La guerra può salvare un’economia in crisi?

Si sente dire spesso che la Seconda Guerra Mondiale abbia fatto uscire definitivamente dalla Grande Depressione gli Stati Uniti, o che il riarmo bellico promosso da Hitler abbia risollevato l’economia tedesca dopo la caduta della Repubblica di Weimar. In generale, è un’idea piuttosto diffusa quella secondo cui la guerra possa salvare un’economia in crisi.

Del resto, perché non dovrebbe essere così? Guerra significa distruzione, seguita da ricostruzione, e quindi da aumento del PIL. Guerra significa occupazione, giacché l’esercito costituisce una forma di welfare, che fornisce un salario a chi altrimenti sarebbe disoccupato. Guerra significa innovazione, dato che molte scoperte sviluppate per il campo di battaglia possono trovare applicazioni in campo civile.

La guerra come alleata del PIL

Innanzitutto, quindi, la guerra sostiene la crescita del PIL, su questo non c’è dubbio. Il problema è che non necessariamente la crescita del PIL è sinonimo di maggiore prosperità e più elevati standard di vita. Per spiegare questo apparente paradosso, bisogna parlare della “fallacia della finestra rotta”[1].

In poche parole, la “fallacia della finestra rotta”, tratta da una lezione dell’economista Frédéric Bastiat, spiega come un evento distruttivo, per esempio una catastrofe naturale o una guerra, possa paradossalmente portare alla crescita economica, la quale però è solo fittizia.

Si consideri quindi un evento distruttivo, come un bombardamento durante una guerra, che distrugge delle infrastrutture, o il lancio di una pietra da parte di un teppista, che rompe una finestra.

Dopo la guerra, per ricostruire quelle infrastrutture, verranno impiegate molte persone, dai muratori agli ingegneri, che quindi guadagneranno in questa situazione, così come il vetraio che verrà pagato per riparare la finestra rotta. Il guadagno dei muratori, degli ingegneri e del vetraio, quindi, farà crescere l’economia.

Il paradosso è evidente: in entrambi i casi, non c’è stato un guadagno netto per la società, nel ricostruire quello che è andato distrutto la società nel suo complesso non è diventata più prospera rispetto alla situazione precedente l’evento distruttivo[2].

Nel caso della finestra rotta, infatti, i soldi intascati del vetraio sono soldi che, senza l’evento distruttivo, sarebbero potuti andare, per esempio, ad un calzolaio in cambio di nuovo paio di scarpe. Il guadagno del vetraio, pertanto, è la perdita del calzolaio, e l’economia generale perde un nuovo paio di scarpe per acquistare qualcosa (la finestra integra) che già aveva.

Quindi, per quanto riguarda il “boost” economico dovuto alla guerra, bisogna ricordare la formula del PIL, pari ad Y = C + I + G + NX, dove C sta per consumi, I per investimenti, G per spesa pubblica, NX per esportazioni nette.

Ora, con la guerra G, cioè la spesa pubblica, aumenta enormemente, in quanto il governo non si fa scrupoli per finanziare lo sforzo bellico prima e la ricostruzione dopo[3]. Inoltre, tornando all’esempio precedente, tutti coloro che vengono pagati per ricostruire ciò che è andato distrutto spendono a loro volta i soldi guadagnati, quindi aumenta C, cioè i consumi[4].

Certo, con la guerra si ha un certo calo di I (investimenti) ed NX (esportazioni nette), che però è largamente superato dall’aumento di C e G, quindi complessivamente il PIL aumenta[5].

Tuttavia, vale sempre la fallacia della finestra rotta: finita la guerra, ultimata la ricostruzione, il PIL è aumentato, ma la società è tornata al punto di partenza, ed i cittadini medi (chi è sopravvissuto) non sono affatto più ricchi di prima.

La guerra come sostegno all’occupazione

Forse la crescita economica dovuta alla guerra è solo fittizia, ma se non altro la guerra può risolvere il problema della disoccupazione, giusto? Dopotutto, lo sforzo bellico richiede decine o addirittura centinaia di migliaia di soldati ed altrettanti operai nelle fabbriche, persone che senza la guerra sarebbero prive di un salario.

Tutto questo è vero, il problema è che si tratta di una prospettiva assai miope. Per capire quanto sia miope, basta guardare alla situazione degli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale. Per sostenere lo sforzo bellico, il governo statunitense reclutò 16 milioni di uomini[6], ma questo, lungi dall’avere ricadute economiche positive, provocò due gravi problemi.

Innanzitutto, bisogna ricordare che l’esercito, sotto diversi aspetti, è una forma di welfare[7]. Questo non significa che i militari siano inutili, o che il loro lavoro sia inutile, ma significa che, dal punto di vista economico, essi vengono mantenuti dalla società ma non contribuiscono a quest’ultima.

Se, invece di pagare milioni di disoccupati per combattere in un Paese straniero, il governo americano si fosse limitato a pagarli e basta (come avviene con i normali programmi di welfare), l’effetto sull’economia sarebbe stato lo stesso (e si sarebbero evitate le morti).

In entrambi i casi, però, non si è davvero risolto il problema della disoccupazione. I disoccupati che ricevono un sussidio non forniscono beni e servizi utili alla società (e questo è normale, si tratta di welfare), ma allo stesso modo i soldati che ricevono un salario dal governo per combattere all’estero non contribuiscono (dal punto di vista economico) alla società, pertanto (sempre dal punto economico) è come se fossero disoccupati[8].

Non solo, i militari costituiscono anche un peso economico, in quanto chi effettivamente fornisce beni e servizi economicamente utili è costretto a lavorare anche per loro, per consentire al governo di pagare i loro salari.

Tuttavia, osservando i dati, emerge anche un secondo problema. Com’è stato già detto, 16 milioni di uomini sono stati reclutati nelle Forze Armate statunitensi durante la guerra. Però, stando alle statistiche, la disoccupazione calò solo di 7.45 milioni di persone, il che significa che la maggior parte delle persone arruolate nell’esercito degli Stati Uniti non era affatto disoccupata[9].

Questo vuol dire che, nelle fabbriche dove venivano prodotti beni di consumo per la popolazione (e non bombe o carri armati), operai specializzati (ora impiegati dal governo per produrre bombe e carri armati) vennero rimpiazzati da personale meno efficiente o con meno esperienza (donne, anziani, etc…).

Di conseguenza, la produzione di beni di consumo declinò, e con essa gli standard di vita dei cittadini, perché aerei da caccia e corazzate hanno molti usi, ma nessuno di essi incrementa la prosperità del cittadino medio.

La guerra come stimolo per l’innovazione

Infine, resta l’ultima tesi a sostegno dei benefici economici della guerra, la più facile da smontare: la guerra è alleata del progresso tecnico e scientifico, perché niente stimola il genio umano più del campo di battaglia.

Del resto, senza la pressione dei governi sugli scienziati durante le due Guerre Mondiali e la Guerra Fredda oggi non esisterebbero gli aerei, gli antibiotici, l’energia nucleare, i satelliti o Internet. Ma è davvero così?

Si pensi a due aziende, entrambe nel campo dell’high-tech, in particolare nel campo dell’ingegneria genetica. Queste due aziende hanno lo stesso numero di dipendenti, i loro ricercatori sono paragonabili per quantità e qualità, ed entrambe le aziende dispongono dello stesso capitale.

La prima è un’azienda privata, che sviluppa beni e servizi rivolti alla società civile, mentre la seconda è un’azienda pubblica appartenente alle Forze Armate, che sviluppa nuove tecnologie a scopo bellico.

