Gli ambientalisti vogliono regolamentare la tua vita

L’economia pianificata sta vivendo un’altra rinascita. I sostenitori della difesa dell’ambiente e gli anticapitalisti chiedono che il capitalismo venga abolito e sostituito con un’economia pianificata.

Altrimenti, sostengono, l’umanità non ha alcuna possibilità di sopravvivere.

In Germania, un libro intitolato “Das Ende des Kapitalismus” (La fine del capitalismo) è un bestseller e la sua autrice, Ulrike Herrmann, è diventata ospite regolare di tutti i talk show. L’autrice promuove apertamente un’economia pianificata, anche se in Germania è già fallita una volta, come ovunque sia stata tentata.

A differenza del socialismo classico, in un’economia pianificata le aziende non vengono nazionalizzate, ma possono rimanere in mani private. Ma è lo Stato a stabilire con precisione cosa e quanto produrre.

Non ci sarebbero più voli e veicoli privati. Lo Stato determinerebbe quasi tutti gli aspetti della vita quotidiana: ad esempio, non ci sarebbero più case unifamiliari e a nessuno sarebbe permesso di possedere una seconda casa. Le nuove costruzioni sarebbero vietate perché dannose per l’ambiente. La terra esistente verrebbe invece distribuita “equamente”, con lo Stato che deciderebbe quanto spazio è appropriato per ogni individuo. Il consumo di carne sarebbe consentito solo in via eccezionale, perché la produzione di carne è dannosa per il clima.

In generale, le persone non dovrebbero mangiare molto: 2.500 calorie al giorno sono sufficienti, dice Herrmann, che propone un’assunzione giornaliera di 500 grammi di frutta e verdura, 232 grammi di cereali integrali o riso, 13 grammi di uova e 7 grammi di carne di maiale.

«A prima vista, questo menu può sembrare un po’ scarno, ma i tedeschi sarebbero molto più sani se cambiassero le loro abitudini alimentari», rassicura la critica del capitalismo. E poiché le persone sarebbero uguali, sarebbero anche felici: «Il razionamento sembra sgradevole. Ma forse la vita sarebbe addirittura più piacevole di oggi, perché la giustizia rende le persone felici».

Queste idee non sono affatto nuove. La popolare critica canadese del capitalismo e della globalizzazione, Naomi Klein, ammette che inizialmente non aveva un interesse particolare per il cambiamento climatico. Poi, nel 2014, ha scritto un corposo tomo di 500 pagine intitolato “This Changes Everything: Capitalism vs. the Climate“.

Perché è diventata improvvisamente così interessata all’ambientalismo?

Prima di scrivere questo libro, l’interesse principale della Klein era la lotta contro il libero scambio e la globalizzazione. Lo dice apertamente: «Sono stata spinta a un impegno più profondo in parte perché ho capito che poteva essere un catalizzatore per forme di giustizia sociale ed economica in cui già credevo». Chiede un’economia attentamente pianificata e linee guida governative su «quanto spesso guidiamo, quanto spesso voliamo, se il nostro cibo deve essere trasportato in aereo per arrivare a noi, se i beni che compriamo sono costruiti per durare… quanto sono grandi le nostre case». L’autrice ha anche suggerito che il 20% più abbiente della popolazione dovrebbe accettare i tagli maggiori per creare una società più equa.

Queste citazioni – a cui si potrebbero aggiungere molte altre affermazioni simili nel libro della Klein – confermano che l’obiettivo principale degli anticapitalisti come Herrmann e Klein non è migliorare l’ambiente o trovare soluzioni per il cambiamento climatico.

Il loro vero obiettivo è eliminare il capitalismo e instaurare un’economia pianificata e gestita dallo Stato. In realtà, questo comporterebbe l’abolizione della proprietà privata, anche se tecnicamente i diritti di proprietà continuerebbero ad esistere. Perché tutto ciò che rimarrebbe è il titolo legale formale di proprietà. L'”imprenditore” continuerebbe a possedere la sua fabbrica, ma cosa e quanto produce sarebbe deciso unicamente dallo Stato. Diventerebbe un manager dipendente dello Stato.

L’errore più grande che i sostenitori dell’economia pianificata hanno sempre commesso è stato quello di credere nell’illusione che un ordine economico potesse essere pianificato sulla carta; che un’autorità potesse sedersi a una scrivania e proporre l’ordine economico ideale. Tutto ciò che sarebbe rimasto da fare sarebbe stato convincere un numero sufficiente di politici a implementare l’ordine economico nel mondo reale. E’ brutto da dire, ma anche i Khmer Rossi in Cambogia la pensavano così.

L’esperimento socialista più radicale della storia, che ebbe luogo in Cambogia a metà e alla fine degli anni ’70, fu originariamente concepito nelle università di Parigi. Questo esperimento, che il leader dei Khmer Rossi Pol Pot (chiamato anche “Fratello 1”) chiamò “Super Grande Balzo in Avanti”, in onore del Grande Balzo in Avanti di Mao, è particolarmente rivelatore perché offre una dimostrazione estrema della convinzione che una società possa essere costruita artificialmente su un tavolo da disegno.

Oggi si sostiene spesso che Pol Pot e i suoi compagni volessero attuare una forma pura di “comunismo primitivo” e il loro governo viene dipinto come una manifestazione di irrazionalità sfrenata. In realtà, ciò non potrebbe essere più lontano dalla verità. Le menti e i leader dei Khmer Rossi erano intellettuali provenienti da famiglie oneste, che avevano studiato a Parigi ed erano membri del Partito Comunista Francese. Due delle menti, Khieu Samphan e Hu Nim, avevano scritto tesi di laurea marxiste e maoiste a Parigi. In effetti, l’élite intellettuale che aveva studiato a Parigi occupava quasi tutti i posti di comando del governo dopo la presa del potere.

Avevano elaborato un dettagliato Piano quadriennale che elencava con precisione tutti i prodotti di cui il Paese avrebbe avuto bisogno (aghi, forbici, accendini, tazze, pettini, ecc.). Il livello di specificità era molto insolito, anche per un’economia pianificata. Ad esempio, si legge: «Mangiare e bere sono collettivizzati. Anche il dessert è organizzato collettivamente. In generale, aumentare benessere del popolo nel nostro Paese significa farlo collettivamente. Nel 1977 ci saranno due dessert a settimana. Nel 1978 ci sarà un dolce ogni due giorni. Poi, nel 1979, un dolce al giorno, e così via. Così le persone vivono collettivamente e hanno a sufficienza da mangiare; sono soddisfatte e felici di vivere in questo sistema».

Il partito, scrive il sociologo Daniel Bultmann nella sua analisi, «ha pianificato la vita della popolazione come su un tavolo da disegno, incastrandola in spazi e bisogni prestabiliti». Ovunque, giganteschi sistemi di irrigazione e campi dovevano essere costruiti secondo un modello uniforme e rettilineo. Tutte le regioni furono sottoposte agli stessi obiettivi, poiché il Partito riteneva che condizioni standardizzate in campi esattamente della stessa dimensione avrebbero avuto anche rese standardizzate. Con il nuovo sistema di irrigazione e le risaie a scacchiera, la natura doveva essere imbrigliata nella realtà utopica di un ordine completamente collettivista che eliminava le disuguaglianze fin dal primo giorno.

Tuttavia, la disposizione dei canali di irrigazione in quadrati uguali con al centro campi altrettanto quadrati portò a frequenti inondazioni, perché il sistema ignorava totalmente i flussi d’acqua naturali, e l’80% dei sistemi di irrigazione non funzionò, proprio come i piccoli altiforni da cortile non funzionarono nel Grande balzo in avanti di Mao.

Nel corso della storia, il capitalismo si è evoluto, così come si sono evolute le lingue. Le lingue non sono state inventate, costruite e concepite, ma sono il risultato di processi spontanei e incontrollati. Sebbene l’Esperanto, giustamente chiamato “lingua pianificata”, sia stato inventato nel lontano 1887, non è riuscito ad affermarsi come la lingua straniera più parlata al mondo, come si aspettavano i suoi inventori.

Il socialismo ha molto in comune con una lingua pianificata, un sistema ideato da intellettuali. I suoi aderenti cercano di conquistare il potere politico per poter poi attuare il sistema scelto. Nessuno di questi sistemi ha mai funzionato da nessuna parte, ma questo apparentemente non impedisce agli intellettuali di credere di aver trovato la pietra filosofale e di aver finalmente ideato il sistema economico perfetto nella loro torre d’avorio. È inutile discutere in dettaglio idee come quelle di Herrmann o di Klein, perché l’intero approccio costruttivista – cioè l’idea che un autore possa “sognare” un sistema economico nella sua testa o sulla carta – è sbagliato.

 

(Traduzione dell’articolo Today’s Anti-Capitalists Want to Regulate What You Can Eat, How Often You Drive, and the Size of Your Home, Rainer Zitelmann, FEE.org)

 

Lettura consigliata: Il libero mercato e i suoi nemici, L. von Mises

 

 

Il Marxismo funziona solo come forza distruttrice

Le teorie di Karl Marx non sono mai state valide, ma hanno cambiato il mondo fomentando il malcontento verso lo status quo e promettendo un’utopia non ben definita che sarebbe sorta spontaneamente dalle ceneri del vecchio ordine.

