Sindacati, come hanno impoverito gli italiani

Dopo aver trattato alcuni aspetti estremamente coercitivi e violenti del mondo dei sindacati, in un precedente articolo, in questo affronterò una diversa problematica. Analizzerò gli effetti socio-economici provocati dalla mano del sindacalismo in Italia, effetti provocati dalle loro lotte per il bene (presunto) dei lavoratori.

Ci si chiederà: come mai giungo ad una conclusione così drastica? Obiettivo di questo articolo è spiegare perché i sindacati non possono agire efficacemente verso tutti i lavoratori. La conclusione probabilmente lascerà tutti un po’ perplessi, ma è ben rafforzata da dati di fatto e argomentazioni molto nette e chiare. D’altronde viviamo in un contesto in cui spesso ci si limita ad aspetti superficiali. Non entriamo nel vivo della questione, guardiamo la copertina senza leggere il libro.

Esistono dei lavoratori soddisfatti, indubbiamente, ma davvero possiamo dire che tutti i lavoratori possono considerarsi tali? Preciso che chi scrive è un lavoratore che vuole spiegare perché, da liberale, i sindacati non possano essere realmente dalla parte dei lavoratori. Nel corso del testo, come nell’articolo precedente, inserirò qualche altra citazione di Sergio Ricossa.

[…] (1972, ndr) Il nuovo contratto di lavoro dei metalmeccanici è un volume di oltre duecento pagine a stampa, quasi tutte incomprensibili. C’è l’operaio “comandato in trasferta in località malariche ufficialmente riconosciute” che ha diritto a una indennità speciale; c’è l’impiegato che ha una “ricaduta nella stessa malattia entro il periodo massimo di due mesi dalla ripresa del lavoro”, e ha una anzianità di servizio oltre i tre anni e fino a sei mesi anni compiuti al quale compete la conseervazione del posto per tredici mesi e mezzo, di cui quattro e mezzo a intera retribuzione globale e nove a metà retribuzione; c’è l’apprendista che a partire dal primo gennaio lavora 41 ore settimanali, ma riceve in pagamento una “quota aggiuntiva” di 171 secondi ogni ora lavorata; c’è il rappresentante sindacale autorizzato ad assistere alle operazioni di vendita (lire tremila) del testo del contratto all’operaio che non si avvale della facoltà, “evidenziata in un modulo illustrativo”, di rifiutare l’acquisto. C’è tutto, meno il buon senso.

Analizzando la nostra busta paga di ieri e di oggi, possiamo dire di aver avuto un qualche beneficio favorita dai sindacati? I contratti collettivi, con le varie retribuzioni previste, rappresentavano una vittoria sindacale. Una vittoria assurda se consideriamo che veniva esaltato quel becero slogan del “il Salario è una variabile indipendente”. Come se il salario fosse qualcosa di astratto, qualcosa che esula dal processo economico di un’azienda con lo scopo di non consentire ai datori di lavoro di fissare una retribuzione inferiore a quella prevista e sindacalmente concordata. Un mezzo di tutela ma completamente illiberale, in quanto impedisce a qualsiasi persona di poter accettare un salario inferiore. D’altronde la mia provocazione non sarebbe così strana. Non mettiamoci a fare i conti in tasca a qualcuno. Il datore di lavoro accetta questa situazione coercitiva, legittimata dallo Stato, proprio perché è consapevole che il sindacato ha il potere di non permettere ulteriori assunzioni in azienda. È paragonabile all’imporre un prezzo fuori mercato a qualcosa con il risultato che sarà molto difficile che questa possa essere consumata in una quantità maggiore o uguale rispetto ad una condizione svincolata da imposizioni. Quindi vale sia quando andiamo ad acquistare qualcosa con un prezzo impostato dallo Stato e vale anche nel caso del salario.

Tavola rotonda presso La Stampa: Luigi Macario, sindacalista della CISL, ripete la barzellette della variabile indipendente. “Non solo è vero che noi consideriamo la politica salariale una variabile indipendente, ma ciò è indispensabile se noi vogliamo lottare efficacemente. […] Dopo una lunga chiacchierata sulla mancanza di case popolari, gli scappa di dirmi che lui, vicino a Roma, in barba ai piani regolatori, si è fatta una villa con le agevolazioni statali per le cooperative.

In ogni caso, l’imposizione a tavolino del salario si è rivelata, soprattutto in Italia, un effetto boomerang. Per svariati motivi. In primo piano, imporre un salario, se porta benefici nel breve termine, risulta dannoso nel futuro. Come dimostrato dal fatto che i salari italiani sono pressoché stabili da più di 20 anni. Dato allarmante se consideriamo che il potere d’acquisto dei cittadini è stato notevolmente ridimensionato dall’aumento della tassazione. In secondo piano, creare un contratto così pieno di burocrazia ha costretto le aziende a ricorrere a contratti atipici che hanno danneggiato e danneggiano tutt’ora i nuovi lavoratori, come i giovani.