La prima azienda compete con le altre del settore per conquistare il maggior numero possibile di clienti, e la sua attività di R&D è improntata direttamente a soddisfare le esigenze dei consumatori, i quali vogliono terapie mediche per vivere più a lungo, cibi più sani per mantenersi in salute e, perché no, terapie ringiovanenti per conservare la bellezza.

Anche la seconda azienda subirà la spinta della competizione, ma dato che il suo unico cliente sono le Forze Armate la sua attività di R&D avrà un target ben diverso: sviluppare nuove armi tali da ottenere un vantaggio strategico sugli altri Paesi. Se mai da queste ricerche dovesse uscire fuori qualcosa di utile alla società civile, sarebbe solo una fortunata coincidenza.

Risulta quindi evidente che la pressione esercitata dalla società civile sugli scienziati è di gran lunga più efficiente rispetto a quella dei militari nel favorire lo sviluppo di tecnologie in grado di portare prosperità.

Non solo, dato che la quantità di risorse e di persone necessarie per il progresso tecnico-scientifico è soggetta a scarsità, ogni provetta, ogni tecnico di laboratorio che invece di andare alla prima azienda va alla seconda rallenta l’innovazione a scopo commerciale, vero motore della crescita economica[10].

Conclusioni

In ultima analisi, quindi, la guerra può salvare un’economia in crisi? La risposta è no. Gli unici a trarre vantaggio materiale dalla guerra sono i politicanti guerrafondai, gli alti vertici militari e i grandi industriali affamati di commesse statali, in altre parole i componenti di quello che Eisenhower definiva “il Complesso Militare-Industriale”.

Al contrario, il cittadino medio diventa più povero, meno libero e, nel peggiore dei casi, è chiamato a morire in un Paese straniero o sotto le rovine della propria città distrutta in nome del potere dei politicanti, della gloria dei militari e del profitto degli industriali collusi con entrambi.

[1][2] http://vonmises.it/2012/12/12/la-fallacia-della-finestra-rotta/

[3][4][5] https://youtu.be/mU6pHvpc3TY

[6][7][8][9] https://youtu.be/JzEK5yd2kLw

[10] https://www.google.com/amp/s/tseconomist.com/2018/12/27/is-war-good-for-the-economy-the-example-of-the-united-states-of-america/amp/

Italia, vuoi crescere?

L’Italia è un paese che ha un grande problema da risolvere se non vuole diventare l’Argentina: la responsabilità.
Chiede tanto, ma vuole dare poco in cambio. Vuole essere rispettato, ma non rispetta mai gli altri.
Si lamenta, ronfa e dà la colpa al prossimo per i propri errori.
Un paese che sembra un vecchio che dopo una vita rampante e piena di alti e bassi, regredisce e torna bambino.
Un bambino viziato, arrogante e presuntuoso che non vuole crescere, ma al massimo decrescere.
Ma analizziamo un po’ questo bambino.

ZERO CRESCITA

Questo paese ha dimenticato come crescere e come un anziano, regredisce.
La crisi del 2008 ha lasciato un profondo segno, dal quale non ha mai recuperato pienamente.
Ma questa è una situazione diffusa? Neanche per sogno.

L’aggregato dell’area euro è cresciuto molto più del Bel Paese, per non parlare della cattiva Germania.
Perchè questo?
Sostanzialmente l’economia italiana è estremamente rigida, ed ha dei grandi problemi strutturali che potremo sintetizzare come:

1) Enorme imposizione fiscale, con un total tax rate verso le imprese al 64%. Il più alto in Europa.
2) Scarsa produttività del tessuto imprenditoriale, costituito al 95% da micro-imprese a bassa liquidità e poco innovative, che non riescono a stare al passo nel contesto globale.
3) Burocrazia asfissiante, con 238 ore all’anno necessari alle imprese per pagare le tasse.
4) Processi lunghi, con mancanza di certezza del diritto.
5) Settore pubblico inefficiente, costoso e sprecone.
6) Sistema pensionistico da furto intergenerazionale.

Tutto ciò crea un’economia stagnante, che non ha la forza di crescere come dovrebbe, nella quale la classe politica non riesce ad adottare una visione di lungo termine atta alla crescita e alla prosperità del paese.
Classe politica che piuttosto preferisce puntare sul consenso di breve termine attraverso mancette elettorali molto costose, che trasferiscono soldi dalla parte più produttiva del paese a quella meno produttiva.
Ma se da una parte non cresciamo, da un’altra parte cresciamo più di tutti.
Questa parte è il debito pubblico.

DEBITI ALLE STELLE

Il debito PIL italiano a gennaio 2020 è pari al 135,7 del PIL. Solo 15 anni prima, era pari al 105%. Colpa della crisi? In parte.
Negli anni ’80 l’Italia ha accumulato deficit di bilancio sistematicamente oltre il 10%, proseguiti con una moderazione e tentata stabilizzazione dei conti pubblici durante gli anni ’90 in previsione dell’entrata nella moneta unica.
Stabilizzazione che durante il governo Berlusconi II è stata accantonata con nuovi incrementi di spesa pubblica (alla faccia delle rivoluzione liberale), e che ha gettato le basi per l’esplosione del debito pubblico durante la crisi del 2008:

Ma non è finita qui.
L’Italia grazie alle politiche espansive della BCE, ha potuto godere di interessi bassissimi sul debito culminate nel 2019 con 1,2% sul decennale a Gennaio 2020.
Da ricordare che nel 1990 il rendimento del decennale era il 13%. Giusto una lieve differenza.
Tutto ciò con la promessa di guadagnare tempo prezioso per fare quelle giuste riforme per risolvere i problemi strutturali del paese.
Ma cosa ha fatto l’Italia?

Si è macchiata del più grande moral hazard della storia recente.
Approfittando dei rendimenti bassi, dal Governo Renzi in poi ha cominciato a spendere in assistenzialismo a scarsissimo moltiplicatore con gli unici effetti di trasferire soldi da settori produttivi a settori non produttivi tra cui:

1) Quota 100, con costo di 5 miliardi all’anno e in un paese con la più grande spesa pensionistica di Europa. Pari al 16% del PIL.
2) Bonus Renzi da 80 euro, con un costo di quasi 10 miliardi all’anno, che nel 2020 sono diventati 100 euro.
3) Reddito di cittadinanza, creato per reinserire in un mercato del lavoro senza lavoro disoccupati, che poi sono finiti per sedersi sul divano nella vana speranza di ricevere un’offerta di lavoro. Costo 9 miliardi.

Sono 24 miliardi totali, quasi la metà degli interessi che paghiamo per il debito pubblico.
Tutto ciò solo per una classe che insegue il consenso come un ragazzo insegue il like su Facebook.

CULTURA STATALISTA

Inutile prenderci in giro, questa classe politica non si è originata dal nulla.
Gli italiani l’hanno scelta, approvata e voluta, nonostante il PIL pro capite nel periodo 2008-2018 sia cascato di un ben 12%.
Viviamo in un paese in cui tutto è pubblico, tutto è controllato dalla politica, e l’iniziativa privata viene gambizzata.
Ma qual è il problema della politica?
La politica non ha la cosiddetta “skin in the game“.
Non investendo soldi propri ma quelli dei contribuenti, non ha la percezione del rischio. E quando non esiste una mentalità seria e lungimirante si getta in politiche strampalate di puro consenso, fiduciosa che anche nel caso le cose dovessero andare male non pagherà alcuna conseguenza.
Tanto la colpa sarà sempre dei Governi precedenti.
Fallimento dopo fallimento la situazione economica peggiora, più persone diventano povere e chiedono aiuto. Qui i politici intervengono propagandando il proprio ruolo di protettore dei più deboli, gettando la colpa al mercato inefficiente, alla globalizzazione, alla mancanza di sovranità monetaria. Perchè solo più Stato può risolvere questi problemi.
Le persone abboccano, e inizia il culto dello Stato. Chiedono più Stato!
Tanto la colpa è sempre degli altri, mentre i politici aumentano il proprio potere.