Tra le sue argomentazioni vi sono:

 1. Il valore è dato dal lavoro socialmente utile.

2. Le società capitaliste sono divise in due classi: i borghesi e i proletari.

3. Lo scambio volontario è un gioco a somma zero: una delle due parti guadagna a spese dell’altra.

4. I capitalisti si appropriano del plusvalore dei beni prodotti dagli operai.

5. Gli operai nelle società capitaliste si impoveriranno sempre di più finché sarà necessaria una rivoluzione.

6. Gli operai in disaccordo con Marx soffrono di “falsa coscienza”.

Ma ognuna di queste affermazioni è falsa.

1. Il valore non è dato dal lavoro, ma dalla domanda. Il lavoro ha valore solo se produce beni e servizi che la gente desidera.

Una torta fatta di fango può richiedere la stessa quantità di lavoro di una torta di mele, ma nessuno vuole una torta di fango, quindi non ha valore. Inoltre, il valore cambia al variare di alcune condizioni. Ad esempio, anche se il loro “contenuto di lavoro” non è cambiato, le fruste dei cocchieri avevano molto più valore prima dell’invenzione dell’automobile.

Marx cercò di spiegare queste variazioni di valore con il concetto di lavoro “socialmente utile”, ma non fu mai in grado di definirlo o quantificarlo al punto da consentire ai pianificatori centrali di comprendere il valore di mercato di un bene o un servizio.

2. La società capitalista non è divisa in due classi. I proprietari di imprese e i dipendenti provengono da ogni ceto sociale.

3. Lo scambio volontario non è un gioco a somma zero. Tutte le parti coinvolte in uno scambio ne traggono vantaggio, altrimenti non accetterebbero lo scambio. Ciascuno ne trae vantaggio perché ognuno attribuisce un valore diverso ai beni scambiati. Il valore è soggettivo e non si basa su parametri oggettivi come “la quantità di lavoro socialmente utile”.

4. Il plusvalore di un bene (in pratica, il prezzo di vendita di un bene meno il costo per la sua produzione) serve a pagare:

– L’inventore.
– L’imprenditore (che è spesso, ma non necessariamente, l’inventore stesso) che intercetta la domanda del mercato per quel bene e decide di produrlo.
– Il possessore di un capitale che finanzia l’impresa.
– Finanziatori che trovano altri investitori disposti a rischiare le loro risorse per avviare l’impresa.
– Dirigenti e quadri che coordinano il lavoro degli operai.
– I pubblicitari che pubblicizzano il prodotto affinché venga conosciuto dai consumatori.
– Gli operai stessi.

Marx ignorava gran parte di questi fattori produttivi e il valore aggiunto che i consumatori ottengono acquistando il prodotto. Se non ottenessero alcun vantaggio dall’acquisto, non l’acquisterebbero mai.

Pretendendo che gli operai della fabbrica (insieme a tutti gli impiegati che Marx considerava parte del proletariato piuttosto che della classe dirigente oppressiva) ricevessero tutto il valore del prodotto, Marx chiedeva che nessun altro responsabile dell’esistenza del prodotto fosse pagato e che i consumatori non guadagnassero acquistandolo.

In effetti, il suo “mondo perfetto” era quello in cui nessuno avrebbe avuto un incentivo a inventare, produrre o acquistare qualcosa.

5. I lavoratori nelle economie di mercato non si stanno immiserendo. Al contrario, stanno molto meglio rispetto ai lavoratori di economie meno libere. Secondo i nostri standard, gli operai ai tempi di Marx lavoravano in condizioni terribili per salari miseri. Tuttavia, il lavoro in fabbrica e la retribuzione erano spesso molto migliori rispetto alle alternative disponibili all’epoca.

Il libero mercato ha reso le persone così produttive che hanno bisogno di lavorare meno ore per sfamare se stessi e le proprie famiglie. Invece di lavorare sei o sette giorni alla settimana per 12 ore, nei Paesi in cui vige il libero mercato le persone lavorano in genere cinque giorni a settimana per 7 o 8 ore al giorno. Inoltre, i bambini non hanno più bisogno di lavorare per sopravvivere.

Il libero mercato ha anche aiutato la parità di genere. In un mondo in cui la forza bruta è il fattore più importante per la sopravvivenza, le donne sono cittadini di seconda classe. Ma in una società di libero mercato, dove il cervello conta più dei muscoli, le donne sono più che in grado di competere con gli uomini.

Marx sosteneva che il socialismo avrebbe messo i mezzi di produzione nelle mani dei lavoratori, ma è stato il capitalismo a mantenere la promessa. Oggi i “mezzi di produzione” si traducono sempre più spesso in conoscenze e competenze di un lavoratore, nel suo computer e nel suo cellulare e, forse, in una stampante 3D.

Marx immaginava un’utopia socialista in cui «poter pescare le mattina, cacciare il pomeriggio, allevare il bestiame la sera e fare teoria critica la notte, a piacimento, senza mai diventare un pescatore, un cacciatore, un allevatore o un pensatore». Ancora una volta, è stato il capitalismo a trasformare il sogno di Marx in realtà, aumentando a tal punto la produttività che le persone non devono più trascorrere tutte le loro ore di veglia alla ricerca di cibo.

6. I lavoratori che non sono d’accordo con Marx non soffrono di “falsa coscienza” né sono stupidi. Comprendono i propri interessi molto meglio dei pianificatori centrali o dei teorici.

 

Conclusione

Marx non ha mai compreso, o si è rifiutato di comprendere, gli incentivi creati da una società basata sul principio «Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni». L’attuazione di questo principio crea società in cui le persone hanno capacità minime e bisogni massimi.

Marx non ha mai definito cosa sarebbe un “sistema marxista” o come funzionerebbe. Si rifiutò di descrivere la sua utopia socialista in termini più dettagliati perché riteneva che dovesse emergere spontaneamente e che sarebbe stato sciocco cercare di prevedere la forma finale in cui si sarebbe evoluta.

Allo stesso tempo, però, riteneva che per realizzare il socialismo fosse necessaria una rivoluzione. Ma la rivoluzione implica una brusca rottura dello status quo. Piuttosto che permettere a un nuovo ordine socio-economico di emergere naturalmente, quindi, Marx voleva installare con la forza il suo nuovo ordine sulle ceneri del vecchio, un nuovo ordine che si rifiutava di definire perché doveva emergere naturalmente.

Di conseguenza, il “marxismo” era una specie di secchio vuoto in cui i rivoluzionari potevano versare ciò che volevano.

In pratica, i marxisti si sono dimostrati molto più bravi a distruggere società e culture che a crearne di nuove di successo. Il marxismo funziona solo nella misura in cui rimane una forza distruttrice.

 

(Traduzione dell’articolo Marxism Remains Relevant Only as a Destructive Force, Richard W. Fulmer, FEE.org)

 

Lettura consigliata: Smascherare il Marxismo, L. von Mises

Come nasce uno stato di polizia: lo Schutzhaft nella Germania nazista

PROLOGO

Nel maggio del 1933, nell’ufficio del responsabile prussiano alla detenzione preventiva Hans Mittelbach si presentò una donna brandendo della biancheria intrisa di sangue che suo marito, Erich Mühsam, le aveva spedito dal campo di concentramento di Sonnenburg. Mittelbach era ben consapevole delle condizioni di Mühsam.

Questi era stato arrestato nella notte del 28 febbraio 1933, qualche ora dopo l’incendio del Reichstag. Quella notte, come tanti altri comunisti, socialisti e liberali, era stato sorpreso nel sonno dalla polizia o dai gruppi paramilitari associati al NSDAP e condotto in vari luoghi di detenzione, legale o extralegale, fino al famigerato campo di concentramento di Sonnenburg. Mühsam era un noto anarchico e al suo arrivo a Sonnenburg le SA gli diedero il benvenuto a bastonate.

Le violenze proseguirono anche nei giorni successivi e furono gravi al punto che Mittelbach, nell’aprile del 1933, si recò in visita al campo per chiedere agli ufficiali di evitare maltrattamenti ai prigionieri. La richiesta fu vana.

Dopo le denunce della moglie di Mühsam, Mittelbach si recò di persona a prendere il prigioniero per condurlo nel carcere di stato a Berlino dove il trattamento sarebbe stato sicuramente migliore poiché gestito da uomini della polizia. Purtroppo per Mühsam, la carriera del suo salvatore finì di lì a poco, si crede proprio a causa della sua “indulgenza”.

Mühsam fu spostato al campo di Oranienburg, dove le SS lo strangolarono con una corda da bucato e gettarono il corpo nelle latrine fingendo un suicidio. Era il 9 luglio 1934. La cosa sorprendente di questa storia è che tutto ciò che accadde era perfettamente legale e persino costituzionale. Vediamo come.

«LE EMERGENZE SONO SEMPRE STATE IL PRETESTO CON CUI SONO STATE EROSE LE LIBERTÀ INDIVIDUALI»

L’incendio del Palazzo del Reichstag, l’edificio che ospitava la camera bassa del parlamento tedesco, avvenne la sera del 27 febbraio 1933, a un mese dall’insediamento del governo presieduto da Adolf Hitler. L’attentato, per il quale fu accusato un comunista, fu il pretesto per ricorrere alla decretazione d’emergenza prevista dalla costituzione di Weimar all’articolo 48, comma 2:

Il presidente [del Reich] può prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, quando essi siano turbati o minacciati in modo rilevante, e, se necessario, intervenire con la forza armata. A tale scopo può sospendere in tutto o in parte la efficacia dei diritti fondamentali stabiliti dagli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e 153.