I sindacati non solo non aiutano i lavoratori nel suo complesso, ma aiutano solo nel presente e particolari categorie. I sindacati in Italia hanno sfruttato a proprio favore l’ossessione statalista verso le “aziende strategiche”, imponendo regole molto restrittive, spacciate nel nome della libertà dei lavoratori, nei settori metalmeccanici o aziende estremamente strategiche (secondo i governanti). Questo non si riferisce solo alla storia degli ultimi decenni, un esempio è Alitalia. Ci si è mai chiesti il perché, tra i vari motivi, Alitalia sopravviva sempre e comunque? Si provi a licenziare un dipendente Alitalia.

[…] (1970, ndr) Nel ’69 gli scioperi in Italia hanno causato la perdita di trecento miloioni di ore di lavoro. E’ un record, ma un record da poco. Poiché i lavoratori sono venti milioni, è come se in media ciascuno avesse scioperato un paio di giorni. Una epidemia di influenza costa assai di più. Secondo le statistiche, giù nel 1910. in piena bella époque, si scioperava così. E’ solo cresciuto il danno, perché oggi si produce assai di più, ogni ora che si lavora. E tuttavia il danno peggiore deve ancora venire: verrà nel prossimo futuro con l’inflazione, che i cedimenti ai sindacati e alla piazza provocheranno.

Il sindacato favorisce la disoccupazione e la diseguaglianza dei salari. Il mercato, come la ricchezza, si basa sullo spostamento dei capitali. Imporre coercitivamente un determinato salario, comporta che l’azienda dovrà porre un prezzo maggiore ai suoi prodotti e i clienti potrebbero ritrovarsi impoveriti da questa situazione. Quindi, il cliente otterrà qualcosa che poteva ottenere ad un prezzo più basso e il lavoratore possiede un reddito maggiore di quello che avrebbe dovuto avere. Impoverire qualcuno a favore di altri. Mi ricorda qualcosa.

I sindacati non vogliono la libertà dei lavoratori perché, in presenza di completa libertà, i lavoratori non avrebbero mai bisogno dei sindacati. La libertà dei lavoratori passa dal libero mercato, l’unica vera via al progresso, non dalla coercizione dei sindacati.

“Se i sindacalisti rispettassero davvero gli operai, gli farebbero dei contratti di lavoro comprensibili”

 

Sindacati: violenze spacciate per libertà?

Se ripercorriamo la storia italiana, ma anche estera, possiamo notare come la violenza sia qualcosa di illegale per chiunque. Almeno apparentemente. Dipende, come ti chiami. Se ti chiami Sindacato, magari la violenza diventa espressione di libertà , di bontà. Magari è lo Stato a considerare positivo l’atteggiamento altamente pericoloso del Sindacato. Prima di continuare, avviso il lettore che mi riserverò di inserire qualche parte del celebre testo “Come si rovina un paese”, scritto da Sergio Ricossa.

[…] (1969, ndr) Il PCI e i sindacati chiedono e ottengono. La Confindustria concede alla Triplice sindacale l’abolizione delle zone salariali, verso una eguaglianza delle paghe e la caduta degli steccati tra operai e quadri. Da parte sua, il governo vara uno “Statuto dei lavoratori”. Dovrei essere lieto dello statuto: sono anch’io un lavoratore. Ma vi vedo dei semi antidemocratici, come sempre quando non si tutela il cittadino, ogni cittadino, ma solo un cittadino particolare (non importa se frequente e benemerito come il lavoratore). Tanto più che all’interno della categoria si scorge qualche lavoratore più previlegiato degli altri, fino al vero e proprio innalzamento del sindacalista sopra il livello del cittadino comune.

L’Articolo 39 della Costituzione italiana annuncia che “L’organizzazione sindacale è libera”. Quella che poteva rivelarsi una risposta storica al Fascismo, periodo in cui vennero sciolti o ridimensionati dall’estremo controllo dello Stato Corporativista Fascista. Ma quella che poteva rivelarsi una vittoria della libertà di associazione, almeno per i costituenti, non pare abbia avuto un percorso di continuità, all’insegna della libertà. Probabilmente siamo andati molto più oltre. L’impressione è che il sindacato abbia acquisito un potere superiore; un potere ancora maggiore rispetto a quanto previsto dalla Costituzione: questo lo possiamo riscontrare anche da certe leggi e certe politiche, non solo italiane.
In Gran Bretagna nel 1906 venne approvato il Trade Dispute Act che permetteva “al sindacato l’esenzione della responsabilità civile”. Negli Stati Uniti, nel 1932, approvando il Norris-La Guardia Act, si annunciò che il sindacato aveva tra le mani “l’assoluta immunità per trasgressioni compiute”. In Italia, lo Statuto dei Lavoratori non era solo lo statuto che legittimava certi diritti dei lavoratori, ma esaltava la figura, oltre ogni limite, del Sindacato.

[…] Mi correggo: il danno peggiore sarà morale, non economico. Nelle fabbriche si è imparato che la violenza paga. Gli industriali si sono umiliati fino a riassumere col tappeto rosso i picchiatori di chi tentavano di sbarazzarsi. E sovente si trattava di lavoratori che picchiavano altri lavoratori, capi-squadra, capi-officina. Nelle scuole, idem. Violenza significa meno studio, promozioni più facili.