LA COLPA E’ DEGLI ALTRI!

L’Italia è la patria di un socialismo surreale intriso a costante de-responsabilizzazione delle proprie azioni. E’ sempre colpa dell’olio della Tunisia, del Parmesan americano, del riso cambogiano e non ci si chiede come sia possibile che un paese avanzato come questo possa entrare in concorrenza diretta con prodotti di così scarso appeal.
Una delle spiegazioni è molto semplice.
Gli stati avanzati che crescono di più -perfino la Cina, la patria del capitalismo di Stato- si sono concentrati su settori tecnologici ad alto valore aggiunto, che permette salari maggiori e introiti superiori, così da non entrare in competizione di prezzo con paesi non sviluppati su settori chiave della propria economia.
Ciò è saggio, perchè i paesi in via di sviluppo si occupano di settori a basso valore aggiunto e a bassi salari, mentre gli stati avanzati si concentrano sull’innovazione e il progresso a elevati salari.
Invece, l’Italia è ancora nostalgica delle svalutazioni competitive e dei salari bassi in modo da far concorrenza spietata al Botswana.

Alla faccia del Made In Italy.

UNO SGUARDO AL PRESENTE

Tutto ciò fatto fino ad ora ha portato alla situazione attuale, affrontando una delle più grandi crisi economiche e sanitarie dei tempi moderni con armi spuntate e totalmente impreparati.
La mancanza di lungimiranza, l’arroganza, è culminata con questo momento.
Ma non giriamoci intorno.
Quest’anno il debito italiano arriverà in automatico al 150% del PIL, ma più probabilmente supererà il 160%. Con un PIL che probabilmente perderà al 10%.
Avremo bisogno del MES? degli Eurobond? Questo lo lasciamo ad altre analisi, ma una cosa è certa.
Ci sarà un momento per ricostruire, un momento nella quale si avrà forse l’ultima occasione per adottare tutte quelle riforme che vadano verso un’unica soluzione:

Il libero mercato, e la riduzione del perimetro dello Stato.

Solo così questa splendida terra potrà tornare a crescere come è riuscita ormai troppi anni fa.
Ma ciò non basta.
Perchè certe idee divengano permanenti, questo paese deve smetterla di essere quell’anziano arrogante tornato un po’ bambino, che scarica tutte le proprie responsabilità alla Germania di turno(con la quale è stata alleata in una certa guerra, non dimentichiamolo mai), o al Parmesan di turno.
Questo paese deve ritrovare la responsabilità, perchè è terreno fertile per la crescita.

Altrimenti come un cane tornerà a mordersi la coda.

Fonti e approfondimenti:

Pensioni, Istat: nel 2018 la spesa sale a 293 mld (+2,2%). Uno su 3 ha meno di mille euro. – Sole 24 ore.
Fisco Italia, in tasse il 59% dei profitti delle imprese. – Sole 24 ore.
Coronavirus: fino al 10% delle aziende in default. – Cerved.
Bonus 80 euro – Sole 24 ore.
Pil pro capite Italia -12 punti da 2008 – ANSA.
Principali tassi interesse del 1990.
Andamenti e prospettive finanza pubblica 2001-2005.

Perché Bismarck Batte Beveridge?

“Bismarck batte Beveridge” è un testo che accompagna ormai ogni edizione dell’Euro Health Consumer Index e nelle ultime edizioni viene definito addirittura una “caratteristica permanente”. Chi parla di sanità ha ormai un acronimo a tre lettere per parlarne: “BBB”. Com’è noto, quando qualcosa ha un TLA allora si tratta di una cosa importante.

Abbiamo già scritto un articolo che spiega la differenza tra Bismarck e Beveridge, vi consiglio la lettura, comunque riassumendo:

  • Bismarck: prevede una separazione tra il pagatore delle prestazioni (quasi sempre con mutue sociali a vari livelli di concorrenza) e il pagato che effettua le prestazioni;
  • Beveridge: prevede un vero e proprio sistema sanitario dove l’ente pubblico si preoccupa di finanziare gli ospedali e di gestirli.

Solitamente chi vive nei Paesi Beveridge è molto dogmatico sul tema. Per esempio nel Regno Unito, nonostante la soddisfazione per la sanità sia in calo costante, il NHS è una delle cose che più rende orgogliosi i britannici. Del resto, penso che sia capitato a tutti noi sentire una persona lamentarsi della sanità italiana, dei suoi tempi d’attesa inaccettabili e poi lodarla comunque perché “è gratis per tutti”.

La realtà, tuttavia, dà una sonora svegliata: i sistemi Bismarck tendono a funzionare meglio. Certo, alcuni sono in Paesi ricchi, altri sono in Paesi in crescita come la Cechia, ciononostante si ritiene che il sistema ceco funzioni meglio di quello inglese. Non si può sintetizzare il tutto in una questione di ricchezza o povertà.

Naturalmente, però, esistono anche sistemi Beveridge con una qualità buona. Non risolvono la questione dei tempi d’attesa, che tendono ad essere lunghi in tutti i sistemi del genere, ma funzionano abbastanza bene per molte cose. Degli esempi sono i sistemi scandinavi oppure, in Italia, il modello lombardo.

Di fatto tali modelli tendono ad emulare il modello Bismarck o la sua versione soft della mutua nazionale, che prevede un’unica mutua nazionale invece di varie mutue in più o meno concorrenza. Per esempio in Scandinavia esistono franchigie sulle spese e la gestione è fortemente decentrata, in Lombardia la regione dovrebbe limitarsi a pagare le prestazioni presso gli enti convenzionati, privati e pubblici (che dovrebbero essere parificati, ma ciò non accade per svariate ragioni, sintetizzabili in interessi politici e ospedali pubblici che non riescono a restare in budget e necessitano di interventi di ristrutturazione).

Per chi fosse interessato alle implicazioni del sistema lombardo e del decentramento in sanità consiglio questo mio articolo pubblicato poche settimane fa.

Ma andiamo a indagare sulle cause: perché Bismarck batte Beveridge? Le ragioni sono varie e di ordine amministrativo oltre che sanitario e politico.

Gestire un sistema unico è difficile

Un sistema Bismarck prevede una certa divisione dei poteri: una mutua cercherà personale esperto di gestione finanziaria e programmazione sanitaria, un ospedale personale sanitario ed amministrativo e il governo esperti di salute pubblica.

Nei sistemi Beveridge, invece, il governo cerca di assumersi tutte queste funzioni. Anche in un Paese dove la politica è onesta è semplicemente difficile trovare manager in grado di gestire così bene un sistema sanitario.

Per capirci il NHS inglese, il più grande sistema centralizzato del mondo, è un’enorme macchina con 1 milione e mezzo di dipendenti e un bilancio di 134 miliardi di sterline. Con un livello minimo di decentramento gestire tutto questo sistema richiede amministratori capacissimi capaci di organizzare finanziamenti, assunzioni, sviluppo, programmazione e numerosi altri campi. Se questi manager nel privato sono difficili da trovare e vanno pagati molto, nel pubblico è quasi impossibile trovarli e la gestione va ad ordinari amministratori.

