nelle latrine fingendo un suicidio. Era il 9 luglio 1934. La cosa sorprendente di questa storia è che tutto ciò che accadde era perfettamente legale e persino costituzionale. Vediamo come.

«LE EMERGENZE SONO SEMPRE STATE IL PRETESTO CON CUI SONO STATE EROSE LE LIBERTÀ INDIVIDUALI»

L’incendio del Palazzo del Reichstag, l’edificio che ospitava la camera bassa del parlamento tedesco, avvenne la sera del 27 febbraio 1933, a un mese dall’insediamento del governo presieduto da Adolf Hitler. L’attentato, per il quale fu accusato un comunista, fu il pretesto per ricorrere alla decretazione d’emergenza prevista dalla costituzione di Weimar all’articolo 48, comma 2:

Il presidente [del Reich] può prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, quando essi siano turbati o minacciati in modo rilevante, e, se necessario, intervenire con la forza armata. A tale scopo può sospendere in tutto o in parte la efficacia dei diritti fondamentali stabiliti dagli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e 153.

I diritti fondamentali menzionati sono l’inviolabilità della libertà personale e del domicilio, la segretezza delle comunicazioni, la libertà di stampa, di riunione, di associazione, e il diritto alla proprietà privata.

Dopo l’incendio, il governo di Hitler si rivolse immediatamente al presidente del Reich Hindenburg, un vecchio generale in pensione, per chiedergli di approvare quello che passò alla storia come “decreto dell’incendio del Reichstag”, con il quale si disponeva che tutti i diritti fondamentali erano sospesi fino a nuove disposizioni.

Il decreto divenne una sorta di carta costituzionale del Terzo Reich, «giustificando ogni sorta di abuso di potere, compresa la negazione della libertà personale senza supervisione dell’autorità giudiziaria né appello»[1].

SCHUTZHAFT

«Dalla prospettiva del campo non si capiva secondo quale sistema (se poi ce n’era uno) fossero eseguiti gli arresti, ancor meno, in base a che cosa si stabiliva la durata della custodia preventiva e la scelta dei rilasci. […] Questa incertezza […] ha giocato un grosso ruolo e ha reso particolarmente difficile la nostra esistenza. […] Solo il fatto che la custodia preventiva era inflitta senza limitazione di tempo fino a un nuovo riesame dell’arresto fa capire che [essere] oggi in Germania detenuto politico in custodia preventiva è molto, molto peggio che essere qualunque criminale condannato ad una precisa limitazione di libertà, perché questo sa la durata del suo arresto»[2].

Così il socialdemocratico Gerhart Seger descriveva la condizione di totale incertezza in cui versavano i circa 200.000[3] prigionieri politici in “custodia preventiva” nel 1933.  La custodia preventiva (schutzhaft) era uno strumento preventivo-repressivo di polizia per arrestare chi fosse considerato un pericolo senza ricorrere agli strumenti giudiziari.

La costituzione di Weimar prevedeva che la libertà personale fosse inviolabile, ma il decreto dell’incendio dei Reichstag aveva sospeso quell’articolo della costituzione: nessun cittadino era al sicuro dagli abusi dei vari corpi di polizia o dei gruppi paramilitari del partito nazionalsocialista; nessuno era garantito contro un arresto arbitrario; la libertà aveva smesso di appartenere al singolo cittadino e apparteneva allo Stato.

Era sufficiente che ci fosse un sospetto, una denuncia anonima, e chiunque poteva essere posto in custodia preventiva. Molti degli arresti avvenuti nella notte tra il 27 e il 28 febbraio 1933 colpirono anche persone che non avevano alcun legame con l’attentato al Reichstag. Mühsam fu arrestato soltanto perché era un noto anarchico.

Altri furono arrestati solo perché comunisti o appartenenti ad altri partiti che potevano avere a che fare con l’incendio. «Alla polizia politica fu data la possibilità di agire in modo preventivo contro ogni minaccia allo Stato: in altre parole, agli organi di polizia fu concesso di arrestare e detenere in custodia preventiva, per un tempo di fatto indeterminato, personalità politiche non ancora processate o di assegnarle al confino per un tempo sì determinato, ma facilmente prorogabile»[4].

Le persone sottoposte a questa misura cautelare «non conoscevano i veri motivi in base ai quali era stato deciso il loro destino»[5] né erano messe al corrente di quando (e se) sarebbe mai terminata la loro detenzione. Era loro impedito anche di ricorrere alla giustizia per chiedere un rilascio.

