L’Italia del 2018 come la Giudea del 33 d.C. : analisi dell’elettorato

Il 33 d.C. è l’anno in cui -così si narra da due millenni- Gesù venne crocifisso. Cosa stava accadendo in Giudea in quel periodo? Premetto, come sempre, che sono fermamente convinto del mio agnosticismo e che quanto esporrò non avrà l’intenzione di far redimere nessuno come Paolo sulla via di Damasco.

Fra i giudei c’erano due fazioni opposte fra loro: la fazione per la sottomissione ai romani proponeva di chinare un po’ il capo per vivere nella pace instaurata dal dominio di Roma, dialogando con i dominatori per mantenere qualcuna delle proprie tradizioni; l’altra fazione era quella degli Zeloti, che contestavano l’Impero con la violenza e con rappresaglie partigiane, volevano scacciare i loro governanti reclamando il regno di Dio in terra.

Fra gli italiani dei nostri giorni le fazioni sono più di due, ma molto semplicisticamente possiamo dire che si possano dividere così: la fazione per lo Status Quo, quella parte della popolazione che si è rassegnata (consapevolmente o no) ai grandi cambiamenti e che spera tutto si risolva con piccoli e minimi interventi, facendo sì che tutto cambi per non cambiare; dall’altra parte la fazione che è stufa della stazionarietà, quella che vuole il cambiamento e lo accetta di qualsiasi forma esso sia, basta che qualcosa cambi e che l’establishment attuale perda i suoi privilegi.

Nel primo caso, nelle annate d’intorno al 33 d.C. si stava diffondendo una terza via: quella dell’Amore, propugnata dai seguaci di Cristo; predicavano che la Libertà sarebbe arrivata tramite l’Amore, che la pace fra gli uomini sarebbe stata solamente una delle conseguenze di Amore e Libertà. Ci sono voluti diversi secoli, ma il contagio di quelle idee è stato tale da espandersi in ogni continente e sopravvivere per due millenni. Quel marketing ha funzionato alla grande: a differenza delle altre grandi dottrine utopiche, il richiamo del cristianesimo viene spontaneamente da dentro di sé una volta che si ha innescato la miccia, ha funzionato senza imporlo dall’alto (sarà l’imposizione degli ultimi secoli il motivo per cui ora sta indebolendosi e perdendo seguito?). A differenza del comunismo o delle dittature benevole e costruttivistiche del Grande Leviatano, secondo cui è l’ente centrale a imporre la pace e il bene per gli uomini.

Il secondo caso, quello odierno, è più difficile da trattare. Quello che è certo, è che non possiamo aspettare l’avvento di un altro messia e non dobbiamo più riporre le nostre speranze nell’ascesa di un nuovo uomo forte, carismatico e capace che sappia cosa fare. Nessuno più di un liberale dovrebbe sapere che la salvezza, l’autorealizzazione, la dignità, l’impegno, il merito vengano solo da sé e non dagli altri. Nessuno più di un liberale dovrebbe darsi da fare per la lotta quotidiana contro il collettivismo, contro la massificazione, contro l’omologazione (altro che il Capitalismo che ci vuole tutti uguali, quello è il comunismo!), diffondendo senza paura quell’ideale che nascondiamo in un recondito angolo della nostra mente.

Noi liberali sappiamo cosa c’è da fare: diffondere la Libertà, il progresso, il mercato e darci da fare per cambiare il tessuto culturale del nostro paese; un paese che rischia di rimanere senza futuro a causa di chi ha troppa paura del cambiamento o di chi vuole rivoltare il sistema senza rigor di logica.

Il liberale che salvò Torino dal collasso economico

È il 20 Settembre 1864, da pochi giorni è trapelata la notizia che la capitale d’Italia non sarà più Torino. Scoppia una manifestazione che dura tre giorni, muoiono 62 cittadini e 138 rimangono feriti.

Credete che i torinesi dell’epoca ci tenessero così tanto allo status di capitale? No: stavano per perdere il posto di lavoro. E, non essendoci molto altro a Torino sennonché l’amministrazione, ben 32’000 abitanti dei 224’000 complessivi abbandonarono la città nel primo anno.

Il Sindaco Emanuele Luserna di Rorà, apprezzatissimo dagli elettori (entrò in Parlamento con 643 preferenze su 657 votanti), ma anche noto per il suo ingegno, aveva passato i primi due anni dell’amministrazione cittadina migliorandone le condizioni igieniche e riqualificando i servizi essenziali della città. Al compiersi della crisi, Quintino Sella gli propose un indennizzo per finanziare i progetti di riconversione, ma il Sindaco rifiutò asserendo che «Torino non è in vendita!»  e preparò un piano, tutt’oggi riproponibile, per realizzare il suo nuovo obiettivo: «Torino dovrà divenire la Manchester d’Italia».

Ecco i punti fondamentali:

  • Logistica e infrastrutture per rendere più appetibile agli imprenditori la zona;
  • Turismo (loisir) basato sulla “coltura” della bellezza e dell’ospitalità;
  • Detassazione per le industrie estere e non che decidessero di investire (con grande pubblicità su tutti i giornali europei);
  • Trarre frutto dal territorio, costruendo canali per impianti energetici e industriali.

Il Marchese di Rorà voleva, dunque, che Torino divenisse la capitale italiana dell’industria, dopo aver smesso di essere la capitale amministrativa. Avviò un processo d’industrializzazione che divenne un imperativo categorico per ogni singolo funzionario torinese. Nel 1865 Rorà lasciò l’incarico al suo successore, il quale si impegnò nel proseguire il progetto, e venne lanciato l’Appello in più lingue diretto verso ogni industriale italiano ed europeo, informando che a Torino avrebbe trovato agevolazioni fiscali e pronte infrastrutture.

L’impianto di approvvigionamento raggiunse in poco tempo i 2000 cavalli vapore, per mezzo dei numerosi canali provenienti dal torrente Ceronda e -soprattutto- grazie all’apporto scientifico dell’ingegner Galileo Ferraris, a cui oggi è dedicata una delle più importanti e lunghe vie della città di Torino.

