Intervista a Giancristiano Desiderio

Per il blog dell’Istituto Liberale ho avuto il piacevole compito di intervistare Giancristiano Desiderio, scrittore e giornalista campano, che ha da poco pubblicato un interessante saggio dal titolo “Croce ed Einaudi. Teoria e pratica del liberalismo”, edito da Rubbettino.

Partendo da quest’opera cercheremo poi di allargare il nostro sguardo su tematiche che il Prof. Desiderio ha dimostrato di avere a cuore e che toccano da vicino la sensibilità dei liberali. Infine, ci soffermeremo su alcuni aspetti filosofici del liberalismo di Benedetto Croce, punto di riferimento del nostro autore, confrontati con quelli di un altro grande pensatore liberale del Novecento.

Prof. Desiderio, il suo libro dà una lettura nuova e per così dire “conciliante” di quello che lei chiama discussione e non polemica tra Croce ed Einaudi. Ci spiega cosa l’ha spinta a soffermarsi su un tema già così ampiamente dibattuto in passato?

Sì, è vero: quando si parla di Croce ed Einaudi si nomina sempre la loro polemica e si sottolinea il momento del disaccordo piuttosto che la loro intesa. E’ probabile che ciò dipenda dalla storia politica del liberalismo italiano.

Infatti, se si leggono direttamente le fonti, ossia gli scritti dei due grandi uomini di pensiero e di azione, si potrà constatare che il filosofo e l’economista discussero con l’evidente intenzione di intendersi a partire da un problema comune: la difesa della libertà dalla mentalità autoritaria e totalitaria dei tempi che vivevano e contro la quale lottavano.

In realtà, io non do una lettura accademica del rapporto tra Croce ed Einaudi e privilegio il problema della loro discussione. Si può notare, inoltre, che mentre l’amicizia tra Croce e Gentile porterà a incomprensioni e inimicizia, la collaborazione tra Croce ed Einaudi ci consegna una vera cultura della libertà di cui il nostro Paese oggi ha un disperato bisogno.

Il sito che pubblicherà questa intervista ha un’impostazione liberista, per la quale le libertà economiche rappresentano un presupposto fondamentale per la libertà “tout court”. Ci può chiarire il ruolo del liberismo nella concezione di Benedetto Croce? Perché ritiene scorretto riscontrare in questa visione un’apertura allo statalismo?

Il problema di Croce era questo: pensare la libertà con la libertà stessa per non farla dipendere né da un’economia, né da uno Stato, né da una chiesa, né da un partito. La sua “religione della libertà” è proprio questo: la libertà come fondamento della storia umana.

La critica che muove al liberismo è la critica che muove a chi pensa lo stesso liberismo non come scienza economica o azione utile ma come sistema morale. Ciò che Croce vuole evitare, e Einaudi esprime il suo accordo, è una sorta di marxismo capovolto.

Croce, del resto, è il pensatore dell’Utile e non potrebbe mai pensare ad una soppressione del pensiero economico che, invece, si limita a concepire nella sua distinzione. La “religione della libertà” è l’inverso dello statalismo e funziona come una messa in fuorigioco o di decostruzione della mentalità totalitaria.

Lei ricostruisce nel suo libro il rapporto di reciproca stima e fratellanza tra Croce ed Einaudi, quasi a sottolineare i notevoli punti di convergenza rispetto a quelli di divisione. Entrambi inoltre si impegnarono attivamente per la ricostituzione del Partito Liberale. Guardando alla realtà di oggi, non pensa che l’Italia abbia dimenticato la lezione e l’esempio di questi due grandi uomini?

Einaudi e Croce collaborarono tanto sul piano della conoscenza e dello schiarimento dei concetti di liberismo e liberalismo quanto sul piano dell’azione e della rifondazione politica del partito liberale. Che la cultura italiana abbia dimenticato la loro lezione è indubbio: in Italia prevale una mentalità statalista sia nella vita economica che in quella culturale e morale.

Sia per Croce che per Einaudi la cultura era indipendente ed autonoma rispetto alla sfera dello Stato. Einaudi arrivò a non votare l’articolo 33 della Costituzione che prevede l’esame di Stato e Croce è il maggior rappresentante della cultura libera ossia non organizzata in istituzioni. In fondo, si tratta di due eretici a tutti gli effetti soprattutto perché furono non solo antifascisti ma anche anticomunisti.

Personalmente consiglio a tutti la lettura della sua opera, specialmente a giovani liberali (e non liberali naturalmente) che vogliono approfondire le motivazioni etiche del liberalismo, le quali prevalgono in entrambi i protagonisti del Suo libro.

Per chi volesse approfondire segnaliamo inoltre l’ultimissima fatica del nostro autore “Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce II.  Parega e Paralipomena”, edito da Aras, secondo volume della biografia di Benedetto Croce.

Ma veniamo ora a un’ altra opera che lei ha pubblicato qualche anno fa e che proprio in questi giorni di emergenza coronavirus appare di stringente attualità: “L’individualismo statalista. La vera religione degli italiani”. Ci può spiegare in breve la Sua tesi e se eventualmente crede che questo atteggiamento sia riscontrabile anche nella maniera in cui l’Italia ha affrontato il COVID-19?

La tesi è semplice: nella cultura italiana il cattolicesimo e il comunismo hanno toccato l’anima più profonda degli Italiani perché hanno offerto l’idea che lo Stato possa essere una sorta di istituzione salvifica che chiede l’anima per salvare il corpo. Ma si tratta di uno scambio illecito perché Parigi non vale e non può valere una messa.

Se si è disposti a fare questo scambio ci si priva degli anticorpi necessari – la cultura, il pensiero, il giudizio, la conoscenza, la storia, la scienza – per limitare il potere e si coltiva l’idea perversa di usarlo indebitamente per i propri fini.

Si tratta di miopia perché non solo non si ottengono vantaggi propri ma si corrompe anche lo stesso potere statale che così risulterà assente nel momento della necessità. Non è forse accaduto proprio questo nell’esperienza tragica dell’epidemia del Covid-19?

Un altro tema che da sempre La appassiona è quello della scuola e dell’istruzione. Ci spiega il suo punto di vista sul sistema educativo italiano?  Quale deve essere a Suo parere la principale preoccupazione di un liberale nell’affrontare il tema della scuola?

Se si vuole capire qualcosa della crisi irreversibile della scuola italiana è necessario rivolgersi alla cultura liberale. Luigi Einaudi sapeva molto bene che la riforma più importante da fare era l’abolizione del valore legale dei titoli di studio per ridare nuovamente valore proprio allo studio, alla scuola, all’università.

Il valore legale del diploma e della laurea sono un autentico veleno che è stato immesso nel sistema dell’istruzione. Quando nel 1969 si uscì dal sistema della scuola di Gentile rimase in piedi proprio il valore legale del diploma che indirizzò, come una sorta di bussola nascosta, la scuola di massa.

Oggi è necessario ripensare la storia della scuola italiana. Se lo si facesse si vedrebbe che non c’è altro da fare che passare dal modello della “scuola di Stato” al modello della “scuola libera”. La differenza è chiara: mentre il primo modello, con il valore legale dei titoli di studio ossia con il monopolio, vieta il secondo modello, il secondo modello ossia la scuola libera non elimina il primo ossia la scuola di Stato.