Risultato? Da “libertà di associazione”, specie nel corso degli anni Settanta, siamo passati da l’obbligo onnipresente dei sindacati. Il dato allarmante è che la presunta libertà di associazione sindacale, ormai coercitiva e dannosa, viene legittimata dallo Stato e dall’opinione pubblica. Ma la domanda mi sorge spontanea: perché dovrebbero esistere senza consultare il parere dei singoli lavoratori? Perché quest’ultimi devono essere necessariamente ridimensionati e demoliti, in senso figurato. Che si tratti di un lavoratore o di un gruppo di lavoratori, è legittimo e normale tutelare la propria figura e la propria posizione. Si tratta di negoziare. Negoziare è libertà, come la libertà di contratto. Ma non è così normale che lo Stato imponga l’obbligo di un sindacato, non è così normale che il Sindacato debba partecipare solo perché è così dappertutto. Quasi a volere trovare, per forza, il pelo nell’uovo per far notare come i sindacati siano davvero dalla parte dei lavoratori. Quando lo Stato legittima la presenza del Sindacato non vuol dire che sta garantendo un diritto dei lavoratori, ma sta mettendo in condizione essi di poter fare quello che vuole, anche “picchettare”. Talvolta, agendo con pregiudizio.

[…] Il parlamento approva lo Statuto dei lavoratori, peggiorandolo o migliorandolo secondo i punti di vista. Esiste ormai una specie di presunzione di colpevolezza giuridica del datore di lavoro, sempre per la gioia dei “pretori d’assalto”, quelli dedicati ad assaltare il capitalismo.

Oggi i sindacati sono in palese declino. Eppure il rapporto con l’opinione pubblica risulta di alti e bassi. Seppur in alcuni casi i cittadini abbiano spesso rimproverato o denunciato certi comportamenti dei sindacati, l’impressione è che lo stesso cittadino non metta per nulla in discussione l’attuale posizione giuridica di questo istituto. La sensazione, forse errata o magari no, è che i sindacati abbiano sempre sofferto di quell’ansia di perdere appettibilità dinanzi ai lavoratori. Con il crescente declino, anche una “vertenza sindacale” – nata allo scopo di evidenziare una contrarietà rispetto alle retribuzioni o alle condizioni d’impiego -, sembra che venga adottata allo scopo di “farsi pubblicità” di fronte all’opinione riluttante. Nessuno riflette sul fatto che i sindacati, specie in Italia, siano tra i principali responsabili del declino economico. A tal proposito, sui danni dal punto di vista economico, ne parlerò un’altra volta.

Il potere coercitivo (e distruttivo) dei sindacati, oltre che infangare e calpestare qualsiasi principio di libertà, costituisce un puro danno per i lavoratori stessi. In primo piano, scusandomi per la banalità, coercizione verso il datore di lavoro, vuol dire anche coercizione nei confronti del lavoratore. Esercitare azioni coercitive limita la responsabilità del lavoratore, ma, soprattutto, lo ridimensiona. Anche lo stesso diritto di sciopero. Perché considerarlo diritto inalienabile dell’individuo se, nella maggior parte dei casi, il lavoratore è pressoché costretto a scioperare? Diversamente rischierebbe di lavorare in un ambiente ostile, in quanto i colleghi lo potrebbero considerare un “nemico”, qualcuno che non sta “dalla stessa barricata”.

(1963, ndr) Finalmente la Confindustria firma l’accordo sui metalmeccanici. Ma con l’aggiunta dei contratti integrativi aziendali ai contratti nazionali, i sindacati hanno raggiunto lo scopo di firmare la pace per poter ricominciare a combattere più di prima.

In sostanza, da libertà di associazione sindacale, siamo passati a legalizzazione di qualsiasi comportamento sindacale, seppur quelli estremamente penalizzanti nei confronto del prossimo. Ma i danni dei sindacati non si limitano a questo. Oltre alla sua libera attività coercitiva, ci sono ulteriori danni. Ma di questo ne riparleremo in un’altra occasione.

Il Sovranismo è anticapitalista?

Qualcuno sostiene che il Sovranismo sia un pensiero politico nuovo, innovativo, che crea una rottura con il passato. Essi sostengono, altresì, che il Sovranismo sia l’espressione di un nuovo pensiero popolare che non ha alcun legame storico-ideologico con il pensiero statalista, quello socialista o quello comunista.

Io penso, invece, che il pensiero sovranista ha più di un legame con il pensiero nazionalsocialista, noto attualmente – per comodità, direi – come Destra Sociale. Un legame che li lega non solo politicamente, ma anche culturalmente.

Partiamo dal presupposto che il Sovranismo è insurrezione popolare. Si tratta di una reazione del popolo contro una presunta élite. Storicamente il pensiero nazionalsocialista, come nel Sovranismo, è un movimento di giustizia sociale contro un nemico chiaro. Nello specifico si parla di comunitarismo.

Un comunitarismo inteso come vivere attraverso l’identità, la propria provenienza, le proprie origini. Un comune agire per un comune obiettivo, un comune agire per comuni usanze. Il collettivismo sovranista è facilmente intendibile, pertanto, come un reazionismo verso un presunto degrado di valori provocato da vari nemici, come la tecnocrazia.