È innegabile che queste menti illustri e brillanti abbiano evitato il collasso della città di Torino, ma ciò che è più importante è che siano stati dei liberali a farlo, senza intromettersi nel mercato ma unicamente fornendo all’industria tutte le possibilità di svilupparsi, migliorando al contempo il benessere cittadino e le condizioni di vita. Ecco un breve estratto del discorso del Sindaco Rorà tenuto il 22 Aprile 1862 (prima dei fatti succitati):

Or qui mi affretto a dichiarare che malgrado queste mie non modeste idee di tante forze motrici d’ogni genere io non intendo punto debbasi inaugurare un nuovo sistema di grandiosissimi lavori e di enormi spese.
Questo urterebbe coi principii che professo, e secondo i quali l’amministrazione pubblica può bensì soccorrere, ma non surrogarsi alla privata industria sotto pena di diventare essa stessa speculatrice o creare a quella una vita fittizia e mal sicura.

Il suo spirito non mutò durante il discorso del 23 Maggio 1865 (dopo aver iniziato il piano d’industrializzazione):

Noi vorremmo al certo rendere all’operaio men caro il vivere, ma anzitutto dobbiamo pensare a far sì che non possa mancargli lavoro.
La Commissione partendo da due principii vi proporrà di ridurre il dazio di tutto quanto parve possibile: cioè affrancare l’industria da quelle tasse che maggiormente l’inceppano, e sgravare dal dazio i generi che servono specialmente al vitto della classe meno agiata e che danno luogo a maggiori reclami nella riscossione.

Ed ecco che il discorso volge parafrasando Adam Smith, che il buon Sindaco dimostra d’aver letto, indicando come la voglia e la necessità dell’Individuo di avere di più in concorrenza possano conciliarsi con la cooperazione:

Spero riusciremo, perché confido nel carattere dei nostri concittadini, nel loro coraggio, nella loro fede nell’avvenire e nella loro operosità che, se poco può fare da sé adoperata parzialmente, può tutto qualora sia riunita in associazione.

Spero di avervi convinto maggiormente delle tesi liberali, avendo come testimone la Storia, e per farvi rendere conto del circolo virtuoso innescato da Rorà, basti pensare che Torino fu per i cent’anni successivi uno dei tre poli del triangolo industriale. Ti chiederai se sono sicuro della causalità? Certamente, altre cause non ce ne sono: la manifattura avrebbe potuto fiorire in Veneto, in Toscana, in Emilia; e invece no, fu proprio Torino -mossa dal propulsore liberale- a divenire fulcro del Triangolo Industriale.

Il protezionismo è nemico dell’Industria [Discorso di Cavour]

Quando si fece la riforma del 1851, molti onorevoli e benemeriti industriali vennero a me per cercare di convincermi che se la riduzione [ndr: dei dazi] venisse approvata dal Parlamento, tutte le fabbriche si chiuderebbero.

E mi ricordo che uno di quei signori, che non nominerò, mi disse: ebbene, l’anno venturo ci vedrà in piazza Castello con sei o settemila operai a domandare il pane.

Io espressi un vivissimo dolore di questa eventualità, ma siccome credevo fermamente che s’ingannasse, non m’arrestai.

Si fece la tariffa. Otto mesi dopo mi annunciano quello stesso industriale, ed immaginai a tutta prima che fosse seguito da seimila operai; ma era solo.

Ei s’avanza e mi dice -scusate la parola un po’ volgare-, mi dice: io era un gran minchione, Lei aveva tutte le ragioni; fatta la riforma mi sono detto due cose: o chiudere la fabbrica o migliorarla; presi il secondo partito, andai in Inghilterra e vidi che ella aveva ragione, che noi eravamo indietro ancora di venti e più anni; mutai tutti i miei meccanismi e tutto procede bene.

Alcuni anni dopo, passando nel paese dove questa fabbrica è stabilita, ebbi il piacere di vedere una fabbrica che, a parer mio, può essere annoverata fra le prime di questo paese.

Prenderò a considerare una sola industria, quella delle sete.
L’Italia meridionale produce molte sete, e sete piuttosto di qualità reputate; eppure tutta la seta greggia va a farsi lavorare altrove, parte in Lombardia e in Piemonte, parte in Francia ed Inghilterra. Quale ne è il motivo? Perché non vi sono sufficienti capitali e tendenze industriali onde creare nell’Italia meridionale degli edifizi per filare e torcere la seta.

La conseguenza del sistema protettore è di spingere i capitali e gli industriali nelle industrie protette, quella della libertà è di spingerli invece nelle industrie naturali al paese. Quindi io credo che, se la riduzione avesse per avventura per effetto di menomare in Napoli l’industria dei panni (ciò che non credo), per compenso accrescerebbe l’industria della seta.

La miglior prova, del resto, per sapere se questa riforma fu fatta opportunamente è di esaminare le conseguenze della medesima. Questa riforma fu fatta nel mese di settembre scorso, cioè nove mesi or sono. Non mi ricordo se nel primo momento eccitò qualche lagnanza, ma il fatto sta che quindici giorni dopo più nessuno ne parlò, più nessuno di questi industriali se ne rammaricò. Ora, ad un tratto, quando questa legge viene in discussione, si presentano a voi questi industriali e dicono: se voi la sancite siamo rovinati. Ma in questi nove mesi, io chiedo loro: avete voi perduto molto? Signori, sarei ben contento, per la mia fortuna, di avere una piccola porzione dei profitti che questi industriali hanno raccolti in questi pochi mesi!

Finalmente io credo che per favorire l’industria (ed in questa parte l’onorevole Sella potrà fare molto più di me), si conviene di favorire l’istruzione professionale non solo nelle alte, ma nelle basse sfere degli operai. Noi difettiamo ancora di buoni capimastri nelle nostre fabbriche; s’incontrano assai difficoltà onde procacciarsi dei meccanici ingegneri, quelli che gl’Inglesi dicono engineers, che sono meccanici un po’ distinti, e per avere questa classe di capimastri artieri è necessario che vi siano alcune scuole tecniche, dove gli operai, non quelli vestiti di panno fino, ma i veri operai che hanno un ingegno naturale acquistino quelle cognizioni che sono necessarie per diventare buoni capi d’arte, buoni capimastri.

