Sindacati, come hanno impoverito gli italiani

Dopo aver trattato alcuni aspetti estremamente coercitivi e violenti del mondo dei sindacati, in un precedente articolo, in questo affronterò una diversa problematica. Analizzerò gli effetti socio-economici provocati dalla mano del sindacalismo in Italia, effetti provocati dalle loro lotte per il bene (presunto) dei lavoratori.

Ci si chiederà: come mai giungo ad una conclusione così drastica? Obiettivo di questo articolo è spiegare perché i sindacati non possono agire efficacemente verso tutti i lavoratori. La conclusione probabilmente lascerà tutti un po’ perplessi, ma è ben rafforzata da dati di fatto e argomentazioni molto nette e chiare. D’altronde viviamo in un contesto in cui spesso ci si limita ad aspetti superficiali. Non entriamo nel vivo della questione, guardiamo la copertina senza leggere il libro.

Esistono dei lavoratori soddisfatti, indubbiamente, ma davvero possiamo dire che tutti i lavoratori possono considerarsi tali? Preciso che chi scrive è un lavoratore che vuole spiegare perché, da liberale, i sindacati non possano essere realmente dalla parte dei lavoratori. Nel corso del testo, come nell’articolo precedente, inserirò qualche altra citazione di Sergio Ricossa.

[…] (1972, ndr) Il nuovo contratto di lavoro dei metalmeccanici è un volume di oltre duecento pagine a stampa, quasi tutte incomprensibili. C’è l’operaio “comandato in trasferta in località malariche ufficialmente riconosciute” che ha diritto a una indennità speciale; c’è l’impiegato che ha una “ricaduta nella stessa malattia entro il periodo massimo di due mesi dalla ripresa del lavoro”, e ha una anzianità di servizio oltre i tre anni e fino a sei mesi anni compiuti al quale compete la conseervazione del posto per tredici mesi e mezzo, di cui quattro e mezzo a intera retribuzione globale e nove a metà retribuzione; c’è l’apprendista che a partire dal primo gennaio lavora 41 ore settimanali, ma riceve in pagamento una “quota aggiuntiva” di 171 secondi ogni ora lavorata; c’è il rappresentante sindacale autorizzato ad assistere alle operazioni di vendita (lire tremila) del testo del contratto all’operaio che non si avvale della facoltà, “evidenziata in un modulo illustrativo”, di rifiutare l’acquisto. C’è tutto, meno il buon senso.

Analizzando la nostra busta paga di ieri e di oggi, possiamo dire di aver avuto un qualche beneficio favorita dai sindacati? I contratti collettivi, con le varie retribuzioni previste, rappresentavano una vittoria sindacale. Una vittoria assurda se consideriamo che veniva esaltato quel becero slogan del “il Salario è una variabile indipendente”. Come se il salario fosse qualcosa di astratto, qualcosa che esula dal processo economico di un’azienda con lo scopo di non consentire ai datori di lavoro di fissare una retribuzione inferiore a quella prevista e sindacalmente concordata. Un mezzo di tutela ma completamente illiberale, in quanto impedisce a qualsiasi persona di poter accettare un salario inferiore. D’altronde la mia provocazione non sarebbe così strana. Non mettiamoci a fare i conti in tasca a qualcuno. Il datore di lavoro accetta questa situazione coercitiva, legittimata dallo Stato, proprio perché è consapevole che il sindacato ha il potere di non permettere ulteriori assunzioni in azienda. È paragonabile all’imporre un prezzo fuori mercato a qualcosa con il risultato che sarà molto difficile che questa possa essere consumata in una quantità maggiore o uguale rispetto ad una condizione svincolata da imposizioni. Quindi vale sia quando andiamo ad acquistare qualcosa con un prezzo impostato dallo Stato e vale anche nel caso del salario.

Tavola rotonda presso La Stampa: Luigi Macario, sindacalista della CISL, ripete la barzellette della variabile indipendente. “Non solo è vero che noi consideriamo la politica salariale una variabile indipendente, ma ciò è indispensabile se noi vogliamo lottare efficacemente. […] Dopo una lunga chiacchierata sulla mancanza di case popolari, gli scappa di dirmi che lui, vicino a Roma, in barba ai piani regolatori, si è fatta una villa con le agevolazioni statali per le cooperative.

In ogni caso, l’imposizione a tavolino del salario si è rivelata, soprattutto in Italia, un effetto boomerang. Per svariati motivi. In primo piano, imporre un salario, se porta benefici nel breve termine, risulta dannoso nel futuro. Come dimostrato dal fatto che i salari italiani sono pressoché stabili da più di 20 anni. Dato allarmante se consideriamo che il potere d’acquisto dei cittadini è stato notevolmente ridimensionato dall’aumento della tassazione. In secondo piano, creare un contratto così pieno di burocrazia ha costretto le aziende a ricorrere a contratti atipici che hanno danneggiato e danneggiano tutt’ora i nuovi lavoratori, come i giovani.

I sindacati non solo non aiutano i lavoratori nel suo complesso, ma aiutano solo nel presente e particolari categorie. I sindacati in Italia hanno sfruttato a proprio favore l’ossessione statalista verso le “aziende strategiche”, imponendo regole molto restrittive, spacciate nel nome della libertà dei lavoratori, nei settori metalmeccanici o aziende estremamente strategiche (secondo i governanti). Questo non si riferisce solo alla storia degli ultimi decenni, un esempio è Alitalia. Ci si è mai chiesti il perché, tra i vari motivi, Alitalia sopravviva sempre e comunque? Si provi a licenziare un dipendente Alitalia.

[…] (1970, ndr) Nel ’69 gli scioperi in Italia hanno causato la perdita di trecento miloioni di ore di lavoro. E’ un record, ma un record da poco. Poiché i lavoratori sono venti milioni, è come se in media ciascuno avesse scioperato un paio di giorni. Una epidemia di influenza costa assai di più. Secondo le statistiche, giù nel 1910. in piena bella époque, si scioperava così. E’ solo cresciuto il danno, perché oggi si produce assai di più, ogni ora che si lavora. E tuttavia il danno peggiore deve ancora venire: verrà nel prossimo futuro con l’inflazione, che i cedimenti ai sindacati e alla piazza provocheranno.

Il sindacato favorisce la disoccupazione e la diseguaglianza dei salari. Il mercato, come la ricchezza, si basa sullo spostamento dei capitali. Imporre coercitivamente un determinato salario, comporta che l’azienda dovrà porre un prezzo maggiore ai suoi prodotti e i clienti potrebbero ritrovarsi impoveriti da questa situazione. Quindi, il cliente otterrà qualcosa che poteva ottenere ad un prezzo più basso e il lavoratore possiede un reddito maggiore di quello che avrebbe dovuto avere. Impoverire qualcuno a favore di altri. Mi ricorda qualcosa.

I sindacati non vogliono la libertà dei lavoratori perché, in presenza di completa libertà, i lavoratori non avrebbero mai bisogno dei sindacati. La libertà dei lavoratori passa dal libero mercato, l’unica vera via al progresso, non dalla coercizione dei sindacati.

