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Un approccio empirico e liberale alla corruzione (1 di 2)

L’Italia è un Paese dove la tradizione ed il pensiero liberali sono sempre trascurati quando non attaccati. E questa tendenza emerge ancora più fortemente quando si parla di giustizia e sistema legale. Prendiamo un tema “caldo” e di forte impatto emotivo come la corruzione: scorrendo Facebook ed i principali siti di informazione, negli ultimi tempi emerge un quadro molto cupo della situazione nel nostro Paese.

Regolarmente scoppiano nuovi scandali e la sensazione generale è che le cose stiano peggiorando col passare del tempo. Tempo fa un sondaggio di un grosso giornale mostrava come quasi metà degli italiani ritenga la corruzione più diffusa oggi che ai tempi di Tangentopoli. A questo punto, le domande da farsi sono due: ci troviamo effettivamente di fronte a un’emergenza? E soprattutto, qual è il modo migliore di affrontarla, da un punto di vista sia pratico che liberale?

Alla prima domanda è difficile rispondere: mancano dati e numeri certi sulla corruzione – può solo essere stimata – e sulla sua evoluzione nel tempo. Un’indicazione può venire tuttavia dal paragone con altri Stati. Guardando al Corruption Perception Index, elaborato da Transparency International, e prendendo in esame solo i 41 Paesi analizzati nel 1995 (anno della prima rilevazione), possiamo notare come negli ultimi vent’anni circa siamo passati dal 33° al 25° posto; e le ultime 6 rilevazioni (2012-2017) ci hanno visto costantemente guadagnare posizioni e migliorare il nostro score.

Siamo sempre molto indietro rispetto alla media dei Paesi avanzati, ma non c’è prova di un trend peggiorativo. È pur vero come, di fronte ad una situazione non ottimale, conti soprattutto la percezione dei cittadini, che sentono con forza il problema ed esigono venga affrontato e risolto. Qui arriviamo alla seconda domanda.

Di corruzione parlano tutti, continuamente. Si citano scandali, ci si indigna, si lanciano accuse agli avversari politici. Si sente discutere poco, però, di come risolvere il problema concretamente. Il dibattito su social network, televisioni e giornali, si limita, di solito, a esporre due tesi, apparentemente consequenziali: la prima sostiene che la corruzione sia un problema di moralità; la seconda che si possa risolvere con leggi più severe. Lasciando da un lato per il momento le implicazioni da un punto di vista liberale, a prima vista il discorso ha una sua logica: se i controlli non bastano ad individuare i corrotti, né le pene a spaventarli, occorre aumentare entrambi. Invece non è così, perché in realtà le due tesi sono in contraddizione.

Se infatti il problema dell’Italia fosse davvero l’immoralità diffusa “per cultura”, allora non si capisce a cosa potrebbero servire altre norme. Non si può imporre l’onestà per legge, e la storia, anche recente, ci insegna come chi voglia frodare trovi sempre il modo di farlo. Per essere ancora più chiari: se l’immoralità di un comportamento deriva da fattori culturali, è solo cambiando questi ultimi che si otterranno risultati.

Oltretutto, è ormai ben noto e provato come neanche la pena più severa, quella capitale, si sia mai dimostrata essere un deterrente efficace nella lotta al crimine. Coprire buchi normativi è sicuramente utile, ma legiferare in continuazione sugli stessi temi non può portare a risultati diversi da quelli ottenuti in passato; servirà piuttosto ad aumentare la confusione in materia.

Meglio puntare su più controlli allora? Neanche questa sembra una soluzione convincente. Moltiplicare i controlli significa anche moltiplicare i tempi degli iter burocratici, aumentando gli incentivi a “oliare” il meccanismo per velocizzarlo e aumentando quindi il numero di soggetti sensibili ad azioni corruttive. Inoltre, più controlli significa responsabilità più diffuse, con maggiore difficoltà nell’identificare chi decide cosa (e chi se ne debba assumere l’eventuale colpa o merito). Più in generale, i controlli servono solo se sono sostanziali e non formali, e concentrarsi su di un aumento del numero, piuttosto che sulla loro efficacia, non sembra la strada giusta.

Cosa si può fare allora? La risposta potrebbe essere allargare il nostro orizzonte a ciò che succede nel resto del mondo, cercando di capire i motivi alla base di una corruzione diffusa. Un rapido confronto tra il ranking Doing Business della Banca Mondiale ed il Corruption Perception Index, mostra come la corruzione sia direttamente proporzionale alla difficoltà di fare affari in un Paese. Una ricerca comparsa sul Journal of Business Ethics nel 2002 mostrava una forte correlazione tra sovrabbondanza regolatoria e alto tasso di corruzione.

Insomma, più si complica il sistema normativo e si moltiplicano gli ostacoli per chi vuole fare impresa, più aumenta la corruzione in un Paese. La strada per combattere il fenomeno potrebbe dunque essere tracciata: velocizzare i tempi della giustizia, rendere più rapidi gli iter burocratici, valorizzare la responsabilità individuale tra la dirigenza pubblica e migliorare l’efficienza della nostra burocrazia. Scegliendo di agire su questi fronti, si vedranno risultati positivi nel lungo periodo.

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