Il Sovranismo ha dunque, nelle sue corde, una forte componente di giustizia sociale. Non è nemmeno questa una novità rispetto al passato. Non solo dagli ambienti marxisti, ma anche dagli ambienti nazionalisti italiani. Storicamente, nella cultura di destra sociale, è sempre esistita una forte esigenza di giustizia sociale. Una giustizia sociale che, eliminando i difetti del marxismo e del liberalismo, tende a rafforzare tutti.

Non è una sorpresa che tanti esponenti sovranisti siano ancora a favore di una visione corporativista dello Stato e dell’economia. Uno Stato che tende sia a limare la presunta “avidità” del capitalista che a soddisfare le esigenze del lavoratore sfruttato. Quindi, una giustizia sociale che tende a rafforzare tutti.

Ovviamente, anche in questo caso la giustizia sociale è traducibile con una riduzione concreta delle libertà individuali. Si parla, piuttosto, di una libertà impostata e ipotetica, in quanto, secondo il Sovranista, ponendo un equilibrio tra liberalismo e comunismo, non ci dovrebbero essere motivi di disarmonia.

Insomma, il Sovranismo parte da una reazione, una reazione per soddisfare una giustizia sociale, una giustizia sociale attuabile con la riduzione delle libertà individuali. Ma fino a qui, siamo sulla teoria.

Come è traducibile nella pratica il pensiero sovranista?

Sostanzialmente, in uno schema sovranista, il capitalismo è il mezzo per arricchire Stato e proletari. Esattamente, il capitalista è l’attore da sfruttare. Non deve arricchirsi alle spalle di nessuno, non può prendere libera iniziativa, ma deve limitarsi a rispettare le esigenze di Stato. Per essere chiari, nel sovranismo, il mercato non può mancare.

Però è inevitabile che ci sia il Mercato, il quale quindi viene “indirizzato” per soddisfare i bisogni dello Stato. Quindi, un mercato strozzato dalle esigenze statali. Allo stesso tempo, lo Stato rafforza la componente proletaria, rendendo l’azienda da privata a Istituto Sindacalista, in cui il titolare dell’impresa, per decidere su qualcosa di sua proprietà, deve rivolgersi ai lavoratori.

Per concludere, il sovranismo ha un tasso molto alto di nazionalismo nelle sue corde culturali. Un nazionalismo di vecchio stampo, aggiungerei. Vecchio stampo perchè si tende a isolare mentalmente l’Italia e ad immaginare il mondo come il campo di battaglia della guerra di tutti contro tutti. Ovviamente, anche su tematiche interne, il sovranismo ha una forte propensione alla protezione del Made in Italy, tenendo persino in considerazione la possibilità di dazi o misure fortemente penalizzanti verso le aziende estere.

Tasse e Welfare. Rubrica “Welfare secondo un Liberista”

Nell’articolo precedente ho spiegato perché l’assistenzialismo è sbagliato. Ho cercato di evidenziare come l’assistenzialismo tende a dividere, tende a indebolire, tende ad escludere.

In questo articolo, pertanto, voglio provare a spiegare come si approccia un liberista al tema del Welfare.

Cosa vuol dire Welfare? Welfare può essere come qualcosa legato al benessere, al stare bene. Quando sentiamo Welfare State, vuol dire un governo che compie delle azioni allo scopo di “dare” un benessere a qualcuno.

Il Welfare State nasce da un’esigenza sociale. Soddisfare i più bisognosi. Ma da esigenza sociale, diventa pretesto per farla diventare giustizia sociale. Il presupposto è dunque togliere a chi ha troppo per dare a chi ha poco.

Nel welfare rientrano numerosi campi. Dal pensionato al lavoratore che perde il lavoro, dall’infortunato alla sanità per tutti. Quindi, secondo un welfare state tutti sono “protetti” e questa protezione dovrebbe coprire la persona, in teoria, dalla culla alla morte.

Sostanzialmente, il welfare, per come ci viene raccontato da decenni, è qualcosa legato al collettivismo e alla solidarietà. Tutto ciò però, all’insegna della coercizione statale. Una coercizione statale progressiva, direi. Infatti più sei ricco e più “devi essere” solidale con il prossimo, dando un contributo maggiore.

Ma cosa vuol dire per un liberista il welfare? Per un liberista, il benessere è un fattore individuale. Questo vuol dire che esiste un’azione umana che governa tutto. Non solo la tanto cara Mano Invisibile di Adam Smith, ma anche il fatto che il welfare può esistere senza lo Stato.

Provo a spiegarmi meglio. Quanti welfare esistono? Avendo studiato spesso queste tematiche, oltre al welfare state, mi vengono in mente una moltitudine di modelli di welfare. Abbiamo il welfare aziendale, il welfare associativo, welfare corporativo, welfare universale, ecc ecc.

Esiste un welfare liberista? Non può esistere un welfare liberista. Sarebbe una sorta di ossimoro. Un liberista può dare del benessere a qualcuno? Dipende.

Il Liberista non crede nella lotta alla disuguaglianza, ma crede nella lotta alla povertà. Pertanto, l’obiettivo del liberista non è quello di provare ad “equilibrare” i redditi, ma operare affinché tutti possano esprimere il proprio potenziale.