Io credo d’aver fatto il possibile onde alcune di queste scuole fossero attivate; se il mio onorevole collega ministro dell’istruzione pubblica, coadiuvato dall’onorevole deputato Sella, può far sorgere di queste scuole in varii punti dello Stato, avrà reso all’industria un ben altro servigio che non sarebbe l’aumento dell’uno o del due per cento sui dazi protettori.

27 Maggio 1861

L’importanza delle ferrovie per lo sviluppo economico, morale e culturale dell’Italia

L’influenza delle ferrovie si estenderà su tutto l’universo. Nei paesi che hanno raggiunto un alto grado di civilizzazione imprimeranno all’industria un enorme impulso: avranno sin dall’inizio un’ottima resa economica, accelereranno la marcia in avanti della società. Ma, gli effetti morali che necessariamente ne risulteranno, ancora maggiori, a parer nostro, degli effetti materiali, saranno notevoli soprattutto per quelle nazioni che, nella marcia ascensionale dei popoli moderni, sono rimasti indietro. Per esse le ferrovie saranno più che un mezzo di arricchimento, saranno l’arma potente mediante la quale riusciranno a trionfare sulle forze frenanti che le mantengono in uno stato funesto di infanzia industriale e politica.

Le ferrovie allora si stenderanno senza interruzione dalle Alpi sino alla Sicilia e faranno scomparire gli ostacoli e le distanze che separano gli abitanti dell’Italia e che impediscono loro di formare una sola e grande nazione.

Ma, per quanto grandi siano i benefici materiali che le ferrovie sono destinate a diffondere in Italia, noi non esitiamo a dire che resteranno molto al di sotto delle conseguenze morali che produrranno.

Le sventure dell’Italia sono di vecchia data. Non cercheremo neppure di ricercarne nella storia le numerose fonti. Simile compito, per il quale non è questa la sede, sarebbe d’altronde superiore alle nostre forze. Crediamo tuttavia di poter stabilire come dato certo che la causa prima debba attribuirsi all’influenza politica che gli stranieri da secoli esercitano tra noi, e che i principali ostacoli che ci impediscono di affrancarci da questa funesta influenza sono, innanzitutto, le divisioni intestine, le rivalità, direi quasi le antipatie che animano, l’una contro l’altra, le diverse frazioni della grande famiglia italiana; e successivamente, la diffidenza esistente tra i principi nazionali e la parte più vigorosa della popolazione.

Se le ferrovie sono chiamate a ridurre questi ostacoli e forse addirittura a farli scomparire, ne consegue naturalmente che sarà questa una delle circostanze che maggiormente promuoveranno il sentimento nazionale italiano. Un sistema di comunicazioni che produrrà un continuo movimento in ogni direzione di persone e che necessariamente metterà in contatto popolazioni rimaste sino ad oggi estranee le une alle altre, contribuirà in forte misura a eliminare le meschine passioni municipali, figlie dell’ignoranza e dei pregiudizi,  già oggi attaccate dagli sforzi di tutti gli uomini illuminati dell’Italia

Più di ogni altra riforma amministrativa, la costruzione delle ferrovie contribuirà a rafforzare lo stato di reciproca fiducia tra i governi e i popoli, fondamento delle nostre speranze a venire. Dotando le nazioni, i cui destini sono loro affidati, di questi potenti strumenti di progresso, i governi dimostrano pubblicamente lo spirito di benevolenza che li anima e il senso di sicurezza che provano.

Cavour, 1846

È arrivato il populismo in America?

Abbiamo assistito alla rivalsa del populismo in tutto il mondo, dalla Le Pen all’austriaco Sebastian Kurz, e pare abbia contagiato anche il nuovo continente.
Trump ha sostenuto una campagna elettorale estremamente populista, dal populismo culturale a quello economico, in una linea che potremmo definire “reazionaria”.

Quando è arrivato questo populismo in America?

Nel 2012 c’è stata la sconfitta per un soffio di Mitt Romney, appartenente all’ala moderata del Partito Repubblicano, in lizza con Obama. Romney era il tipico candidato repubblicano, forse troppo tipico per riuscire a vincere.

Nel 2016 ci siamo ritrovati con questo show-man miliardario e galvanizzante, totalmente su un altro piano rispetto all’establishment conservatore o ai rivoluzionari del Tea Party. Eppure il populismo era nato già da alcuni anni. Anzi, si potrebbe dire che il populismo fosse nato prima in America che in Europa.

Gli USA si dichiarano indipendenti nel 1776, il loro primo presidente sarà il liberale classico George Washington dal 1789 al 1797. Dopo il mandato di John Adams dal 1797 al 1801, arriva Thomas Jefferson: ecco il primo vero populista della storia degli Stati Uniti d’America. (Sicuramente un populista molto, molto differente da Trump)

Esatto, proprio colui che scrisse “tutti gli uomini sono creati uguali” e che fu consultato per la stesura della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino.

Perché Jefferson era un populista?

Volente o nolente, Jefferson dava al popolo un nemico da combattere: prima Re Giorgio, poi i banchieri e gli affaristi. Era il tipico populista un po’ giustizialista che accusava i poteri forti, eppure -sebbene tutto ciò nel 2018 può sembrare estremamente stupido- è ciò che ha permesso agli States di costruire un apparato libero dalla corruzione ed una società in cui l’Individuo è al primo posto. Sempre in prima linea per combattere chiunque potesse e volesse monopolizzare il potere.

A Jefferson dobbiamo l’idea della Nazione sottomessa al Popolo, in contrasto con la linea di Adams e dei federalisti secondo i quali il potere dovesse andare agli illuminati e ai produttori di benessere.

Tutta la tradizione populista jeffersoniana ha permeato la politica statunitense per centinaia di anni, avendo sempre come focus la lotta all’aristocrazia e all’elitismo dei banchieri, dei mercanti, dei grandi proprietari terrieri per un solo scopo: permettere agli Individui di essere liberi.

Nel 1891 tale tradizione venne ereditata dal People’s Party, incentrato molto più nel ruralismo e nel migliorare il sistema economico vigente che nello sviluppo industriale, e che venne inglobato nel Partito Democratico nel 1896.

Tralasciando l’analisi di quest’ultima parentesi molto complessa, il populismo negli Stati Uniti ha sempre prodotto benefici enormi, fra cui la più elevata mobilità sociale (passaggio effettuato da un individuo da un ceto a un altro, generalmente verso l’alto) di sempre, crescita e progresso.