I diritti fondamentali menzionati sono l’inviolabilità della libertà personale e del domicilio, la segretezza delle comunicazioni, la libertà di stampa, di riunione, di associazione, e il diritto alla proprietà privata.

Dopo l’incendio, il governo di Hitler si rivolse immediatamente al presidente del Reich Hindenburg, un vecchio generale in pensione, per chiedergli di approvare quello che passò alla storia come “decreto dell’incendio del Reichstag”, con il quale si disponeva che tutti i diritti fondamentali erano sospesi fino a nuove disposizioni.

Il decreto divenne una sorta di carta costituzionale del Terzo Reich, «giustificando ogni sorta di abuso di potere, compresa la negazione della libertà personale senza supervisione dell’autorità giudiziaria né appello»[1].

SCHUTZHAFT

«Dalla prospettiva del campo non si capiva secondo quale sistema (se poi ce n’era uno) fossero eseguiti gli arresti, ancor meno, in base a che cosa si stabiliva la durata della custodia preventiva e la scelta dei rilasci. […] Questa incertezza […] ha giocato un grosso ruolo e ha reso particolarmente difficile la nostra esistenza. […] Solo il fatto che la custodia preventiva era inflitta senza limitazione di tempo fino a un nuovo riesame dell’arresto fa capire che [essere] oggi in Germania detenuto politico in custodia preventiva è molto, molto peggio che essere qualunque criminale condannato ad una precisa limitazione di libertà, perché questo sa la durata del suo arresto»[2].

Così il socialdemocratico Gerhart Seger descriveva la condizione di totale incertezza in cui versavano i circa 200.000[3] prigionieri politici in “custodia preventiva” nel 1933.  La custodia preventiva (schutzhaft) era uno strumento preventivo-repressivo di polizia per arrestare chi fosse considerato un pericolo senza ricorrere agli strumenti giudiziari.

La costituzione di Weimar prevedeva che la libertà personale fosse inviolabile, ma il decreto dell’incendio dei Reichstag aveva sospeso quell’articolo della costituzione: nessun cittadino era al sicuro dagli abusi dei vari corpi di polizia o dei gruppi paramilitari del partito nazionalsocialista; nessuno era garantito contro un arresto arbitrario; la libertà aveva smesso di appartenere al singolo cittadino e apparteneva allo Stato.

Era sufficiente che ci fosse un sospetto, una denuncia anonima, e chiunque poteva essere posto in custodia preventiva. Molti degli arresti avvenuti nella notte tra il 27 e il 28 febbraio 1933 colpirono anche persone che non avevano alcun legame con l’attentato al Reichstag. Mühsam fu arrestato soltanto perché era un noto anarchico.

Altri furono arrestati solo perché comunisti o appartenenti ad altri partiti che potevano avere a che fare con l’incendio. «Alla polizia politica fu data la possibilità di agire in modo preventivo contro ogni minaccia allo Stato: in altre parole, agli organi di polizia fu concesso di arrestare e detenere in custodia preventiva, per un tempo di fatto indeterminato, personalità politiche non ancora processate o di assegnarle al confino per un tempo sì determinato, ma facilmente prorogabile»[4].

Le persone sottoposte a questa misura cautelare «non conoscevano i veri motivi in base ai quali era stato deciso il loro destino»[5] né erano messe al corrente di quando (e se) sarebbe mai terminata la loro detenzione. Era loro impedito anche di ricorrere alla giustizia per chiedere un rilascio.

L’intervento di un avvocato fu ammesso «solo per redigere istanze scritte in rappresentanza del colpito, ma non fu permesso ovviamente che gli avvocati o chiunque altro prendessero visione degli atti e delle pratiche della polizia politica. I permessi di visita degli avvocati e a chi incaricato della tutela degli interessi dello Schutzhäfling non erano concessi “se lo scopo politico-poliziesco della custodia preventiva [era] messo a rischio”»[6].

Il ricorso ai tribunali era invece assolutamente inutile, poiché la polizia poteva porre in custodia preventiva anche chi fosse stato assolto, “correggendo” in questo modo ogni decisione “sbagliata” dei tribunali. Nonostante i tribunali fossero quasi del tutto “nazificati”, lo strumento dello schutzhaft era comunque preferibile: offriva una procedura più snella e veloce; era più “silenzioso” rispetto a un processo penale; non aveva bisogno di prove ma poteva colpire virtualmente chiunque con il solo pretesto della prevenzione e della difesa del popolo e dello Stato.

Lo schutzhaft era lo strumento per eccellenza dello stato onnipotente del primo dopoguerra. «La libertà dell’individuo era prevista solo in funzione dello Stato»[7], che aveva il compito di difendere l’unità e la forza vitale del popolo; in altre parole, aveva il compito di epurare chiunque esprimesse opinioni o compisse atti pericolosi per l’unità nazionale.

La scienza giuridica tedesca andò avvicinandosi lentamente alla necessità, «di natura tutta etico-biologica, di difendere la comunità e la sua purezza razziale»[8]. In questa ottica, lo strumento dello schutzhaft non aveva soltanto la funzione di prevenire i reati isolando gli individui pericolosi, ma uno scopo molto più ampio di escludere per sempre dalla società gli individui che non potevano farne parte poiché la loro stessa esistenza biologica poteva minarne le basi.

Slavi, ebrei, zingari, omosessuali, intellettuali dissidenti, disabili, erano tutte persone che potevano anche non aver compiuto alcun reato e violato alcuna legge, ma dovevano essere allontanate dalla comunità perché portatrici di un patrimonio culturale e genetico nocivo.

Non è affatto strano che, fino alla conferenza di Wannsee del 1942, i nazisti non avessero ancora deciso cosa fare con tutti i prigionieri dei campi di concentramento. Alcuni gerarchi, come Hans Frank, appoggiavano addirittura l’idea di deportare tutti gli ebrei sull’isola di Madagascar, purché lasciassero la comunità tedesca.

I luoghi di detenzione degli schutzhäftling erano notoriamente i campi di concentramento, anche se agli inizi del 1933 i nazisti non avevano ancora pianificato la costruzione di un arcipelago di campi. La necessità nacque quando gli arresti divennero così tanti da non poter essere più gestiti dalle carceri di stato, e si dovette ricorrere a stipare i detenuti in altre strutture.

Inizialmente si preferirono strutture preesistenti come ex carceri, ex fabbriche, edifici abbandonati, persino scantinati. Questi luoghi potevano essere gestiti indifferentemente sia da personale carcerario facente capo ai vari ministeri, sia da personale extralegale come le SS o le SA, i due gruppi paramilitari del partito nazionalsocialista.

Il trattamento dei detenuti poteva variare in base al luogo in cui venivano assegnati. Le prigioni statali, almeno nel 1933, erano ritenute i luoghi più sicuri e tollerabili.

«Nonostante le molte difficoltà, la maggioranza dei prigionieri in detenzione preventiva trovava sopportabile la vita all’interno delle prigioni e delle Case di lavoro. Generalmente venivano tenuti separati dal resto della popolazione carceraria, a volte in grandi stanzoni comuni. Le celle singole erano semplici ma non spartane, di solito dotate di letto, tavolo, sedia, scaffale, lavello e un secchio che fungeva da latrina. Il cibo e la sistemazione erano perlopiù adeguati, nonostante il sovraffollamento, e siccome di norma ai prigionieri non veniva chiesto di lavorare, i detenuti trascorrevano il tempo chiacchierando, leggendo, facendo esercizio fisico, lavorando a maglia e giocando a scacchi»[9].

La relativa pace di questi luoghi durò poco, poiché già nel 1934 molte prigioni statali passarono sotto la gestione delle SS, trasformandosi nello stesso inferno che si viveva nei campi. D’altronde, come si è sottolineato, nessuno dei detenuti aveva diritti: anche il magro pasto giornaliero e il secchio da usare come latrina erano su gentile concessione delle autorità

La popolazione locale era consapevole delle violenze che si consumavano nei campi fin dalla loro nascita nel 1933. Non era raro che i prigionieri riuscissero a fuggire e raccontare ciò che avevano subìto, ma l’atteggiamento generale era per lo più di indifferenza o, al massimo, di insofferenza verso la convivenza con gli uomini delle SS e delle SA che raggiungevano le città vicine ai luoghi di detenzione per divertirsi.

Ad esempio, nell’Emsland «I dettagli sugli eccessi delle SS si diffusero fra la popolazione locale e presto raggiunsero il ministero dell’Interno prussiano, che alla fine intervenne. Il 17 ottobre 1933 ordinò che tutti i prigionieri politici di spicco e gli ebrei fossero immediatamente portati fuori dai campi dell’Emsland»[10].

In altri casi, come l’episodio descritto in apertura, i parenti delle vittime apprendevano tramite la corrispondenza degli abusi all’interno dei luoghi di detenzione e protestavano infruttuosamente con le autorità, ma diffondevano anche le storie fra conoscenti e amici. Era raro trovare qualcuno che non avesse udito almeno una storia del genere già nel 1933.