Bismarck, semplicemente, non ha bisogno di trovare questi mega-CEO perché divide le competenze in modo più efficiente. La stessa cosa si applica ai sistemi decentrati: gestire un sistema su base locale e regionale è meno complesso e richiede competenze minori che gestire una delle più grandi aziende del globo.

Pensate molto semplicemente ad una cosa: se affidaste Walmart o McDonald’s, paragonabili in dimensioni al NHS, ad un normale amministratore pubblico, quanto durerebbero? Potrà essere anche la persona più onesta ed integerrima del mondo, ma semplicemente non avrà le competenze per gestire un’impresa così grande senza farla fallire. Nel caso dei sistemi sanitari, poiché sussidiati, questi non falliscono, ma cala la qualità per l’utente.

La politica si infiltra troppo facilmente

Ancor peggio, in un sistema del genere la politica ha molto più potere, in un senso o nell’altro. Il potere politico non è sempre disonesto ma è quasi sempre inefficiente a gestire le cose, come vedremo nei prossimi capitoli.

Allocazione inefficiente delle risorse

I politici ragionano da programmatori economici ma sappiamo che la programmazione economica semplicemente non funziona bene quanto il libero mercato.

Un politico, diciamocelo, non saprà davvero come e quando aprire un ospedale. Molto probabilmente guarderà a criteri numerici o a qualche stima dell’ufficio tecnico per decidere come organizzare il sistema ospedaliero. In sostanza sta allocando risorse senza sapere chi dovrebbe usarle.

In Lombardia, ad esempio, si parla da tempo di unire ospedali (ad esempio Busto e Gallarate o San Carlo e San Paolo a Milano) ponendoli in zone che la popolazione considera difficili da raggiungere e scomode. Nel mentre i posti letto del privato aumentano e spesso essi aprono in zone scarsamente servite dal pubblico (un nome su tutti Humanitas, aperta in una Rozzano che necessitava di un ospedale da tempo). Non è un caso che la Lombardia, col suo modello aperto al privato, abbia l’aumento di posti letto più grande d’Italia.

Se la scelta di aprire ospedali è lasciata ad enti ospedalieri, invece, il declino rallenta o può addirittura invertirsi, come succede in Corea del Sud.

Clientele e partitocrazie

Ancor peggio, i sistemi pubblici tendono rapidamente a perdere il proprio focus sul fornire il servizio. Come fa proprio notare il rapporto EHCI:

Nelle organizzazioni Beveridge, responsabili sia del finanziamento che dell’assistenza sanitaria, sembrerebbe esserci il rischio che la lealtà dei politici e degli altri principali decisori possa passare dall’essere principalmente verso il paziente all’essere a favore dell’organizzazione che questi decisori, con giustificabile orgoglio, hanno costruito nel corso di decenni, (o forse verso aspetti come il potenziale di creazione di posti di lavoro nelle città d’origine).

In sostanza in un sistema pubblico i politici decidono ed essi hanno il principale interesse di essere rieletti. Centinaia di migliaia di potenziali elettori fanno gola a tutti e il loro principale focus è avere più benefici dal lavoro che fanno mentre il resto della popolazione vota su migliaia di variabili (e molti hanno anche i soldi per andare dal privato per la maggior parte delle cose). Diventa chiaro che l’investimento dei politici sarà sulla propria rielezione e non sulla nostra salute.

Come vi raccontavo nell’articolo sul decentramento sanitario, a dimostrazione di come in pochi anni il portantino conti più di voi una volta una persona mi disse che la sanità privata è inefficiente e da stigmatizzare perché… hanno messo delle persone in cassa integrazione.

Io, se stessi parlando di salute delle persone, mi vergognerei come un cane a parlare di cassa integrazione. Può essere un argomento secondario da trattare ma il punto principale dovrebbe essere “come cura” e, appena dopo, “quanto costa”. Mentre invece per il socialista medio è normalissimo preoccuparsi prima di tutto dei lavoratori e poi, forse, dopo, della salute dei cittadini.

Pensate che il sistema Beveridge nacque proprio perché si voleva spostare il diritto alla salute da una cosa collegata all’essere lavoratori all’essere cittadini. Invece ha messo prima il benessere degli operatori rispetto a quello della popolazione.

L’esempio della scuola

Un esempio più palese di tale sistema è la scuola italiana. Qui, addirittura, gli studenti non votano, quindi ai politici che gestiscono la scuola non interessa il loro benessere.

In effetti, quando si parla di riforme della scuola, non sentiamo quasi mai parlare degli alunni e dei (pessimi) risultati del sistema. Si parla sempre di regolarizzare i precari, di fare qualche concorsone, di aumentare i salari e sempre cose a favore elettorale dei docenti.

Alla fine, ai politici, conviene così: avere quasi un milione di dipendenti nella scuola pronti a vendersi il voto è bellissimo. I risultati, poi, si vedono. Ma, fortunatamente, la sanità è meno soggetta alla distruzione totale: la collaborazione del privato è necessaria e, soprattutto, i medici sono più professionalizzati dei docenti e quindi lavorerebbero con qualunque sistema e lo sanno bene, mentre ciò non vale per forza per i docenti.

Tempi d’attesa

L’accessibilità dei sistemi sanitari secondo l’indice EHCI 2017

I sistemi Bismarck sono noti per avere bassi tempi d’attesa nelle cure e tempi che in Italia (e nei Paesi Beverige) sembrano buoni probabilmente in un sistema Bismarck porterebbero a titoli scandalizzati sui giornali.

Infatti, guardando ai dati EHCI, vediamo che tutti i sistemi Bismarck hanno ottimi tempi d’attesa mentre i Beveridge e i misti spaziano largamente dal buono al pessimo.

Soprattutto, ed il rapporto lo fa notare, non è questione di ricchezza: la Repubblica Ceca ha ottimi tempi ma una spesa bassa, così come anche la Serbia, con un sistema particolare dove la gran parte della popolazione ha assicurazioni private per andare dalla sanità privata.

La questione è meramente organizzativa: in un sistema Beveridge c’è una lista d’attesa e ogni persona in più, di fatto, appesantisce il sistema mentre in un Bismarck no, anzi, il fornitore viene pagato a prestazione e ha convenienza a vedervi velocemente e a vedere più persone possibile. Alla fine, è pagato per farlo.

Ma, ovviamente, un sistema sanitario è un po’ come una catena di montaggio e l’ingorgo di dover aspettare mesi prima di una visita fa più male che bene, si pensi solo ad eventuali peggioramenti nell’attesa.

Ma come mai?

Immaginate una cosa semplice come andare dal parrucchiere. Ad oggi egli ha tutta la convenienza a servire più persone possibile e offrire a chi deve attendere un’attesa divertente e piacevole.

Ma se un domani un politico decidesse che tagliarsi i capelli è un diritto umano e fondasse il Servizio Acconciatori Nazionali?

Probabilmente i parrucchieri verrebbero pagati in base al proprio pubblico potenziale e l’apertura di nuovi parrucchieri verrebbe ristretta. A tal punto il parrucchiere non avrebbe più grande incentivo a lavorare tanto e il Centro Unico Parrucchieri, da chiamare per un appuntamento, darebbe un numero ridotto di appuntamenti rispetto a prima.

Se magari il parrucchiere di base riesce ancora a fornire un servizio decente sappiamo bene come sia ben più facile sindacalizzarsi nei grandi saloni che si occupano delle cose più pregiate e ottenere quindi ancor più benefici e minori tempi di lavoro.

Alla fine, semplicemente, passando dal modello di pagamento per prestazione al modello sistemico si è ottenuto un considerevole calo dell’incentivo a lavorare e quindi dei posti disponibili.

