[vc_row][vc_column][vc_column_text css=”.vc_custom_1631343510631{margin-bottom: 0px !important;}”]Nell’organizzare le Olimpiadi si pongono due problemi: quello del rapporto costi benefici e quello della provenienza degli investimenti.
Per offrire una panoramica della prima questione, prendiamo a modello l’ultima manifestazione a cinque cerchi svoltasi in Italia, le olimpiadi di Torino 2006. Per anni si è ripetuto, specie nel capoluogo sabaudo, che l’evento fu occasione di rilancio turistico sulla scena nazionale e internazionale per la città. Ed è vero: Torino ha senza dubbio beneficiato dei giochi, in termini di immagine. Il problema risiede nel fatto che per conseguire tali benefici, si è dovuta investire una non indifferente quota di denaro pubblico.
Circa 1.200, i milioni di euro destinati alla gestione dell’evento (si va dalla gestione degli impianti, alla tecnologia necessaria, alle trasmissioni TV e altro ancora). La quota maggioritaria dei costi riguarda però gli investimenti indirizzati al territorio, 2.119 milioni così ripartiti: 376 per gli impianti di gara, 260 per gli impianti di risalita, l’innevamento artificiale, la manutenzione delle piste, 316 per interventi destinati allo sviluppo turistico, 419 per villaggi olimpici, sale conferenza, alloggi per giornalisti, 643 per la costruzione o revisione di strade e parcheggi, 63 per sistemi fognari e acquedotti, 42 destinati infine a mezzi di soccorso e controllo pubblico.
Del secondo blocco di costi analizzato, è il contributo del Governo a essere predominante: il 75,7% degli investimenti ha infatti origine nazionale (circa 1.600 milioni). Seguono gli enti locali, contribuenti per il 18,0% (400 milioni), e infine soggetti privati hanno immesso nel circuito il restante 6,3% (cento milioni).
Non altrettanto imponenti i ricavi del comitato organizzatore, che vede gli incassi fermarsi a 974 milioni (420 provenienti da sponsor, 470 da diritti TV, 15 da licenze e 69 dalla vendita di biglietti). Condizione che ha reso necessario un secondo intervento statale per un valore di 200 milioni, denaro che ha permesso di non mandare in negativo il bilancio dei costi di gestione dell’evento.
Per quanto concerne gli investimenti sul territorio, studi della Confesercenti e dell’Osservatorio Turistico della Regione Piemonte stimano in 1.528 milioni di euro i benefici derivati dal riutilizzo dei villaggi olimpici, maggiori flussi turistici e impiego delle nuove infrastrutture pubbliche. Tutto denaro che, tuttavia, è andato a beneficio quasi esclusivamente di Torino e parte della provincia (le due valli interessate dai giochi), con il resto del Piemonte che ha beneficiato ben poco dell’effetto olimpico.
L’analisi costi-benefici ci conduce quindi al secondo problema posto: chi si fa carico dei giochi? Nel caso di Torino 2006, si è visto come la percentuale maggiore di finanziamento sia stata erogata dal governo, che ha provveduto a recuperare il denaro tramite un aumento della pressione fiscale. Ma, pur avendo tutti gli italiani pagato una media di 35 euro a testa per lo svolgimento dei giochi, l’85% dei finanziamenti è stato dirottato nella provincia di Torino (il restante 15% in altre aree del Piemonte, al fine di ammodernare le strutture di ricettività turistica).
È utile ricordare come, trent’anni prima, in occasione dei giochi di Montreal 1976, il Governo del Canada diede l’avallo allo svolgimento dei giochi solo dopo aver firmato con la città e la relativa regione un contratto che impegnava gli enti locali a farsi carico interamente dei costi. Contratto che portò le amministrazioni di Montreal e del Quebec a indebitarsi per una cifra prossima a 2.500 milioni di dollari. Debito ripianato solo trent’anni dopo.
Secondo questo modello, ripartendo i costi della manifestazione torinese ai soli cittadini della provincia sabauda, i 35 euro pro capite diverrebbero 1.000. I costi previsti per i giochi 2026 non sono ancora delineati: ma, se si interpellassero i cittadini delle comunità interessate alla candidatura, chiedendo loro se siano disposti a tollerare un aumento del carico fiscale tanto ingente (senza contributi statali), difficilmente vi sarebbero città pronte a presentarsi di fronte al CIO. Motivo, peraltro, che ha portato ad affossare quest’anno le due candidature austriache, entrambe bocciate da referendum consultivi.
Per trovare l’unico modello di gestione olimpica efficiente bisogna risalire a Los Angeles 1984. Proprio sulla scia di Montreal otto anni prima, la metropoli statunitense approvò una risoluzione in base alla quale nessun contributo pubblico avrebbe potuto essere utilizzato per il finanziamento delle olimpiadi. Si trattò allora di reperire ingenti risorse private.
Finanziatori che ebbero tutto l’interesse a ricavare profitto dall’evento, vincolando così il comitato direttivo a un impiego oculato delle risorse, scartando l’approccio del “valore aggiunto” (tanto caro alle nostre amministrazioni) che avrebbe condotto a stime improbabili riguardo il rapporto costi-benefici. Il bilancio? Profitti per 225 milioni di dollari, ripartiti tra soggetti privati e comitato organizzatore, in larga parte reinvestiti in progetti sul territorio, che ebbe così modo di beneficiare a lungo termine dell’effetto olimpico.
L’assenza di finanziamenti pubblici permette di escludere che vi siano stati soggetti danneggiati coercitivamente per via della tassazione, al contrario l’impiego di capitale privato ha fatto coincidere la ricerca del profitto del singolo con una serie di vantaggi per la collettività.
Un dibattito si potrebbe aprire per definire la candidatura migliore tra Torino, Milano e Cortina, con la prima già in possesso della quasi totalità delle strutture necessarie ai giochi. Ma, qualsiasi sia l’esito delle riunioni del CONI, la storia insegna che l’unico modello vincente è rappresentato dalla gestione privata.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]