Fare in modo che tutti siano messi nella condizione di dare il meglio di sè, sempre e comunque.

Ma qualcuno potrebbe chiedermi, legittimamente, “ma il povero come si aiuta?”. Ebbene, un Liberista crede nella figura del Guardiano Notturno. Cosa vuol dire guardiano notturno? Vuol dire che lo Stato, in riferimento al tema welfare, si deve limitare a garantire un’uguaglianza di partenza per tutti.

Il Liberista vuole che il cittadino, in difficoltà economiche, detentore di un piccolo guadagno, non deve essere massacrato da tasse, dirette e indirette che siano. Quel piccolo reddito guadagnato deve essere protetto e valorizzato. Mi viene in mente la storica proposta di Milton Friedman sull’imposta negativa sul reddito, affinchè il cittadino con un reddito troppo inferiore alla soglia minima, riceva una detrazione delle tasse pagate, ottenendo un rimborso.

Questo perché welfare, per un liberista, vuol dire investimento. Investimento sulla persona. Un investimento che non deve ricadere sulle spalle di un’altra persona.

Mi viene in mente una straordinaria frase di Margaret Thatcher, presente in uno dei suoi testi autobiografici, “Come sono arrivata a downing street”

“Sono convinto che occorra giudicare una persona per i loro meriti e non per la loro provenienza. Credo che la persona che è pronta a lavorare più sodo è quella a cui spetta il compenso maggiore, un compenso che dovrebbe restargli anche dopo le tasse. Dobbiamo appoggiare i lavoratori e non gli imboscati: che non è solo lecito ma lodevole voler migliorare la propria famiglia con il proprio impegno“.

Ma come approcciare il pensiero liberista nella concretezza delle cose, come nella sanità, il carovita, la scuola?

Ci vediamo nel prossimo articolo.

L’assistenzialismo: come affrontarlo? – Rubrica “Welfare secondo un Liberista”

Nel primo articolo della rubrica “Welfare secondo un Liberista” ci siamo lasciati con un quesito.

Le politiche sociali possono svilupparsi tramite la coesione volontaria dei cittadini, l’autogestione del welfare, l’autogoverno del proprio vicinato o delle proprie cause sociali?

Non esiste risposta migliore se non quella di raccontare, passo dopo passo, come si approccia un liberista rispetto al tema del Welfare. In questo articolo, spiegherò come il liberista vede il tema dell’assistenzialismo.

Si dicono tante grandi bugie sul nostro conto. Un socialista è perfettamente convinto che per un liberista, il povero può morire di fame. Ci disegnano come dei perfetti ricchi borghesi.

Peccato però che non ci sia bisogno di fare troppi esempi su quanti liberali liberisti possiedano un reddito normale, in media con tutto il resto della popolazione. Potrei raccontare la mia vita, il mio percorso di vita.

Ebbene, io provengo da una famiglia, dal punto di vista economico, con qualche debolezza. Quando iniziai il mio percorso universitario, emigrando a Torino, avevo la consapevolezza di non avere alle spalle una famiglia forte. Sicuramente presente, ma non abbastanza da garantirmi una tranquillità economica.

Sono diventato liberista, sicuramente grazie agli studi, ma anche approcciandomi alla vita. Finito gli studi, inizi a lavorare. In quel momento capisci che hai di fronte dei grossi handicap. Essere assunto da un’azienda è molto difficile: in una grossa azienda devi fare i conti con la realtà: da una parte ci sono gli assunti “storici”, gli assunti figli dello Statuto dei Lavoratori, assunti con tanto di contratto indeterminato e protezione in-toto dei Sindacati.

Licenziare non è semplice, ma intanto la crisi è forte. Siamo alla fine del 2015 e l’inizio del 2016. Sembra che ci siano dei risvegli economici, ma è tutta apparenza. Con la crisi sul groppone, con un costo esorbitante del personale, le aziende ricorrono ad altri sistemi: contratti interinali, contratti a collaborazione, i voucher. Trovi di tutto, insomma. Ah si, poi ci sono gli immancabili stage.

Mentre inizio a cercare lavoro, vengo a scoprire di aver perso un treno: nel 2015, esattamente nel primo semestre, arrivano gli sgravi fiscali sui contratti a tempo indeterminato attuati dal Governo; una gran sfortuna, io stavo studiando, ero all’università in quel periodo, ora che ho concluso gli studi, mi rimangono le bricioline. I residui, insomma: grazie governo.

Nel frattempo, anche un mio amico stava cercando lavoro. Mi dice però che si sente molto sconsolato. Lui aveva più di 30 anni e perdeva tanti di quei “privilegi” utili per l’assunzione.

Per farla breve, sono esattamente quattro anni che lavoro. Ho cambiato tante aziende, sicuramente, ma ho sempre lavorato. Nonostante tutto, vuoi per la mia cultura politica, vuoi perché sono ambizioso, ho acquisito una mia filosofia di vita. Penso che alla mia età, giovane, l’unica cosa che posso fare è maturare, crescere, fare gavetta.

Questo non vuol dire vivere senza diritti, ma che alla nostra età abbiamo da dimostrare, non da chiedere. Poi, la vita è una scala sociale. Se sai salire sei stato bravo, altrimenti sei stato scadente.