La riforma da fare, dunque, è nei fatti stessi, è un’esigenza della stessa storia della scuola italiana. Inoltre è anche, come si dice, a costo zero! Basterebbe sostituire gli esami di licenza con gli esami di ammissione e lasciare gli esami di Stato solo come esami extra-scolastici per le abilitazioni. Perché non lo si fa? Per due motivi: per ideologia e per ignoranza.

Per concludere vorrei affrontare un tema più specificatamente filosofico: diversi studiosi hanno riscontrato nell’idea crociana di “accadimento” una sostanziale affinità con l’idea hayekiana di “ordine spontaneo”. Lei concorda? E sempre restando su Hayek, l’austriaco individua nell’abuso della conoscenza, ovvero nella “presunzione fatale” di possedere un sapere superiore e totale sulla realtà, la causa delle maggiori tendenze illiberali e totalitarie. Lei ritiene che anche in questo si riscontra un’importante affinità con i presupposti gnoseologici del pensiero di Benedetto Croce?

Le affinità tra Croce ed Hayek sono molte e sono giustificate soprattutto dalla cultura storica. L’accadimento non è il frutto di un progetto o di una conoscenza elaborata da una mente o da un professore o da un computer ma è il risultato delle libere azioni degli uomini che nessuna conoscenza può predeterminare.

Le forme di totalitarismo sono sempre il frutto di un abuso della conoscenza con cui si tenta di giustificare il potere. La filosofia di Croce è per sua intima natura anti-totalitaria perché la sola forma di conoscenza umana è semplicemente il giudizio storico.

Perché alla fine dei conti il potere va limitato? Perché nessuna conoscenza può giustificare un potere senza limiti. Ma è proprio quanto cercano di fare le ideologie che ritengono di possedere una conoscenza straordinaria con la quale, come diceva Marx, risolvere l’enigma della storia. Con questa presunzione fatale negano la libertà per garantire sicurezza. Ma è un inganno perché se si nega la libertà non si avrà mai sicurezza. La classica trappola per topi.

Davvero il socialismo fallisce per i boicottaggi?

Una cosa che si dice comunemente delle economie socialiste, specie in Africa e in Sud America, è che falliscano per colpa dei boicottaggi. Non è il sistema economico a non funzionare, ovviamente, ma è colpa degli Stati Uniti che bloccano i commerci!

Eppure in Africa ci fu uno Stato che venne boicottato per praticamente tutta la sua esistenza, la Rhodesia.

La Rhodesia non era un Paese liberale, era infatti governato in larga parte dalla minoranza bianca ed i neri erano perlopiù esclusi dalla vita politica. Il leader del paese, Ian Smith, credeva che i bianchi avessero il dovere di governare poiché fuori dalle lotte tribali che caratterizzavano la popolazione nera.

Il suo era, per chi fosse interessato, un regime meno duro rispetto a quello del Sudafrica: i neri avevano la cittadinanza, spesso il diritto di voto – seppur limitato in base all’istruzione – e lavoravano a fianco dei bianchi frequentemente. Esistevano anche scuole private dove bambini bianchi e neri andavano nelle stesse classi senza problemi, ma l’istruzione pubblica era segregata.

Dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza nel 1965 alla rinuncia alla monarchia nel 1970, fino alla fine del Paese nel 1979, fu tutto un susseguirsi di sanzioni. L’economia rhodesiana, a differenza di quelle socialiste, ha retto. Non senza conseguenze, sia chiaro: l’economia del Paese rallentò, ma non drammaticamente.

Bisogna considerare, inoltre, come gli alleati della Rhodesia non fossero superpotenze: aveva dalla propria parte Sudafrica e Portogallo. Stati che hanno sicuramente, violando le sanzioni, aiutato il Paese, ma non al livello degli alleati dei Paesi socialisti come l’URSS!

Durante il boicottaggio il PIL rhodesiano rimase quasi stabile: l’agricoltura si spostò da produzioni esportabili in Europa a produzioni consumabili in loco o esportabili in Sudafrica, certe industrie si specializzarono a tal punto da arrivare a fare concorrenza a quelle sudafricane.

Solo dal 1975 vi fu una limitata contrazione dell’economia, dovuta soprattutto all’aumento delle spese militari e ad una certa “limitazione” del liberalismo economico per poter fronteggiare meglio la guerra, con l’obiettivo idealizzato di tornare ad esso dopo la fine del conflitto.

Ma secondo gli economisti, l’economia della Rhodesia fu in grado di reggere alle sanzioni senza gravi danni solo grazie alle politiche liberiste applicate prima della dichiarazione di indipendenza, che permisero lo sviluppo di un settore industriale e agricolo malleabile e sufficiente a soddisfare le richieste nazionali.

Come vediamo dal grafico del PIL, che trovate qui sul sito della Banca Mondiale, al termine del boicottaggio, nel 1979, l’economia vide inizialmente una netta crescita. Tuttavia, poco dopo il governo di Robert Mugabe iniziò ad applicare le proprie ricette corporativiste e socialiste. Tutti gli indici economici iniziarono a calare portando anche ad effetti a lungo termine: nel 2008 il PIL dello Zimbabwe era pari a quello medio della Rhodesia indipendente.

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Successi del socialismo di Mugabe

Le politiche di Mugabe portarono ad un’iperinflazione – ossia alle famose banconote da miliardi di dollari che non valevano niente – ma anche alla fuga di persone molto qualificate, specie quando Mugabe ordinò la confisca dei beni dei bianchi.

La differenza tra il governo di Smith e quello di Mugabe era essenzialmente una: il modello economico di Smith funzionava, quello di Mugabe no.

La Rhodesia, grazie ad un’economia solida e libera, fu in grado di reggere anche ad una comunità internazionale quasi completamente ostile. Lo Zimbabwe, con la sue politiche economiche socialiste, non ha retto nemmeno al normale corso degli eventi.

Viene da chiedersi quindi: com’è possibile che l’economia socialista sia migliore di quella capitalista, se la prima andrebbe in totale crisi e povertà per un boicottaggio che la seconda supera con qualche noiosa difficoltà?

Fonti

Pillola – la visione liberale della libertà

Poiché solo il liberalismo anglosassone convenzionalista ed evoluzionista costituisce una tradizione liberale omogenea e coerente con se stessa, è legittimo ricercare in esso il concetto liberale della libertà. Agire in questo modo significa però circoscrivere la propria ricerca in essa e non nella tradizione costruttivista continentale.

Questo comporta rifiutare la tipica distinzione continentale (ma soprattutto italiana, in cui il celebre Benedetto Croce indicava per “liberalismo” il liberalismo politico e per “liberismo” il liberalismo economico, terminologia che – intenzionalmente o meno – attribuisce chiaramente maggiore importanza alla dimensione politica della concezione liberale) tra liberalismo politico e liberalismo economico intesi da essa come scindibili.

Per la tradizione inglese, invece, i “due liberalismi” sono inseparabili. Ciò perché il ruolo del governo come agente limitato a imporre il rispetto delle norme di condotta generali (fulcro della tradizione inglese) toglie al governo il diritto/potere di internarsi in queste norme e coordinare e dirigere le attività economiche degli individui liberamente associati.

Se, al contrario, il governo avesse questo potere, esso sarebbe dotato di un potere arbitrario e discrezionale, il quale culminerebbe nel controllo economico quindi nella limitazione di tutte quelle altre libertà – di carattere anche non economico – che il liberalismo si propone di garantire come proprio principio. La libertà nella legge implica che gli individui siano anche economicamente liberi, poiché quando si controllano i mezzi economici si controllano, essenzialmente, gran parte dei mezzi attraverso cui gli individui giungono ai propri fini soggettivi.