La stessa cosa, ovviamente in modo più complesso, accade nei sistemi Beveridge ed è la ragione per cui alcuni di essi, con l’oppisizione degli statalisti, hanno iniziato ad abbandonare il pagamento sistemico in favore di quello a prestazione.

Conclusioni

In sostanza Bismarck Batte Beveridge per queste ragioni:

  • Gode di una gestione intrinsecamente più semplice;
  • Riduce il peso politico del sistema favorendo l’obiettivo cura e non l’uso clientelare del sistema;
  • Lascia più spazio alle necessità dei cittadini, espresse tramite le proprie scelte libere, rispetto a un sistema a forte guida politica;
  • Allegando al paziente dei soldi e non mettendolo meramente in una lista favorisce tempi d’attesa molto più bassi rispetto al Beveridge, che ha come vero ventre molle l’accessibilità.

Riferimenti

Free banking: l’esperimento scozzese nel XVIII secolo

Quando pensiamo alla Scozia del ‘700 molto spesso la immaginiamo come quel grande ed eroico affresco che Walter Scott ci descriveva nei suoi celebri romanzi Rob Roy e Waverley, tra kilt, cornamuse e lotte tra clan; un Paese lacerato dal continuo contrasto tra i giacobiti, ossia i sostenitori dell’antica dinastia Stuart, ed i whig, sostenitori degli Hannover, designati come eredi al trono dopo la Gloriosa Rivoluzione. La Scozia del ‘700 è però anche la patria di grandi pensatori come David Hume e Adam Smith, il terreno fertile in cui sboccia l’illuminismo scozzese e, aspetto davvero interessante, uno degli esperimenti di free banking più vicini a noi.

Che cos’è il free banking? Per noi, nati in un’epoca in cui l’esistenza delle banche centrali e della moneta a corso forzoso è data per scontata, dove la manipolazione dei tassi d’interesse per fini politici viene considerata come moralmente accettabile, il free banking suona come qualcosa di primitivo e lontano. Si tratterebbe, in sostanza, di un sistema bancario totalmente privato e libero dal “coordinamento” di una banca centrale, in cui l’emissione di moneta è lasciata alle banche private e dove non esiste la moneta a corso legale. Come afferma Alberto Mingardi nel suo saggio “Thomas Hodgskin, free banker” (1)

“siamo talmente abituati a vivere in un mondo nel quale la moneta ha valore fiduciario ed è emessa da una banca centrale, da aver dimenticato completamente l’esistenza di modelli alternativi.”

L’idea di free banking in quanto tale è stata ridiffusa nel Novecento da Hayek, che proponeva un sistema libero di istituti privati che emettevano valute fiat in concorrenza tra loro e in cui il valore di queste valute sarebbe stato determinato dalla solidità e dalla credibilità dell’emittente. Un tale sistema non è mai esistito storicamente: gli istituti privati, nei casi storici di free-banking, emettevano biglietti denominati secondo uno standard monetario, molto spesso in un sistema aureo. Si emettevano “fedi di deposito” e il successo degli istituti emittenti veniva definito sia dalla loro credibilità che dalla loro capacità di convertire in oro i biglietti, ed anche dalla qualità di un eventuale conio vero e proprio della moneta.

In un sistema bancario libero in cui, mettiamo il caso, l’oro tornasse a costituire il principale mezzo di scambio, avrebbe ben poco successo la banca che conia monete d’oro false: una volta scoperto il trucco, senza possibilità di salvataggi statali, l’istituto “falsario” cesserà ben presto di fare affari e fallirà.

La Scozia applicò il free-banking dal 1716 al 1845: in questo periodo la sua economia crebbe molto più velocemente di quella inglese; il sistema bancario era libero e qualunque nuovo istituto che volesse iniziare a “battere” moneta era libero di farlo: sarebbero stati i consumatori a decidere il successo o l’insuccesso di questa nuova attività.

Il sistema scozzese era totalmente privo di regolamentazioni: i contratti venivano rispettati sulle basi della common law. Dovremo aspettare il 1765 perché lo Stato imponga alcune condizioni per operare nel settore. La prima di queste condizioni fu l’impossibilità di emettere banconote di valore inferiore alla sterlina; fu una scelta derivante dalla pressione delle banche più grandi che intendevano con questa misura svantaggiare gli istituti di emissioni più piccoli e deboli.

La seconda restrizione fu l’imposizione alle banche di effettuare subito pagamenti al portatore che volesse convertire la propria cartamoneta nel corrispettivo in oro: in precedenza la banca scozzese poteva avvalersi della copertura dello Stato qualora decidesse di spostare in avanti nel tempo il pagamento aggiungendovi un tasso d’interesse.

Adam Smith definiva questo sistema come “ideale” per un’economia libera:

“se i banchieri si dimostrano misurati nell’emettere qualsiasi banconota circolante, o le banconote pagabili al portatore, in quantità inferiore ad una certa somma; e se essi sono soggetti all’obbligo di un immediato pagamento di tali banconote non appena presentate, i loro scambi potrebbero, nella piena sicurezza del pubblico, essere infusi di libertà in ogni altro aspetto.”(2)

Si tratta di un sistema, quello scozzese, capace di prevenire il rischio di frode. La concorrenza inoltre agisce direttamente sugli istituti di emissione, obbligandoli alla cautela per non esporsi al rischio di bancarotta e di corse agli sportelli. In tale sistema il fallimento di uno dei molteplici sistemi in concorrenza non causa perdite significative per il pubblico, non esistendo un monopolio e quindi la possibilità di trascinare tutti nel baratro.

Da un punto di vista liberale possiamo dire che il sistema di free banking sarebbe senz’altro l’ideale, quello più in linea con i principi di libertà. Anche Murray Rothbard trattò il tema, partendo dal punto di vista di un’analisi della moneta, affermando come l’unica via per una moneta sana e onesta sia la fine del sistema bancario centralizzato. (3)

Rothbard in particolare ricordava come il free banking e quindi la concorrenza nel settore bancario potrebbero funzionare da deterrente contro le espansioni creditizie e l’inflazione alla base dei cicli economici. Le banche non avrebbero più la copertura dello Stato nelle loro attività scorrette, sarebbero più restie a prestare denaro a soggetti che non lo meritano a tassi bassi, e le stesse banche inaffidabili non resisterebbero molto nelle loro politiche scellerate senza un prestatore troppo compassionevole come si mostra spesso una banca centrale.

In sostanza, le magagne del sistema bancario non verrebbero fatte digerire al pubblico, ma resterebbero problemi solo di chi le ha create e di chi non ha avuto l’accortezza di allontanarsi dal soggetto “colpevole”.

Il free banking deve più che mai tornare a occupare un posto centrale nel dibattito oggi, quando vediamo le grandi “armi” anti-crisi dello Stato definitivamente spuntate e prive di qualsiasi efficacia nell’evitare una crisi post-Coronavirus. I sistemi monetari a corso forzoso stanno dimostrando tutti i loro punti deboli e in molti hanno pensato a un ritorno del gold standard davanti all’ennesima prova di impotenza dell’emissione indiscriminata di valute fiat nella gestione di una crisi economica.

Come ha saggiamente notato Alberto Mingardi, nel sistema scozzese 

“il legame tra valuta e metallo nel quale questa era convertibile rappresentava la possibilità di un limite all’arbitrio che è andata persa, man mano che l’incalzare della moneta fiduciaria è diventato irresistibile.”