Perché, allora, il nuovo populismo non è ben visto? E Trump?

Negli USA il populismo ha funzionato perché è nato come una corrente di pensiero secondo la quale si mette in discussione ogni forma di potere, partendo dal dibattito per giungere a scelte razionali. Non parlava alla pancia delle persone, ma al loro cervello.

Ecco il primo motivo per cui il populismo altrove ha fallito: cavalcando gli umori della popolazione, il populismo (soprattutto di matrice marxista-hegeliana) ha fatto leva sull’invidia sociale, sulla lotta di classe e sulla redistribuzione delle risorse e/o dei mezzi di produzione.

Il nemico dei diritti e dell’Individuo, il nemico di “Noi, il popolo” non viene più affrontato con criteri di razionalità, bensì con la rabbia.

Ecco che arriva Trump: in un momento storico nel quale l’indignazione dei Social Justice Warriors raggiunge livelli vertiginosi ed il marxismo culturale permea le frange estreme dei Democratici, la risposta è l’avanzare del politically incorrect (=“una verità che i democratici trovano troppo dolorosa da riconoscere e quindi non vogliono venga espressa“, Dennis Prager) e di una nuova corrispettiva risposta: il populismo “grassroot” (di base) di Trump e Sanders.

Aldilà delle opinioni su Trump, il suo non è populismo Jeffersoniano, ma è una nuova specie che rischia di distorcere la tradizione popolare americana. La sua stessa metodologia potrebbe essere usata contro di lui, soprattutto ora che i moderati nei due principali partiti sono diventati marginali.

Dunque, torniamo alla domanda da cui siamo partiti: è arrivato il populismo in America? No. Allora, è arrivato un nuovo populismo in America? Sì.

Non credere negli idoli ma ammira i grandi personaggi della storia

Io non sono cristiano, anzi, non sono per niente credente.
E non ho nemmeno commesso l’errore tipico dei socialisti: dare allo Stato il ruolo di Dio.

Partendo da queste due premesse, voglio citare il Primo Comandamento secondo la tradizione cattolica (o il Secondo per la tradizione ebraica): “Non avrai altro Dio fuori di me.

E continua: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque e sotto terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai “. (Esodo/Deuteronomio)

Parafrasando Prager, molte persone quando pensano a questo comandamento, ipotizzano che proibisca unicamente la venerazione degli idoli e degli altri déi; come gli antichi déi pagani della pioggia, della fertilità, della natura in generale, soprattutto le figure di Zeus e Giove. Da quando nessuno crede più in questi déi o venera le loro statue di pietra, quasi tutti ritengono irrilevante questo comandamento.

Sbagliano di grosso. Sbagliano se sono atei/agnostici, perché sostituiscono a Dio un’altra presenza divina. Sbagliano se sono credenti per lo stesso motivo, ma per loro è anche “più grave”, perché il loro Dio dovrebbe essere unico.

Per la questione credente/ateo: Immanuel Kant sosteneva che la conoscenza è solo fenomenica e non noumenica, così come la divinità è vincolata al pensiero essa non è un affare terreno, potrà influire sulla morale per volontà degli uomini che accetteranno questa “religione rivelata“. Credere o non credere alla “chiesa invisibile” è una scelta strettamente personale.

Al giorno d’oggi abbiamo numerosi falsi déi, idoli, celebrità da venerare, squadre di calcio per cui dare la vita; abbiamo il busto di un dittatore con la testa pelata o la fotografia di quello coi baffoni. Concediamo un’aura divina alla razza. Crediamo che il denaro sia una divinità che ci permette di modificare le leggi universali, cerchiamo il potere e l’autorità sopra ogni cosa. Crediamo che un titolo di studi equivalga alla saggezza. Crediamo che il nostro destino sia nelle mani dello Stato, o della Natura, o degli alieni, o… chissà quante altre idiozie vengono gettate nel calderone ogni giorno, pur di non accettare l’azione umana!

Una società senza idoli in Terra, è una Società pronta a diventare aperta e libera.

Ed i grandi personaggi della storia? Anzitutto, non vanno idolatrati, venerati o monumentalizzati. Hanno una funzione molto più utile rispetto all’essere guardati con nostalgia: sono ispiratori. Hanno conquistato le alte vette, cambiato il corso della storia, fatto rivoluzioni, dato vita a meravigliosi pensieri; il modo migliore per rendere loro grazie è studiarli e capirli per mettersi a propria volta in gioco.

Al di là di chi ha avuto fortuna, da cui possiamo imparare ben poco, abbiamo innumerevoli esempi nella storia dell’umanità di individui che con coraggio, passione, impegno e tanto duro lavoro hanno ottenuto ciò che desideravano. Non è un caso che in molti abbiano colto la propria strada dopo aver letto  le Vite Parallele di Plutarco (si pensi ai numerosi letterati italiani che ne impazzivano, o a John S. Mill), Vite dei Filosofi di Diogene Laerzio, l’Anabasi di Senofonte, Declino e caduta dell’impero romano di Gibbon, o persino dopo aver letto le storie di eroi mitici o inventati come Don Quijote di Cervantes, Robinson Crusoe di Defoe, la Teogonia di Esiodo, l’Edda di Snorri.

Se lo scopo dell’Individuo è raggiungere la felicità o l’equilibrio personale tramite l’autorealizzazione, bisogna concedersi qualche attimo di umiltà e imparare da chi è riuscito nell’impresa e/o può essere d’ispirazione, per migliorare, per migliorarsi.

Ti sembra tanto difficile credere in te stesso, anziché in qualcun altro o qualcos’altro? È giunta l’ora della sveglia, la lunga notte del sonno dogmatico dovrà terminare.

Come sarebbe un mondo perfettamente comunista? Ce lo spiega Isaac Asimov

Il comunismo perfetto non esiste, poiché implicherebbe l’esistenza di un ente superiore che sappia governare gli umani assegnando loro i lavori adeguati e distribuendo perfettamente la ricchezza secondo le necessità. Questo è il presupposto comunemente accettato.