L’intervento di un avvocato fu ammesso «solo per redigere istanze scritte in rappresentanza del colpito, ma non fu permesso ovviamente che gli avvocati o chiunque altro prendessero visione degli atti e delle pratiche della polizia politica. I permessi di visita degli avvocati e a chi incaricato della tutela degli interessi dello Schutzhäfling non erano concessi “se lo scopo politico-poliziesco della custodia preventiva [era] messo a rischio”»[6].

Il ricorso ai tribunali era invece assolutamente inutile, poiché la polizia poteva porre in custodia preventiva anche chi fosse stato assolto, “correggendo” in questo modo ogni decisione “sbagliata” dei tribunali. Nonostante i tribunali fossero quasi del tutto “nazificati”, lo strumento dello schutzhaft era comunque preferibile: offriva una procedura più snella e veloce; era più “silenzioso” rispetto a un processo penale; non aveva bisogno di prove ma poteva colpire virtualmente chiunque con il solo pretesto della prevenzione e della difesa del popolo e dello Stato.

Lo schutzhaft era lo strumento per eccellenza dello stato onnipotente del primo dopoguerra. «La libertà dell’individuo era prevista solo in funzione dello Stato»[7], che aveva il compito di difendere l’unità e la forza vitale del popolo; in altre parole, aveva il compito di epurare chiunque esprimesse opinioni o compisse atti pericolosi per l’unità nazionale.

La scienza giuridica tedesca andò avvicinandosi lentamente alla necessità, «di natura tutta etico-biologica, di difendere la comunità e la sua purezza razziale»[8]. In questa ottica, lo strumento dello schutzhaft non aveva soltanto la funzione di prevenire i reati isolando gli individui pericolosi, ma uno scopo molto più ampio di escludere per sempre dalla società gli individui che non potevano farne parte poiché la loro stessa esistenza biologica poteva minarne le basi.

Slavi, ebrei, zingari, omosessuali, intellettuali dissidenti, disabili, erano tutte persone che potevano anche non aver compiuto alcun reato e violato alcuna legge, ma dovevano essere allontanate dalla comunità perché portatrici di un patrimonio culturale e genetico nocivo.

Non è affatto strano che, fino alla conferenza di Wannsee del 1942, i nazisti non avessero ancora deciso cosa fare con tutti i prigionieri dei campi di concentramento. Alcuni gerarchi, come Hans Frank, appoggiavano addirittura l’idea di deportare tutti gli ebrei sull’isola di Madagascar, purché lasciassero la comunità tedesca.

I luoghi di detenzione degli schutzhäftling erano notoriamente i campi di concentramento, anche se agli inizi del 1933 i nazisti non avevano ancora pianificato la costruzione di un arcipelago di campi. La necessità nacque quando gli arresti divennero così tanti da non poter essere più gestiti dalle carceri di stato, e si dovette ricorrere a stipare i detenuti in altre strutture.

Inizialmente si preferirono strutture preesistenti come ex carceri, ex fabbriche, edifici abbandonati, persino scantinati. Questi luoghi potevano essere gestiti indifferentemente sia da personale carcerario facente capo ai vari ministeri, sia da personale extralegale come le SS o le SA, i due gruppi paramilitari del partito nazionalsocialista.

Il trattamento dei detenuti poteva variare in base al luogo in cui venivano assegnati. Le prigioni statali, almeno nel 1933, erano ritenute i luoghi più sicuri e tollerabili.

«Nonostante le molte difficoltà, la maggioranza dei prigionieri in detenzione preventiva trovava sopportabile la vita all’interno delle prigioni e delle Case di lavoro. Generalmente venivano tenuti separati dal resto della popolazione carceraria, a volte in grandi stanzoni comuni. Le celle singole erano semplici ma non spartane, di solito dotate di letto, tavolo, sedia, scaffale, lavello e un secchio che fungeva da latrina. Il cibo e la sistemazione erano perlopiù adeguati, nonostante il sovraffollamento, e siccome di norma ai prigionieri non veniva chiesto di lavorare, i detenuti trascorrevano il tempo chiacchierando, leggendo, facendo esercizio fisico, lavorando a maglia e giocando a scacchi»[9].

La relativa pace di questi luoghi durò poco, poiché già nel 1934 molte prigioni statali passarono sotto la gestione delle SS, trasformandosi nello stesso inferno che si viveva nei campi. D’altronde, come si è sottolineato, nessuno dei detenuti aveva diritti: anche il magro pasto giornaliero e il secchio da usare come latrina erano su gentile concessione delle autorità

La popolazione locale era consapevole delle violenze che si consumavano nei campi fin dalla loro nascita nel 1933. Non era raro che i prigionieri riuscissero a fuggire e raccontare ciò che avevano subìto, ma l’atteggiamento generale era per lo più di indifferenza o, al massimo, di insofferenza verso la convivenza con gli uomini delle SS e delle SA che raggiungevano le città vicine ai luoghi di detenzione per divertirsi.