Una cosa è certa, come riconosce lo stesso Mingardi: il mondo di ieri non può tornare domani, ma 

“il semplice fatto che soluzioni diverse da un sistema incardinato su moneta fiduciaria e banche centrali siano esistite, suggerisce che anche oggi altri approcci siano possibili, per quanto improbabili”.

NOTE

1) e 4) “Dal sesterzio al bitcoin – vecchie e nuove dimensioni del denaro” a cura di Angelo Miglietta e Alberto Mingardi, 2020, RUBBETTINO.

2) “La ricchezza delle nazioni”, Adam Smith

3) “Cosa ha fatto lo stato con i nostri soldi? Riprendiamoci la moneta e altri saggi”, Murray Rothbard, a cura di Piero Vernaglione, Leonardo Facco editore.

Paradossi del socialismo sovietico: falsa prosperità e vera povertà

L’Unione Sovietica, nel corso della sua storia, ha affrontato diversi nemici, dal Terzo Reich agli Stati Uniti. Tuttavia, alla fine il socialismo sovietico è stato abbattuto dall’unico nemico che nessuna ideologia potrà mai sconfiggere: la realtà. Nella sua guerra contro la realtà, il socialismo sovietico ha dato origine a diversi paradossi. Questo articolo si concentrerà su 3 dei più grandi fra questi paradossi.

Portafogli pieni, scaffali vuoti

Bisogna ammetterlo: se si considera come ricchezza la quantità di denaro a disposizione di un individuo, allora il cittadino sovietico medio era innegabilmente ricco. Grazie al regime socialista, che manteneva bassi i prezzi dei beni di consumo, e a continui aumenti di stipendio, i cittadini sovietici avevano molto denaro fra le mani[1].

C’è solo un problema: la ricchezza non è data da quanto denaro un individuo possiede, bensì da cosa l’individuo può comprare con quel denaro. Quindi, se i portafogli sono pieni ma gli scaffali sono vuoti, si arriva al paradosso di milionari che vivono in povertà, circondati da denaro contante che non potranno mai spendere.

Questa situazione paradossale era dovuta alla combinazione fra prezzi artificialmente bassi e salari artificialmente elevati (artificialmente perché stabiliti a tavolino dai pianificatori centrali del PCUS, quindi non derivanti dal naturale incontro fra domanda ed offerta, come avviene in un’economia di libero mercato).

In poche parole i cittadini sovietici, grazie alla loro disponibilità di denaro ed al basso prezzo dei beni di consumo, erano portati a consumare più di quanto producessero, e questo portava alla scarsità di beni[2].

Come spiega Ludwig von Mises ne “Il calcolo economico negli Stati socialisti”, poiché in un regime socialista è lo Stato a possedere tutti i mezzi di produzione ed a ridistribuire le risorse, non è possibile stabilire il prezzo reale di beni e servizi, dato che i prezzi derivano da milioni d’interazioni economiche fra milioni d’individui, le quali però sono assenti in un’economia pianificata, dove solo lo Stato compra e vende beni e servizi.

Quindi, tornando al discorso di prima, il prezzo artificialmente basso, stabilito dai burocrati del PCUS, di un bene o di un servizio non rispecchiava la sua reale disponibilità. Il consumo eccessivo di beni e servizi, poi, generava scarsità.

Da qui la famosa immagine delle file per i negozi: i primi della fila erano fortunati, perché potevano comprare tutto quello che volevano, di conseguenza però non restava niente per gli altri. I cittadini sovietici, che non erano stupidi, sapevano bene quale fosse il vero valore del loro denaro, che con un’ironia un po’ cinica definivano come “soldi del Monopoly”[3].

L’Holodomor: un successo del Piano Quinquennale

Fatta eccezione per i tankies, fortunatamente oggi nessuno nega più l’Holodomor, la “morte per fame” di milioni di Ucraini fra il 1932 ed il 1933. Tuttavia, forse non tutti sanno quanto le politiche economiche sovietiche siano state responsabili per questa tragedia.

Innanzitutto bisogna fare alcune premesse. Come già accennato, all’interno dell’Unione Sovietica il denaro aveva ben poco valore, soprattutto a causa dell’eccessiva quantità di rubli in circolazione (l’iperinflazione è stata un fenomeno ricorrente nella storia dell’URSS). Di conseguenza, anche i Paesi stranieri si rifiutavano di accettare rubli nei loro commerci con l’Unione Sovietica, esattamente come oggi nessuno accetta la valuta nordcoreana per commerciare.

Pertanto, così come oggi Kim Jong-un ha bisogno di accumulare valuta estera per comprare materie prime e macchinari a fini bellici, allo stesso modo Josef Stalin negli anni Trenta aveva bisogno di valuta estera per acquistare i mezzi necessari ad espandere il suo potere in Europa ed in Asia. Per accumulare valuta estera, quindi, Stalin fece delle esportazioni una priorità[4].

Dato che all’epoca il Paese era ancora poco industrializzato, le esportazioni sovietiche consistevano principalmente in materie prime, soprattutto prodotti agricoli, ed è qui che ci si ricollega all’Holodomor.

All’inizio degli anni Trenta, a causa delle perdite dovute alla collettivizzazione forzata dei terreni agricoli, all’eliminazione dei kulaki e ad una siccità che colpì l’URSS nel 1931, la produzione agricola, soprattutto quella del grano, calò drasticamente[5]. A questo punto, sarebbe stato ancora possibile scongiurare la carestia, se non fosse stato per una quarta sciagura: il PCUS.

Il regime comunista, infatti, adottò due provvedimenti che condannarono definitivamente alla morte per fame milioni di persone. In primo luogo, per mantenere ad ogni costo le quote stabilite dal Piano Quinquennale, il PCUS decise di aumentare la pressione sulle aree meno colpite dalla siccità, e d’inasprire le già severissime pene per i contadini che osavano trattenere parte del loro lavoro per sfamare le proprie famiglie[6].

In secondo luogo, Stalin decise che, a dispetto della situazione interna critica, le esportazioni di prodotti agricoli andavano incrementate: fra il 1929 ed il 1931, le esportazioni di grano sovietico passarono da 170000 tonnellate a 5200000 tonnellate, in soli due anni quindi aumentarono di 30 volte[7]. Due anni dopo, milioni di cittadini sovietici erano morti nella carestia che il regime comunista aveva reso inevitabile.

L’inefficienza è forza

Nell’Unione Sovietica, l’inefficienza non era l’eccezione nel processo produttivo, qualcosa da individuare e correggere, bensì era la norma, sancita come tale dal principio comunista del “da ognuno secondo le proprie capacità, ad ognuno secondo i propri bisogni”.

Applicando questo principio alla realtà del processo produttivo, si ottenevano due possibili risultati. Nel primo caso, durante una dato Piano Quinquennale, una certa fabbrica arrivava a raggiungere solo metà della quota produttiva prevista dal Piano. Secondo il principio precedentemente citato, pertanto, nel Piano Quinquennale successivo alla fabbrica sarebbe stato destinato il doppio delle risorse e degli operai, per raggiungere la quota[8].

Nel secondo caso invece, durante lo stesso Piano Quinquennale, un’altra fabbrica riusciva a soddisfare la quota richiesta utilizzando le risorse e la manodopera nel modo più efficiente possibile. Di conseguenza, sempre per lo stesso principio, nel Piano Quinquennale successivo alla fabbrica sarebbe stata imposta una quota più elevata, da soddisfare senza ricevere più risorse e operai[9].

Naturalmente, in queste condizioni la fabbrica efficiente avrebbe fallito nel raggiungere la prestazione richiesta, e solo allora avrebbe ottenuto aiuti per soddisfare la quota. In un simile contesto, quindi, quale dirigente sarebbe stato così sconsiderato da promuovere l’efficienza all’interno della propria fabbrica?