Accettando quanto detto sopra, può apparire che tra le due correnti liberali sopracitate, sulla materia della libertà individuale, dunque anche del rispetto della libertà personale, sussista una differenza importante. Nell'”epoca d’oro” del liberalismo, libertà individuale significava in sostanza ciò che in storia delle idee viene denominata libertà negativa, ovvero libertà dalla coercizione arbitraria, quindi libertà da i governi illiberali.

Ma per degli uomini che vivono in società la protezione da tale coercizione significava comunque l’imposizione di un vincolo a tutti gli individui, di una limitazione che li privasse, quindi, di applicare coercizione sugli altri. La libertà di ogni individuo in una società avrebbe dunque potuto essere realizzata solo se la libertà di ciascuno non fosse andata oltre ciò che era compatibile con una eguale libertà per tutti gli altri.

La concezione della libertà da parte di un liberale, che dunque si conforma come libertà nella legge, richiede una legge che limiti la libertà di ciascuno allo scopo di garantire la medesima libertà a tutti (uguaglianza formale, isonomia). Dunque la libertà liberale non coincide con la “libertà naturale” o la “libertà spirituale soggettiva”, ma con una libertà eguale per ogni individuo quando è in società con altri individui, limitata dalle norme indispensabili alla garanzia di se stessa.

In questo senso il liberalimo è da distinguersi chiaramente dall’anarchismo e deve riconoscere che, se tutti devono essere liberi, la coercizione non può essere totalmente eliminata, ma solo ridotta al minimo indispensabile affinché un individuo o un gruppo di individui qualsiasi non possano esercitare oppressione a danno di un altro individuo o gruppo di individui.

Si trattava di una libertà entro una sfera limitata da norme conosciute che permetteva agli individui di non subire coercizioni, finché si fosse mantenuta appunto entro tali limiti. Violare queste norme avrebbe poi potuto significare la perdita di tale libertà garantita da coloro i quali si uniformavano ad esse.

Questa libertà, inoltre, poteva essere garantita solo a chi fosse in grado di osservare le norme intese a garantirla. Soltanto l’individuo adulto e sano di mente, interamente responsabile delle proprie azioni, era considerato legittimo fruitore di tale libertà. Per chi non fosse tale, come i minori e gli psicologicamente invalidi, sarebbero state applicate norme speciali di tutela della libertà.

Questa libertà che sarebbe stata valida solo in quanto esercitata da chi consapevole di sé li avrebbe anche resi, moralmente, responsabili della propria sorte. Ciò in virtù del fatto che il governo dovesse garantire la libertà di ogni individuo senza però intervenire nella sua sorte, nelle conseguenze delle sue azioni.

Questo “sistema” di governo era considerato eccelso per due motivi: primo, il governo avrebbe garantito il massimo vantaggio a tutti, secondo, utilitaristicamente, esso avrebbe spinto/incentivato ogni individuo a essere produttivo al massimo delle sue capacità in ogni sua particolare situazione, ovvero a dare il meglio di sé sempre, che avrebbe risultato in un maggiore benessere collettivo rispetto a qualsiasi diretto intervento del governo.

La concezione liberale della libertà è stata, storiograficamente, definita come negativa, e giustamente. Esattamente come la giustizia o la pace, essa si conforma come un bene in quanto assenza di male: la condizione di pace è un tale in quanto assenza di guerra, la condizione di giustizia è tale in quanto assenza di torto, la libertà è tale se considerata come assenza di coercizione arbitraria.

Si riteneva, però, che sarebbero divenuti disponibili maggiormente dei mezzi per raggiungere diversi fini privati: la libertà negativa, infatti, prevede l’assenza della maggior parte dei vincoli governativi alle attività dei privati individui, sebbene alcune funzioni essenziali di comune necessità fossero accettate come eccezione alla regola nel campo della realtà quotidiana (ex. esercito di difesa, misure cautelari per guerra o epidemie).

Ad ogni modo, nessun supposto vantaggio che l’intervento del governo avrebbe apportato nel campo sociale sarebbe stato circoscritto nel paradigma della libertà negativa liberale; questo sarebbe stato legittimo solo quando, appunto, circostanze strettissime l’avessero invocato.

Il declino di questa concezione di libertà, quindi dell’intero liberalismo, si può datare circa a fine Ottocento, quando essa è stata reinterpretata come libertà come disponibilità, dunque libertà positiva. Ciò ha comportato il declino del liberalismo non in quanto una qualche altra forza politica si è appropriata di tale definizione di libertà, che già esisteva ai tempi della teoria della democrazia radicale di Rousseau, ma in quanto essa è diventata, commettendo un enorme errore, la definizione della libertà liberale. Definizione che oggi è totalmente maggioritaria; lo Stato sociale è ormai una prerogativa di ciò che oggi viene definito “Stato liberale moderno”.

“Il romanzo che si vende di più è quello del liberismo cattivo. Un liberismo che non c’è mai stato” – Intervista ad Alberto Mingardi

Alberto Mingardi, giornalista scrittore e divulgatore liberale italiano, ha fondato con Carlo Lottieri e Carlo Stagnaro, all’Istituto Bruno Leoni, un centro-studi di cui ora è Direttore Generale, che promuove le idee liberali. È scrittore di diversi libri tra cui “L’intelligenza del denaro” e “La verità, vi prego sul neoliberismo (trovate i link in fondo all’articolo). Ha collaborato per diverse riviste come “The Wall Street Journal” e “Washington Post”.

Prima di iniziare con l’intervista tengo a ringraziare Alberto per la sua collaborazione e pazienza.

Ecco l’intervista:


D: Secondo te, quello nei confronti del liberismo, è odio, paura, o entrambi?

R: Non credo si tratti necessariamente di odio o paura. E non credo neppure che il problema sia il “liberismo”, nel senso di un “sistema”, di una precisa costellazione di idee e proposte. Mi sembra che ci sia una generale avversione verso il libero mercato, un po’ perché “mercato” ma soprattutto perché “libero”. Siamo tutti abituati a pensare che, affinché una cosa sia “ordinata”, debba esserci qualcuno che mette ordine. Se questo qualcuno non c’è, se manca una autorità pronta a mettere “ciascuna al suo posto” risorse e persone, tendiamo a pensare che il risultato debba essere non un ordine spontaneo, ma un caos. Per questo avversiamo il mercato e chiediamo a gran voce l’intervento di qualcuno che dica a tutti quanto debbono guadagnare, se e quando debbono tenere aperto il loro negozio, che cosa debbono o non debbono vendere, eccetera.

 

 

D: Come mai, secondo te questa avversione nei confronti liberismo è presente più in Italia o anche in altri paesi?

R: Non so se questa avversione nei confronti del libero mercato sia più forte in Italia che altrove. Certo in Italia è più sorprendente: in alcune aree della penisola italica esiste una vocazione all’imprenditoria diffusa, ben radicata, di straordinario successo nel nostro Paese ed altrove. Gli italiani tutti sono molto cinici e non venerano le istituzioni pubbliche: anche se sono prontissimi a trarne vantaggio quando possibile. Questo è un Paese in cui, da anni, la classe politica gode di scarsa stima della popolazione nel suo complesso. E in passato svariati tentativi di orientare “dall’alto” e “dal centro” lo sviluppo sono naufragati miseramente. Insomma, che lo Stato mamma non sia la soluzione, e che lo Stato “innovatore” sia una contraddizione in termini, dovremmo averlo imparato. E invece…

 

D: Questo odio non ti sembra sia causato, in buona percentuale, dal malessere italiano derivato dalle pessime politiche italiane degli ultimi quarant’anni?