Ad esempio, nell’Emsland «I dettagli sugli eccessi delle SS si diffusero fra la popolazione locale e presto raggiunsero il ministero dell’Interno prussiano, che alla fine intervenne. Il 17 ottobre 1933 ordinò che tutti i prigionieri politici di spicco e gli ebrei fossero immediatamente portati fuori dai campi dell’Emsland»[10].

In altri casi, come l’episodio descritto in apertura, i parenti delle vittime apprendevano tramite la corrispondenza degli abusi all’interno dei luoghi di detenzione e protestavano infruttuosamente con le autorità, ma diffondevano anche le storie fra conoscenti e amici. Era raro trovare qualcuno che non avesse udito almeno una storia del genere già nel 1933.

UNA CURIOSA FUGA

Hans Beimler era un attivista del KPD, il Partito Comunista Tedesco, e aveva preso parte a numerosi scontri con i gruppi paramilitari di destra durante i turbolenti anni della repubblica di Weimar.

Era ben noto agli uomini delle SA e delle SS, quindi quando fu condotto nel campo di concentramento di Dachau il 25 aprile 1933, le guardie lo accolsero con bastonate e scudisciate. Poi lo condussero nella sala delle torture, dove per giorni subì violenti pestaggi da parte delle guardie del campo.

Lo scopo era indurre Beimler al suicidio, così da non far ricadere la colpa della sua morte sulle autorità del campo. Ma Beimler era un osso duro, così l’8 maggio 1933 le SS gli insegnarono a fare un cappio con le lenzuola e gli diedero un ultimatum: se non si fosse impiccato da solo, il giorno dopo ci avrebbero pensato loro, e sarebbe stato molto peggio.

Il mattino successivo, le guardie entrarono nella cella di Beimler e trovarono un’amara sorpresa: il prigioniero era scomparso. Non è chiaro come fuggì dal campo, ma riuscì a raggiungere la Cecoslovacchia «da dove mandò una cartolina alle SS di Dachau: “Baciatemi il culo”»[11].

Ma, molto più importante, Beimler scrisse «uno dei primi fra i sempre più numerosi racconti di testimoni oculari riguardo ai campi nazisti come Dachau»[12] che fu pubblicato a puntate su un giornale svizzero e fatto circolare segretamente in Germania.


[1] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016.

[2] CAMILLA POESIO, In balia dell’arbitrio. Il confino fascista e la Schutzhaft nazista, in Paradigma lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, a cura di S. Casilio, L. Guerrieri, A. Cegna, Clueb, Bologna 2010, p. 137

[3] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016, p. 33

[4] CAMILLA POESIO, Il confino di polizia, la «Schutzhaft» e la progressione erosione dello Stato di diritto, in Il diritto del duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, a cura di Luigi Lacchè, Roma 2015, p. 99

[5] CAMILLA POESIO, In balia dell’arbitrio. Il confino fascista e la Schutzhaft nazista, in Paradigma lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, a cura di S. Casilio, L. Guerrieri, A. Cegna, Clueb, Bologna 2010, p. 142

[6] CAMILLA POESIO, Il confino di polizia, la «Schutzhaft» e la progressione erosione dello Stato di diritto, in Il diritto del duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, a cura di Luigi Lacchè, Roma 2015, p. 101

[7] Ibidem, p. 103

[8] Ibidem, p. 104

[9] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016, p. 37

[10] Ibidem, p. 54

[11] Ibidem, p. 27

[12] Ibidem, p. 27

Il flagello dell’Africa: breve storia del socialismo africano

[vc_row][vc_column][vc_column_text css=”.vc_custom_1617042617398{margin-bottom: 0px !important;}”]

Negli anni Sessanta, milioni di africani guardavano con ottimismo al loro futuro: erano gli anni della decolonizzazione, dell’indipendenza, della libertà. Dopo aver conquistato il diritto all’autogoverno, una nuova generazione di leader africani guardava fiduciosa verso l’avvenire, certa di poter costruire un’Africa migliore, in grado di relazionarsi da pari a pari con il resto del mondo.

Così non è stato. Mezzo secolo dopo, molte nazioni africane si presentano persino più povere di quanto non lo fossero sotto il dominio europeo. Violenza, corruzione, instabilità, miseria, morte: per milioni di africani, è questa la realtà della loro vita. La domanda quindi sorge spontanea: cosa è andato storto?