UNA CURIOSA FUGA

Hans Beimler era un attivista del KPD, il Partito Comunista Tedesco, e aveva preso parte a numerosi scontri con i gruppi paramilitari di destra durante i turbolenti anni della repubblica di Weimar.

Era ben noto agli uomini delle SA e delle SS, quindi quando fu condotto nel campo di concentramento di Dachau il 25 aprile 1933, le guardie lo accolsero con bastonate e scudisciate. Poi lo condussero nella sala delle torture, dove per giorni subì violenti pestaggi da parte delle guardie del campo.

Lo scopo era indurre Beimler al suicidio, così da non far ricadere la colpa della sua morte sulle autorità del campo. Ma Beimler era un osso duro, così l’8 maggio 1933 le SS gli insegnarono a fare un cappio con le lenzuola e gli diedero un ultimatum: se non si fosse impiccato da solo, il giorno dopo ci avrebbero pensato loro, e sarebbe stato molto peggio.

Il mattino successivo, le guardie entrarono nella cella di Beimler e trovarono un’amara sorpresa: il prigioniero era scomparso. Non è chiaro come fuggì dal campo, ma riuscì a raggiungere la Cecoslovacchia «da dove mandò una cartolina alle SS di Dachau: “Baciatemi il culo”»[11].

Ma, molto più importante, Beimler scrisse «uno dei primi fra i sempre più numerosi racconti di testimoni oculari riguardo ai campi nazisti come Dachau»[12] che fu pubblicato a puntate su un giornale svizzero e fatto circolare segretamente in Germania.


[1] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016.

[2] CAMILLA POESIO, In balia dell’arbitrio. Il confino fascista e la Schutzhaft nazista, in Paradigma lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, a cura di S. Casilio, L. Guerrieri, A. Cegna, Clueb, Bologna 2010, p. 137

[3] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016, p. 33

[4] CAMILLA POESIO, Il confino di polizia, la «Schutzhaft» e la progressione erosione dello Stato di diritto, in Il diritto del duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, a cura di Luigi Lacchè, Roma 2015, p. 99

[5] CAMILLA POESIO, In balia dell’arbitrio. Il confino fascista e la Schutzhaft nazista, in Paradigma lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, a cura di S. Casilio, L. Guerrieri, A. Cegna, Clueb, Bologna 2010, p. 142

[6] CAMILLA POESIO, Il confino di polizia, la «Schutzhaft» e la progressione erosione dello Stato di diritto, in Il diritto del duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, a cura di Luigi Lacchè, Roma 2015, p. 101

[7] Ibidem, p. 103

[8] Ibidem, p. 104

[9] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016, p. 37

[10] Ibidem, p. 54

[11] Ibidem, p. 27

[12] Ibidem, p. 27

George Floyd ed il Principio di Libertà violato

L’uccisione per soffocamento di George Floyd da parte di alcuni agenti di polizia di Minneapolis ha scatenato forti proteste in tutti gli Stati Uniti e non solo.

E’ un fatto che riguarda tutti noi, senza distinzione di razza, di religione, di sesso o di età. Un agente, il cui compito sarebbe dovuto essere quello di garantire la sicurezza e la libertà dell’individuo, ha esattamente commesso l’azione opposta. Quella di abusare dei propri poteri conferitigli dalla legge per soffocare la libertà di un individuo.

I can’t breathe“. Letteralmente “Non riesco a respirare“, sono state le ultime parole pronunciate dall’afroamericano di 46 anni prima di essere ucciso.

Questo avvenimento ci porta a riflettere su noi stessi perché ancora una volta abbiamo assistito alla soppressione di una fondamentale libertà individuale: quella di non subire discriminazioni in base al colore della pelle, come quella di vivere la propria vita e di pensare in modo diverso.

Uno studio della School of Public Health di Harvard sulla discriminazione negli Stati Uniti riporta alla luce la percezione della discriminazione in base all’etnia e gruppi sociali. Si evince che in termini percentuali una persona di colore percepisce la discriminazione del 37% in più rispetto ad una persona bianca. Tali percezioni trovano una notevole differenza anche tra uomini, con il 44% di discriminazione percepita e donne con il 68 per cento.

Sempre lo stesso studio evidenza come tali percezioni siano presenti anche nel mercato del lavoro. Ad esempio, una persona di colore verrebbe discriminata il 44% in più rispetto ad un persona bianca sull’equità di remunerazione e promozioni. Sempre in quest’ambito lo studio evidenzia una marcata differenza in merito alla discriminazione percepita sul lavoro tra uomini (18%) e le donne (41%).

In termini economici, tutto questo si pone in contrasto con i principi del libero mercato, che prediligono l’individuo e la propria libertà di essere. Il mercato, per essere efficiente ed efficace, deve essere messo nelle condizioni di premiare le competenze ed il talento della singola persona e non il proprio gruppo sociale o etnico di appartenenza. Come affermava il celebre economista e pensatore liberale Ludwig von Mises, il mercato libero da interferenze statali non guarda il ceto sociale, il colore della pelle, il livello di istruzione, l’orientamento sessuale o l’identità di genere.

“Ciò che la democrazia capitalistica del mercato produce non è ricompensare le persone secondo i loro “veri” meriti, il valore instrinseco e la loro eminenza morale. Ciò che rende un uomo più o meno propenso non è la valutazione del suo contributo da un qualsiasi principio “assoluto” di giustizia, ma la valutazione da parte dei suoi simili che applicano esclusivamente il metro dei propri bisogni, desideri e fini personali”

Ludwig Von Mises – La mentalità anticapitalista

Questo è ciò che Mises ha definito come il sistema democratico del libero mercato. Ma affinché avvenga, il nostro afferma che è necessario non solo “un mercato non sabotato da restrizioni imposte dal governo“, ma anche il rispetto dell’uguaglianza di fronte alla legge.

Nel rispetto di queste due condizioni fondamentali, “è esclusivamente colpa tua se non superi il re del cioccolato, la star del cinema e il campione di pugilato.”

E allora, dovremmo domandarci: quante volte ci siamo sentiti discriminati e soffocati da leggi e restrizioni imposte dal governo? Quante volte abbiamo urlato tra le mura della nostra mente “I can’t breathe”, “Non riesco a respirare”, perché non ci siamo sentiti liberi di essere intraprendenti e attivi nella società a causa della burocrazia?

Garantire la libertà in tutte le sue forme nel rispetto della libertà altrui è il primo passo fondamentale per respirare e far respirare gli altri.

Omosessualità e (è) libertà

Uno dei temi a me più cari è l’omosessualità, un tema sicuramente bistrattato da tutto l’arco politico, con ovvi fini politici nella maggior parte dei casi, se non personalistici in altri. Dal 1968, tra i vari temi sessantottini vi è stata anche la “riscossa” dell’omosessualità, che portò sicuramente i suoi frutti, come la rimozione della stessa dall’elenco delle malattie mentali da parte dell’OMS, anche se solo nel 1990.

La sensazione che ho, è che le sinistre nel mondo occidentale, specie quelle d’ispirazione sessantottina, abbiano preso in mano il tema, e l’abbiano “collettivizzato” creando una sorta di categoria da salvaguardare come fa il WWF. Ma andiamo all’origine.

Omosessualità significa l’attrazione per il proprio sesso e non per quello opposto (eterosessualità). Attrazione quindi significa istinto. Questa precisazione viene fatta di fronte ai molti che parlano di scelta. Non si sceglie il proprio orientamento sessuale.

L’orientamento sessuale indica verso chi si è attratti: 1) verso il proprio sesso (omosessualità), 2) verso il sesso opposto (eterosessualità) 3) verso entrambi i sessi (bisessualità).

Non sono un medico, ma come afferma il consenso della comunità scientifica, nessuno sceglie il proprio orientamento sessuale. Si sceglie il partner ma non l’orientamento. Questo è già un primo punto importante in quanto molti parlano di scelta quando parlano di omosessualità (non lo è).

Se analizziamo la storia, le culture, le religioni, le idee politiche, in generale l’omosessualità viene “mal dipinta” per il semplice fatto che una coppia omosessuale non genera figli. Dalla Preistoria all’etá contemporanea, i numeri facevano la forza.

Chi non “procreava” non aiutava quindi la specie a riprodursi, un comportamento deleterio alla comunitá seguendo la mentalitá di allora, una mentalità che è rimasta da noi fino a poco tempo fa, e che è ancora attuale in tanti paesi in via di sviluppo, o in societá in cui vi è ancora una forte componente umana nel lavoro. Da qui capiamo come mai l’omosessualitá spesso non sia stata accettata nella storia.

Considerando che siamo 7 miliardi di persone, oltre che la sostenibilitá del pianeta Terra stesso, porci il problema sul non procreare mi sembra ridicolo. Sfortunatamente, uno dei temi in voga nella cerchia conservator-sovranista, è il fare piú figli per non essere sostituiti da immigrati, un’idea ridicola ma che prende piede nelle fasce piú povere e ignoranti della popolazione.

L’obiettivo di queste poche righe non è tanto il capire perchè sia invisa l’omosessualitá (questione di educazione ricevuta ed ignoranza), ma di come sia stata manipolata da chi, a ragion sua, vorrebbe rappresentare e portar avanti “la causa” omosessuale.