“Se i sindacalisti rispettassero davvero gli operai, gli farebbero dei contratti di lavoro comprensibili”

 

Chi è il liberalconservatore di oggi?

Oggi il termine “conservatore” è diventato quasi una parolaccia, “liberale” è un insulto, “liberista” non ne parliamo; al contrario “nazionalista” viene percepito come un titolo di encomio. Che fine hanno fatto però i liberalconservatori? Chi è il liberal conservatore?

Oggi il termine sembrerebbe una contraddizione, ma in realtà non lo è. Minoranza di una minoranza (i liberali), i liberalconservatori sono ritenuti ambigui proprio per la loro attitudine positiva verso il laissez-faire in economia e il conservatorismo relativo in alcuni cosiddetti valori, sebbene siano aperti alla cosiddetta “nuova generazione” dei diritti, senza dimenticare la centralità e l’unicità dell’individuo.

Nell’economia e nella società, il mercato è la loro guida. Sono tante le sfumature di liberalismo; le versioni occidentali non-anglosassoni, come evidenziato da Friedrich von Hayek, cercano disperatamente di tenersi alla larga dal liberalism, a cui si ispirano i movimenti del centrosinistra (e dalla ex Terza Via, in voga negli anni Novanta), che con John Locke o Adam Smith hanno poco a che fare.

Innanzitutto, quando si tenta di identificare i liberalconservatori c’è storicamente un’enorme confusione nei termini da utilizzare per definire la categoria. «Moderati, liberali, centristi: non sono sinonimi» ha scritto Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 26 giugno 2019). Inoltre: «Un moderato è uno che non sopporta né le urla né le semplificazioni/banalizzazioni» (in questo senso, è avversario supremo dei demagogo-populisti di destra e di sinistra); «un moderato non è necessariamente un liberale: erano moderati (ma non liberali) quegli elettori della Democrazia Cristiana […] che accettavano come normale un livello di intrusione statale nella vita economica tale da suscitare la ripulsa dei (pochi) liberali allora in circolazione.»

In Italia il liberalismo non ha attecchito granché (non stupisce dunque l’assenza o quasi dei liberalconservatori), ma sebbene la cultura liberale sia poco studiata e applicata in diversi campi sociali, questo non vuol dire che non sia presente.

Ai margini della vita politica ed economica del paese, i liberalconservatori vanno distinti categoricamente dalla destra sociale (quella sì ben presente in Italia), che a livello economico ha sempre promosso ricette e formule, semplificando, para-socialiste. La destra (più o meno sociale) non è affatto mancata nell’Italia repubblicana e non è stata neppure tanto una minoranza (sebbene mai maggioranza).

Solo nella cosiddetta Seconda Repubblica ce ne sono state addirittura tre: una postfascista, corporativista, antiliberale, nazional-statista (l’ex Movimento Sociale, poi Alleanza Nazionale, oggi Fratelli d’Italia); una leghista, protezionista, localistica, secessionista, anti-nazionalistica prima (Lega Nord 1987-2012) e nazionalista e a tratti xenofoba poi (Lega 2013 oggi); una berlusconiana, confusamente colbertista, a parole liberale, vagamente post-democristiana, antistatalista, affaristica (Forza Italia 1994-2008, Popolo della Libertà 2008-2013, Forza Italia 2013-oggi?).

A sua volta, la destra (di nuovo, più o meno sociale) va distinta dal “conservatorismo”. Secondo Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 1° ottobre 2016), «cultura conservatrice vuol dire identificazione ragionata con il lascito del passato, con gli edifici, il passaggio e i costumi di un luogo, l’attaccamento ai valori ricevuti […]; e poi senso delle istituzioni, considerazione non formale per i ruoli, i saperi, le competenze, rispetto delle regole.»

In tutto questo, c’è poco di liberale, ma un ponte primordiale con tale micro-universo politico lo aveva gettato nel 1972 nel Manifesto dei Conservatori Giuseppe Prezzolini, secondo cui «il Vero Conservatore si guarderà bene dal confondersi con i reazionari, i retrogradi, i tradizionalisti, i nostalgici, perché il Vero Conservatore intende “conservare mantenendo”, e non tornare indietro a fare esperienze fallite». In questo paradossale “progressisimo”, è vicino al liberale. Il conservatore può essere moderno e molto vicino a quest’ultimo (come ha spiegato proprio von Hayek). I due non sono incompatibili.

Una figura controversa nel mondo tradizionalista come Giovannino Guareschi scrisse ad Alcide De Gasperi sintetizzando bene alcuni elementi liberal-conservatori: «Siamo noi, […] noi cittadini liberi […] Noi che siam […] cristiani pur rifiutando sdegnosamente di metterci in testa papaline colorate, noi che sentiamo la necessità di una migliore giustizia sociale ma che mai accetteremo di fare alcunché di demagogico. Noi che per vivere dobbiamo lavorare duramente come l’ultimo dei proletari ma abbiamo l’orgoglio di essere borghesi. Noi che siamo per l’ordine ma che odiamo ogni tipo di dittatura. Noi che siamo per il trionfo dell’individuo ma non ammettiamo il divismo. Noi che abbiamo orrore della guerra ma che non ci siamo mai sottratti […] ai nostri doveri di cittadini […] Noi che sosteniamo il diritto di scioperare ma che non abbiamo scioperato mai […] Noi che vogliamo il trionfo dei nostri diritti ma ci preoccupiamo, prima di ogni altra cosa, di fare il nostro dovere.» (Il Candido, 1948, riportato da Bombardate Roma! di Mimmo Franzinelli).

Interessanti considerazioni su cosa sia un conservatore oggi – e quest’ultimo va conosciuto e studiato per differenziarlo dal liberale – le ha fatte Gian Enrico Rusconi nel suo Dove va la Germania?, in cui ha stabilito chiaramente le differenze tra il mondo conservatore e quello della destra (sociale): «Il conservatore sa che il cambiamento generale non può essere impedito: vuole dare forma a questo cambiamento. Il tradizionalista decide che tutto deve rimanere com’è. Il reazionario vorrebbe far tornare indietro la ruota del cambiamento. Il conservatorismo non conosce verità eterne, al contrario: […] difende oggi quello che ieri ha combattuto». Cosa che non è del tutto estranea all’immoderatezza, all’anticonformismo e all’effervescenza liberale.

A dispetto di quanto afferma chi lo identifica come populista, «il conservatore accetta la pluralità delle culture e la loro coesistenza. Quello di destra invece è un modo di pensare che mette al primo posto la (presunta) omogeneità del proprio gruppo, ed è indifferente verso le altre culture e forme di vita finché non interferiscono con la propria»; parliamo dei nazionalisti-populisti, o altrimenti detti, sovranisti. Profondamente collettivisti e, come tutti i collettivisti (di destra e di sinistra) – seguendo Ayn Randrazzisti.