 

Damnatio memoriae

Naturalmente, non esiste una risposta semplice: questo fallimento è il risultato della combinazione di diversi fattori (i danni a lungo termine del colonialismo, tensioni etniche e religiose, ingerenze delle potenze straniere), ma uno spicca su tutti gli altri: l’abbandono, da parte delle élite al potere nei diversi Paesi africani, dei principi del libero mercato e della democrazia liberale.

Una volta conquistata l’indipendenza, molti dei nuovi leader africani decisero di voltare le spalle a qualsiasi testimonianza del passato coloniale. Ad essere rimossi, modificati o distrutti, però, non furono solo edifici ed emblemi: anche le idee furono sottoposte alla damnatio memoriae.

Per questi leader africani capitalismo, libero mercato e democrazia liberale erano idee degli odiati ex-padroni, quindi intrinsecamente malvagie[1]. Pertanto, era inevitabile che questi politici, nello scegliere secondo quali principi guidare lo sviluppo delle loro nazioni, venissero attratti dall’ideologia della potenza che, negli anni Sessanta, si presentava come l’antitesi dell’Occidente imperialista: l’URSS, e quindi il socialismo sovietico.

 

Un’Africa socialista

Sarebbe riduttivo affermare che il socialismo sovietico abbia attecchito bene nelle nuove nazioni africane: piuttosto, sarebbe più corretto dire che è divampato come benzina sul fuoco dell’indipendenza.

In Tanzania, Julius Nyerere fondò lo sviluppo del Paese sulla dottrina della “Ujamaa”(famiglia estesa), un misto di socialismo sovietico e valori tradizionali africani[2]. In linea con questi principi, la prima Costituzione della Tanzania affermava che “lo Stato ha il compito d’impedire l’accumulo della ricchezza, incompatibile con una società senza classi”.

In Ghana, il Presidente Nkrumah fissò come obiettivo ultimo del suo governo il controllo totale dell’economia da parte dello Stato[3]. Per raggiungere tale scopo, le imprese private vennero nazionalizzate, perfino prezzi e salari vennero stabiliti a tavolino dal governo centrale.

In Guinea, per realizzare il “marxismo in panni africani”, il governo di Sékou Touré varò misure estremamente severe, tra cui: divieto di qualsiasi attività commerciale non approvata dal governo, monopolio statale del commercio con l’estero, pena di morte per il contrabbando[4].

Questi sono solo alcuni esempi. Infatti, vicende simili riguardarono anche lo Zimbabwe di Mugabe, il Mali di Keita, l’Etiopia di Mengistu e tante altre nazioni africane. Perfino in quelle dichiaratamente “capitaliste”, come la Nigeria, uno Stato forte, che quindi interviene pesantemente in economia, venne considerato come uno strumento utile all’indipendenza nazionale[5].

 

Il socialismo africano fra teoria e pratica

Il socialismo africano, sebbene si proponesse come una “Terza via” alternativa non solo al capitalismo, ma anche al socialismo di stampo sovietico[6], nei fatti riprendeva gli aspetti fondamentali di quest’ultimo, in particolare il sistema politico monopartitico e l’economia pianificata.

In tutte le nuove repubbliche socialiste, pertanto, non esistevano né partiti di opposizione né vincoli al potere del governo: tanto nel Ghana di Nkrumah quanto nello Zimbabwe di Mugabe, l’unico partito legale era quello del Presidente, che governava con pieni poteri.

Come in ogni Stato socialista che si rispetti, poi, l’economia era pianificata: com’è stato già detto in precedenza, i leader socialisti africani fecero grandi sforzi per eliminare qualsiasi impresa privata, e quindi autonoma rispetto al governo centrale.

Tutto questo ebbe due gravi conseguenze: in primo luogo, stroncò nei cittadini di questi Paesi qualsiasi aspirazione imprenditoriale, sostituendola con una mentalità che vede lo Stato come l’unica istituzione in grado di creare ricchezza (mentre in realtà può solo ridistribuirla, di solito male).

In secondo luogo, l’accentramento del potere: in ognuno di questi Stati, il regime socialista al potere favorì lo sviluppo di una burocrazia pesante ma influente, la cui prosperità crebbe in modo inversamente proporzionale a quella della nazione. Ancora oggi, in gran parte del continente, sono solo pochi funzionari politici e militari a beneficiare delle ricchezze dell’Africa, mentre ai loro concittadini restano le briciole.

 

Quali risultati?