La mia critica parte a livello linguistico. Negli anni Settanta, a New York alcuni omosessuali decisero di farsi chiamare in maniera diversa: Gay. La parola omosessuale (Homosexual, Homo o Homosexuality) era una parola usata allora in campo medico, cercare una parola alternativa per dimostrare di non essere malati sicuramente ha un senso. Ma cosa significa in realtá Gay?

Gay era l’aggettivo (in italiano gaio) usato nell’Inghilterra di un secolo fa, per descrivere non tanto l’orientamento sessuale, quanto l’atteggiamento di una persona piú simile al sesso opposto. Ovvero, quando un uomo era femmineo o quando una donna era mascolina. Vi è un abisso tra l’atteggiamento e l’orientamento, e se a volte possono essere collegati, non significa lo siano sempre.

Il salto da Gay a LGBTQRSTUVZ… è stato semplice e veloce, peccato che non voglia dire nulla. Ogni lettera sta per una sigla, e prendendo il caso piú semplice, orientamento sessuale e disforia di genere (il non riconoscersi nel proprio genere sessuale biologico) non sono per nulla legati, ergo fare un cartello, una coalizione da tornata elettorale, una sigla di tante cose diverse non ha nessun senso, anzi dimostra una mentalitá collettivista tipica della sinistra d’ispirazione sessantottina.

Non è un caso che si parli di diritti. Ma quali diritti dovrebbe avere un omosessuale? Siamo tutti esseri umani, ed essere omosessuali non toglie l’essere umani. Il cosidetto movimento “omosessuale” ora LGBTQRSTUV… ha lottato per far passare il concetto di “accettare la diversitá” o “uniti nelle differenze”. Il problema è che non sono queste le differenze che contano.

Cosí sinistra e “movimenti vari” hanno creato delle categorie in cui essere classificati, relegando le stesse in riserve protette come gli Indiani del Nord America. Cosa ovviamente fatta anche per tante altre “categorie” create ad hoc dal sessantottismo.

Una persona omosessuale, non vuole una dimensione per se, bensì vuole vivere normalmente nella comunitá in cui si trova senza esser vista come “diversa”.

Mi voglio soffermare quindi su cos’è il diverso. Il diverso oggettivamente non esiste. La diversitá è soggettiva ed è rappresentanta da ciò che noi riteniamo diverso rispetto a come siamo, o all’idea di normalitá trasmessaci fin da piccoli nell’ambiente in cui eravamo.

Ovviamente, crescendo in un ambiente in cui l’eterosessualitá è considerata la normalitá e l’omosessualitá una devianza (o peggio una perversione), l’omosessualitá e gli omosessuali saranno sempre derisi (se va bene), e la persona omosessuale sará sempre a disagio ad un livello tale da scegliere se lasciare qualla comunitá, quella dimensione, oppure “essere eterosessuale” per adattarsi alla comunitá stessa (salvo poi andare in cerca di un partner secondo il proprio orientamento sessuale, anche solo per soddisfare bisogni fisiologici).

Quindi chi si dipinge come a favore degli omosessuali in realtá continua a ritenerli “diversi” e dà manforte a chi giá li vede come deviati, trattandoli come persone da tutelare in maniera speciale, e quindi alimentando la diversitá (da qui la dannositá dei vari Hate Speech o Hate Crime).

L’aver creato, in Italia, un istituto giuridico ad-hoc per regolamentare l’unione tra coppie omosessuali, invece di rimuovere i vincoli di genere nella giá presente legislazione su matrimonio e adozione ne è un esempio.

In realtá ad una persona omosessuale non fa male l’offesa legata al proprio orientamento sessuale, neanche qualche barzelletta o risatina. Ciò che fa realmente male è sentirsi chiedere se si ha un partner del sesso opposto, sentendosi quindi dei “diversi”, delle persone al di fuori della normalitá, e ciò fa male perchè chi normalmente porge la domanda non lo fa con l’intenzione di offendere, facendo sentire quindi la persona omosessuale ancora piú fuoriluogo.

Tornando alla questione dei diritti, non esistono i diritti degli omosessuali. Una persona omosessuale vuole poter vivere la propria vita con una persona dello stesso sesso, ergo non si tratta di diritti ma semmai di libertà negate e di discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale.

Essere genitori o coniugi non è un diritto, è una libertà. La libertá di poter costruire una famiglia stando con chi si voglia, e di poter crescere dei figli qualora lo si voglia.

Non esiste la famiglia tradizionale o l’esser contro natura. La natura o meglio la biologia, ci dice che per procreare ci vogliono due persone del sesso opposto. Ma la natura e la biologia non vietano di poter adottare e crescere un bambino. La tradizione è una cosa soggettiva, non esiste una tradizione oggettiva. La famiglia tradizionale non vuol dire nulla, perchè l’idea di famiglia è soggettiva, ed ognuno di noi è libero di avere la famiglia che piú preferisce.

Personalmente credo che, finché c’è amore e consensualitá, limiti non dovrebbero essercene.

Da adottato, posso assicurare che adottando un bambino gli si dà una famiglia, che sará sempre meglio di un orfanotrofrio, inoltre gli si dà una possibilitá economico-sociale di riscattarsi dall’esser orfano e nullatenente. In giro per il mondo ci sono tanti bambini che attendono una famiglia, ed i bambini che di preconcetti ne hanno pochi, sono sicuramente piú puri di noi adulti e sanno apprezzare l’amore indipendentemente da chi venga.

Una persona omosessuale non vuole né diritti (come li chiamano a sinistra) né capricci (come li chiamano a destra). Una persona omosessuale vuole solo la libertá di poter vivere la propria vita come meglio crede.

Si è liberi di scegliere le persone cui frequentare, e se “possono fare schifo” gli omosessuali, si è liberissimi di non frequentarli. Ben diverso è il limitare la libertá di un individuo per proprie convizioni personali (l’omosessuale fa schifo, l’islamico è pericoloso, ecc.), quello da liberale non posso tollerarlo, e mi batterò per la libertá di chi la pensa in modo diametralmente opposto rispetto a me.

Credo che la conclusione piú adatta sia auspicare un mondo in cui non esista normalitá e diversitá, un mondo in cui non si venga considerati/valutati per l’essere o no nella media. Siamo tutti diversi perchè pensiamo diversamente, ma allo stesso tempo siamo tutti uguali in quanto esseri umani.

Dare meno per scontato cosa sia una persona, e lasciare la libertà di vivere come meglio piaccia, è la base per un mondo libero, il mondo in cui credo.

 

L’Unione Europea secondo David Hume

La crisi economica innestata dal dilagare del coronavirus ha riportato al centro dell’attenzione il ruolo dell’Unione Europea e gli strumenti di cui questo organismo può disporre per venire in aiuto agli Stati in difficoltà.

Si è proposto di usare i fondi del Mes oppure emettere titoli di debito condiviso dagli stati membri, i famosi eurobond tanto cari a Tremonti. Queste misure, ben lontane dal dare una risposta seria ed efficace nel lungo termine, sono da considerarsi delle vere e proprie cessioni di sovranità verso Bruxelles: il Mes implica una cessione esplicita, alla luce del sole, mentre gli eurobond farebbero entrare dal retro una futura armonizzazione fiscale e un ministro delle finanze unico per l’Eurozona. Ha riassunto bene la contraddizione dei sovranisti-pro eurobond un tweet del professor Riccardo Puglisi, economista che insegna all’Università di Pavia:

“Quindi qualcuno non ha ancora capito che per avere i cosiddetti eurobond devi avere un bilancio federale europeo, cioè spese e imposte decise a livello federale?”

Da un punto di vista liberale, date queste premesse, è necessario chiedersi: è giusto implementare questo processo? Quanto è funzionale, nel processo verso l’autodeterminazione dell’individuo, una cessione di sovranità da un organismo minore a uno di maggiore entità come è l’Ue?

Se guardiamo alla storia europea, alla nascita della cultura occidentale e allo sviluppo del commercio possiamo vedere come questa grande “fertilità” dal punto di vista economico e culturale sia stata possibile grazie a un sistema fortemente decentralizzato.

David Hume, interrogandosi sulla nascita delle arti e delle scienze, affermava che

“Niente è più favorevole al sorgere della civiltà e della cultura dell’esistenza di un certo numero di Stati vicini e indipendenti, legati da rapporti commerciali e politici.”

Sembrerebbe quindi escludere l’evoluzione del processo di integrazione europea dal percorso di sviluppo e crescita dell’Occidente. Hume naturalmente non faceva riferimenti al concetto moderno di entità sovranazionale come oggi noi intendiamo l’Unione Europea: parlava di Stati più o meno grandi, ma ci sembra necessario citare il pensiero del grande filosofo scozzese perché per troppo tempo abbiamo visto un’euroscetticismo chiuso, illiberale e senza cultura. L’opportunità per costruire una critica seria e argomentata all’Unione Europea e a una maggiore integrazione tra gli stati membri esiste realmente, e andrebbe colta per non veder scadere il dibattito politico nel banale “euro sì – euro no”.

I vantaggi di Stati di minore estensione sono molti secondo Hume: in un grande Stato l’autorità potrà facilmente utilizzare la coercizione sui singoli individui per commettere ingiustizie, mentre nelle piccole comunità sarà disincentivata a farlo perché dovrà agire sotto gli occhi di tutti. Questa visione tra l’altro verrà ripresa da Hayek, che affermerà come negli Stati più estesi la coercizione sarà sempre maggiore perché maggiore sarà il potere nelle mani di chi governa. Hume afferma che

“le divisioni in piccoli stati favoriscono la cultura, perché arrestano i progressi dell’autorità e del potere.”