Ma cosa accadrebbe se esistesse un mondo con una coscienza collettiva, una connessione mentale fra tutti gli individui di un pianeta?

Ce lo spiega Isaac Asimov nel Ciclo della Fondazione parlando di Gaia, il pianeta con una coscienza collettiva in cui ciascuno contribuisce al Tutto e ne fa parte con una unione mentale simile a quella della serie tv Sense8 (ovvero condivisione di pensieri, sensazioni, emozioni, conoscenze).

Uno dei personaggi protagonisti, Bliss, parla di sé come “io/noi/Gaia” e dichiara la rinuncia agli scopi individuali a favore del bene comune: la sua felicità è la felicità di tutti. E non possiamo metterlo in dubbio: condividono ogni cosa, sono un tutt’uno.

Noi non siamo così, non possediamo questa caratteristica. Già solo per questo il Comunismo (e ogni altra forma di collettivismo) non potrebbe funzionare, ma andiamo avanti.

C’è un personaggio estremamente Individualista che vuole mettere in discussione il proprio appoggio al pianeta Gaia, il pianeta collettivista, ritenendolo troppo differente da ciò che pensa sia più giusto per sé come Individuo e dunque per ogni altro Individuo facente parte dell’umanità.

Forse ti starai chiedendo perché un Individualista avesse appoggiato quel pianeta, te lo spiego subito: doveva scegliere fra una Società Scientista (totalmente dedita alla tecnologia e alla scienza, detta Fondazione, volta a sottomettere la Galassia con la forza), una Società Elitista (dedita allo studio, alla psicologia sociale e alla matematica, detta Seconda Fondazione, anch’essa volta a sottomettere la Galassia con la forza) ed un Pianeta Collettivista (dedito al pacifismo e al bene della Galassia).

Pare ovvio che fra due guerrafondai e un pacifista si scelga il pacifista. Anche se il marxismo prevede la lotta di classe e la dittatura del proletariato, che sono tutto fuorché atti pacifisti. Ipotizziamo allora sia accettabile che il pacifismo si diffonda in maniera automatica e conquisti le persone senza alterare lo status della loro società.

Vediamo però, ed è il fulcro di questo discorso, le critiche del nostro Individualista, chiamato Golan Trevize e le motivazioni date dal personaggio “io/noi/Gaia”, chiamato Bliss. Non commenterò passo per passo, poiché credo non ce ne sia bisogno.

Prima conversazione, sulla natura del pianeta:

Bliss: « Io sono Gaia. E la terra. E quegli alberi. E quel coniglio tra l’erba, laggiù. E l’uomo che si intravede fra gli alberi. L’intero pianeta e tutto quanto c’è sopra è Gaia. Condividiamo tutti una coscienza globale, ognuno contribuisce all’insieme.»
Trevize: « In tal caso, Bliss, chi governa questo mondo?»
Bliss: «Si governa da solo -disse lei. – Quei meli crescono in filari regolari di comune accordo. Si riproducono solo quel tanto che serve a riempire gli spazi vuoti lasciati dagli alberi che muoiono. Gli esseri umani raccolgono la quantità di mele di cui hanno bisogno, altri animali, compresi gli insetti, mangiano la loro parte, e solo quella. Piove quando è necessario. »
Trevize: «Anche la pioggia sa cosa deve fare?»
Bliss: «Sì»

La rinuncia all’individualità per il sovrumano:

«Io rimango un essere umano; al di sopra di noi però c’è questa consapevolezza collettiva che supera di molto la mia comprensione

La distribuzione dei ruoli nella società:

Bliss: «Non so volare come un uccello, ronzare come un insetto o diventare alta come un albero. Faccio ciò che sono più adatta a fare.»
Trevize: «Chi ha deciso di attribuirvi questo preciso incarico?»
Bliss: «Noi tutti.»

Il pensiero di Trevize (e -spero- di noi tutti) descritto da Asimov:

Trevize pensò rassegnato che ognuno dovesse trovare la felicità come meglio credeva. Era questo lo scopo dell’individualità…
« Il pianeta [Gaia], per quanto grande e vario, rappresenta un unico cervello. Uno solo! Ogni nuovo cervello che nasca si fonde con la totalità. Non c’è la possibilità di opporsi, di discordare!
Quando pensiamo alla storia umana, pensiamo al singolo individuo che, nonostante la sua visione minoritaria condannata dalla società, alla fine vince e cambia il mondo.»

Sulla libera associazione:

Bliss: «Se obbediamo solo alle regole che riteniamo giuste e ragionevoli, allora qualsiasi regola cessa di avere valore, perché non esiste una regola giusta e ragionevole per tutti. E se ci interessa solo il nostro tornaconto personale, troveremo sempre una giustificazione per definire ingiusta una regola restrittiva. Si comincia con un trucco astuto e si finisce con l’anarchia e la catastrofe, così, anche per lo scaltro autore del trucco, dal momento che nemmeno lui sopravvivrà al crollo della società.»

Trevize ribatté:  « La società non crolla tanto facilmente. Tu parli come Gaia, e Gaia non può capire un’unione di individui liberi. Le regole, instaurate con ragionevolezza e giustizia, possono facilmente diventare superate e inutili via via che le circostanze cambiano, e restare ugualmente in vigore per inerzia. In tal caso è legittimo ed anche utile infrangere queste regole, se non altro per evidenziare che sono diventate superflue e magari anche dannose. »

Bliss: « Allora ogni ladro, ogni assassino, può giustificarsi dicendo che stia servendo l’umanità. »
Trevize: « Non arrivare agli estremi. Nel superorganismo di Gaia c’è un consenso automatico circa le regole sociali e a nessuno viene in mente di infrangerle. Si potrebbe anche dire che Gaia vegeti e si fossilizzi. Nella libera associazione di individuo c’è senza dubbio un elemento di disordine, ma è il prezzo che bisogna pagare per non perdere la capacità di introdurre novità e cambiamenti… Tutto sommato, è un prezzo ragionevole. »

Sulla libertà individuale:

Trevize: «Può darsi che ai cani non importi di perdere la libertà individuale, ma per gli esseri umani è una questione di grande importanza… E se tutti gli esseri umani cessassero di esistere, ovunque, non solo su un mondo o su alcuni mondi? Se la Galassia restasse senza esseri umani? Ci sarebbe ancora un’intelligenza guida? Tutte le altre forme di vita e la materia inerte riuscirebbero a mettere insieme un’intelligenza comune adatta allo scopo?»