Bisogna precisarlo: Nkrumah, Nyerere, Touré e gli altri leader della loro generazione, con tutta probabilità, erano (almeno all’inizio) in buona fede. Probabilmente, prima che subentrasse l’attaccamento agli agi ed ai vantaggi del potere, erano sinceramente spinti dal desiderio di aiutare i loro concittadini e migliorare i loro Paesi d’origine. Ma, come diceva Karl Marx stesso, la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.

La Tanzania, quando Julius Nyerere salì al potere, aveva un PIL paragonabile a quello della Corea del Sud di allora. Negli anni seguenti, la fallimentare collettivizzazione dell’agricoltura, imposta secondo i principi della Ujamaa, ha condannato il Paese a decenni di stagnazione economica[7]. Oggi, la Tanzania è uno dei Paesi africani più poveri.

In Ghana, quasi tutte le imprese nazionalizzate dal governo di Nkrumah fallirono sotto il peso della corruzione e della gestione inefficiente[8], il che portò l’economia del Paese al collasso. Alla fine, Nkrumah stesso venne deposto.

Lo Zimbabwe, un tempo noto come “il granaio dell’Africa”, sprofondò in una grave crisi alimentare quando Robert Mugabe espropriò le terre dei contadini bianchi (che vennero espulsi dal Paese) per ridistribuirle fra i suoi sostenitori (che di agricoltura ne sapevano poco o niente)[9].

Quando i leader che hanno fatto la storia del socialismo africano salirono al potere, ai loro concittadini promisero indipendenza, prosperità e progresso. Invece, quando se ne sono andati, hanno lasciato loro in eredità Paesi dipendenti dagli aiuti internazionali, caduti in miseria e con poche prospettive per il futuro.

 

Quale futuro per l’Africa?

Quando (o meglio, se) i Paesi devastati dal socialismo africano riusciranno a recuperare decenni di sviluppo perduti, è impossibile dire con certezza. Tuttavia, ci sono segnali incoraggianti.

Innanzitutto, fra il 1996 ed il 2016, il numero di Paesi africani dichiaratamente socialisti è calato drasticamente, mentre il grado di libertà economica è aumentato in tutto il continente (da 5.1 su 10 a 6.15 su 10, secondo il Fraser Institute)[10]. Tutto questo soprattutto perché, dopo il crollo dell’URSS, i regimi socialisti in Africa hanno perso gli aiuti economici sovietici, crollando a loro volta.

Gli effetti benefici della liberalizzazione dell’economia non hanno tardato a manifestarsi: negli ultimi vent’anni, nell’Africa subsahariana, il PIL è triplicato (quello per capita è raddoppiato), la mortalità infantile si è dimezzata e la vita media si è allungata di dieci anni[11].

Una nuova era per l’Africa, di vera prosperità e di vera pace, potrebbe essere aperta dalla nascita dell’African Continental Free Trade Area (AfCFTA). Si tratta di un’area di libero scambio creata nel 2018 che, ad oggi, comprende 29 dei 55 membri dell’Unione Africana.

Secondo le stime dell’ONU, l’AfCFTA potrebbe potenzialmente incrementare di oltre il 50% il commercio fra i diversi Paesi africani in soli pochi anni, generando ricchezza che andrebbe a sollevare dalla povertà estrema milioni di africani[12].

Naturalmente, niente è scolpito nella pietra. Il 21esimo secolo potrebbe essere il secolo della riscossa dell’Africa, in cui i danni inflitti dal colonialismo e dal socialismo verranno superati ed il continente potrà finalmente relazionarsi da pari a pari con il resto del mondo, come si sperava già nel 1960.

Oppure, al contrario, i progressi degli ultimi vent’anni potrebbero essere solo temporanei, e questo sarà il secolo in cui si compirà la tragedia finale dell’Africa, un continente reso sterile dalla sua stessa mentalità collettivista.

Una sola cosa è certa: qualsiasi sarà il futuro dell’Africa, esso è nelle mani degli africani. Nelle mani dei suoi politici, che dovranno essere lungimiranti. Nelle mani dei suoi imprenditori, che dovranno affrontare mille ostacoli per riportare la prosperità. Nelle mani dei suoi elettori, che non dovranno ripetere gli stessi errori già ripetuti ormai fin troppe volte.

[1]https://www.africanliberty.org/2019/03/14/how-socialism-destroyed-africa/

[2][3][4][5]https://youtu.be/ZUBXW6SjuQA

[6]https://www.britannica.com/topic/African-socialism

[7][8]https://mises.org/wire/africas-socialism-keeping-it-poor

[9]https://youtu.be/XB9vMcMXs6s

[10][11][12]https://fee.org/articles/what-can-we-expect-from-africa-in-the-2020s/

 

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