Apparentemente, avrebbero vinto tutti: sulla carta, il Piano Quinquennale sarebbe stato un successo, il PCUS avrebbe avuto una nuova vittoria del socialismo sovietico di cui vantarsi, ed i dirigenti delle fabbriche inefficienti si sarebbero ritrovati a gestire fabbriche più grandi.

A lungo andare, però, la realtà si sarebbe presa la propria rivincita sull’ideologia. Alla fine, le immense risorse dell’URSS sarebbero state insufficienti per compensare i danni dovuti a decenni di cattiva gestione della attività produttive da parte dei burocrati del PCUS, e così è stato.

Conclusioni

Si dice che la follia consista nel fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi. In questo senso, perciò, non è esagerato definire folli i pianificatori centrali del regime sovietico, che nel corso della storia dell’URSS hanno più volte scelto di ripetere gli stessi errori, piuttosto che ammettere l’impossibilità di plasmare il mondo ad immagine e somiglianza della loro ideologia.

Ma se loro sono stati dei folli, ancora più folli sono quelli che, a trent’anni dal fallimento dell’esperimento sovietico, non solo si rifiutano di riconoscere come responsabile di tale fallimento il socialismo sovietico stesso (dando quindi la colpa agli Stati Uniti, alla CIA, a Gorbačëv etc…), ma che propongono persino di ripeterlo come se, per l’appunto, si aspettassero risultati diversi.

[1][2][3] https://youtu.be/kPVo9w79D6w

[4][5][6][7] https://www.google.com/url?sa=t&source=web&rct=j&url=https://www.youtube.com/watch%3Fv%3DmZoUioqlZEs%26vl%3Den&ved=2ahUKEwifucHoxdvoAhXOUJoKHX2CCwgQFjAAegQIAxAB&usg=AOvVaw2mEIG3Na4vkRNdUV5NfPtF

[8][9] https://youtu.be/S3Jkqqlpibo

 

L’Unione Europea secondo David Hume

La crisi economica innestata dal dilagare del coronavirus ha riportato al centro dell’attenzione il ruolo dell’Unione Europea e gli strumenti di cui questo organismo può disporre per venire in aiuto agli Stati in difficoltà.

Si è proposto di usare i fondi del Mes oppure emettere titoli di debito condiviso dagli stati membri, i famosi eurobond tanto cari a Tremonti. Queste misure, ben lontane dal dare una risposta seria ed efficace nel lungo termine, sono da considerarsi delle vere e proprie cessioni di sovranità verso Bruxelles: il Mes implica una cessione esplicita, alla luce del sole, mentre gli eurobond farebbero entrare dal retro una futura armonizzazione fiscale e un ministro delle finanze unico per l’Eurozona. Ha riassunto bene la contraddizione dei sovranisti-pro eurobond un tweet del professor Riccardo Puglisi, economista che insegna all’Università di Pavia:

“Quindi qualcuno non ha ancora capito che per avere i cosiddetti eurobond devi avere un bilancio federale europeo, cioè spese e imposte decise a livello federale?”

Da un punto di vista liberale, date queste premesse, è necessario chiedersi: è giusto implementare questo processo? Quanto è funzionale, nel processo verso l’autodeterminazione dell’individuo, una cessione di sovranità da un organismo minore a uno di maggiore entità come è l’Ue?

Se guardiamo alla storia europea, alla nascita della cultura occidentale e allo sviluppo del commercio possiamo vedere come questa grande “fertilità” dal punto di vista economico e culturale sia stata possibile grazie a un sistema fortemente decentralizzato.

David Hume, interrogandosi sulla nascita delle arti e delle scienze, affermava che

“Niente è più favorevole al sorgere della civiltà e della cultura dell’esistenza di un certo numero di Stati vicini e indipendenti, legati da rapporti commerciali e politici.”

Sembrerebbe quindi escludere l’evoluzione del processo di integrazione europea dal percorso di sviluppo e crescita dell’Occidente. Hume naturalmente non faceva riferimenti al concetto moderno di entità sovranazionale come oggi noi intendiamo l’Unione Europea: parlava di Stati più o meno grandi, ma ci sembra necessario citare il pensiero del grande filosofo scozzese perché per troppo tempo abbiamo visto un’euroscetticismo chiuso, illiberale e senza cultura. L’opportunità per costruire una critica seria e argomentata all’Unione Europea e a una maggiore integrazione tra gli stati membri esiste realmente, e andrebbe colta per non veder scadere il dibattito politico nel banale “euro sì – euro no”.

I vantaggi di Stati di minore estensione sono molti secondo Hume: in un grande Stato l’autorità potrà facilmente utilizzare la coercizione sui singoli individui per commettere ingiustizie, mentre nelle piccole comunità sarà disincentivata a farlo perché dovrà agire sotto gli occhi di tutti. Questa visione tra l’altro verrà ripresa da Hayek, che affermerà come negli Stati più estesi la coercizione sarà sempre maggiore perché maggiore sarà il potere nelle mani di chi governa. Hume afferma che

“le divisioni in piccoli stati favoriscono la cultura, perché arrestano i progressi dell’autorità e del potere.”

Secondo Hume la forza dell’Europa a livello culturale ed economico sta proprio nella sua frammentazione, così come la frammentazione politica permise alla Grecia di diventare un faro di civiltà per l’Occidente. Il decentramento e la competizione hanno accompagnato la storia europea, e non è appiattendo le nostre differenze che troveremo la strada per crescere. Anche Margaret Thatcher riprenderà questa tradizione affermando che

“Se l’Europa ci affascina, come ha spesso affascinato me, è proprio per i suoi contrasti e le sue contraddizioni, non per la sua coerenza e continuità.”

Vale inoltre la pena, per avvicinarci ai giorni nostri, di citare Daniel Hannan, eurodeputato conservatore e uno dei maggiori volti della campagna per il Leave al referendum sulla Brexit. Nel suo libro “What Next”, in cui traccia una futura Global Britain fuori dall’Ue Hannan fa notare come la Brexit non debba essere un punto di arrivo, ma un punto di partenza: “la sfida ora è devolvere il potere al livello più basso praticabile, fino ad arrivare al singolo cittadino”. Non un sovranismo fine a sé stesso, che da un punto di vista liberale sarebbe inaccettabile, ma un percorso verso le libertà individuali.

Un liberale dovrebbe valutare con grande attenzione queste tematiche: l’accentramento di poteri permette una coercizione sempre maggiore, e l’armonizzazione fiscale in Europa non porterà certamente ad un abbassamento delle imposte.

Da David Hume a Friedrich von Hayek è stata riconosciuta l’importanza del libero scambio per una maggiore e diffusa prosperità, e questo avviene nelle condizioni di un mercato libero, non in un mercato unico. Ai tempi del virus, forse, tornare a riflettere sull’opportunità di istituzioni con immenso potere come la Bce e l’Unione Europea in generale sarebbe davvero necessario, così come capire che, molte volte, sulla strada per l’unità a lasciarci le penne è la libertà.

Il Sovranismo è anticapitalista?

Qualcuno sostiene che il Sovranismo sia un pensiero politico nuovo, innovativo, che crea una rottura con il passato. Essi sostengono, altresì, che il Sovranismo sia l’espressione di un nuovo pensiero popolare che non ha alcun legame storico-ideologico con il pensiero statalista, quello socialista o quello comunista.