Non da ultimo, continua Rusconi, «una differenza fondamentale tra conservatori e destra sta nel linguaggio. I conservatori sanno che molte delle loro richieste […] non trovano consenso maggioritario, ma non per questo recriminano parlando di “terrorismo” nei loro confronti o di “stampa bugiarda”, quando le loro opinioni non sono accolte. Un vero conservatore considera l’ordinamento liberale della società un valore in sé e la difesa più grande contro i tentativi autoritari.» Un conservatore è moderato individualista (lo è anche il liberale); un nazionalista è un estremista collettivista. I ponti tra liberali e conservatori ci sono. I liberalconservatori esistono.

 

Sindacati: violenze spacciate per libertà?

Se ripercorriamo la storia italiana, ma anche estera, possiamo notare come la violenza sia qualcosa di illegale per chiunque. Almeno apparentemente. Dipende, come ti chiami. Se ti chiami Sindacato, magari la violenza diventa espressione di libertà , di bontà. Magari è lo Stato a considerare positivo l’atteggiamento altamente pericoloso del Sindacato. Prima di continuare, avviso il lettore che mi riserverò di inserire qualche parte del celebre testo “Come si rovina un paese”, scritto da Sergio Ricossa.

[…] (1969, ndr) Il PCI e i sindacati chiedono e ottengono. La Confindustria concede alla Triplice sindacale l’abolizione delle zone salariali, verso una eguaglianza delle paghe e la caduta degli steccati tra operai e quadri. Da parte sua, il governo vara uno “Statuto dei lavoratori”. Dovrei essere lieto dello statuto: sono anch’io un lavoratore. Ma vi vedo dei semi antidemocratici, come sempre quando non si tutela il cittadino, ogni cittadino, ma solo un cittadino particolare (non importa se frequente e benemerito come il lavoratore). Tanto più che all’interno della categoria si scorge qualche lavoratore più previlegiato degli altri, fino al vero e proprio innalzamento del sindacalista sopra il livello del cittadino comune.

L’Articolo 39 della Costituzione italiana annuncia che “L’organizzazione sindacale è libera”. Quella che poteva rivelarsi una risposta storica al Fascismo, periodo in cui vennero sciolti o ridimensionati dall’estremo controllo dello Stato Corporativista Fascista. Ma quella che poteva rivelarsi una vittoria della libertà di associazione, almeno per i costituenti, non pare abbia avuto un percorso di continuità, all’insegna della libertà. Probabilmente siamo andati molto più oltre. L’impressione è che il sindacato abbia acquisito un potere superiore; un potere ancora maggiore rispetto a quanto previsto dalla Costituzione: questo lo possiamo riscontrare anche da certe leggi e certe politiche, non solo italiane.
In Gran Bretagna nel 1906 venne approvato il Trade Dispute Act che permetteva “al sindacato l’esenzione della responsabilità civile”. Negli Stati Uniti, nel 1932, approvando il Norris-La Guardia Act, si annunciò che il sindacato aveva tra le mani “l’assoluta immunità per trasgressioni compiute”. In Italia, lo Statuto dei Lavoratori non era solo lo statuto che legittimava certi diritti dei lavoratori, ma esaltava la figura, oltre ogni limite, del Sindacato.

[…] Mi correggo: il danno peggiore sarà morale, non economico. Nelle fabbriche si è imparato che la violenza paga. Gli industriali si sono umiliati fino a riassumere col tappeto rosso i picchiatori di chi tentavano di sbarazzarsi. E sovente si trattava di lavoratori che picchiavano altri lavoratori, capi-squadra, capi-officina. Nelle scuole, idem. Violenza significa meno studio, promozioni più facili.

Risultato? Da “libertà di associazione”, specie nel corso degli anni Settanta, siamo passati da l’obbligo onnipresente dei sindacati. Il dato allarmante è che la presunta libertà di associazione sindacale, ormai coercitiva e dannosa, viene legittimata dallo Stato e dall’opinione pubblica. Ma la domanda mi sorge spontanea: perché dovrebbero esistere senza consultare il parere dei singoli lavoratori? Perché quest’ultimi devono essere necessariamente ridimensionati e demoliti, in senso figurato. Che si tratti di un lavoratore o di un gruppo di lavoratori, è legittimo e normale tutelare la propria figura e la propria posizione. Si tratta di negoziare. Negoziare è libertà, come la libertà di contratto. Ma non è così normale che lo Stato imponga l’obbligo di un sindacato, non è così normale che il Sindacato debba partecipare solo perché è così dappertutto. Quasi a volere trovare, per forza, il pelo nell’uovo per far notare come i sindacati siano davvero dalla parte dei lavoratori. Quando lo Stato legittima la presenza del Sindacato non vuol dire che sta garantendo un diritto dei lavoratori, ma sta mettendo in condizione essi di poter fare quello che vuole, anche “picchettare”. Talvolta, agendo con pregiudizio.

[…] Il parlamento approva lo Statuto dei lavoratori, peggiorandolo o migliorandolo secondo i punti di vista. Esiste ormai una specie di presunzione di colpevolezza giuridica del datore di lavoro, sempre per la gioia dei “pretori d’assalto”, quelli dedicati ad assaltare il capitalismo.

Oggi i sindacati sono in palese declino. Eppure il rapporto con l’opinione pubblica risulta di alti e bassi. Seppur in alcuni casi i cittadini abbiano spesso rimproverato o denunciato certi comportamenti dei sindacati, l’impressione è che lo stesso cittadino non metta per nulla in discussione l’attuale posizione giuridica di questo istituto. La sensazione, forse errata o magari no, è che i sindacati abbiano sempre sofferto di quell’ansia di perdere appettibilità dinanzi ai lavoratori. Con il crescente declino, anche una “vertenza sindacale” – nata allo scopo di evidenziare una contrarietà rispetto alle retribuzioni o alle condizioni d’impiego -, sembra che venga adottata allo scopo di “farsi pubblicità” di fronte all’opinione riluttante. Nessuno riflette sul fatto che i sindacati, specie in Italia, siano tra i principali responsabili del declino economico. A tal proposito, sui danni dal punto di vista economico, ne parlerò un’altra volta.

Il potere coercitivo (e distruttivo) dei sindacati, oltre che infangare e calpestare qualsiasi principio di libertà, costituisce un puro danno per i lavoratori stessi. In primo piano, scusandomi per la banalità, coercizione verso il datore di lavoro, vuol dire anche coercizione nei confronti del lavoratore. Esercitare azioni coercitive limita la responsabilità del lavoratore, ma, soprattutto, lo ridimensiona. Anche lo stesso diritto di sciopero. Perché considerarlo diritto inalienabile dell’individuo se, nella maggior parte dei casi, il lavoratore è pressoché costretto a scioperare? Diversamente rischierebbe di lavorare in un ambiente ostile, in quanto i colleghi lo potrebbero considerare un “nemico”, qualcuno che non sta “dalla stessa barricata”.

(1963, ndr) Finalmente la Confindustria firma l’accordo sui metalmeccanici. Ma con l’aggiunta dei contratti integrativi aziendali ai contratti nazionali, i sindacati hanno raggiunto lo scopo di firmare la pace per poter ricominciare a combattere più di prima.

In sostanza, da libertà di associazione sindacale, siamo passati a legalizzazione di qualsiasi comportamento sindacale, seppur quelli estremamente penalizzanti nei confronto del prossimo. Ma i danni dei sindacati non si limitano a questo. Oltre alla sua libera attività coercitiva, ci sono ulteriori danni. Ma di questo ne riparleremo in un’altra occasione.