Bliss esitò.  « Una simile situazione non si è mai verificata, e probabilmente anche in futuro non si verificherà mai.»

Trevize:  « Ma non capisci che la mente umana qualitativamente è diversa da qualsiasi altra cosa, e che se venisse a mancare, la somma complessiva di tutte le altre forme coscienti non basterebbe a rimpiazzarla. Gli esseri umani costituiscono un caso speciale, e devono essere trattati in quanto tali, non ti pare? »

Ecco, abbiamo un esempio di cosa sia il perfetto Collettivismo. In tanti, sostengono che se questa utopia fosse possibile allora staremmo certamente bene. Eppure, dovremmo rinunciare a ciò che c’è di più caro nella propria vita: la libertà di scelta sulle azioni della vita stessa.

Non voglio fare spoiler nel caso in cui a qualcuno possa interessare cosa avvenga alla fine del libro, eppure Asimov trova un essere superiore che possa governare gli umani, ma c’è una falla logica: questo ente superiore è stato creato dagli umani per essere aiutati e non concepisce l’Individualità. Questo essere superiore è un robot.

In un altro libro, Asimov asserisce che “i robot sono logici ma non ragionevoli” e che per questo motivo non possano comprendere le azioni umane. E poi, fattore più importante di tutti, davvero vogliamo mettere il nostro destino nelle mani di qualcun altro, che ne sia artefice al posto nostro?

La concorrenza è sleale o più efficiente? È questione di distruzione creativa

James Taggart, Il presidente di una compagnia ferroviaria discute con uno dei suoi dipendenti, Eddie Wilers, il quale gli fa notare che il loro servizio è pessimo da mesi e che stanno perdendo tutti i loro clienti:

«Jim! Non capisci che la nostra linea, la Rio Norte Line, sta andando in rovina, che qualcuno ci biasimi o no?»

«La gente la userebbe, sarebbe costretta a usarla… se non fosse per la Phoenix–Durango.»

Vide il viso di Eddie irrigidirsi. Continuò: «Nessuno si è mai lamentato della Rio Norte Line, finché non è venuta in campo la Phoenix–Durango!»

«La Phoenix–Durango sta facendo un magnifico lavoro.»

«Immagina, una cosa che si chiama Phoenix–Durango che fa concorrenza alla Taggart Transcontinental! Non era che una linea locale adibita al trasporto del latte, dieci anni fa.»

«Ora, però, ha ottenuto la maggior parte dei trasporti dell’Arizona, del Nuovo Messico e del Colorado.»

Dopo questo breve estratto del discorso fra Eddie e James dal romanzo La Rivolta di Atlante di Ayn Rand, mi viene in mente un solo concetto: la Distruzione Creativa di Schumpeter, ovvero l’innovazione che permette di produrre nuovi beni, offrire migliori servizi, aprire nuovi mercati, il tutto magari a costi ancora più convenienti.

Sì, le aziende che non si innovano vengono “distrutte”. E cosa c’è di male? Abbiamo visto tutti la fine della grandiosa Olivetti, l’impero industriale che ha influito sul mercato mondiale con i suoi prodotti, la stessa Olivetti che è passata da 26’000 dipendenti alla fine degli anni ’90 ad oggi con poco più di 500. La domanda e l’offerta si evolvono nel tempo, non è possibile rimanere ancorati al passato se si vuole guardare al futuro, anche con la propria azienda.

Ma allora perché questa distruzione è creativa? Perché la società si sviluppa, avanza tecnologicamente e nuove aziende con prodotti e servizi più adatti o migliori sostituiscono le aziende precedenti.

La situazione che permette tutto ciò è la concorrenza. Perché?
Un albero che è da solo nel campo cresce storto e spande lontano i suoi rami, mentre un albero che è in mezzo al bosco, con l’opposizione degli alberi vicini cresce dritto e cerca l’aria e il sole sopra di sé” (Immanuel Kant, Lezione sulla Pedagogia)

La concorrenza è il fulcro della sopravvivenza e dell’autodeterminazione, è la capacità di migliorare e migliorarsi per non rimanere indietro; è anche possibile fare una’analogia con l’eros platonico, la forza che permette al mondo di andare avanti e di evolversi. Si potrebbe anche dire che l’Individuo ha la tendenza a competere con la propria persona, per superarsi e migliorarsi, ma andrei in un altro, bellissimo ambito.

In sostanza, è sleale che qualcuno dia il meglio di sé, quando le regole sono le stesse per tutti? No, tutt’altro: è sbagliato fermarsi ed aspettarsi che la situazione diventi statica una volta arrivati al vertice. Bill Gates non sarebbe il primo nella lista di Forbes da lustri se non avesse saputo innovarsi, ma James Taggart -come milioni di persone nel nostro paese- era obnubilato da quella mentalità che non consente di vedere oltre il proprio naso, quella mentalità che preferisce preservare l’ordine anziché sovvertirlo per esaudire i propri sogni e al contempo migliorare la società.

5 motivi per cui dovresti supportare il Libero Mercato

Prima di dire “il neoliberismo dei poteri forti ci renderà tutti schiavi”, è il caso di leggere attentamente i motivi per cui bisogna essere favorevoli al libero mercato.

  1. Il commercio stimola la crescita economica e riduce la povertà

    A partire dalla seconda guerra mondiale, si è assistito all’espansione del commercio internazionale, rafforzatasi quasi trent’anni fa con il crollo del comunismo sovietico. Forse saranno di parte, ma gli economisti ritengono che sia i mercati sia il commercio contribuiscano considerevolmente alla crescita economica e, dunque, alla riduzione della povertà. Gli studi a riguardo sono innumerevoli, basta una veloce ricerca su google per vedere come la povertà sia diminuita negli ultimi decenni grazie al mercato internazionale.

    Oltre ad un’enorme quantità di prove empiriche che supportano queste presunzioni teoriche,  vi sono forti prove che l’economia di libero mercato è economicamente superiore alla pianificazione centrale socialista e che il commercio è importante per la crescita.