R: Saranno state pessime queste politiche, ma certamente non sono state né liberiste né liberali. A maggior ragione, di fondo, dovremmo aver sviluppato una certa domanda di liberismo. Invece nel ricordo si esagerano i pretesi disastri di alcune fra le pochissime scelte che andavano nella riduzione del perimetro pubblico (dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia alla privatizzazione delle autostrade) e si costruisce una mistica dei bei tempi andati, dei successi del debito, dell’epica delle partecipazioni statali. Le persone sono inclini a considerare con favore gli anni della propria gioventù, e fra il ripianto della prima automobile e della prima fidanzata e la nostalgia del Pentapartito il passo è strepitosamente breve. C’è ben poco di razionale, in tutto questo. E a ragione: le persone normali dedicano alle questioni pubbliche un’attenzione minima, le considerano (giustamente) assai remote e lontane dagli ambiti nei quali la loro volontà ha un peso e sui quali possono esercitare influenza, vi si avvicinano con il gusto di ascoltare una storia e oggi la narrazione dominante, il romanzo che si vende di più, è quello dello statalismo buono e del liberismo cattivo. Un liberismo che non c’è mai stato, ma questo è un dettaglio.

D: Basta leggere un libro, come l’ultimo che hai scritto tu ad esempio, per dimostrare che il liberismo ha portato ad un enorme miglioramento nella qualità della vita degli individui (sotto tutti gli aspetti, economico, sociale, culturale ecc…). Ma allora perché c’è così tanta disinformazione in questo tema?

N. Se tutti sono diffidenti nei confronti un ordine non pianificato, per gli intellettuali un ordine non pianificato è un’opportunità sprecata: perché credono di sapere bene chi saprebbe porre ordine nel caos, chi ha le idee giuste su come impiegare le risorse, chi dispone di criteri chiari e meditati sul prezzo che deve avere un certo bene, sul valore di un’opera d’arte, sul senso di un romanzo, sull’importanza di un’invenzione. A loro basta guardarsi allo specchio: gli intellettuali, a parte quei pochi che tradiscono la tribù e che per questo sono marchiati come servi del capitale o peggio, sono convinti che la società dev’essere diretta, e dev’essere diretta da loro, altrimenti saranno guai.

D: “Per odiare qualcosa bisogna conoscerla. Scendere pure in piazza contro il libero mercato. Ma, prima, cercate di capire di che si tratta”. Questa è la frase che più mi è rimasta impressa del tuo libro. Come dovremmo fare, però, secondo te, a divulgare il liberismo in maniera oggettiva cercando di far capire alle persone “di che si tratta”?

R: Le maniere oggettive non esistono. Non solo le risposte che diamo ma prima ancora le domande che ci facciamo sono profondamente condizionate dal nostro modo di pensare la società, da ciò che noi riteniamo sia importante, dalla nostra preferenza per la libertà o per l’ordine, per il progresso economico o per la giustizia sociale. Ma un conto è essere partigiani, che è inevitabile, un altro è essere bugiardi, scorretti o faziosi nel dar conto dei dati. Bisogna essere intellettualmente onesti, non pensare di poter dare tutte le risposte, attenti alla realtà e rigorosi nell’interpretarla. Oggi, la priorità mi sembra sia soprattutto fornire una lettura diversa, più realistica, della situazione in cui ci troviamo, soprattutto rispetto a due temi: progresso tecnologico e diseguaglianze. L’una cosa e l’altra vengono utilizzati per cucinare una storia nella quale il mercato è diabolico e mai come oggi c’è bisogno di Stato per salvarci da un futuro alla Blade Runner. A me pare che siano paure ingiustificate, ma questi sono i temi sui quali, con pacatezza e pazienza, con correttezza intellettuale e senza forzature, bisogna costruire una narrazione alternativa, che racconti e spieghi meglio quanto accade nel mondo in cui viviamo.

D: Il liberismo si basa sul ragionamento di “Laissez-les faire et laissez-les passer”, lasciare fare agli altri della propria vita ciò che vogliano finché non nuocciano nessuno. Perché, anche questo concetto, oramai così scontato e, l’unico per costruire una società civile e felice, fa così fatica ad entrare nella mente degli italiani?

R: L’espressione “laissez faire” è stata trasformata in una caricatura e molto spesso viene considerata alla stregua di una invocazione all’anarchia. In realtà il liberismo è fatto di regole, il libero mercato è un contesto nel quale chi rompe paga, e le sanzioni di mercato sono severissime e inappellabili. Al contrario gli statalisti invocano regole per tutti, ma queste regole non fanno che certificare la discrezionalità dell’attore pubblico, che deve poter fare ogni e qualsiasi cosa desideri. Forse ad apprezzare l’idea è soprattutto chi è sempre alla ricerca di un “santo in paradiso” ma, come già detto, non credo sia questo il caso. Se fossero stataliste solo le persone cui davvero lo statalismo conviene, avremmo molti più liberisti in circolazione. Ciò che conta è la nostra diffidenza verso tutto ciò che non è pianificato.

D: In una parte del tuo libro evidenzi come la spesa sociale stia aumentando sempre di più arrivando a circa il 30% del PIL. Secondo te, un sistema meritocratico all’interno del lavoro pubblico, può aiutare ad una riduzione della spesa? O sarebbe ideale l’abolizione totale o parziale del welfare-state?

R: Non mi è ben chiaro cosa significhi un sistema meritocratico all’interno del lavoro pubblico. All’interno della pubblica amministrazione, gli incentivi sono diversi  a quelli che ci sono nel settore privato, e non può essere altrimenti. La cosa da fare è ragionare su quanto esteso deve essere il perimetro dello Stato, su quali sono i beni e servizi che lo Stato deve fornire direttamente organizzandone l’erogazione, su quali sono i beni e servizi che al contrario esso può acquistare da privati in concorrenza. Se ci dà fastidio che i primari abbiano bisogno di un padrino politico, la soluzione è restituire al settore privato gli ospedali, pagando semmai le prestazioni che erogano. Non è una soluzione perfetta, ci saranno sempre truffe e truffatori, perché siamo tutti esseri umani, sia che lavoriamo nel pubblico sia che lavoriamo nel privato, ma almeno mette una intercapedine fra la politica e, appunto, il lavoro dei medici. Ma se una certa funzione resta all’interno del perimetro pubblico non possiamo stupirci se obbedisce a esigenze e necessità politiche.

D: Noi italiani siamo sempre stati un popolo egocentrico, anzi culturocentrico. Riteniamo la nostra cultura e mentalità superiore a quella di tutte le altre nazioni. Pensi questo sia una delle cause che permettono oggi cosi tanta disinformazione su questo tema?