Paradisi fiscali: non parassiti, ma simbionti

Sul tema dei paradisi fiscali il dibattito è distorto come pochi altri: dall’accusa di parassitismo alla richiesta di un’imposta minima globale gli agitatori sono sempre e comunque rappresentanti o di paesi dalla tassazione altissima come Italia e Francia o di un’ala politica economicamente a sinistra.

Specialmente in un periodo di crisi queste voci si fanno più pressanti, ma c’è un motivo se nessun decisore politico ha effettivamente cercato di porre fine a regimi speciali di tassazione in altri paesi, specie in quelli dove vi è trasparenza e l’unico vero discriminante è la tassazione più bassa: i paradisi fiscali non solo stimolano la crescita economica nel mondo riducendo la tassazione ad imprese e persone, ma lo fanno anche nei paesi che si vedono “sottratti” aziende e gettito fiscale; di seguito, mostreremo come l’opposizione alla concorrenza fiscale non sia supportata da alcun dato empirico ma abbia solo motivazioni politiche, sfatando il luogo comune che i cosiddetti paradisi fiscali agiscano da parassiti nei confronti di giurisdizioni più fiscalmente onerose.

Da uno studio di Desay, Foley e Hines si evince che la presenza di paradisi fiscali in una regione promuove da un lato la riduzione dell’imposizione fiscale (che sappiamo stimola crescita economica), dall’altro stimola la crescita di vendite ed investimenti (variabili chiave per lo sviluppo di breve e lungo termine) proprio nei paesi non-paradisi. Più che di relazione parassitica dunque ha senso parlare di relazione complementare.

Un altro fattore che promuove la crescita economica è la profondità finanziaria (ossia la dimensione di banche, istituzioni finanziarie e mercati finanziari in un paese) come mostra la World Bank. La vicinanza a paradisi fiscali (Offshore Financial Centers come Lussemburgo e Svizzera) promuove la concorrenza bancaria e la profondità finanziaria, come mostrato da Rose e Spiegel: componenti che riducono il danno dell’eccessiva regolamentazione del comparto bancario grazie al quale oggi gode di sostanziose rendite economiche.

Di recente l’OCSE, che ha lanciato l’iniziativa per contrastare pratiche fiscali dannose sotto il nome di Action 5 BEPS non ha trovato dannose le pratiche fiscali di paesi come Lussemburgo, Paesi Bassi, Irlanda, Malta e Liechtenstein (comunemente menzionati come paradisi fiscali), i quali non compaiono nemmeno nella lista nera di paradisi fiscali non-cooperativi dell’Unione Europea (che è sicuramente un’organizzazione più politica), sfatando ulteriormente l’idea che i soli regimi fiscali più favorevoli rechino danno all’economia mondiale.

Insomma: se in passato paradiso fiscale era sinonimo di poca trasparenza, possibile riciclaggio di denaro e sperduti atolli, oggi sembra essere diventato un capriccioso: “qualunque paese che non ha tasse alte è un paradiso fiscale”, tipico approccio ideologico di chi è economicamente a sinistra.

Ma allora da dove derivano le fonti secondo le quali i paradisi fiscali rechino danno ai paesi “vittima” e debbano essere eliminati? Un’ONG britannica chiamata Tax Justice Network, il cui nome non fa trasparire proprio nulla d’imparziale, è alla base della maggior parte della ricerca anti-paradisi fiscali, analizzando il gettito fiscale sottratto ai paesi non-paradisi per promuovere la battaglia ai regimi fiscali più vantaggiosi. Eppure quando il TJN sostiene di aver screditato gli effetti positivi della concorrenza fiscale l’unica fonte è un link ad un sito chiamato Fools’ Gold che non funziona e sembra essere in disuso: le restanti fonti sono autoreferenziali e non hanno fondamenta accademiche. Insomma, gran parte delle proposte fiscali di questa organizzazione hanno ragioni puramente politiche e non giustificabili sotto alcun profilo economico.

La quantità di disinformazione sulla concorrenza fiscale è mastodontica, prestata a ragioni politiche ma che si scontra con la dura realtà e spiega perché nessun decisore politico e nessuna accademia abbia mai seriamente perseguito obiettivi di uniformazione fiscale. Ovviamente anche dal lato morale ci sono grosse riserve: le aziende e le persone non sono di proprietà dei burocrati che compongono un governo e nessuna giustificazione politica (che come dimostrato non ha nemmeno fondamenta pragmatiche) può cambiare questo principio.

Insomma: se la disonestà e l’ignoranza in materie sociali vengono spesso attribuite ai conservatori, quelle in materie economiche sono proprie, come sempre, dei progressisti e dei socialisti.

Fonti:

Effetti regionali sui paradisi fiscali:
https://www.nber.org/papers/w10806

Profondità finanziaria ed effetti dei paradisi fiscali: https://www.nber.org/papers/w12044
https://www.worldbank.org/en/publication/gfdr/gfdr-2016/background/financial-depth

OCSE: https://www.oecd.org/tax/beps/beps-actions/action5/

Blacklist EU: https://www.consilium.europa.eu/en/policies/eu-list-of-non-cooperative-jurisdictions/

Tax Justice Network e assenza di fonti peer-reviewed: https://www.taxjustice.net/faq/tax-competition/

 

Omosessualità e (è) libertà

Uno dei temi a me più cari è l’omosessualità, un tema sicuramente bistrattato da tutto l’arco politico, con ovvi fini politici nella maggior parte dei casi, se non personalistici in altri. Dal 1968, tra i vari temi sessantottini vi è stata anche la “riscossa” dell’omosessualità, che portò sicuramente i suoi frutti, come la rimozione della stessa dall’elenco delle malattie mentali da parte dell’OMS, anche se solo nel 1990.

La sensazione che ho, è che le sinistre nel mondo occidentale, specie quelle d’ispirazione sessantottina, abbiano preso in mano il tema, e l’abbiano “collettivizzato” creando una sorta di categoria da salvaguardare come fa il WWF. Ma andiamo all’origine.

Omosessualità significa l’attrazione per il proprio sesso e non per quello opposto (eterosessualità). Attrazione quindi significa istinto. Questa precisazione viene fatta di fronte ai molti che parlano di scelta. Non si sceglie il proprio orientamento sessuale.

L’orientamento sessuale indica verso chi si è attratti: 1) verso il proprio sesso (omosessualità), 2) verso il sesso opposto (eterosessualità) 3) verso entrambi i sessi (bisessualità).

Non sono un medico, ma come afferma il consenso della comunità scientifica, nessuno sceglie il proprio orientamento sessuale. Si sceglie il partner ma non l’orientamento. Questo è già un primo punto importante in quanto molti parlano di scelta quando parlano di omosessualità (non lo è).

Se analizziamo la storia, le culture, le religioni, le idee politiche, in generale l’omosessualità viene “mal dipinta” per il semplice fatto che una coppia omosessuale non genera figli. Dalla Preistoria all’etá contemporanea, i numeri facevano la forza.