    Una meta-analisi del 2013, di 60 studi (Link al pdf con la relazione riguardante gli studi) che hanno esaminato la performance economica delle economie socialiste pianificate  dopo aver subito la liberalizzazione economica (riforme pro-mercato), ha rilevato che la letteratura empirica indica che la liberalizzazione ha ridotto la crescita economica nel breve periodo, ma ha avuto forti effetti positivi sulla crescita economica nel lungo periodo. In particolare, “gli effetti positivi delle riforme superano i costi dopo circa un anno e quindi continuano a contribuire alla crescita economica“.

    La liberalizzazione del commercio, ovvero un processo che comporta la riduzione o la rimozione delle barriere erette dallo Stato di fronte al commercio internazionale, si è rivelato particolarmente vantaggioso. Secondo la suddetta meta-analisi, i costi a breve termine della liberalizzazione degli scambi sono inferiori del 20% rispetto ad una media riforma economica  e i benefici a lungo termine sono circa il 40% maggiori.

  2.   Il commercio riduce la disoccupazione

    Uno degli argomenti più comuni contro il libero mercato è che se i consumatori acquistano merci straniere al posto di beni nazionali, la disoccupazione del proprio paese aumenterà.
    C’è da aspettarsi che la concorrenza delle importazioni in un dato settore porti a perdite interne di occupazione, tuttavia, i soldi risparmiati dai consumatori acquistando beni stranieri possono essere spesi o investiti altrove, creando occupazione in altri settori. Non bisogna dimenticare, cosa ancora più importante, che la concorrenza favorisce il progresso, per poter rimanere sul mercato è necessario essere sempre innovativi, puntando su ricerca e sviluppo. Allora il guadagno è duplice: le aziende saranno stimolate a migliorare per non chiudere e al contempo si abbasseranno i costi, verrà migliorata la qualità e si apriranno nuovi ambiti lavorativi.

    Il pre-requisito fondamentale è la concorrenza leale, ovvero il rispetto di alcuni standard sulla tutela dell’ambiente e dei lavoratori. Qualcosa che nei paesi in via di sviluppo, ancora nessuno ha messo in discussione.

  3. Il commercio migliora gli standard lavorativi

    Gli oppositori del libero commercio hanno spesso sostenuto che questi conduca a una “caduta libera” degli  standard lavorativi. Sostengono che le pressioni concorrenziali indotte dal commercio potrebbero incoraggiare i paesi a competere gli uni contro gli altri riducendo gli standard lavorativi e le condizioni di lavoro al fine di ridurre i costi.

    Ma un’altra ricerca li smonta del tutto ( link a: National Bureau of Economic Research ), rivelando che:

    Gli studi empirici esistenti trovano scarso supporto per gli argomenti della “caduta libera”. Se non altro, ci sono prove che una maggiore apertura commerciale aumenta il livello e la conformità con i salari minimi e riduce il lavoro minorile. Allo stesso modo, ci sono poche prove che le riforme del commercio siano associate ad un peggioramento delle condizioni di lavoro.

  4. Il commercio riduce la probabilità di un conflitto armato

    I fautori del libero mercato hanno spesso sostenuto che l’interdipendenza economica sotto forma di commercio limita l’incentivo alla belligeranza interstatale sotto forma di conflitto militare. Il celeberrimo Frederic Bastiat ha  affermato che “se i beni non attraversano i confini, saranno i soldati a farlo“. In effetti, questa ipotesi potrebbe effettivamente essere vera e non soltanto un bellissimo aforisma: pare che lo confermino gli studi della Asian Development Bank, disponibili cliccando su questo testo.
    In altre parole, è ragionevole credere che le intuizioni di Bastiat fossero effettivamente vere. Il commercio internazionale si è espanso nel tempo e di conseguenza sembra che il mondo sia diventato molto più pacifico.

  5. Il commercio aumenta la speranza di vita e riduce la mortalità infantile

    Abbiamo precedentemente visto come l’apertura al commercio aumenti la crescita economica e quindi riduca la povertà, non dovrebbe sorprenderci che i paesi più aperti agli scambi generalmente abbiano migliori risultati in termini di salute. In questo caso, siccome l’affermazione è piuttosto forte, citeremo’ più ricerche scientifiche:
    – Dierz Erzer ( link alla ricerca )
    – Owen e Wu ( link alla ricerca )
    – Stevens ( link alla ricerca )
    L’apertura commerciale ha un effetto positivo a lungo termine sulla salute, misurato dall’aspettativa di vita e dalla mortalità infantile;  l’aumento degli scambi è sia una conseguenza che una causa di miglioramento della salute. Mi spiego meglio: è venuto a crearsi un circolo virtuoso per cui una salute migliorata porta a più scambi, e un aumento del commercio favorisce ulteriormente la salute della popolazione.

    Conclusioni:

    Vi sono prove piuttosto convincenti del fatto che politiche commerciali più libere conducano a una crescita economica più rapida e a  minori povertà e disoccupazione, contrariamente alle affermazioni avanzate dai protezionisti. Inoltre, l’adozione di politiche di libero mercato nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale ha contribuito a ridurre i conflitti militari. I vantaggi del libero scambio sembrano innegabili, e vale la pena tenerli a mente quando i neo-mercantilisti affermano che il miglior modo con cui un paese può diventare ricco è impegnarsi nel protezionismo e nel nazionalismo economico.

I postmodernisti della giustizia sociale vogliono la fine dell’Occidente liberale

Il tribalismo, il marxismo culturale e l’antiliberalismo che permeano la scena politica italiana sono nettamente evidenti a chiunque abbia prestato interesse al fenomeno della crescita metastatica dei movimenti contemporanei di “giustizia sociale”.

Il liberalismo nella sua interezza e nella sua filosofia ha sempre sostenuto valori come libertà di parola e di espressione, la discussione civile e il libero scambio di idee, ha sempre reputato corretto giudicare gli individui in base al loro carattere e alle loro qualità, e non per mezzo di caratteristiche superficiali come il colore della pelle o il genere di appartenenza.

Dati alla mano, i movimenti giustizialisti e illiberali si oppongono a questo complesso di idee e valori, e per capire il motivo è prima necessario approfondire l’ideologia dietro alla “giustizia sociale”.

