Questo testo critica un discorso tenuto dall’economista inglese John Maynard Keynes il 23 giugno 1926 all’Università di Berlino. Egli faceva una tagliente critica al liberalismo e al capitalismo; rifiutava la libera proprietà privata dei mezzi di produzione, pur non volendo essere socialista. Raccomandava invece, come soluzione, una via di mezzo tra proprietà privata dei mezzi di produzione, da un lato, e proprietà sociale, dall’altro; che non è altro che la proprietà privata regolata attraverso il controllo sociale. Non sarebbe lo Stato ad assumersi questo controllo; lo farebbero invece ‘organismi societari semi-autonomi inseriti nel sistema statale’, da cui si arriverebbe ad ‘un ritorno ad autonomie indipendenti di stampo medievale’.
Keynes non propone altro che ciò che per decenni, soprattutto in terra tedesca, è stato promosso dalla scienza ufficiale e da tutta l’opinione pubblica come “soluzione alla questione sociale”. Non ci sarebbe motivo di preoccuparsi di questo piccolo opuscolo, perché tutto ciò che presenta è già stato trattato nella letteratura tedesca centinaia di volte, e, se non in miglior modo, sicuramente non peggiore, e comunque più approfonditamente. Ma il titolo che Keynes ha dato alla sua opera (La Fine del Laissez Faire) e le sue seccature epigrammatiche necessitano di una nota critica.
La famosa massima recita, per esteso, laissez faire et laissez passer. Essa si riferiva quindi – innegabilmente senza una coincidenza totale fra esperienza storica e massima – al “faire” (fare) per quanto riguarda la gestione delle merci, ad eccezione del loro spostamento fisico, e al “passer” (passare) per quanto riguarda la libera circolazione di uomini e di merci. In realtà questi due tipi di impresa sono inscindibili, e non è legittimo separarli a piacimento, essendo queste le ramificazioni della stessa ideologia sociale.
Keynes, tuttavia, parla deliberatamente solo di laissez faire. Egli menziona il protezionismo solo di sfuggita (p. 26); sorvolando interamente sulla libera circolazione. È facile capire le basi per una tale autolimitazione. La protezione e l’intralcio al libero scambio internazionale sono, sicuramente, graziosamente medievali, ma i loro pessimi effetti sono oggigiorno così chiari che un riformatore sociale, nel combattere il liberalismo, fa solo che bene a tacere su di essi. Specialmente un anglosassone, che vuole opporsi al liberalismo a Berlino, deve evitare di sollevare tali delicate questioni.
Certamente si trovavano tra coloro che lo hanno ascoltato alcuni che negli ultimi anni sono stati cacciati dalle terre in cui questi avevano vissuto e lavorato; ed altri che desiderano emigrare da un’Europa centrale sovrappopolata e non possono perché i lavoratori delle terre meno popolose si difendono dall’arrivo di concorrenti. E Keynes saprà inoltre certamente che è proprio il protezionismo ad aver messo la Germania e l’Inghilterra in una situazione economica di tale difficoltà.
Se Keynes avesse parlato (veramente) della fine del laissez faire et laissez passer, allora non avrebbe potuto non vedere come il mondo di oggi è malato proprio perché, per decenni, le cose non sono state regolate da questa massima. Chi si rallegra che i popoli si allontanino dal liberalismo, non deve dimenticare che la guerra e la rivoluzione, la miseria e la disoccupazione di massa, la tirannia e la dittatura non sono compagni casuali, ma sono i risultati necessari dell’antiliberalismo che oggi governa il mondo.
Traduzione a cura di Marco Bares