Chi non “procreava” non aiutava quindi la specie a riprodursi, un comportamento deleterio alla comunitá seguendo la mentalitá di allora, una mentalità che è rimasta da noi fino a poco tempo fa, e che è ancora attuale in tanti paesi in via di sviluppo, o in societá in cui vi è ancora una forte componente umana nel lavoro. Da qui capiamo come mai l’omosessualitá spesso non sia stata accettata nella storia.

Considerando che siamo 7 miliardi di persone, oltre che la sostenibilitá del pianeta Terra stesso, porci il problema sul non procreare mi sembra ridicolo. Sfortunatamente, uno dei temi in voga nella cerchia conservator-sovranista, è il fare piú figli per non essere sostituiti da immigrati, un’idea ridicola ma che prende piede nelle fasce piú povere e ignoranti della popolazione.

L’obiettivo di queste poche righe non è tanto il capire perchè sia invisa l’omosessualitá (questione di educazione ricevuta ed ignoranza), ma di come sia stata manipolata da chi, a ragion sua, vorrebbe rappresentare e portar avanti “la causa” omosessuale.

La mia critica parte a livello linguistico. Negli anni Settanta, a New York alcuni omosessuali decisero di farsi chiamare in maniera diversa: Gay. La parola omosessuale (Homosexual, Homo o Homosexuality) era una parola usata allora in campo medico, cercare una parola alternativa per dimostrare di non essere malati sicuramente ha un senso. Ma cosa significa in realtá Gay?

Gay era l’aggettivo (in italiano gaio) usato nell’Inghilterra di un secolo fa, per descrivere non tanto l’orientamento sessuale, quanto l’atteggiamento di una persona piú simile al sesso opposto. Ovvero, quando un uomo era femmineo o quando una donna era mascolina. Vi è un abisso tra l’atteggiamento e l’orientamento, e se a volte possono essere collegati, non significa lo siano sempre.

Il salto da Gay a LGBTQRSTUVZ… è stato semplice e veloce, peccato che non voglia dire nulla. Ogni lettera sta per una sigla, e prendendo il caso piú semplice, orientamento sessuale e disforia di genere (il non riconoscersi nel proprio genere sessuale biologico) non sono per nulla legati, ergo fare un cartello, una coalizione da tornata elettorale, una sigla di tante cose diverse non ha nessun senso, anzi dimostra una mentalitá collettivista tipica della sinistra d’ispirazione sessantottina.

Non è un caso che si parli di diritti. Ma quali diritti dovrebbe avere un omosessuale? Siamo tutti esseri umani, ed essere omosessuali non toglie l’essere umani. Il cosidetto movimento “omosessuale” ora LGBTQRSTUV… ha lottato per far passare il concetto di “accettare la diversitá” o “uniti nelle differenze”. Il problema è che non sono queste le differenze che contano.

Cosí sinistra e “movimenti vari” hanno creato delle categorie in cui essere classificati, relegando le stesse in riserve protette come gli Indiani del Nord America. Cosa ovviamente fatta anche per tante altre “categorie” create ad hoc dal sessantottismo.

Una persona omosessuale, non vuole una dimensione per se, bensì vuole vivere normalmente nella comunitá in cui si trova senza esser vista come “diversa”.

Mi voglio soffermare quindi su cos’è il diverso. Il diverso oggettivamente non esiste. La diversitá è soggettiva ed è rappresentanta da ciò che noi riteniamo diverso rispetto a come siamo, o all’idea di normalitá trasmessaci fin da piccoli nell’ambiente in cui eravamo.

Ovviamente, crescendo in un ambiente in cui l’eterosessualitá è considerata la normalitá e l’omosessualitá una devianza (o peggio una perversione), l’omosessualitá e gli omosessuali saranno sempre derisi (se va bene), e la persona omosessuale sará sempre a disagio ad un livello tale da scegliere se lasciare qualla comunitá, quella dimensione, oppure “essere eterosessuale” per adattarsi alla comunitá stessa (salvo poi andare in cerca di un partner secondo il proprio orientamento sessuale, anche solo per soddisfare bisogni fisiologici).

Quindi chi si dipinge come a favore degli omosessuali in realtá continua a ritenerli “diversi” e dà manforte a chi giá li vede come deviati, trattandoli come persone da tutelare in maniera speciale, e quindi alimentando la diversitá (da qui la dannositá dei vari Hate Speech o Hate Crime).

L’aver creato, in Italia, un istituto giuridico ad-hoc per regolamentare l’unione tra coppie omosessuali, invece di rimuovere i vincoli di genere nella giá presente legislazione su matrimonio e adozione ne è un esempio.

In realtá ad una persona omosessuale non fa male l’offesa legata al proprio orientamento sessuale, neanche qualche barzelletta o risatina. Ciò che fa realmente male è sentirsi chiedere se si ha un partner del sesso opposto, sentendosi quindi dei “diversi”, delle persone al di fuori della normalitá, e ciò fa male perchè chi normalmente porge la domanda non lo fa con l’intenzione di offendere, facendo sentire quindi la persona omosessuale ancora piú fuoriluogo.

Tornando alla questione dei diritti, non esistono i diritti degli omosessuali. Una persona omosessuale vuole poter vivere la propria vita con una persona dello stesso sesso, ergo non si tratta di diritti ma semmai di libertà negate e di discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale.

Essere genitori o coniugi non è un diritto, è una libertà. La libertá di poter costruire una famiglia stando con chi si voglia, e di poter crescere dei figli qualora lo si voglia.

Non esiste la famiglia tradizionale o l’esser contro natura. La natura o meglio la biologia, ci dice che per procreare ci vogliono due persone del sesso opposto. Ma la natura e la biologia non vietano di poter adottare e crescere un bambino. La tradizione è una cosa soggettiva, non esiste una tradizione oggettiva. La famiglia tradizionale non vuol dire nulla, perchè l’idea di famiglia è soggettiva, ed ognuno di noi è libero di avere la famiglia che piú preferisce.

Personalmente credo che, finché c’è amore e consensualitá, limiti non dovrebbero essercene.

Da adottato, posso assicurare che adottando un bambino gli si dà una famiglia, che sará sempre meglio di un orfanotrofrio, inoltre gli si dà una possibilitá economico-sociale di riscattarsi dall’esser orfano e nullatenente. In giro per il mondo ci sono tanti bambini che attendono una famiglia, ed i bambini che di preconcetti ne hanno pochi, sono sicuramente piú puri di noi adulti e sanno apprezzare l’amore indipendentemente da chi venga.

Una persona omosessuale non vuole né diritti (come li chiamano a sinistra) né capricci (come li chiamano a destra). Una persona omosessuale vuole solo la libertá di poter vivere la propria vita come meglio crede.

Si è liberi di scegliere le persone cui frequentare, e se “possono fare schifo” gli omosessuali, si è liberissimi di non frequentarli. Ben diverso è il limitare la libertá di un individuo per proprie convizioni personali (l’omosessuale fa schifo, l’islamico è pericoloso, ecc.), quello da liberale non posso tollerarlo, e mi batterò per la libertá di chi la pensa in modo diametralmente opposto rispetto a me.