Io penso, invece, che il pensiero sovranista ha più di un legame con il pensiero nazionalsocialista, noto attualmente – per comodità, direi – come Destra Sociale. Un legame che li lega non solo politicamente, ma anche culturalmente.

Partiamo dal presupposto che il Sovranismo è insurrezione popolare. Si tratta di una reazione del popolo contro una presunta élite. Storicamente il pensiero nazionalsocialista, come nel Sovranismo, è un movimento di giustizia sociale contro un nemico chiaro. Nello specifico si parla di comunitarismo.

Un comunitarismo inteso come vivere attraverso l’identità, la propria provenienza, le proprie origini. Un comune agire per un comune obiettivo, un comune agire per comuni usanze. Il collettivismo sovranista è facilmente intendibile, pertanto, come un reazionismo verso un presunto degrado di valori provocato da vari nemici, come la tecnocrazia.

Il Sovranismo ha dunque, nelle sue corde, una forte componente di giustizia sociale. Non è nemmeno questa una novità rispetto al passato. Non solo dagli ambienti marxisti, ma anche dagli ambienti nazionalisti italiani. Storicamente, nella cultura di destra sociale, è sempre esistita una forte esigenza di giustizia sociale. Una giustizia sociale che, eliminando i difetti del marxismo e del liberalismo, tende a rafforzare tutti.

Non è una sorpresa che tanti esponenti sovranisti siano ancora a favore di una visione corporativista dello Stato e dell’economia. Uno Stato che tende sia a limare la presunta “avidità” del capitalista che a soddisfare le esigenze del lavoratore sfruttato. Quindi, una giustizia sociale che tende a rafforzare tutti.

Ovviamente, anche in questo caso la giustizia sociale è traducibile con una riduzione concreta delle libertà individuali. Si parla, piuttosto, di una libertà impostata e ipotetica, in quanto, secondo il Sovranista, ponendo un equilibrio tra liberalismo e comunismo, non ci dovrebbero essere motivi di disarmonia.

Insomma, il Sovranismo parte da una reazione, una reazione per soddisfare una giustizia sociale, una giustizia sociale attuabile con la riduzione delle libertà individuali. Ma fino a qui, siamo sulla teoria.

Come è traducibile nella pratica il pensiero sovranista?

Sostanzialmente, in uno schema sovranista, il capitalismo è il mezzo per arricchire Stato e proletari. Esattamente, il capitalista è l’attore da sfruttare. Non deve arricchirsi alle spalle di nessuno, non può prendere libera iniziativa, ma deve limitarsi a rispettare le esigenze di Stato. Per essere chiari, nel sovranismo, il mercato non può mancare.

Però è inevitabile che ci sia il Mercato, il quale quindi viene “indirizzato” per soddisfare i bisogni dello Stato. Quindi, un mercato strozzato dalle esigenze statali. Allo stesso tempo, lo Stato rafforza la componente proletaria, rendendo l’azienda da privata a Istituto Sindacalista, in cui il titolare dell’impresa, per decidere su qualcosa di sua proprietà, deve rivolgersi ai lavoratori.

Per concludere, il sovranismo ha un tasso molto alto di nazionalismo nelle sue corde culturali. Un nazionalismo di vecchio stampo, aggiungerei. Vecchio stampo perchè si tende a isolare mentalmente l’Italia e ad immaginare il mondo come il campo di battaglia della guerra di tutti contro tutti. Ovviamente, anche su tematiche interne, il sovranismo ha una forte propensione alla protezione del Made in Italy, tenendo persino in considerazione la possibilità di dazi o misure fortemente penalizzanti verso le aziende estere.

Davvero il socialismo fallisce per i boicottaggi?

Una cosa che si dice comunemente delle economie socialiste, specie in Africa e in Sud America, è che falliscano per colpa dei boicottaggi. Non è il sistema economico a non funzionare, ovviamente, ma è colpa degli Stati Uniti che bloccano i commerci!

Eppure in Africa ci fu uno Stato che venne boicottato per praticamente tutta la sua esistenza, la Rhodesia.

La Rhodesia non era un Paese liberale, era infatti governato in larga parte dalla minoranza bianca ed i neri erano perlopiù esclusi dalla vita politica. Il leader del paese, Ian Smith, credeva che i bianchi avessero il dovere di governare poiché fuori dalle lotte tribali che caratterizzavano la popolazione nera.

Il suo era, per chi fosse interessato, un regime meno duro rispetto a quello del Sudafrica: i neri avevano la cittadinanza, spesso il diritto di voto – seppur limitato in base all’istruzione – e lavoravano a fianco dei bianchi frequentemente. Esistevano anche scuole private dove bambini bianchi e neri andavano nelle stesse classi senza problemi, ma l’istruzione pubblica era segregata.

Dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza nel 1965 alla rinuncia alla monarchia nel 1970, fino alla fine del Paese nel 1979, fu tutto un susseguirsi di sanzioni. L’economia rhodesiana, a differenza di quelle socialiste, ha retto. Non senza conseguenze, sia chiaro: l’economia del Paese rallentò, ma non drammaticamente.

Bisogna considerare, inoltre, come gli alleati della Rhodesia non fossero superpotenze: aveva dalla propria parte Sudafrica e Portogallo. Stati che hanno sicuramente, violando le sanzioni, aiutato il Paese, ma non al livello degli alleati dei Paesi socialisti come l’URSS!

Durante il boicottaggio il PIL rhodesiano rimase quasi stabile: l’agricoltura si spostò da produzioni esportabili in Europa a produzioni consumabili in loco o esportabili in Sudafrica, certe industrie si specializzarono a tal punto da arrivare a fare concorrenza a quelle sudafricane.

Solo dal 1975 vi fu una limitata contrazione dell’economia, dovuta soprattutto all’aumento delle spese militari e ad una certa “limitazione” del liberalismo economico per poter fronteggiare meglio la guerra, con l’obiettivo idealizzato di tornare ad esso dopo la fine del conflitto.

Ma secondo gli economisti, l’economia della Rhodesia fu in grado di reggere alle sanzioni senza gravi danni solo grazie alle politiche liberiste applicate prima della dichiarazione di indipendenza, che permisero lo sviluppo di un settore industriale e agricolo malleabile e sufficiente a soddisfare le richieste nazionali.

Come vediamo dal grafico del PIL, che trovate qui sul sito della Banca Mondiale, al termine del boicottaggio, nel 1979, l’economia vide inizialmente una netta crescita. Tuttavia, poco dopo il governo di Robert Mugabe iniziò ad applicare le proprie ricette corporativiste e socialiste. Tutti gli indici economici iniziarono a calare portando anche ad effetti a lungo termine: nel 2008 il PIL dello Zimbabwe era pari a quello medio della Rhodesia indipendente.

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Successi del socialismo di Mugabe

Le politiche di Mugabe portarono ad un’iperinflazione – ossia alle famose banconote da miliardi di dollari che non valevano niente – ma anche alla fuga di persone molto qualificate, specie quando Mugabe ordinò la confisca dei beni dei bianchi.

La differenza tra il governo di Smith e quello di Mugabe era essenzialmente una: il modello economico di Smith funzionava, quello di Mugabe no.

La Rhodesia, grazie ad un’economia solida e libera, fu in grado di reggere anche ad una comunità internazionale quasi completamente ostile. Lo Zimbabwe, con la sue politiche economiche socialiste, non ha retto nemmeno al normale corso degli eventi.

Viene da chiedersi quindi: com’è possibile che l’economia socialista sia migliore di quella capitalista, se la prima andrebbe in totale crisi e povertà per un boicottaggio che la seconda supera con qualche noiosa difficoltà?

Fonti