Nel fulcro del pensiero, la filosofia del movimento per la giustizia sociale è saldamente radicata nel marxismo culturale. Proprio come Karl Marx vide il capitalista come l’oppressore sfruttatore della classe operaia, il collettivismo illiberale adotta una visione del mondo in cui gli uomini bianchi eterosessuali sono la classe degli oppressori e le minoranze, come stranieri e donne, sono gli oppressi.

Oppure, nel caso opposto ma sempre di un altro tipo di collettivismo illiberale, la visione è quella di un mondo in cui i diritti dei bianchi sono messi in discussione dai non bianchi.

Potremmo persino essere d’accordo con chi promuove attualmente le parità, se non fosse per la chiara divergenza nell’affrontare la questione: il collettivismo illiberale ha respinto la tendenza del liberalismo a giudicare gli individui come individui e ha invece adottato l’approccio marxista di giudicare le persone sulla base del gruppo a cui appartengono, interscambiando le identità di etnia e di genere per quelle economiche.

L’ascesa del populismo di destra è in parte una reazione alla politica dell’identità della sinistra socialista che dipinge gli uomini bianchi in una luce negativa.

Qualche tempo fa, in Inghilterra, è passata una notizia che può dare l’esempio più lampante dei classici “giustizieri sociali”; una donna, dopo aver impedito l’accesso ad un evento agli individui di sesso maschile, ha affermato di fronte ai giornalisti:

“I, as an ethnic minority woman, cannot be racist or sexist towards white men, because racism and sexism describe structures of privilege based on race and gender, and therefore women of colour and non-binary genders cannot be racist or sexist as we do not stand to benefit from such a system.”

(Fonte: The Guardian https://www.theguardian.com/world/2015/may/20/goldsmiths-racism-row-divides-students-bahar-mustafa )

La traduzione:

Io, una donna appartenente alle minoranze etniche, non posso essere razzista o sessista nei confronti degli uomini bianchi, perché il razzismo e il sessismo descrivono strutture di privilegio basate sulla razza e sul genere, e quindi le donne di sesso e di genere non binario non possono essere razziste o sessiste, dunque non siamo in grado di beneficiare di un simile sistema.

Come? Pensi sia una supercazzola del Conte Raffaello Mascetti?

Ovviamente, è innegabile la presenza del razzismo sul suolo nazionale ed europeo e non voglio assolutamente difenderlo in alcun modo, poiché è sintomo di una fortissima ignoranza proveniente da una mentalità pregiudizievole.

I primi promotori dell’odio fra classi (che, oltretutto, hanno imposto loro), fra etnie, fra sessi, fra gruppi identitari sono proprio i collettivisti.  Il loro tribalismo illiberale è chiaramente intento a soffocare la libertà di parola, la libertà accademica e il libero scambio di idee, il tutto nel nome della loro visione di giustizia sociale.

Inoltre, sebbene pretendano di ridurre la frammentazione e la segregazione razziale, etnica e sessuale, probabilmente non ha fatto altro che promuoverle. Per il bene della libertà, dell’uguaglianza formale (e non sostanziale!) e della società civile, i liberali occidentali devono fare del loro meglio per convincere i propri concittadini che la cultura regressiva e illiberale non è un’ideologia che merita di essere sostenuta.

Concentriamoci ancora un attimo sul razzismo: per definizione, è la convinzione che alcune razze siano naturalmente superiori alle altre e che la razza sia il fattore determinante principale dei tratti umani. La discriminazione razziale consiste nel trattare le persone in modo diverso esclusivamente sulla base della loro razza e non ha nulla a che fare con “strutture e privilegi”.

I giustizieri sociali come questa donna hanno letteralmente ridefinito il razzismo per giustificare il proprio razzismo. Dal loro punto di vista, le loro azioni sono giustificate in quanto sono una risposta naturale all’oppressione.

Quando a qualcuno viene detto, o è implicito, che ci sono individui cattivi e che lo sono a causa del colore della pelle, dell’orientamento sessuale o quant’altro, è naturale che questi inizino ad associarsi ancora di più con quell’identità di gruppo basata su tali caratteristiche piuttosto che vedere se stessi come individui.

Il metodo utilizzato è il medesimo sia a destra che a sinistra (sia in quel noto movimento giustizialista tanto di moda ultimamente), mentre noi liberali proponiamo l’implicita soluzione adeguatissima al caso.

Invece di promuovere una società unificata in cui le persone si vedono come individui piuttosto che come parte di un particolare gruppo, il movimento per la giustizia sociale è probabilmente responsabile di un’ulteriore divisione delle persone lungo linee tribali. Esistono mezzi molto migliori per sradicare il razzismo e il sessismo dalla società rispetto alla politica dell’identità su cui si basa il movimento per la giustizia sociale.

Perché questi movimenti tribali intolleranti sono anche illiberali?

Il marxismo economico vede i mercati liberi e i diritti di proprietà privata (cioè la libertà economica) come un mezzo per proteggere la classe capitalista dal proletariato che sfruttano per mantenere la loro egemonia socioeconomica.

Il marxismo culturale comprende allo stesso modo le libertà politiche fondamentali, come la libertà di parola e di espressione, come meccanismi con cui coloro che detengono il potere, principalmente uomini eterosessuali bianchi, usano per mantenere la loro egemonia socioeconomica a vantaggio delle minoranze e delle donne.

Perché rispettare i diritti della classe di cui stai cercando di distruggere il potere? E così, secondo il pensiero marxista, i tuoi diritti politici dipendono interamente dalla classe a cui appartieni.

Così, invece di vedere la libertà di parola come un diritto individuale sacrosanto, il tribalismo illiberale la vede come un ostacolo sulla via della giustizia sociale.

Abbiamo sentito parlare della legge sulle fake news, ma il dibattito che si cela dietro è ancor più importante: una buona parte della componente illiberale ritiene sia compito dello Stato la censura delle dichiarazioni offensive alle minoranze.

Questa constatazione è triste, poiché sembra che i giovani siano sempre più inclini a mettere a tacere le persone con cui non sono d’accordo piuttosto che impegnarsi a contrastarli nel dibattito civile. Questa censura sarebbe solo l’inizio di una lunga serie di riforme illiberali.