R: No. E non mi sembra sia questo il caso. Gli italiani pensano di solito abbastanza male di se stessi, anche perché si conoscono. Uno dei loro passatempi preferiti è biasimare tizio o caio perché hanno conquistato una certa posizione non in virtù dei propri meriti, ma in ragione dei favori e delle protezioni che sono riusciti a lucrare. Gli italiani in realtà i loro limiti li conoscono benissimo e fino a qualche anno fa, pur di malavoglia, erano convinti di doverli superare. Si pensi al fatto che la riforma Fornero è stata fatta solo come quattro ore di sciopero generale: se non è senso di responsabilità quello! Poi è cominciata una stagione diversa. I bassi tassi d’interesse hanno convinto i decisori che non si dovesse pigiare l’acceleratore sulle riforme, perché continuare a indebitarsi costava poco. Questo ha fomentato una forte ostilità alle, peraltro poche, riforme del periodo precedente: come se si trattasse di macchinazioni di una “élite” arcigna e cattiva. I due partiti oggi al governo hanno estremizzato questo atteggiamento e, forse per la prima volta nella nostra storia, non dicono agli italiani che è necessario fare riforme, che bisogna cambiare passo, che dobbiamo stare agganciati all’Europa. Dicono loro che va tutto bene così com’è, che sono migliori le banche in cui non si parla inglese, che c’è un sentimento anti-italiano che abita l’Europa mentre le nostre istituzioni e le nostre prassi vanno bene così come sono. Non è che pensiamo che la nostra cultura e le nostre istituzioni siano migliori: non lo pensiamo affatto. Ma ci stiamo convincendo, ci stanno convincendo, che la faremo sempre franca in ogni caso.

D: In generale il liberismo è sempre più respinto dalle nazioni, perché?

R: Oggi perché il discorso politico è tutto incentrato sulla politica dell’identità e nel discorso caro alla politica dell’identità le politiche economiche, liberiste o meno, hanno poco peso. Anche in Italia. Le questioni che suscitano entusiasmo e attenzione sono che cos’è una famiglia, quanti e quali immigrati possiamo accogliere senza “snaturare” la nostra cultura, quali sono i “diritti” di cui debbano godere questo o quel gruppo. La politica dell’identità annulla l’individuo, ci riporta a uno scontro fra tribù, bianchi contro neri, etero contro gay, uomini contro donne e quant’altro. La politica dell’identità è intrinsecamente anti-individualista mentre, al contrario, una discussione politica nella quale le politiche economiche hanno spazio abbraccia una prospettiva sostanzialmente individualista: consente al cittadino di interrogarsi su costi e benefici per lui, non su simboli che confortano questo o quel clan.

D: Tre testi che consigli ad una persona che vuole cominciare a studiare e capire le dinamiche del liberismo.

R: I due libri di Milton e Rose Friedman, Capitalismo e libertà (https://www.amazon.it/Capitalismo-libert%C3%A0-Milton-Friedman/dp/8864400230/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&keywords=capitalismo+e+libert%C3%A0&qid=1556949922&s=gateway&sr=8-1) e Liberi di scegliere (https://www.amazon.it/Liberi-scegliere-Una-prospettiva-personale/dp/8864401601/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&keywords=liberi+di+scegliere&qid=1556949939&s=gateway&sr=8-1), sono testi che hanno avuto una straordinaria fortuna, proprio perché riescono a spiegare con un linguaggio semplice, ma non per questo impreciso o poco rigoroso, come funziona quel tanto o quel poco di libero mercato che sopravvive nei nostri Paesi, e come invece lo statalismo prova a inquinarne gli esiti. Più di recente, Eamonn Butler, il direttore dell’Adam Smith Institute (https://www.adamsmith.org/), ha scritto dei libretti molto veloci ma chiarissimi, alcuni tradotti anche da IBL Libri, per avvicinare a queste idee persone che non le hanno mai frequentate (https://www.amazon.it/ricchezza-nazioni-pillole-distillato-sentimenti-ebook/dp/B00TVLMWDC/ref=sr_1_fkmrnull_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&keywords=la+ricchezza+delle+nazioni+pillole&qid=1556949965&s=gateway&sr=8-1-fkmrnull o https://www.amazon.it/Liberalismo-classico-Unintroduzione-Eamonn-Butler-ebook/dp/B07BQQHM25/ref=sr_1_1?qid=1556949983&refinements=p_27%3AEamonn+Butler&s=digital-text&sr=1-1&text=Eamonn+Butler). In queste occasioni di norma non si fa, perché è poco elegante, ma consiglio anche i miei libri, La verità, vi prego, sul neoliberismo (https://www.amazon.it/Neoliberismo-Alberto-Mingardi/dp/883174299X/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&keywords=mingardi+neoliberismo&qid=1556950027&s=gateway&sr=8-1) e il precedente L’intelligenza del denaro (sempre Marsilio, 2013 https://www.amazon.it/Lintelligenza-del-denaro-Alberto-Mingardi/dp/8831713310/ref=sr_1_fkmrnull_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&keywords=mingardi+intelligenza&qid=1556950005&s=gateway&sr=8-1-fkmrnull), perché lo ho scritti proprio pensando a un lettore scettico e diffidente, cercando di rispondere come meglio potevo ai suoi dubbi e alle sue perplessità sul libero mercato.

 

È veramente tutta colpa del capitalismo?

La crisi del 2008, i cambiamenti climatici, il lavoro sempre più asfissiante, lo stress in aumento, i poveri sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi, insomma, per qualsiasi male di questo mondo la colpa è del capitalismo . È il nuovo morbo del ventunesimo secolo, tutti gli danno la caccia, ma nessuno sa cosa sia. 

Una parola che ormai ha perso il suo vero significato, un orpello ideologico a cui dare la colpa se qualcosa non funziona. Ma cerchiamo di capirne qualcosa.

Il capitalismo è l’attuazione di quell’ideologia chiamata “liberismo”. Ma il liberismo in realtà non esiste, non è mai esistito e non esisterà mai. É semplicemente la libera cooperazione di individui, che senza aver bisogno di un “progettista”, lo stato o il dittatore che sia, fanno fronte alle difficoltà installando relazioni l’un l’altro per trovare la soluzione ai problemi. 

L’unica regola da accettare per un sistema capitalista è la seguente: lasciare gli individui liberi di approcciarsi alla propria vita e ai propri beni come vogliono, a patto di non danneggiare gli altri.  John Locke, John Stuart Mill, Immanuel Kant, Karl Popper, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, tutti questi pensatori si sono battuti per enunciare qualcosa di fondamentale alla società: la libertà personale non produce caos, povertà e iniquità ma bensì armonia, progresso e benessere.

Se qualsiasi sistema sociale non ha mai funzionato, se controllato da qualcuno o da qualcosa, il motivo è semplice: la realtà è estremamente complessa per capirla. In un sistema liberista, non c’è nessuna presunzione di conoscere la realtà in quanto tale, ed è proprio per questo che il capitalismo ha creato un benessere esponenziale.

Basti pensare ai grandi obbiettivi raggiunti negli ultimi anni. In cinquant’anni la popolazione mondiale è raddoppiata[1], sintomo che il benessere è aumentato e le malattie mortali diminuite.

Infatti è grazie alla cooperazione internazionale di menti di tutto il mondo che abbiamo debellato malattie un tempo endemiche come la meningite e il vaiolo. Inoltre la penuria non è più un problema, e le morti per incidenza di omicidi sono al di sotto del 1%.[2]

In soli cento anni abbiamo avuto, l’iPhone, la lavatrice, il PC, internet, l’aria condizionata e un aumento della ricchezza generale di ogni individuo. 

Secondo i critici del capitalismo, la crescita della popolazione non è una giustificazione, infatti, dicono, le diseguaglianze sono aumentate rendendo i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Se si analizzano i dati, però, si nota come se ne 1820 l’84 % delle popolazione mondiale viveva ancora in condizioni di estrema povertà, oggi la percentuale è scesa al di sotto del 10 per cento e continuare ad andare giù!