Secondo Hume la forza dell’Europa a livello culturale ed economico sta proprio nella sua frammentazione, così come la frammentazione politica permise alla Grecia di diventare un faro di civiltà per l’Occidente. Il decentramento e la competizione hanno accompagnato la storia europea, e non è appiattendo le nostre differenze che troveremo la strada per crescere. Anche Margaret Thatcher riprenderà questa tradizione affermando che

“Se l’Europa ci affascina, come ha spesso affascinato me, è proprio per i suoi contrasti e le sue contraddizioni, non per la sua coerenza e continuità.”

Vale inoltre la pena, per avvicinarci ai giorni nostri, di citare Daniel Hannan, eurodeputato conservatore e uno dei maggiori volti della campagna per il Leave al referendum sulla Brexit. Nel suo libro “What Next”, in cui traccia una futura Global Britain fuori dall’Ue Hannan fa notare come la Brexit non debba essere un punto di arrivo, ma un punto di partenza: “la sfida ora è devolvere il potere al livello più basso praticabile, fino ad arrivare al singolo cittadino”. Non un sovranismo fine a sé stesso, che da un punto di vista liberale sarebbe inaccettabile, ma un percorso verso le libertà individuali.

Un liberale dovrebbe valutare con grande attenzione queste tematiche: l’accentramento di poteri permette una coercizione sempre maggiore, e l’armonizzazione fiscale in Europa non porterà certamente ad un abbassamento delle imposte.

Da David Hume a Friedrich von Hayek è stata riconosciuta l’importanza del libero scambio per una maggiore e diffusa prosperità, e questo avviene nelle condizioni di un mercato libero, non in un mercato unico. Ai tempi del virus, forse, tornare a riflettere sull’opportunità di istituzioni con immenso potere come la Bce e l’Unione Europea in generale sarebbe davvero necessario, così come capire che, molte volte, sulla strada per l’unità a lasciarci le penne è la libertà.

Mitteleuropa e totalitarismo in Kafka, Kundera e Havel

Il libro di Stefano Bruno Galli “Václav Havel, Una rivoluzione esistenziale” è anzitutto il tentativo para-filosofico di capire il mondo intellettuale del Novecento ceco; un insieme di piccole storie della cultura letteraria boema e morava. Certo, la spina dorsale del libro è articolata a ridosso della vita di Václav Havel, dissidente e politico ceco, ma le punte di eccellenza della cultura e della letteratura ceca vengono altresì considerate nell’opera. Nonostante titolo e copertina del libro siano dedicati allo statista praghese, la proiezione di ricerca di Galli è più culturale che politica: è quasi una rincorsa alla ricerca di un “io” (la propria individualità) in un determinato luogo (la Mitteleuropa), attraverso lo sguardo degli scrittori – eternamente “minoranza” – Franz Kafka («intrigante esploratore del paradiso della mente») e Milan Kundera (leader dell’Unione degli scrittori cechi negli anni Sessanta, quelli pre-Primavera di Praga).

I tre intellettuali cechi sono collegati tra di loro da quello che Michael Žantovský nella prefazione del volumetto definisce come un «bisogno esistenziale dell’individuo di vivere una vita autentica e impregnata dalla consapevolezza della propria corresponsabilità verso la comunità e i destini degli altri esseri umani.» Quella che Havel definisce come “autocoscienza civile”, da opporre – e questa volta le parole solo di Kafka dal Processo – alla «repressione poliziesca, oppressione burocratica, corruzione dei funzionari di Stato, assenza di giustizia sociale, concentrazione e anonimato del potere.» Per vivere in una società veramente libera – non oppressa dall’Impero asburgico kafkiano o da quello comunista haveliano – è dunque necessaria la responsabilizzazione del singolo individuo. La sua presa di coscienza e di responsabilità lo rende libero.

In momenti diversi, i tre autori si sono sempre espressi in merito all’appartenenza cecoslovacca al blocco dell’Ovest. Affezionati ad una libertà antica che tutti e tre si videro rubare, percepivano il loro Paese e la loro cultura come profondamente occidentali. «Per il suo sistema politico, l’Europa centrale è all’Est; per la sua storia culturale, è a Occidente», avverte Kundera. In questo senso, la Cecoslovacchia è una Mitteleuropa; una terza Europa, di mezzo, di confine tra Est ed Ovest: dall’Impero Austro-Ungarico, in cui viveva Kafka, al mondo della Guerra Fredda di Kundera e Havel. Terra di confine, terra di emigrazione; mobile, simbolo di una coscienza sociale, ancor prima che un’entità culturale nel suo insieme.

«La Mitteleuropa non è uno stato, è una cultura o un destino», scrive Galli. «I suoi confini sono immaginari e devono essere ridisegnati al formarsi di ogni situazione storica» (e così è accaduto: basti pensare agli eventi del 1918, del 1938 e del 1989, tre anni simbolo per la Cecoslovacchia). La Mitteleuropa è indipendenza, è «il rifiuto di una politica autoritaria e totalitaria», continua l’autore, dal momento che è un insieme di culture diverse non separabili da loro. «La Mitteleuropa è una cultura e un destino; una sorta di cittadinanza storica». La Mitteleuropa è un sogno, un’utopia, un Eldorado, uno spazio storico-culturale.

Infestata dal virus totalitario, per diversi decenni la Mitteleuropa si è come spenta ed è stata dimenticata nel panorama storico e geopolitico mondiale. Il Partito Comunista Cecoslovacco fu in grado, con il 38% dei consensi nel 1946 – e il golpe del 25 febbraio di due anni dopo, quando di lì a poco avrebbe ottenuto quasi il 90% – di monopolizzare l’orizzonte culturale del Paese. Con la nazionalizzazione di fonderie, miniere, banche e assicurazioni – nonché l’esproprio proletario – il regime si assicurò illegalmente il controllo assoluto dello Stato. L’industria culturale era preziosa in Cecoslovacchia, data anche l’assenza della televisione in molte case; essa, in qualche modo, doveva prevenire – e possibilmente evitare – la degenerazione nel totalitarismo. Quello che statalizza tutto, falsifica il passato e la realtà oggettiva, che emargina, punisce, reprime e, dove può, elimina.

I tre intellettuali cechi – tutti e tre, a loro modo, autentici dissidenti e ribelli – hanno saputo illuminare migliaia e migliaia di concittadini con il loro esempio individuale; per questo erano ritenuti pericolosi dai regimi: sia Kafka, che Kundera che Havel sono stati messi ai margini della società. Di fatti, l’intellettuale è come se fosse un dissidente ante-litteram; uomo potente e fragile allo stesso tempo, che dispone solo della parola scritta come arma di consenso per esporre le proprie idee. Secondo Havel, il dissidente – così come la figura dell’intellettuale – combatte il potere «borioso» e «anonimamente burocratico», sviluppando un’azione culturale che i cittadini elaborano. «Uno spettro s’aggira per l’Europa orientale: in Occidente lo chiamano “dissenso”», ha scritto Havel ne Il potere dei senza potere.

Negli anni Settanta «la normalizzazione aveva determinato la completa emarginazione degli intellettuali, relegati a un’esistenza clandestina», scrive Galli, dando vita ad una “polis parallela” alla nomenclatura ufficiale, alla struttura del partito e le sue appendici sociali. L’ideologia che i regimi, totalitari e post-totalitari, intendono conferire alla struttura sociale serve ad impadronirsi dell’uomo, «generando una fitta rete di menzogne e di ipocrisie, di mistificazioni e di nascondimenti della realtà». Il sistema totalitario priva i cittadini – resi sudditi, dunque schiavi – della loro libertà originaria: rivoluziona la loro esistenza. La rivoluzione esistenziale è emancipazione, ma è anche, seguendo le parole di Havel, «una mobilitazione generale della coscienza umana, dello spirito umano, della responsabilità umana, della ragione umana.»

La libertà riacquista nel 1918 (quando nacque la Cecoslovacchia sotto il segno culturale di Tomáš Masaryk) e nel 1989 (quando rinacque sotto quello di Václav Havel) è una sorta di emancipazione; e non può prescindere dalla responsabilità. Libertà è responsabilità: è dover alzarsi e avere anche il diritto di dissentire; ed essere pronti a pagarne le conseguenze, a schiena dritta (Havel andò in galera due volte e a lungo nella sua vita). Sia il 1918 che il 1989 sono stati momenti di grande libertà per le terre boeme, morave e slovacche; hanno svegliato «le coscienza assopite dei cittadini, che devono assumersi le proprie responsabilità, costruendosi una propria identità culturale specifica, fondata sullo spirito critico e lontana dall’anonimato diffuso», continua Galli. Il che vuol dire anche, nelle parole di Havel, prendere la parte «della verità contro la menzogna, dell’intelligenza contro l’assurdo, della giustizia contro l’ingiustizia.»

Lo statalismo è figlio del fascismo

L’Italia è uno dei paesi europei più forti dal punto vista dell’assistenzialismo, delle dimensioni dello Stato, della pressione fiscale, della spesa pubblica e dei sussidi per le aziende.