Credo che la conclusione piú adatta sia auspicare un mondo in cui non esista normalitá e diversitá, un mondo in cui non si venga considerati/valutati per l’essere o no nella media. Siamo tutti diversi perchè pensiamo diversamente, ma allo stesso tempo siamo tutti uguali in quanto esseri umani.

Dare meno per scontato cosa sia una persona, e lasciare la libertà di vivere come meglio piaccia, è la base per un mondo libero, il mondo in cui credo.

 

La bufala dei tagli alla sanità

Molto fastidiosa è una continua balla che continua a imperversare sul web, che prende forma tra i più svariati post e meme e indigna l’intera popolazione italiana: quella dei presunti tagli alla sanità.
Procediamo.

Un mare di spese

Smentiamolo definitivamente: la spesa sanitaria negli ultimi 20 anni è solo aumentata. E non di poco.

Dal 2000 al 2018, la spesa del SSN è aumentata da circa 66 miliardi a 116 miliardi. Un + 60%.
Ma non solo. Come vediamo dal grafico anche considerando le spese al netto dell’inflazione la spesa è aumentata del 20% in 20 anni, con una flessione negli ultimi 10 anni.
Nonostante ciò, son previsti aumenti di spesa fino a 121 miliardi totali nel 2021. Ciò significa che considerando tutta la popolazione italiana, dal bambino fino all’anziano, tutti hanno un macigno di 2000 euro annui di tasse a testa solo per la sanità. Ora, provate a caricare questi costi solo alla popolazione che realmente produce e traetene le conclusioni.
Rimarrete sorpresi del fatto che la sanità italiana non solo non sia gratis, ma che costi un bel po’ a tutti noi.

In ogni caso, la bufala dei tagli alla sanità corre perchè i nostri canali d’informazione più che informazioni sono soliti a somministrare propaganda, e confondono i tagli alla spesa attuale con quella prevista.

I tagli alla previsione di spesa

Quelli che effettivamente sono tagli, riguardano i finanziamenti previsti. Non si è rispettata la cosiddetta spesa tendenziale.
Cioè, per intenderci, tu guadagni 10, arriva mamma Stato che ti promette 20, ma in realtà te ne da 10.
Il tuo guadagno ora è 20.

In questo caso, negli ultimi 10 anni sono stati tagliati 37 miliardi che lo Stato doveva fornire in più alla sanità, e che non si è potuto permettere in seguito alla grave crisi economica dopo gli eventi del 2008.
Questa sottile ma fondamentale differenza, ha mandato nel pallone la popolazione credulona che in buona fede si fida dei canali d’informazione, che spesso sono i primi propagatori di fake news.

I veri tagli sono stati altrove, ma di indirizzo puramente strategico.

I tagli reali alla sanità

Quelli che sono stati tagliati sono i posti letto, che sono passati da 311 mila del 1998 a 225 mila nel 2017, e i posti in terapia intensiva:

Perchè ciò è avvenuto nonostante le spese siano aumentate?
Il primo motivo è perchè le degenze sono diminuite. Se prima ti sbucciavi il ginocchio e rimanevi in ospedale per 5 giorni, ora per una questione di efficienza ospedaliera ti dimettono appena ragionevolmente possibile.
Il secondo motivo, è che per assistere al meglio una popolazione sempre più anziana(e contenere i costi) si è scelto di finanziare e potenziare soprattutto le reti di assistenza territoriale. Una persona anziana non più autosufficiente, è meglio che venga curata a casa sua piuttosto che non in ospedale, dove anche il rischio di esposizione a batteri e virus portati da altri pazienti è maggiore.
Come vedete, sono scelte puramente strategiche.

Nota finale, sono stati contenuti i LEA, cioè i trattamenti sanitari gratuiti. Questo per il semplice fatto che la sanità è un buco mangia soldi continuo ed assolutamente insostenibile, e se gli sprechi non sono già evidenti, ne avremo testimonianza i prossimi anni.

Conclusioni

Con questo articolo speriamo di dare una spallata a questa fake news, per concentrarci sui veri problemi e su come risolverli.
Il miglior antidoto a notizie false, è non credere mai fino in fondo a ciò che vi viene detto.
Ascoltare, ma con spirito critico.

Per quanto riguarda le soluzioni a questa situazione, sappiate che è una sola:

Privatizzazione della sanità.

Per approfondire, andate qui e qui.


Fonti:

La riduzione di ospedali e posti letto negli ultimi 10 anni – Agi
Il Monitoraggio della spesa sanitaria – Ragioneria Generale dello Stato

Seretse Khama: il più grande statista africano del XX secolo

Chi è stato il più grande statista africano del XX secolo? Per i progressisti potrebbe essere stato Nelson Mandela, per i comunisti Robert Mugabe, per altri (sperabilmente pochi) Muammar Gaddafi o Idi Amin. Per un liberale, invece, non ci sono dubbi: questo posto d’onore spetta a Seretse Khama, presidente del Botswana dal 1966 al 1980.

Il background personale di Khama è ben diverso da quello dei leader politici africani suoi contemporanei: nato in una delle più influenti famiglie reali dell’allora Protettorato britannico del Bechuanaland, Seretse Khama raggiunse la fama mondiale rinunciando al suo trono per sposare una cittadina inglese, Ruth Williams, suscitando così lo sdegno dei segregazionisti bianchi nel confinante Sudafrica e dei nazionalisti africani nel suo Paese natale.

Tuttavia, è stata la sua carriera politica, non la vita privata, a rendere Seretse Khama una figura memorabile. Infatti, dopo l’abdicazione ed il conseguente esilio, egli tornò nel suo Paese d’origine e fondò il Partito Democratico del Botswana. Nel 1966, quando il Botswana conquistò l’indipendenza, Khama venne eletto Presidente della neonata Repubblica.

Fin qui, niente di speciale: il Botswana nel 1966 era una nazione africana come tante altre, povera ma ricca di risorse, soprattutto diamanti, rame ed uranio. Altri Stati africani sono rimasti così ancora oggi, con una casta di burocrati e militari al governo che si arricchisce con gli aiuti internazionali e lo sfruttamento delle risorse naturali, mentre i cittadini muoiono di fame. Ma Seretse Khama non era un leader come tanti altri.

A differenza della quasi totalità dei suoi colleghi contemporanei, Khama non aveva alcuna simpatia per il socialismo e per il nazionalismo africano. Egli infatti, a differenza di un Nkrumah o di un Mugabe, era convinto che, per riparare i danni del colonialismo europeo e proiettare l’Africa verso il futuro, rigettare in toto ogni aspetto della cultura occidentale, compresi quelli positivi, fosse controproducente.

Pertanto, mentre i leader politici di quasi tutte le nuove nazioni africane indipendenti scelsero come modello da imitare quello del principale nemico dell’Occidente di allora, cioè l’Unione Sovietica (modello che prevedeva un sistema politico monopartitico ed un’economia pianificata), Seretse Khama decise di basare lo sviluppo del Botswana su due capisaldi della cultura occidentale, la democrazia liberale ed il capitalismo di libero mercato.