Per un liberista la frase di Bill Gates, “Se sei nato povero non è colpa tua, ma se muori povero è colpa tua”, è una frase che rientra molto nelle mie dinamiche di pensiero.

Guardiamo la realtà italiana: ho appena fatto un piccolo racconto di come vive un giovane che entra nel mondo del lavoro. Entriamo in un contesto con una marea di “protezioni sociali“. Il difetto principale dell’assistenzialismo è che protegge il passato o il presente, ma non il futuro.

Protegge chi chiede in quel momento una copertura, ma penalizza tutto il resto. Il Governo del 2015 decise per gli sgravi fiscali per i contratti a tempo indeterminato, fu una decisione elettorale, probabilmente, ma che maturò tantissime assunzioni; in quel momento molti giovani non erano disponibili per entrare nel mercato del lavoro ed una volta pronti, i “rubinetti” erano ormai chiusi.

Anche perché l’assistenzialismo non potrà mai garantire una protezione universale, perché il meccanismo lo impedisce. Esattamente, parliamo di un meccanismo che prevede che chi produce reddito “protegga” chi non produce reddito. Ebbene, quando una categoria tende ad essere assistita dallo Stato, i detentori di reddito, esclusi dall’assistenzialismo, devono sobbarcarsi il peso.

Chi sono gli esclusi di oggi? Direi una donna casalinga che ha deciso da poco di immettersi nel lavoro; noi giovani che finiamo la scuola o l’università; chi si ritrova disoccupato a 50 anni.

Ecco, prima ho detto che l’assistenzialismo protegge il presente, ma non il futuro. Ebbene, l’esempio lampante sono il cambio di rotta genitori-figli. Storicamente, dall’ottocento fino a qualche anno fa, i figli tendevano ad essere sempre più ricchi dei genitori. Ebbene, quest’anno e prossimamente, per la prima volta, i genitori saranno più ricchi dei figli. Questo non era mai accaduto.

Ma esiste una categoria di esclusi non annunciata. I detentori di reddito. Cosa succede se chi ha un reddito si ritrova con le stesse difficoltà di chi non possiede un reddito?

Allo stesso attuale, diciamo che si ha ben poco su cui poter sperare. Anche analizzando il mio presente, direi che mi ritrovo in questa situazione: lavoro, ho uno stipendio, ma sono accompagnato da una spaventosa fragilità economica; basterebbe un soffio di vento per passare un mese complicato, eppure, per lo Stato, io non godo di alcun aiuto assistenziale. Al massimo, gli assegni famigliari se hai un figlio. Ma io non ho figli. Altra esclusione.

Alla prossima…

Lo statalismo è figlio del fascismo

L’Italia è uno dei paesi europei più forti dal punto vista dell’assistenzialismo, delle dimensioni dello Stato, della pressione fiscale, della spesa pubblica e dei sussidi per le aziende.

Secondo l’Istitute Heritage, l’Italia è nella posizione numero 80 dell’Index Of Economic Freedom. L’indice della Libertà Economica è il più famoso indice che classifica tutti i paesi del mondo su fattori come libertà imprenditoriale, di mercato, libertà dalla corruzione, diritti di proprietà, efficienza dell’apparato giudiziale ed ancora libertà fiscale, del mercato del lavoro e livello delle spese governative.

Parliamo di una posizione di classifica assai preoccupante. Consola il fatto che la posizione è inserita in una categoria di nazioni “moderatamente libere”, ma sono maggiori gli aspetti a preoccupare: l’Italia dista solo 15 posizioni e 2,2 punti rispetto alla categoria di nazioni considerate “prevalentemente non libere”. L’Italia è la terza nazione meno libera nell’Europa occidentale, superando solo Croazia e Grecia.

Piaccia o non piaccia, ma esiste una forte correlazione inversa tra libertà economica e statalismo: più il livello di statalismo è forte, minore è la libertà economica. Questo tende a produrre una ricchezza, presumibilmente fittizia. Una ricchezza provocata arbitrariamente dallo Stato, piuttosto che grazie alle logiche di mercato.

Tra i paesi meno liberi o tendenti alla repressione figurano paesi come Russia, Cina, Nord Corea, ma facendo una ricerca approfondita possiamo riscontrare molti aspetti in comune.

Giusto per fare un elenco:
– Tra questi paesi riscontriamo uno Stato di diritto piuttosto debole;
– La magistratura è fortemente politicizzata e debole;
– Il concetto di proprietà privata piuttosto condizionato. In alcune nazioni non esiste la proprietà privata;
– Gli affari economici e imprenditoriali sono strettamente legati con il clientelismo;
– La corruzione è molto forte;
– I burocrati “governano”, godendo di ampia impunità;
– Lo Stato dirige direttamente alcuni settori di mercato;
– L’iniziativa economica, se è libera, è alle condizioni dello Stato;
– Alcuni mercati tendono a liberalizzarsi (vedi Russia), ma i sussidi sono talvolta più incisivi del profitto;

L’Italia non è, oggi, a questi livelli così drammatici. Ma su una cosa possiamo essere tutti d’accordo. In Italia uno scenario simile si è presentato, soprattutto durante o successivamente dopo la crisi del ’29-30, per opera del fascismo. Alla fine degli anni Venti, il governo fascista adottò una serie di misure affinché tutte le imprese private, o comunque quelle decisive a fini strategici, diventassero pubbliche per sopravvivere. Le logiche di mercato vennero messe da parte, e si andò a creare una politica monetaria a circolo chiuso in cui le aziende rimanevano in piedi solo con le droghe (sussidi) statali.