Secondo l’Istitute Heritage, l’Italia è nella posizione numero 80 dell’Index Of Economic Freedom. L’indice della Libertà Economica è il più famoso indice che classifica tutti i paesi del mondo su fattori come libertà imprenditoriale, di mercato, libertà dalla corruzione, diritti di proprietà, efficienza dell’apparato giudiziale ed ancora libertà fiscale, del mercato del lavoro e livello delle spese governative.

Parliamo di una posizione di classifica assai preoccupante. Consola il fatto che la posizione è inserita in una categoria di nazioni “moderatamente libere”, ma sono maggiori gli aspetti a preoccupare: l’Italia dista solo 15 posizioni e 2,2 punti rispetto alla categoria di nazioni considerate “prevalentemente non libere”. L’Italia è la terza nazione meno libera nell’Europa occidentale, superando solo Croazia e Grecia.

Piaccia o non piaccia, ma esiste una forte correlazione inversa tra libertà economica e statalismo: più il livello di statalismo è forte, minore è la libertà economica. Questo tende a produrre una ricchezza, presumibilmente fittizia. Una ricchezza provocata arbitrariamente dallo Stato, piuttosto che grazie alle logiche di mercato.

Tra i paesi meno liberi o tendenti alla repressione figurano paesi come Russia, Cina, Nord Corea, ma facendo una ricerca approfondita possiamo riscontrare molti aspetti in comune.

Giusto per fare un elenco:
– Tra questi paesi riscontriamo uno Stato di diritto piuttosto debole;
– La magistratura è fortemente politicizzata e debole;
– Il concetto di proprietà privata piuttosto condizionato. In alcune nazioni non esiste la proprietà privata;
– Gli affari economici e imprenditoriali sono strettamente legati con il clientelismo;
– La corruzione è molto forte;
– I burocrati “governano”, godendo di ampia impunità;
– Lo Stato dirige direttamente alcuni settori di mercato;
– L’iniziativa economica, se è libera, è alle condizioni dello Stato;
– Alcuni mercati tendono a liberalizzarsi (vedi Russia), ma i sussidi sono talvolta più incisivi del profitto;

L’Italia non è, oggi, a questi livelli così drammatici. Ma su una cosa possiamo essere tutti d’accordo. In Italia uno scenario simile si è presentato, soprattutto durante o successivamente dopo la crisi del ’29-30, per opera del fascismo. Alla fine degli anni Venti, il governo fascista adottò una serie di misure affinché tutte le imprese private, o comunque quelle decisive a fini strategici, diventassero pubbliche per sopravvivere. Le logiche di mercato vennero messe da parte, e si andò a creare una politica monetaria a circolo chiuso in cui le aziende rimanevano in piedi solo con le droghe (sussidi) statali.

Lo stesso IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, non solo nacque per raccogliere i rottami dell’industria privata, ma esistette fino al 1995 a “governare” il mercato italiano. La stessa IRI che per quasi mezzo secolo fu il principale datore di lavoro d’Italia, in quanto possedeva un numero impressionante di aziende considerate “private”. Si otteneva una ricchezza falsa, priva di fondamento. Ma soprattutto è con il Fascismo che si inizia una non-cultura del profitto e della libera concorrenza.

Ma non limitiamoci all’aspetto meramente industriale ed economico: l’apparato statale costituito dal fascismo all’indomani della crisi economica di fine anni Venti era molto simile all’elenco sopra citato. La stessa Carta del Lavoro, nonostante sia sorta nel 1927 e sia quindi pre-crisi, è la dimostrazione della nascita dello Statalismo in Italia.

Giusto per fare qualche esempio:
– Punto II. Il lavoro, sotto tutte le sue forme, organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche e manuali, è un dovere sociale. A questo titolo, e solo a questo titolo, è tutelato dallo Stato.
Il complesso della produzione è unitario dal punto di vista nazionale; i suoi obbiettivi sono unitari e si riassumono nel benessere dei singoli e nello sviluppo della potenza nazionale;
– Punto VII. […] L’organizzazione privata della produzione essendo una funzione di interesse nazionale, l’organizzazione dell’impresa è responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato […].
– Punto IX. L ‘intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi politici dello Stato. Tale intervento può assumere la forma del controllo, dell’incoraggiamento o della gestione diretta.

Anche dal punto di vista burocratico è da considerare l’altissimo tasso di corruzione e clientelismo negli affari interni dello Stato durante gli anni Trenta. Da non dimenticare, ma è superfluo ricordarlo considerando che stiamo parlando di uno Stato Totalitario, lo “schiacciamento” politico nei confronti della Magistratura e uno Stato di Diritto pressoché inesistente.

Possiamo certamente dire che l’Italia ha abbandonato una buona parte del marciume statalista nato con il Fascismo, anche se il percorso è iniziato molto tardi dato che la primissima Italia repubblicana diede continuità al progetto statalista precedente. Sicuramente con la Costituzione si posero le basi per uno Stato di Diritto, per una democrazia, e per la libertà, ma dal punto di vista economico e burocratico la strada è ancora molto lunga.

Da considerare che, anche se negli anni novanta abbiamo abbandonato quel mostro chiamato IRI, recentemente lo Stato sta ancora una volta dimostrando di non comprendere di non potersi permettere di fare l’imprenditore (VEDI Alitalia) e di avere al suo interno una corruzione e clientelismo forti (VEDI la pubblica amministrazione o aziende come Trenitalia).

Questo per capire che il cordone ombelicale con il passato non è stato ancora tagliato. I passi avanti dell’Italia ci sono stati, ma sono deboli e insufficienti. Abbiamo tanto lavoro da fare, ma il timore è che le forze politiche oggi maggioritarie abbiano l’intenzione, per fini differenti, di ripristinare sempre di più quel mostro chiamato Statalismo.

 

Rider, perché con “le tutele” saresti sfruttato di più

I rider sono sfruttati. Questa è la narrazione mediatica derivata dai sindacalisti, eppure anche persone di sinistra che conosco e conoscono a loro volta dei rider concordano con il rider che abbiamo intervistato: fanno una vita dignitosa e non sono sfruttati.

Non sappiamo perché ci sia un movimento sindacale così radicale nonostante, tutto sommato, si stia bene. Sappiamo, però, che deriva dall’antico vizietto statalista italiano, quello per cui “lo Stato siamo noi tutti quindi possiamo imporre a loro, i padroni cattivi, le condizioni”

Personalmente ritengo sensate alcune richieste dei rider. Tutte hanno, in comune, di essere seguite da almeno una compagnia del settore. Per esempio è, a mio parere, giusto che quando si prenota un’ora e ci si presenta vi sia un minimo orario anche in caso di assenza di ordini, così come ogni libero professionista fa pagare l’uscita, al pari, non essendo un rapporto di lavoro dipendente, la possibilità di accettare e rifiutare ordini a sua volontà.

Le rivendicazioni medie, tuttavia, vanno ben oltre e sono completamente folli.

 

Lavori, lavoretti e pretese

Quello del ragazzo delle consegne è uno dei lavoretti tipici per guadagnare qualcosa durante gli studi. Prima dell’arrivo delle piattaforme organizzate era quasi sempre un lavoro in nero, senza tutela alcuna.

Oggi, invece, la situazione è migliore: se si sceglie di lavorare con Partita IVA è un lavoro come un altro, con contributi versati (possiamo discutere sull’INAIL, quella assicurativa è una questione sensata, essendo prevista per i parasubordinati), solo chi lavora come prestazione occasionale, regime limitato a guadagni inferiori a 5000€, non ha accesso a contributi e simili.

Quindi, già oggi, la normativa italiana offre una situazione positiva: chi vede nel rider un lavoretto per arrotondare può sfruttarlo a pieno in tal modo mentre se vuole che diventi un lavoro userà la Partita IVA.

Sta di fatto che il contratto firmato è un contratto a cottimo, e nessuno è stato costretto con una pistola puntata a firmare quel contratto. Se i contrari al cottimo amano chiamare i rider che lavorano veramente che sono favorevoli al cottimo “krumiri” mi permetto di dire che loro, che firmano contratti senza leggerli per poi chiedere allo Stato di cambiare le carte in tavola, sono dei “cretini”.

Le richieste dei sindacalisti-rider sono assolutamente fuori dal mondo: Assunzione, pagamento orario, ferie, malattia, bici pagata e chi più ne ha più ne metta. Visto che com’è ben noto i lavoratori dipendenti non si scelgono gli orari né cosa fare sarebbe la fine del ragazzo delle consegne come lavoretto dove ti scegli l’orario in base alle tue necessità, oltre che un discreto incentivo al dolce far nulla, poiché se il pagamento è orario puoi anche fare la pedalata panoramica a passo d’uomo e consegnare un ordine l’ora (e guai a licenziare!) per prendere il medesimo stipendio di chi fa 6 consegne l’ora.

Ribadisco, alcune questioni – già citate – sono sensate e vanno sollevate nei modi opportuni: chiedere benefici degni di un dirigente di medio livello per un lavoro autonomo, non specializzato e tutto sommato pagato dignitosamente è il miglior modo per farsi prendere per scemi da chiunque abbia visto il mondo del lavoro.

 

Cosa succederebbe con le tutele?

