Come nasce uno stato di polizia: lo Schutzhaft nella Germania nazista - Istituto Liberale Italiano Skip to content

Come nasce uno stato di polizia: lo Schutzhaft nella Germania nazista

PROLOGO

Nel maggio del 1933, nell’ufficio del responsabile prussiano alla detenzione preventiva Hans Mittelbach si presentò una donna brandendo della biancheria intrisa di sangue che suo marito, Erich Mühsam, le aveva spedito dal campo di concentramento di Sonnenburg. Mittelbach era ben consapevole delle condizioni di Mühsam.

Questi era stato arrestato nella notte del 28 febbraio 1933, qualche ora dopo l’incendio del Reichstag. Quella notte, come tanti altri comunisti, socialisti e liberali, era stato sorpreso nel sonno dalla polizia o dai gruppi paramilitari associati al NSDAP e condotto in vari luoghi di detenzione, legale o extralegale, fino al famigerato campo di concentramento di Sonnenburg. Mühsam era un noto anarchico e al suo arrivo a Sonnenburg le SA gli diedero il benvenuto a bastonate.

Le violenze proseguirono anche nei giorni successivi e furono gravi al punto che Mittelbach, nell’aprile del 1933, si recò in visita al campo per chiedere agli ufficiali di evitare maltrattamenti ai prigionieri. La richiesta fu vana.

Dopo le denunce della moglie di Mühsam, Mittelbach si recò di persona a prendere il prigioniero per condurlo nel carcere di stato a Berlino dove il trattamento sarebbe stato sicuramente migliore poiché gestito da uomini della polizia. Purtroppo per Mühsam, la carriera del suo salvatore finì di lì a poco, si crede proprio a causa della sua “indulgenza”.

Mühsam fu spostato al campo di Oranienburg, dove le SS lo strangolarono con una corda da bucato e gettarono il corpo nelle latrine fingendo un suicidio. Era il 9 luglio 1934. La cosa sorprendente di questa storia è che tutto ciò che accadde era perfettamente legale e persino costituzionale. Vediamo come.

«LE EMERGENZE SONO SEMPRE STATE IL PRETESTO CON CUI SONO STATE EROSE LE LIBERTÀ INDIVIDUALI»

L’incendio del Palazzo del Reichstag, l’edificio che ospitava la camera bassa del parlamento tedesco, avvenne la sera del 27 febbraio 1933, a un mese dall’insediamento del governo presieduto da Adolf Hitler. L’attentato, per il quale fu accusato un comunista, fu il pretesto per ricorrere alla decretazione d’emergenza prevista dalla costituzione di Weimar all’articolo 48, comma 2:

Il presidente [del Reich] può prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, quando essi siano turbati o minacciati in modo rilevante, e, se necessario, intervenire con la forza armata. A tale scopo può sospendere in tutto o in parte la efficacia dei diritti fondamentali stabiliti dagli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e 153.

I diritti fondamentali menzionati sono l’inviolabilità della libertà personale e del domicilio, la segretezza delle comunicazioni, la libertà di stampa, di riunione, di associazione, e il diritto alla proprietà privata.

Dopo l’incendio, il governo di Hitler si rivolse immediatamente al presidente del Reich Hindenburg, un vecchio generale in pensione, per chiedergli di approvare quello che passò alla storia come “decreto dell’incendio del Reichstag”, con il quale si disponeva che tutti i diritti fondamentali erano sospesi fino a nuove disposizioni.

Il decreto divenne una sorta di carta costituzionale del Terzo Reich, «giustificando ogni sorta di abuso di potere, compresa la negazione della libertà personale senza supervisione dell’autorità giudiziaria né appello»[1].

SCHUTZHAFT

«Dalla prospettiva del campo non si capiva secondo quale sistema (se poi ce n’era uno) fossero eseguiti gli arresti, ancor meno, in base a che cosa si stabiliva la durata della custodia preventiva e la scelta dei rilasci. […] Questa incertezza […] ha giocato un grosso ruolo e ha reso particolarmente difficile la nostra esistenza. […] Solo il fatto che la custodia preventiva era inflitta senza limitazione di tempo fino a un nuovo riesame dell’arresto fa capire che [essere] oggi in Germania detenuto politico in custodia preventiva è molto, molto peggio che essere qualunque criminale condannato ad una precisa limitazione di libertà, perché questo sa la durata del suo arresto»[2].

Così il socialdemocratico Gerhart Seger descriveva la condizione di totale incertezza in cui versavano i circa 200.000[3] prigionieri politici in “custodia preventiva” nel 1933.  La custodia preventiva (schutzhaft) era uno strumento preventivo-repressivo di polizia per arrestare chi fosse considerato un pericolo senza ricorrere agli strumenti giudiziari.