Lo stesso IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, non solo nacque per raccogliere i rottami dell’industria privata, ma esistette fino al 1995 a “governare” il mercato italiano. La stessa IRI che per quasi mezzo secolo fu il principale datore di lavoro d’Italia, in quanto possedeva un numero impressionante di aziende considerate “private”. Si otteneva una ricchezza falsa, priva di fondamento. Ma soprattutto è con il Fascismo che si inizia una non-cultura del profitto e della libera concorrenza.

Ma non limitiamoci all’aspetto meramente industriale ed economico: l’apparato statale costituito dal fascismo all’indomani della crisi economica di fine anni Venti era molto simile all’elenco sopra citato. La stessa Carta del Lavoro, nonostante sia sorta nel 1927 e sia quindi pre-crisi, è la dimostrazione della nascita dello Statalismo in Italia.

Giusto per fare qualche esempio:
– Punto II. Il lavoro, sotto tutte le sue forme, organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche e manuali, è un dovere sociale. A questo titolo, e solo a questo titolo, è tutelato dallo Stato.
Il complesso della produzione è unitario dal punto di vista nazionale; i suoi obbiettivi sono unitari e si riassumono nel benessere dei singoli e nello sviluppo della potenza nazionale;
– Punto VII. […] L’organizzazione privata della produzione essendo una funzione di interesse nazionale, l’organizzazione dell’impresa è responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato […].
– Punto IX. L ‘intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi politici dello Stato. Tale intervento può assumere la forma del controllo, dell’incoraggiamento o della gestione diretta.

Anche dal punto di vista burocratico è da considerare l’altissimo tasso di corruzione e clientelismo negli affari interni dello Stato durante gli anni Trenta. Da non dimenticare, ma è superfluo ricordarlo considerando che stiamo parlando di uno Stato Totalitario, lo “schiacciamento” politico nei confronti della Magistratura e uno Stato di Diritto pressoché inesistente.

Possiamo certamente dire che l’Italia ha abbandonato una buona parte del marciume statalista nato con il Fascismo, anche se il percorso è iniziato molto tardi dato che la primissima Italia repubblicana diede continuità al progetto statalista precedente. Sicuramente con la Costituzione si posero le basi per uno Stato di Diritto, per una democrazia, e per la libertà, ma dal punto di vista economico e burocratico la strada è ancora molto lunga.

Da considerare che, anche se negli anni novanta abbiamo abbandonato quel mostro chiamato IRI, recentemente lo Stato sta ancora una volta dimostrando di non comprendere di non potersi permettere di fare l’imprenditore (VEDI Alitalia) e di avere al suo interno una corruzione e clientelismo forti (VEDI la pubblica amministrazione o aziende come Trenitalia).

Questo per capire che il cordone ombelicale con il passato non è stato ancora tagliato. I passi avanti dell’Italia ci sono stati, ma sono deboli e insufficienti. Abbiamo tanto lavoro da fare, ma il timore è che le forze politiche oggi maggioritarie abbiano l’intenzione, per fini differenti, di ripristinare sempre di più quel mostro chiamato Statalismo.

 

Evasione fiscale? La colpa è dello Stato

In questa settimana è tornata, direi con prepotenza, il tema dell’evasione fiscale. Oltre ai soliti slogan “se finalmente pagano tutti, potremo abbassare le tasse”, arrivano nuovi slogan e, soprattutto, nuove proposte.

Il Movimento 5 Stelle è giunto a proporre il carcere per chi non paga le tasse. Non si tratta di qualcosa di basso rilievo, ma di carcere fino a 8 anni con possibilità di confiscare i beni. Quest’ultima misura, oggi, è prevista solo per reati di Mafia. Ma l’interesse di Luigi Di Maio è di estenderlo anche a coloro che non pagano le tasse.

La battaglia all’evasione fiscale è dunque iniziata. Lo dimostrano le stesse parole dell’attuale Presidente del Consiglio:

“Stiamo mettendo a punto gli ultimi dettagli della manovra, le ultime misure, non voglio anticipare ovviamente i dettagli ma ci sta molto impegnando il piano anti-evasione”.

Le cifre dell’evasione fiscale sono spaventose per dimensioni. Si parla di circa 100 miliardi di euro. Le principali evasioni provengono dall’IVA e dall’IRPEF.

Sempre secondo il presidente Conte:

“Essere onesti conviene, recuperare un euro dall’economia sommersa significa poter investire nella scuola pubblica, poter investire negli ospedali, significa poter ridurre le tasse a tutti”.

Eccolo quà. Si torna sempre al punto di partenza. L’immancabile slogan “pagare tutti per pagare meno” è ormai roba diffusa tra i lottatori contro l’evasione fiscale.