I decessi per carestia sono infimi rispetto al passato, il reddito pro capite è oggi il decuplo di quanto fosse nel 1850 e l’italiano medio è quindici volte più ricco che nel 1880. [3]

Per i più scettici, osserviamo l’esempio della Cina: da quanto si è aperta al capitalismo, 700 milioni di cinesi sono stati sottrarti alla povertà estrema. [4]

In poche parole, oggi, grazie al capitalismo tanto odiato; viviamo più a lungo, siamo pieni di cibo, le malattie non sono più un problema e siamo tutti più ricchi.

Ma di fronte questo benessere allora perché il capitalismo ci sta antipatico? Dietro i giudizi più drastici e negativi sul sistema capitalista ci sono in realtà umanissimi bisogni di trovare un ordine nelle cose e cercare un colpevole per i nostri problemi personali: e c’è la furbizia tutta politica di attribuirli alle forze impersonali dell’economia.

Il bias della negatività è non è mai stato più forte; tendiamo ad esagerare l’importanza delle cose che vanno male dimenticando quelle che invece vanno bene. Il liberismo è il capro espiatorio, il colpevole a cui attribuire ogni complicazione della vita.

La società moderna ha ancora molti problemi da affrontare, ma se oggi abbiamo raggiunto gli obbiettivi così ambiti in passato, è grazie a quel capitalismo che tutti odiano.

[1] https://ourworldindata.org/world-population-growth

[2] Yuval Noah Harari, “Homo Deus”, p. 19-20, Ediz. Bompiani

[3] Rutger Bregman, “Utopia per realisti”, p 2-3-4 Ediz. Feltrinelli

[4] Rutger Bregman “Utopia per realisti”, p 7 Ediz. Feltrinelli

 

 

 

Perché essere liberali

È dura essere liberali in Italia. Tanto per cominciare, di solito nessuno sa neanche cosa sia o a cosa creda un liberale. I pochi che lo sanno ti collegano subito a qualche personaggio o partito politico ed è difficile spiegargli che il liberalismo non è esattamente quella cosa lì. Va pure peggio se ti dichiari liberista. Lì sì che capiscono… e ti chiedono subito perché odi i poveri o se godi a sfruttare i bambini (questo è all’incirca il pensiero medio); se poi va proprio male li senti pontificare sulla necessità dello Stato e l’importanza degli stimoli alla domanda (“non sai che Keynes ha risolto la crisi del ’29??[1]”). A quel punto la reazione tipica è tirare un sospiro e provare a spiegare con calma che liberismo non significa né Far West né sfruttamento. Il liberalismo è molto di più: è un’ideologia politica ancor prima che economica.

Non starò qui a raccontare cosa è il liberalismo, tante persone l’hanno già fatto prima e meglio di me. Voglio spiegare invece cosa significa per me essere liberale. Io questa ideologia sono arrivato per caso, ero liberale prima ancora di sapere cosa volesse dire. Ci sono arrivato partendo da una cultura di sinistra (e tuttora continuo a considerarmi di sinistra)e votare tendenzialmente di là), per gradi, a partire da riflessioni personali. Ho scoperto solo in seguito che ciò che sentivo e pensavo era già esposto in brillanti opere scritte molto prima che io nascessi.

Sono diventato liberale perché non mi piacevano le risposte semplici (“noi siamo bravi e intelligenti e potremmo sistemare il mondo, purtroppo il popolo è stupido e non ci capisce”), perché ho un forte senso di giustizia (con che diritto si può obbligare un individuo a essere “solidale” con un altro, ad esempio?), perché non sopporto il group thinking, perché mi fanno ridere coloro che credono di avere tutte le risposte e di poter decidere cosa è meglio per gli altri – anche nella mia vita privata sono così: non amo dare giudizi sulle vite altrui e do consigli solo quando esplicitamente richiesti.

Ma soprattutto sono liberale perché detesto l’idea che qualcuno abbia il diritto di controllarmi e dirmi cosa posso o non posso fare. Voglio poter vivere la vita a modo mio, senza essere obbligato a seguire regole decise da chissà chi. E l’unica ideologia politica che ti propone ciò è il liberalismo. Socialisti, fascisti, fanatici di varie religioni, tutti loro pretendono di insegnarti qual è il giusto modo di vivere, cosa puoi o non puoi leggere e ascoltare, chi devi ammirare e chi odiare, chi puoi e non puoi amare. Al liberalismo tutto ciò non interessa perché sa che ognuno di noi è un individuo unico, diverso da ogni altro: non esistono regole di vita valide per tutti. Siamo delle eccezioni, ognuno di noi. E dobbiamo liberamente cercare la nostra strada.

Il liberalismo è ottimista, ha fiducia nel genere umano e nelle sue capacità. Ritiene gli uomini generalmente buoni e intelligenti, capaci di aiutarsi a vicenda e di inventare continuamente modi per migliorare la condizione della nostra specie. Per questo non ama le regole (se non quelle di base necessarie per una convivenza pacifica): servono solo a controllare e tenere a freno gli esseri umani e la loro naturale bontà e intraprendenza. Lasciati liberi, gli uomini riescono a ottenere risultati straordinari, e la storia degli ultimi 250 anni è lì per dimostrarlo. Non bisogna avere paura della libertà.

Il liberalismo mi ha conquistato perché mi comunica leggerezza e serenità, ottimismo e fiducia. Okay, può essere un po’ naive nel suo credere alla bontà e intelligenza degli uomini. Ma non è meglio un’ideologia che ci insegna a stimare e confidare negli altri esseri umani, piuttosto di quelle che ci vogliono divisi in gruppi e categorie e destinati a odiarci l’un l’altro? Per me la scelta è facile, ed è la scelta della libertà.

[1] Leggersi Rothbard, Friedman et alia per capire perché non è affatto vero

Essere (felicemente) schiavi di se stessi

In questi giorni, si parla tanto di schiavi del lavoro, di dignità, di chiudere la domenica, di chi ha un salario troppo basso. Tutto ciò trascurando il fatto che esistono tantissime persone che decidono di essere padrone del proprio destino. Si tratta di una decisione responsabile, quella di puntare tutto su te stesso e di prendere in mano la tua vita, incurante di ciò che accade intorno a te.

Chi compie questa decisione spesso non rispetta un vero e proprio orario di lavoro, potrebbe lavorare sia in ufficio che a casa, anche solo per la programmazione del lavoro futuro. Ma prima di continuare vorrei riportare queste tre citazioni:

Sono convinto che circa la metà di quello che separa gli imprenditori di successo da quelli che non hanno successo sia la pura perseveranza. Steve Jobs

L’ingrediente critico è alzare le chiappe e metterti a fare qualcosa. È così semplice. Un sacco di gente ha delle idee, ma sono pochi quelli che decidono di fare qualcosa a riguardo subito. Non domani. Non la prossima settimana. Ma oggi. Il vero imprenditore è un uomo d’azione. Nolal Bushnell

Dietro ogni impresa di successo c’è qualcuno che ha preso una decisione coraggiosa. Peter Ferdinand Drucker

 

A coloro che parlano tanto di dignità e schiavi, siete consapevoli che tante di queste persone che hanno deciso di mettersi in proprio, sono obbligate a lavorare di giorno e pensare di notte?
Forse non sapete che tante di queste persone, che sono ancora agli inizi, si ritrovano costrette a dover far tanti sacrifici?
Questo perché l’imprenditore, il commerciante ed il libero professionista sono spesso (felicemente) schiavi di se stessi, alla ricerca di continue soddisfazioni personali, economiche e professionali.