La costituzione di Weimar prevedeva che la libertà personale fosse inviolabile, ma il decreto dell’incendio dei Reichstag aveva sospeso quell’articolo della costituzione: nessun cittadino era al sicuro dagli abusi dei vari corpi di polizia o dei gruppi paramilitari del partito nazionalsocialista; nessuno era garantito contro un arresto arbitrario; la libertà aveva smesso di appartenere al singolo cittadino e apparteneva allo Stato.

Era sufficiente che ci fosse un sospetto, una denuncia anonima, e chiunque poteva essere posto in custodia preventiva. Molti degli arresti avvenuti nella notte tra il 27 e il 28 febbraio 1933 colpirono anche persone che non avevano alcun legame con l’attentato al Reichstag. Mühsam fu arrestato soltanto perché era un noto anarchico.

Altri furono arrestati solo perché comunisti o appartenenti ad altri partiti che potevano avere a che fare con l’incendio. «Alla polizia politica fu data la possibilità di agire in modo preventivo contro ogni minaccia allo Stato: in altre parole, agli organi di polizia fu concesso di arrestare e detenere in custodia preventiva, per un tempo di fatto indeterminato, personalità politiche non ancora processate o di assegnarle al confino per un tempo sì determinato, ma facilmente prorogabile»[4].

Le persone sottoposte a questa misura cautelare «non conoscevano i veri motivi in base ai quali era stato deciso il loro destino»[5] né erano messe al corrente di quando (e se) sarebbe mai terminata la loro detenzione. Era loro impedito anche di ricorrere alla giustizia per chiedere un rilascio.

L’intervento di un avvocato fu ammesso «solo per redigere istanze scritte in rappresentanza del colpito, ma non fu permesso ovviamente che gli avvocati o chiunque altro prendessero visione degli atti e delle pratiche della polizia politica. I permessi di visita degli avvocati e a chi incaricato della tutela degli interessi dello Schutzhäfling non erano concessi “se lo scopo politico-poliziesco della custodia preventiva [era] messo a rischio”»[6].

Il ricorso ai tribunali era invece assolutamente inutile, poiché la polizia poteva porre in custodia preventiva anche chi fosse stato assolto, “correggendo” in questo modo ogni decisione “sbagliata” dei tribunali. Nonostante i tribunali fossero quasi del tutto “nazificati”, lo strumento dello schutzhaft era comunque preferibile: offriva una procedura più snella e veloce; era più “silenzioso” rispetto a un processo penale; non aveva bisogno di prove ma poteva colpire virtualmente chiunque con il solo pretesto della prevenzione e della difesa del popolo e dello Stato.

Lo schutzhaft era lo strumento per eccellenza dello stato onnipotente del primo dopoguerra. «La libertà dell’individuo era prevista solo in funzione dello Stato»[7], che aveva il compito di difendere l’unità e la forza vitale del popolo; in altre parole, aveva il compito di epurare chiunque esprimesse opinioni o compisse atti pericolosi per l’unità nazionale.

La scienza giuridica tedesca andò avvicinandosi lentamente alla necessità, «di natura tutta etico-biologica, di difendere la comunità e la sua purezza razziale»[8]. In questa ottica, lo strumento dello schutzhaft non aveva soltanto la funzione di prevenire i reati isolando gli individui pericolosi, ma uno scopo molto più ampio di escludere per sempre dalla società gli individui che non potevano farne parte poiché la loro stessa esistenza biologica poteva minarne le basi.

Slavi, ebrei, zingari, omosessuali, intellettuali dissidenti, disabili, erano tutte persone che potevano anche non aver compiuto alcun reato e violato alcuna legge, ma dovevano essere allontanate dalla comunità perché portatrici di un patrimonio culturale e genetico nocivo.

Non è affatto strano che, fino alla conferenza di Wannsee del 1942, i nazisti non avessero ancora deciso cosa fare con tutti i prigionieri dei campi di concentramento. Alcuni gerarchi, come Hans Frank, appoggiavano addirittura l’idea di deportare tutti gli ebrei sull’isola di Madagascar, purché lasciassero la comunità tedesca.

I luoghi di detenzione degli schutzhäftling erano notoriamente i campi di concentramento, anche se agli inizi del 1933 i nazisti non avevano ancora pianificato la costruzione di un arcipelago di campi. La necessità nacque quando gli arresti divennero così tanti da non poter essere più gestiti dalle carceri di stato, e si dovette ricorrere a stipare i detenuti in altre strutture.

Inizialmente si preferirono strutture preesistenti come ex carceri, ex fabbriche, edifici abbandonati, persino scantinati. Questi luoghi potevano essere gestiti indifferentemente sia da personale carcerario facente capo ai vari ministeri, sia da personale extralegale come le SS o le SA, i due gruppi paramilitari del partito nazionalsocialista.

Il trattamento dei detenuti poteva variare in base al luogo in cui venivano assegnati. Le prigioni statali, almeno nel 1933, erano ritenute i luoghi più sicuri e tollerabili.