Tutto il discorso delle tutele presuppone che le aziende accettino. Il problema è che così non è: l’Italia è un mercato marginale, tant’è che Foodora l’ha lasciato poco tempo fa, e alcune aziende hanno già ventilato l’opzione di andarsene se passasse l’obbligo di contratto da dipendenti.

Se se ne andassero le imprese straniere resterebbero alcune aziende locali marginali, alcune già con lavoratori dipendenti e simili. Ma per riuscire a soddisfare tutta la domanda lasciata dalle grandi aziende dovrebbero assumere altro personale, aumentando i costi. In sostanza, quasi sicuramente, le app di consegna sarebbero un qualcosa da benestanti, disposti a pagare una consegna 8 o 10 Euro.

La maggioranza dei locali, per non perdere la clientela a domicilio, semplicemente tornerebbe allo “status quo ante bellum”: studente assunto in nero, pagato 7 Euro l’ora (anche meno, per esperienza personale – ndr), scooter-munito e se fai ritardo ti chiamano lamentandosi e minacciandoti di licenziarti.

E considerando che chi si lamenta non è il rider ma gente che spesso parla di “welfare” o di “aiuti a chi non riesce a lavorare”, ricordiamo che per chi non ha particolari doti lavorative quello del rider può essere un modo semplice di portare a casa la pagnotta. Per questa persona sarebbe una clamorosa perdita passare da “non particolarmente fortunato” a “sottopagato a zero tutele”. O peggio, disoccupato.

 

Scioperi? Buffonate, l’unica è cambiare lavoro

Quando ho, provocatoriamente, barrato quel “che lavorano veramente” non l’ho fatto a caso: pochi giorni fa c’è stato uno sciopero nazionale dei rider. È miseramente fallito: nessun disservizio degno di nota. Nonostante solitamente le app per compensare quei pochi scioperanti offrano un incentivo per quelle ore, in questo caso nemmeno è servito e il parlottare ha spinto molti nuovi rider a partire o i più pigri a prenotarsi e lavorare, come confermatomi da un “krumiro” che ha incontrato vari novellini durante la giornata di sciopero.

In ogni caso, trattandosi di lavoro autonomo e non specializzato – ergo facilmente sostituibile – lo sciopero è una buffonata e l’ultimo l’ha dimostrato. Se lo sfruttamento esistesse veramente si combatterebbe lasciando le aziende sfruttatrici senza lavoro, ossia licenziandosi e andando da un’altra azienda – non tutte hanno le medesime condizioni – o cambiando proprio lavoro e non facendo casino un giorno per poi farsi sfruttare gli altri 364.

Se poi l’azienda sfruttatrice trova 50 persone disposte a prendere di buon grado il vostro posto come “sfruttati” forse siete un pelo, ma giusto un pelo eh, troppo esigenti.

 

Dal Fascismo a Putin, il nostro è vero amore

Mentre in TV e sui social si parlava soltanto di Bibbiano, del figlio di Salvini e dell’assassinio del poliziotto per mano di due americani, sembra che ancora una volta ci si sia dimenticati dello scandalo più importante che non solo dovrebbe causare rabbia e scalpore, ma soprattutto paura: i rapporti tra Italia e Russia

In men che non si dica tutto è stato dimenticato: i finanziamenti illeciti e la felicità nel volto di Putin mentre affermava come i rapporti tra i due paesi proseguissero in modo ottimale. 

Purtroppo l’oblio della memoria in Italia non stupisce. La penisola è piena di cittadini che sostengono senza alcun rimorso (e senza aver studiato la storia, a quanto pare) come Mussolini abbia “fatto anche cose buone”, come dare vita al sistema pensionistico o rendere tutti più ricchi. Queste, naturalmente, sono falsità.

Nessuno sembra ricordare il delitto Matteotti, la repressione della libertà d’espressione e di stampa o la propaganda fascista che inebriava la mente dei bambini con preghiere e lodi al duce. Infatti, esattamente come ai tempi degli Atzechi e degli Egiziani, durante il fascismo il dittatore veniva visto come una sorta di semidio.

Si è totalmente dimenticata anche la povertà di quel periodo causata dalla pessima politica economica del governo fascista. Nessuno parla di come fu introdotta, ad esempio, la tessera del pane o tessera annonaria, che limitava la quantità acquistabile di beni primari (pane, farina, olio) a causa della grandissima crisi.

Così come ci si è dimenticati dell’Italia Fascista, con una rapidità disarmante oggi ci si dimentica della Russia: un regime oligarchico nel quale pochi potenti possiedono ricchezza e potere, mentre al popolo vanno le briciole. 

Le costanti del regime putiniano sono corruzione, dispotismo, repressione e assassinio politico. Non a caso oltre 150 giornalisti, tra cui Alexander Litvinenko, Anna Politkovskaja, Boris Nemcov, Stanislav Markelov, Sergej Magnitskij, sono stati uccisi solamente per aver reso noto il clima che si respira nella nazione che oggi tanto si acclama in Italia.

La Russia, infatti, è una dittatura: come tale, la libertà di espressione, economica e d’informazione sono solo illusorie. Questa Russia in Italia sembra piacere. In fondo, i cittadini italiani vedono Putin come un grandissimo statista che ha portato la Russia alla grandezza.

Ma se ci trovassimo in qualsiasi altro Paese democratico, le reazioni ai rapporti e agli scandali politici italo-russi sarebbero esattamente contrarie dando spazio ad una ferma opposizione politica, culturale e mediatica da parte della società che si rifiuterebbe di trovare affinità con una dittatura oligarchica antidemocratica.

Tutti gli altri Paesi sembrano tenere alla loro libertà politica e sociale, tranne l’Italia. Appena si percepisce l’idea dell’uomo tutto d’un pezzo, austero e potente, si rimane meravigliati; come un bambino di fronte al mago che tira fuori il coniglio dal cilindro.

Sembra sempre emergere quel substrato culturale fascista degli anni ’20 del “ducetto” che guida la nazione, portandola agli albori di un tempo e facendole guadagnare il rispetto dell’intera comunità globale.

Non a caso i partiti politici sovranisti e populisti italiani, nei vari discorsi costituiti da retorica spicciola ed esclamazioni roboanti, inneggiano sempre a “riportare l’Italia come un tempo” quando “i valori venivano rispettati”.

Sembra essere opinione comune che la nazione non tornerebbe a crescere con una ricetta di riforme economiche e sociali quali una diminuzione della tassazione, un maggiore spazio ad aziende private ed imprenditori ed una privatizzazione di tutte quelle realtà semi-pubbliche che ancora oggi sono in piedi grazie alle tasse dei cittadini.

Al contrario, tornerebbe a farlo grazie ad un singolo uomo che, con rigidità e carisma da leader, permetterà (non si sa come e quando) finalmente alla nazione di tornare al mos maiorum di un tempo. Insomma: Caput Mundi e non più fanalino di coda.

Esattamente questa è l’ideologia che oggi predomina in Italia: una visione semi-fascista della realtà dove i cittadini trasferiscono tutti i loro grandi sogni e le loro preoccupazioni ad un singolo uomo, con la speranza che finalmente un giorno faccia diventare l’Italia ricca di cultura, capitale e benessere sociale: in sostanza la nuova Cuccagna del Medioevo.

Ecco perché oggi si adora Putin: perché si amano i dittatori. Ciò che servirebbe è una forte resistenza intellettuale e politica, capace di attuare un’iconoclastia per svegliare il popolo di una nazione che, dopo Mussolini, non ha mai smesso di credere al mito del Duce.

APPROFONDIMENTI BIBLIOGRAFICI

Il Fascismo eterno, Umberto Eco, La nave di Teseo: https://www.amazon.it/fascismo-eterno-Umberto-Eco/dp/8893442418/ref=sr_1_1?adgrpid=58091645688&hvadid=255187445268&hvdev=c&hvlocphy=20520&hvnetw=g&hvpos=1t1&hvqmt=e&hvrand=9964737245923107530&hvtargid=aud-607158361173%3Akwd-402295763479&hydadcr=28428_1717388&keywords=il+fascismo+eterno&qid=1565539330&s=gateway&sr=8-1

21 lezioni per il XXI secolo, Yuval Noah Harari, Bompiani: https://www.amazon.it/lezioni-secolo-Yuval-Noah-Harari/dp/8845297055/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=ÅMÅŽÕÑ&keywords=21+lezioni+per+il+21esimo+secolo&qid=1565539433&s=gateway&sr=8-1

Perché il Fascismo attira cosi tanto, Ted Talk, Yuval Noah Harari: https://www.youtube.com/watch?v=xHHb7R3kx40

Otto milioni di biciclette. La vita degli italiani nel Ventennio, Romano Bracalini,  Mondadori: https://www.amazon.it/milioni-biciclette-degli-italiani-ventennio/dp/8818032313/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=ÅMÅŽÕÑ&crid=2T9HEFRZN0KP9&keywords=otto+milioni+di+biciclette&qid=1565539691&s=gateway&sprefix=otto+milioni+di%2Caps%2C202&sr=8-1

Putin e gli omicidi politici: https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2017/10/18/putin-gli-omicidi-politici/

Il labirinto di Putin. Spie, omicidi e il cuore nero della nuova Russia, Steve Levine, Il Sirente: https://www.amazon.it/labirinto-Putin-omicidi-cuore-Russia/dp/8887847177