Non hai datori di lavoro, non hai un giorno prefissato per la bustapaga, devi riuscire a coniugare il tuo guadagno con le tasse da pagare e, se si è imprenditori con dipendenti, pagare gli stipendi. Come detto in precedenza, fare impresa in Italia è roba da eroi e coraggiosi, perché chi ha il capitale da investire viene spesso scoraggiato dall’altissima pressione fiscale, e dalle spese per l’iter burocratico.

Rispetto ai nostri genitori, riscontro nei giovani un’ammirevole volontà di mettersi in gioco, di voler rischiare, di voler tentare una strada alternativa rispetto al declino italiano. Questo è di buon auspicio per tutta la nazione, in chiave futura, in quanto credo che per essere imprenditori non si debba necessariamente aprire un’azienda. Anche un operaio (o un dipendente) potrebbe essere imprenditore di se stesso.

Infatti esserlo non è soltanto una scelta, ma soprattutto un atteggiamento. In Italia ci hanno abituati a “vegetare” nella stessa azienda per 30-40 anni. In futuro sarà sempre più una rarità vedere un dipendente lavorare nella stessa azienda per tutta la vita lavorativa, proprio perché il lavoro diventerà sempre più flessibile e dinamico.

Ciò che stiamo vivendo in Italia è una fase del lavoro flessibile-statica, in quanto si cambia spesso lavoro, ma le retribuzioni sono le stesse, o persino più basse. Oggi riusciamo a raccogliere tante esperienze professionali, ma a questa esperienza non corrispondono stipendi più alti o impieghi più delicati ed importanti. Questo perché i contratti di lavoro tradizionali sono troppo carichi di tasse, sia per l’imprenditore che per il lavoratore, e sono troppo carichi di burocrazia, compresa la presenza (inutile?) dei sindacati.

Pertanto, occorre lavorare affinché il mondo del lavoro diventi flessibile e dinamico, in modo tale che anche chi ha un contratto a tempo indeterminato sia spinto a non accontentarsi del posto fisso, bensì a tentare qualcosa di nuovo, ed investirci sopra.

Adam Smith diceva che la forza lavoro è la prima proprietà privata dell’uomo, ma di questo parleremo un’altra volta.

Liberismo e Liberalismo: Benedetto Croce si sbagliava

Nel 1927 Benedetto Croce pubblicò alcuni scritti, fra cui il noto Liberismo e Liberalismo, nel quale non negava certamente la necessità del libero mercato, ma asseriva che non fosse condizione necessaria per giungere ad una società capace di mantenere salde le libertà politiche e individuali.

Nel corso del lungo dibattito, che spaziava dalla filosofia alla sociologia, sostenuto con l’amico e avversario Luigi Einaudi, altri autori e ricercatori hanno detto la propria, con alcune basi storiografiche e scientifiche talvolta più solide: parliamo di Karl Polanyi (il quale nonostante fosse ostile al libero mercato, diede un contributo positivo al dibattito), Eduard Meyer, Karl Popper e Friedrich Von Hayek.

Il metodo da loro utilizzato è consistito nell’osservare l’evoluzione delle società del passato, traendone i caratteri che potessero rivelare informazioni sulla correlazione fra libertà individuali e libertà economiche [1] ; è chiaramente un metodo induttivo e in quanto tale non se ne può dedurre una legge universalmente valida, tuttavia i risultati hanno portato ad evidenze interessanti: la libertà individuale si è presentata in modo indipendente dal sovrano solamente quando si è potuto contare sul libero scambio di merci e idee.

Eduard Meyer fu uno dei primi a mettere in discussione l’idea -rafforzatasi nel periodo hegeliano- che l’economia greca fosse ristretta a quella dell’Oikos ( οἶκος ), ossia un’economia di tipo familiare, di auto-sussistenza. Sostenne che quando Atene incominciò «a partecipare sempre più vividamente alla lotta della concorrenza»[2] ed i capitali e le idee di diversi popoli iniziarono ad affluire nella città, la popolazione riuscì ad emanciparsi dalla sussistenza e dai privilegi, entrando in un clima di benessere economico e libertà politica, quest’ultima sviluppatasi attraverso la democrazia.

La democrazia greca, però, era di una forma molto particolare: essa «richiedeva salvaguardie materiali per impedire ai ricchi di mantenere quella parte di popolo politicamente attiva»[3] in modo tale da evitare il clientelismo, ma imponeva anche che la polis si facesse carico della distribuzione degli alimenti per il popolo, seppur senza burocrazia; sembrerebbe un paradosso, eppure i greci trovarono una soluzione geniale: il mercato, il quale distribuiva gli alimenti molto meglio dei pianificatori, dei burocrati e degli aristocratici desiderosi di corrompere gli elettori. Ovviamente, ciò poteva funzionare per via della ricchezza fornita dal fiorente commercio, grazie alla quale ogni cittadino poteva emanciparsi dai lavori di sussistenza per poter guadagnare molto di più servendo le necessità altrui tramite il mercato.

Karl Popper, noto per lo studio della Società Aperta e i suoi nemici, individuò anche i nemici della società chiusa: «l’instaurazione di contatti culturali diede vita a quello che è forse il peggior nemico per la società chiusa, cioè il commercio» [4]. Ecco a noi il punto cruciale del discorso: il commercio favorisce l’incontro fra culture, l’apertura verso di esse e la loro accettazione, lo scambio commerciale diventa uno scambio filosofico, come fece notare anche Nicola Abbagnano, il quale sosteneva che la Filosofia sia nata nelle isole ioniche[5] (e non nella Grecia continentale!) proprio per mezzo del commercio, che ha favorito il logos, il discorso, fra popoli.

Constatato che anche Popper riconosce e sottolinea il legame fra libertà economiche e libertà individuali, troviamo una formulazione ancor più puntuale grazie ad Hayek [6]: «L’autorità che dirige l’intera attività economica non controllerebbe semplicemente un settore della vita umana, che possa essere separato dal resto; controllerebbe l’allocazione di mezzi limitati per tutti i nostri fini. E chiunque abbia l’esclusivo controllo dei mezzi determina quali fini debbano essere perseguiti, quali valori debbano essere considerati superiori e quali inferiori: in breve cosa gli uomini devono credere e a che cosa aspirare.»

Una società in cui vengano garantite le libertà individuali da un ente superiore (e, dunque, privilegiato) che ha il potere discrezionale di decidere come allocare le risorse, avrà direttamente e conseguentemente il potere di decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato; pensare che ci si possa affidare ad un buon legislatore, un Messia politico, o alla burocrazia,  è ingenuità o pura illusione.

Note:

[1]: alcune citazioni di autori in questo articolo sono tratte da Ignoranza e Libertà, 1999, Lorenzo Infantino

[2]: L’evoluzione economica dell’antichità, 1905, Eduard Meyer

[3]: Traffici e mercati negli antichi imperi, 1957, Karl Polanyi

[4]: Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza, 1960, Karl Popper

[5]: Storia della Filosofia, 1946, Nicola Abbagnano

[6] Liberalismo, 1973, Friedrich Von Hayek

Privatizzazioni e monopoli: a sbagliare è sempre lo Stato

Nazionalizziamo!1!!111!