«Nonostante le molte difficoltà, la maggioranza dei prigionieri in detenzione preventiva trovava sopportabile la vita all’interno delle prigioni e delle Case di lavoro. Generalmente venivano tenuti separati dal resto della popolazione carceraria, a volte in grandi stanzoni comuni. Le celle singole erano semplici ma non spartane, di solito dotate di letto, tavolo, sedia, scaffale, lavello e un secchio che fungeva da latrina. Il cibo e la sistemazione erano perlopiù adeguati, nonostante il sovraffollamento, e siccome di norma ai prigionieri non veniva chiesto di lavorare, i detenuti trascorrevano il tempo chiacchierando, leggendo, facendo esercizio fisico, lavorando a maglia e giocando a scacchi»[9].

La relativa pace di questi luoghi durò poco, poiché già nel 1934 molte prigioni statali passarono sotto la gestione delle SS, trasformandosi nello stesso inferno che si viveva nei campi. D’altronde, come si è sottolineato, nessuno dei detenuti aveva diritti: anche il magro pasto giornaliero e il secchio da usare come latrina erano su gentile concessione delle autorità

La popolazione locale era consapevole delle violenze che si consumavano nei campi fin dalla loro nascita nel 1933. Non era raro che i prigionieri riuscissero a fuggire e raccontare ciò che avevano subìto, ma l’atteggiamento generale era per lo più di indifferenza o, al massimo, di insofferenza verso la convivenza con gli uomini delle SS e delle SA che raggiungevano le città vicine ai luoghi di detenzione per divertirsi.

Ad esempio, nell’Emsland «I dettagli sugli eccessi delle SS si diffusero fra la popolazione locale e presto raggiunsero il ministero dell’Interno prussiano, che alla fine intervenne. Il 17 ottobre 1933 ordinò che tutti i prigionieri politici di spicco e gli ebrei fossero immediatamente portati fuori dai campi dell’Emsland»[10].

In altri casi, come l’episodio descritto in apertura, i parenti delle vittime apprendevano tramite la corrispondenza degli abusi all’interno dei luoghi di detenzione e protestavano infruttuosamente con le autorità, ma diffondevano anche le storie fra conoscenti e amici. Era raro trovare qualcuno che non avesse udito almeno una storia del genere già nel 1933.

UNA CURIOSA FUGA

Hans Beimler era un attivista del KPD, il Partito Comunista Tedesco, e aveva preso parte a numerosi scontri con i gruppi paramilitari di destra durante i turbolenti anni della repubblica di Weimar.

Era ben noto agli uomini delle SA e delle SS, quindi quando fu condotto nel campo di concentramento di Dachau il 25 aprile 1933, le guardie lo accolsero con bastonate e scudisciate. Poi lo condussero nella sala delle torture, dove per giorni subì violenti pestaggi da parte delle guardie del campo.

Lo scopo era indurre Beimler al suicidio, così da non far ricadere la colpa della sua morte sulle autorità del campo. Ma Beimler era un osso duro, così l’8 maggio 1933 le SS gli insegnarono a fare un cappio con le lenzuola e gli diedero un ultimatum: se non si fosse impiccato da solo, il giorno dopo ci avrebbero pensato loro, e sarebbe stato molto peggio.

Il mattino successivo, le guardie entrarono nella cella di Beimler e trovarono un’amara sorpresa: il prigioniero era scomparso. Non è chiaro come fuggì dal campo, ma riuscì a raggiungere la Cecoslovacchia «da dove mandò una cartolina alle SS di Dachau: “Baciatemi il culo”»[11].

Ma, molto più importante, Beimler scrisse «uno dei primi fra i sempre più numerosi racconti di testimoni oculari riguardo ai campi nazisti come Dachau»[12] che fu pubblicato a puntate su un giornale svizzero e fatto circolare segretamente in Germania.


[1] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016.

[2] CAMILLA POESIO, In balia dell’arbitrio. Il confino fascista e la Schutzhaft nazista, in Paradigma lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, a cura di S. Casilio, L. Guerrieri, A. Cegna, Clueb, Bologna 2010, p. 137

[3] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016, p. 33

[4] CAMILLA POESIO, Il confino di polizia, la «Schutzhaft» e la progressione erosione dello Stato di diritto, in Il diritto del duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, a cura di Luigi Lacchè, Roma 2015, p. 99

[5] CAMILLA POESIO, In balia dell’arbitrio. Il confino fascista e la Schutzhaft nazista, in Paradigma lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, a cura di S. Casilio, L. Guerrieri, A. Cegna, Clueb, Bologna 2010, p. 142

[6] CAMILLA POESIO, Il confino di polizia, la «Schutzhaft» e la progressione erosione dello Stato di diritto, in Il diritto del duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, a cura di Luigi Lacchè, Roma 2015, p. 101

[7] Ibidem, p. 103

[8] Ibidem, p. 104

[9] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016, p. 37

[10] Ibidem, p. 54

[11] Ibidem, p. 27

[12] Ibidem, p. 27

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