In Ghana, il presidente a vita (e vincitore del Premio Lenin per la pace) Nkrumah fissò come obiettivo ultimo del suo governo quello di porre ogni aspetto della vita economica del Paese sotto il controllo dello Stato. Quando nel 1966 Nkrumah venne deposto, solo 4 delle 64 imprese nazionalizzate dal suo governo non erano in passivo[1].

Al contrario, il governo di Khama promosse politiche business-friendly per favorire lo sviluppo dell’imprenditoria e gli investimenti, come per esempio basse imposte sulle imprese, basse imposte sul reddito e bassi dazi sulle importazioni. Quando Khama salì al potere, la stragrande maggioranza della popolazione viveva di pastorizia ed agricoltura di sussistenza. Oggi, con un PIL pro capite di oltre 18000 dollari, il Botswana è il quinto Paese più ricco del continente africano[2] (con l’Egitto all’ottavo posto, ed il Sudafrica al settimo).

Dal punto di vista delle relazioni etniche, il Botswana di Khama è un caso più unico che raro nella storia contemporanea dell’Africa. In Sudafrica, il regime segregazionista dell’apartheid è sopravvissuto fino agli anni Novanta. Nello Zimbabwe, il governo di Mugabe ha perseguitato apertamente la minoranza bianca. Seretse Khama, invece, ha costruito una nazione in cui il merito, non le origini, determina il successo di una persona.

Per questo, sebbene molti premessero su di lui per far espellere dal Paese tutti i funzionari, i professionisti e la manodopera specializzata di origine straniera, per sostituirli con autoctoni (non importa quanto incompetenti), Khama restò fermo sulle sue posizioni: i talenti di origine non africana avrebbero conservato i loro posti, finché gli autoctoni non fossero stati sufficientemente istruiti per competere per lo stesso lavoro.

Per assicurarsi i fondi per modernizzare il Botswana, Khama non espropriò le ricchezze dei bianchi, né chiese aiuti alla comunità internazionale, bensì stabili accordi commerciali con la De Beers per lo sfruttamento delle risorse minerarie del Paese. Dalla partnership fra il suo governo e la De Beers nacque una nuova azienda, la Debswana[3].

Grazie alla propria quota dei profitti della Debswana, il governo del Botswana si assicurò un ingente afflusso di fondi nel corso degli anni. Tuttavia, al contrario di altri Paesi come il Venezuela, il Botswana non fu colpito dalla “maledizione delle risorse”.

Infatti, tutto questo denaro non venne speso solamente in programmi di welfare, per ottenere prosperità a breve termine e consensi politici, bensì venne investito soprattutto nell’istruzione (per formare una forza lavoro altamente specializzata) e nello sviluppo delle infrastrutture, così da assicurare all’economia del Paese una crescita a lungo termine.

Anche sul piano della politica estera, Khama raggiunse importanti risultati. Durante il suo governo, il Botswana si mantenne strettamente neutrale nella Guerra Fredda, senza però rinunciare ad esercitare una certa influenza politica. In particolare, Khama ebbe un ruolo fondamentale nei negoziati che sancirono la fine del regime segregazionista della Rhodesia, e fu uno dei padri della “Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale”[4].

Seretse Khama, dopo essere stato rieletto tre volte come Presidente del Botswana, morì infine di cancro nel 1980. Nei suoi quasi 15 anni di governo, il Paese divenne l’economia più rapidamente in crescita al mondo[5].

Grazie ai principi della democrazia liberale e del capitalismo di libero mercato, il Botswana di Khama diventò un’isola di prosperità in un mare di povertà, un’oasi di governo snello ed efficiente in un deserto di corruzione, una terra di opportunità senza discriminazioni in un continente devastato dalle tensioni etniche e religiose.

Quella di Seretse Khama e del suo Paese, tuttavia, non dev’essere vista solo come una gloria del passato, bensì come una strada verso il futuro. Dopo la sua morte, altri hanno costruito sul suo lavoro, ed ancora oggi il Botswana si presenta come un Paese più unico che raro in Africa.

Ma, e questa è la cosa più importante, non dev’essere per forza così per sempre. Gli africani hanno il diritto ed il dovere di chiedere per sé stessi e per i loro figli quello che Seretse Khama è riuscito a dare ai suoi concittadini.

Tuttavia, non devono farsi illusioni. Per imitare e superare i risultati raggiunti dal Botswana su scala continentale, non sarà sufficiente un solo Khama, bensì milioni di Khama. Gli africani dovranno abbandonare le false promesse del socialismo e del nazionalismo, che sono costate loro mezzo secolo di sofferenze non minori di quelle dovute al colonialismo, per ricostruirsi un futuro. Sembra un’impresa difficile, e lo sarà, ma come mostra la storia del Botswana non è solo possibile, è già successo.

[1] https://youtu.be/ZUBXW6SjuQA

[2] https://www.worldatlas.com/articles/the-richest-countries-in-africa.html

[3] http://www.brandbotswana.co.bw/about/

[4] https://www.sahistory.org.za/people/president-seretse-khama

[5] http://www.thuto.org/ubh/bw/skhama.htm

Perché fissare un prezzo per le mascherine ne favorirebbe la scarsità

Sta cominciando a circolare tra i ranghi del governo l’idea di voler fissare un prezzo per le mascherine. Il dito della mano pubblica questa volta è puntato contro i cosiddetti speculatori, che starebbero vendendo le mascherine a un prezzo troppo elevato. Ma il prezzo, in un’economia di mercato, non è definito in base a un aprioristico senso del valore, ma è il risultato di una precisa condizione di ordine spontaneo che ne porta a contrastare la scarsità. Si chiama legge della domanda e dell’offerta aggregata.

Senza inerpicarsi in concetti economici che possono risultare astrusi ai più, è possibile far notare a coloro che pensano che sia utile e giusto fissare un prezzo per le mascherine quanto invece questo possa essere dannoso, senza conoscere necessariamente il funzionamento dell’economia.

Basti pensare ai I promessi sposi di Alessandro Manzoni, che nel bene o male abbiamo tutti studiato. Durante la carestia causata da un’epidemia di peste, nel 1630 la scarsità del grano aveva portato il prezzo del pane alle stelle. Buona parte della popolazione, poco istruita, credeva che il prezzo alto fosse causato non dalla scarsità del prodotto, ma dall’avidità dei fornai e che questi volessero speculare sui bisogni del popolo.

Il popolo cercò di spingere le autorità a fissare un prezzo al pane, al di sopra del quale non poteva per legge essere venduto. Essendo il pane in quel momento un bene scarso, il prezzo che andava assumendo non rifletteva altro che le sue condizioni di scarsità. Fissare un prezzo basso non avrebbe affatto aumentato la quantità del pane prodotto, bensì ne avrebbe favorito la scarsità in quanto minore è il prezzo di un bene e maggiore è la quantità venduta. Esattamente il motivo per cui la curva di domanda ha un’inclinazione negativa.

Se ricordate I promessi sposi, sapete com’è andata a finire. Il popolo assalta i forni ma rimane a secco comunque, perché il pane non basta per tutti. Inoltre i forni sono stati saccheggiati e i fornai non potranno più produrre neanche quel poco pane che prima producevano.