Il tragico avvenimento del crollo del ponte Morandi a Genova si è purtroppo trasformato nel pretesto ideale per la boriosa massa degli statalisti feroci per chiedere a gran voce la nazionalizzazione delle autostrade italiane.

Il presunto fallimento del gestore privato è dunque la riprova definitiva del fallimento del liberismo, del regime di concorrenza perfetta, delle privatizzazioni. Il mercato ha fallito e lo Stato deve tornare ad essere proprietario e gestore delle infrastrutture nazionali (cosa che detta dai fautori del NO categorico ad ogni investimento per le grandi opere fa già abbastanza ridere).

Inoltre, è di questi giorni la notizia che il Regno Unito, dopo le privatizzazioni “selvagge” operate dal governo Thatcher, sta riconsiderando la nazionalizzazione del sistema ferroviario britannico. Non è forse questa la prova definitiva del fallimento del privato? Non è forse questo il segno definitivo della necessità dell’intervento dello Stato nella gestione delle infrastrutture (prima) e dell’economia (dopo)?

Beh, no.

Il principale errore dello statalista (o del socialista/comunista) medio è credere questo: gli infami Liberali sono per la privatizzazione indiscriminata a prescindere. Tutto questo nel nome del guadagno indiscriminato, senza alcuna preoccupazione per le conseguenze che il povero cittadino dovrà subire (i.e. il crollo di un ponte). Se potessero infatti privatizzerebbero anche l’aria.

Niente di più sbagliato.

Cosa dice il Liberalismo classico

Ogni Liberale classico crede che lo Stato debba avere un ruolo minimo nell’economia. Deve infatti garantire che le infrastrutture fondamentali per lo sviluppo del tessuto economico nazionale siano costruite. Poi lo Stato deve delegarne la gestione a più privati (come non è stato fatto in Italia). Tutto questo all’interno di un regime di concorrenza perfetta (come non è successo in Italia) per garantire la possibilità di scelta e il miglior servizio possibile al cittadino (certamente non in Italia).

Basta guardare la concessione firmata nel 2007 dal governo Prodi, che ha dato ad Autostrade per l’Italia la gestione delle infrastrutture nazionali, per capire che di tutto si è trattato, tranne che di libero mercato. Il regime creato è stato un monopolio a gestore unico, senza concorrenza. La revisione del contratto è praticamente impossibile. Insomma, è stata l’ennesima porcata all’italiana che ha visto il trionfo di un capitalismo marcio di Stato, cosa che susciterebbe giustamente la più assoluta indignazione di ogni Liberale.

Per spostarci all’estero, andando a guardare all’iter di privatizzazione delle ferrovie britanniche negli anni ’80, si può riscontrare un fenomeno analogo. Si è privatizzato, ma non si è liberalizzato.

Ora, lo sciacallaggio di governo ha approfittato di questa tremenda tragedia per lanciare una proposta dal sapore di IRI 2.0 (tra l’altro proprio l’IRI costruì il ponte Morandi nel ’67). La risposta al fallimento del concordato Stato – industriali (che ripetiamo non ha niente a che vedere con un regime di libero mercato) non sta nel nazionalizzare. Riuscite ad immaginare l’intera rete autostradale nazionale gestita dall’ANAS come la Salerno-Reggio Calabria? Trent’anni di cantieri? Continui ritardi? Disagi inimmaginabili? Miliardi di euro dei contribuenti sacrificati sull’altare dell’inefficienza pubblica? Ma manco per sogno.

Liberalizzare per il bene del cittadino

La soluzione è unica ed evidente, ma questo paese la rifiuta categoricamente sin dall’era giolittiana. Deve finalmente cessare lo sporco connubio tra Stato e industria. Privatizzando un settore dell’economia senza liberalizzarlo si finisce semplicemente per passare dal monopolio statale a quello privato. Solo un regime di perfetta concorrenza, con lo Stato relegato alla giusta dimensione di arbitro, può garantire uno sviluppo efficiente delle infrastrutture nazionali. Vogliamo un sistema efficiente e che funzioni, al servizio del cittadino. Non vogliamo che il contribuente venga sfruttato come finanziatore né dello spreco statale né di accordi secretati e monopolistici.

 

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“I liberali se ne fregano dei poveri”: un mito da sfatare

La retorica collettivista e socialista, che poggia sull’unico fondamentale pilastro del “o con noi o contro di noi”, va dicendo indisturbata da quasi un secolo una delle più grandi ed ingiuste menzogne, che gli ambienti liberali hanno, dalla fine dell’800, dovuto sopportare. E cioè che chi è liberale e, a maggior ragione, liberista non ha a cuore i meno fortunati e pensa più a tutelare la libertà dei ricchi che la dignità dei poveri.

Innanzitutto va detto che la politica è, per definizione, il perseguimento della maggiore felicità e del maggior benessere di quanti più cittadini possibile. E chiunque non abbia questo come suo unico obiettivo non fa politica: fa affari. In secondo luogo, si tende a riconoscere come amico dei meno abbienti chi propone misure immediate e, concedetemi, molto facili a dirsi, per dare più soldi a chi ne ha di meno. Dimenticando che il fine ultimo delle politiche di destra è lo stesso (sulla carta per ideologia e non in tutte le applicazioni storiche). Quindi i liberali non vogliono privare i più poveri di aiuti o di assistenza e non mancano di umanità, come viene loro spesso imputato.

Ma invece credono che, perché si possano aiutare i più deboli, sia necessaria un’economia forte, capace di sopportare quelle misure assistenzialistiche che sono degne di uno stato umano. Si è già visto in molti paesi socialisti come il collettivismo porti a grande povertà. Per dirla in maniera più spicciola: è inutile avere giustizia sociale se poi da spartire c’è una mela per ogni 10 cittadini.

Si è dimostrato che uno Stato forte e arricchito dall’economia liberista ha poi le risorse necessarie per poter far fronte a quelle riforme sociali che, altrimenti, o non sarebbero possibili o farebbero crollare l’economia nazionale.

E’ grazie al mercato libero e alla forte economia guadagnata nei lunghi anni di lavoro sui mercati che Paesi come la Germania, la Francia, l’Inghilterra e l’Italia stessa possono vantare uno stato sociale forte e che, per quanto poco ce ne si accorga in patria, ci rende un esempio nel mondo. Chi dubita di questo può consultare “Where to invade next”, l’ultimo film di Michael Moore, famosissimo regista americano d’inchiesta e socialista, che in viaggio in Europa ha dimostrato tutto ciò in cui secondo lui l’Europa è anni avanti agli Stati Uniti. Perchè solo un Paese forte può provvedere ai meno fortunati. Se Bismarck non avesse avuto alle spalle, a fine ‘800, un’economia potente come quella tedesca non gli sarebbero state possibili tutte quelle riforme socialiste che beffarono l’SPD. Il primo in Italia a parlare di riforme sociali al governo fu Giolitti, liberale, che migliorò le condizioni dei lavoratori grazie all’apertura italiana ai mercati europei operata dalla destra storica e da Crispi. Tanti sono gli esempi di misure sociali supportate da un’economia in grado di farvi fronte. Ed è molto facile riconoscerle: sono quelle che durano ancora oggi.

Quindi la si smetta di credere i liberali e i liberisti insensibili, classisti, cinici e dal cuore di pietra. L’obiettivo di chi si occupa di politica è quello di avere quanta più felicità possibile tra gli uomini. Il fatto di avere strade diverse secondo cui giungervi non rende né gli uni né gli altri meno determinati per quel fine.