Economicamente parlando, essendo il prezzo dato dall’intersezione tra la curva di domanda e quella di offerta, quanto sopra descritto è ciò che accade quando la curva di domanda di un bene rimane invariata, mentre quella dell’offerta si sposta verso sinistra. L’offerta diminuisce a parità di domanda. Quello che si crea è un eccesso di domanda rispetto all’offerta, e questo disequilibrio torna in equilibrio attraverso un aumento del prezzo del bene.

Tornando alle nostre amate mascherine, il concetto è analogo, ma con una differenza. Che non c’è un shock di offerta come con il pane ne I promessi sposi, ma uno shock di domanda. L’offerta di mascherine rimane la stessa ma improvvisamente diventano un bene molto richiesto. Cosa accade? Che, nel breve periodo il prezzo si alza per far fronte all’improvvisa richiesta a parità di offerta. Il punto di equilibrio tra domanda e offerta cambia facendo cambiare il prezzo del bene.

Ma questo vale solo nel breve periodo. Innanzitutto perché l’aumento del prezzo del bene è si il segnale della sua scarsità rispetto alla domanda, ma è anche, per le imprese, il segnale che devono aumentare la produzione in modo da realizzare profitti extra. L’aumento del prezzo di un bene non è altro che un incentivo per le imprese a produrne di più.

Se il prezzo rimane alto nel breve periodo, molte imprese fiutano i possibili profitti che potrebbero raggiungere producendo tale bene, e si adopereranno per produrlo. Nel lungo periodo quindi la quantità di mascherine in circolazione sarà aumentata e il prezzo si riequilibrerà in base all’incremento delle unità prodotte, diminuendo.

Cosa accadrebbe invece se il prezzo delle mascherine fosse fissato dalle autorità governative? Rimarrebbero un bene scarso. Solo in pochi riuscirebbero ad accaparrarsele. Quelli più svelti. Le imprese non avrebbero più l’incentivo a produrle a causa dei bassi profitti che otterrebbero. Se il prezzo fissato fosse troppo basso, inoltre potrebbe accadere che coloro che producono mascherine smettano di farlo in quanto sconveniente.

E’ così che fissare un prezzo per le mascherine risulterebbe inutile e controproducente. Il risultato dell’azione della mano pubblica, in quest’ambito, seppure mossa dalle migliori intenzioni, si tradurrebbe in un incentivo a decrementare la produzione delle mascherine rischiando di affossarne la produzione.

La critica a Keynes della Scuola Austriaca

All’interno della fenomenologia teorica dell’economia odierna, nei meandri delle accademie e dei dipartimenti di studi economici, domina incontrastato un approccio unico e incontestabile: il paradigma keynesiano. Quest’ultimo, nato sotto l’effige dell’economista John Maynard Keynes, sviluppato nei suoi punti chiave nella sua mostruosa opera principale “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”, pubblicato nel 1936, considera l’intervento dell’autorità statale nei periodi di crisi economica indispensabile per poter far ripartire i consumi e la produzione.

Secondo Keynes, l’autorità statale, attraverso lo stimolo della domanda aggregata e con iniezioni significative di liquidità, può emendare il problema dell’eccesso di disoccupazione oltre la soglia di normalità per il sistema capitalistico. Se guardiamo bene alla storia, tuttavia, ci accorgiamo che le teorie di Keynes sono state utilizzate in gran parte come meri strumenti ideologici e politici.

L’economista britannico che vide applicate le sue teorie con il piano del “New Deal” di Roosevelt, ha goduto di successo e onori per un semplice motivo: la classe politica, nelle sue opere, venne paragonata paragonata  all’ingegneria sociale, capace di estirpare i malesseri sociali. Laddove “falliva” il mercato, interveniva il politico, il settore pubblico, coadiuvato dall’interesse generale.

I discepoli di Keynes- animati dalla “General theory”- videro, tuttavia, smentite le loro teorie economiche con la stagflazione degli anni ‘70 in seguito allo stock petrolifero. La stagflazione comporta un aumento dei prezzi e, in contemporanea, la mancanza di crescita economica. Insomma, Keynes fallì completamente analisi e riflessioni. Lo notiamo nella dimensione stessa del cosiddetto (così lo definì Kahn) moltiplicatore keynesiano.

All’ammontare della spesa pubblica, degli investimenti, o dei consumi, per quale motivo dovrebbe aumentare in percentuale in funzione delle variabili macroeconomiche il reddito nazionale? Esiste un’altra Scuola, un altro importante approccio economico che merita di essere menzionato ed analizzato attentamente: è la Scuola Austriaca di economia.

Gli studiosi austriaci furono altamente innovativi grazie alle loro analisi economiche e delle scienze sociali. All’interno del pantheon economico austriaco ritroviamo il meglio degli economisti classici come Adam Smith, l’analisi della natura umana di David Hume, le più prestigiose e raffinate teorie psicologiche sull’individuo, la critica economia di Bastiat. Una teoria, quindi, che si adegua all’uomo e alle sue esigenze più profonde.

Il punto di partenza risiede nella presa di coscienza della razionalità umana: l’uomo è un individuo razionale (non nel senso economico inteso come consapevole di tutte le informazioni) capace di prefiggersi degli obiettivi e dei fini che può raggiungere con determinati mezzi. Nata nel 1871 con l’opera di Carl Menger “principles of Economics”, l’indirizzo economico austriaco, che prende spunto dalle minuziose riflessioni -come affermò Rothbard- della Scuola di Salamanca del XV secolo, ebbe dalla sua parte studiosi del calibro di von Mises, von Hayek (premio nobel dell’economia nel 1974), lo stesso Rothbard, Schumpeter e molti altri ancora. In opposizione all’analisi del “Das Kapital” di Marx e andando oltre gli stessi classici, l’economia austriaca si basa su degli “assiomi” incontestabili, a partire dalla prasseologia (filosofia della prassi) umana. 

Ciò comporta l’utilizzo del metodo deduttivo e una nuova e più completa teoria del valore: a differenza degli economisti classici, gli austriaci danno priorità non alla quantità del lavoro necessario a produrre una merce, ma al valore utilità, capace di soddisfare l’esigenza del consumatore. Inoltre gli austriaci, fedeli alla filosofia dell’individualismo metodologico che ha animato i movimenti libertari, credono nel libero mercato, che raggiunge spontaneamente la miglior situazione per produttori e consumatori senza intervento esterno dei policy maker. Gli Austriaci difendono con tenacia la proprietà privata che è la elemento traino del Diritto naturale.

La tutela del singolo individuo si sgancia, quindi, dalla pianificazione statale. Le teorie di questi studiosi possono permettere, nel mondo moderno, una presa di coscienza di ciò che può essere l’economia e una critica seria di quelle sovrastrutture economiche che limitano la libera iniziativa. Non sarà Keynes, questa volta, (e l’ ha ricordato il Fondo Monetario Internazionale indirettamente) a “salvarci” dalla crisi economica e dalle conseguenze nefaste nel settore industriale per una causa esogena: quella del Coronavirus.