Peccato però che questo slogan sia più falso di una banconota di 15 euro. L’impressione è che anche stavolta, il governo di turno, è cieco rispetto all’attuale scenario. Cieco, o meglio, finto-cieco? Forse non è nemmeno corretto definirli ciechi. Forse questa strategia di comunicazione è particolarmente efficace per il socialista di turno.

Attualmente, la realtà italiana è ben diversa da quella raccontata da Conte:

  • Spesa Pubblica: +2.4% rispetto al 2018
  • Pressione fiscale generale pari al 55% (550€ ogni 1000 di PIL finiscono allo Stato)
  • Abbiamo lo stesso PIL pro capite di 15 anni fa
  • Non si riscontrano aumenti significativi di produttività negli ultimi 25 anni
  • Un dipendente costa all’azienda quasi il doppio (rispetto all’effettivo stipendio ricevuto dal lavoratore – ndr)
  • La quota di profitto – che riguarda le società non finanziarie e il reddito da capitale ottenuto sul valore aggiunto prodotto – è al 40,7%, cifra più bassa dal 1999
  • Molti servizi pubblici sono del tutto inefficienti

(Dati raccolti Da Institute Heritage, OCSE, CGIA di Mestre, 2019)

Questi dati, seppur non esaustivi, devono invitarci a fare una riflessione molto seria. Ci sono delle differenze sostanziali tra i dati reali dell’economia italiana rispetto al racconto del Governo. Il Governo di turno racconta l’evasione fiscale come una “mancata solidarietà”, “i cattivi che non vogliono pagare le tasse”, “l’avidità dei ricchi”. In realtà il quadro italiano racconta tutt’altro. Racconta un Paese in estrema difficoltà economica. Le aziende non vanno avanti, ma si trascinano avanti. La produttività è appena sufficiente, i profitti sono appena sufficienti, i redditi degli italiani sono gli stessi.

Il Governo e la stessa OCSE (documento aprile 2019) spiegano come i sussidi alla povertà dovrebbero stimolare la ripresa economica. Allora, Vi pongo una domanda: se in Italia gli occupati sono il 59% (dati ISTAT), il reddito pro capite allo stesso livello del 2004, con una spesa pubblica che nel 2004 incideva del 15% e nel 2019 incide del 26%, con una pressione fiscale generale che nel 1999 era al 49.7% e oggi al 55%, come possiamo pretendere che gli italiani possano resistere economicamente?

Questo è un torto incredibile, perché gli italiani hanno lo stesso guadagno ma sono più poveri per colpa dello stesso Stato. Ma la beffa è presto vicina. Dagli annunci di Conte e Di Maio, l’impressione è che non solo manca l’intenzione di abbassare le tasse, ma prevale quella di aumentare l’interventismo statale (estendendo il reddito di cittadinanza) e quella di istituire uno Stato di Polizia Tributaria.

L’assistenzialismo e i servizi offerti dallo Stato, secondo i socialisti, nascono per “governare e redistribuire la ricchezza”. Ma con questo ritmo rischiamo seriamente di rendere gli Italiani con una ricchezza tra le mani sempre più misera.

Ed è qui che entriamo nel paradosso. Se l’assistenzialismo è per chi non detiene reddito, e chi lo detiene è in ginocchio perché non può più pagarlo, come ne usciamo?

Vivere il capitalismo oggi

Come si può descrivere il capitalismo? Il capitalismo potrebbe avere mille accezioni, positive o negative. Abbiamo però un dato importante a nostra disposizione. Se il comunismo non è mai stato in grado di evolversi, il capitalismo, nel corso dei secoli, ha dimostrato una straordinaria elasticità.

Il capitalismo di oggi non può essere quello del Novecento, non può essere quello dell’Ottocento e tantomeno quello del Settecento. Sergio Ricossa affermò che il capitalismo è stato protagonista di una “trasformazione rivoluzionaria”. Una trasformazione spontanea, inaspettata, inimmaginabile.

Come diceva lo stesso Sergio Ricossa.

“Ancora oggi non sa dove andrà (il capitalismo, aggiunta mia), perché inventa la sua strada ogni giorno”

Anche le stesse critiche di Marx possono tranquillamente essere considerate obsolete, poiché il capitalismo dell’Ottocento era un fenomeno estraneo alla società di quell’epoca. Ma oggi la situazione è differente.

L’Italia ha un’economia capitalista, seppur ostacolata dall’elevata presenza dello Stato. Pertanto il problema dell’Italia non è il capitalismo, ma gli ostacoli imposti dallo Stato.

Da evidenziare come il capitalismo sia in grado di compiere una rivoluzione politica, senza imporsi direttamente sul piano politico. Anche perché se dobbiamo considerare le forze politiche che hanno contraddistinto i governi della Repubblica italiana, con molta probabilità, oggi l’Italia sarebbe vicina al feudalesimo.

Se nell’epoca preborghese esistevano due tipi di ricchezza, quella fornita dalla natura e quella prodotta dall’uomo, quest’ultimo era indirettamente dipendente da ciò che forniva la natura, specie se pensiamo ai raccolti o all’estensione dei campi.

Poi, con il progresso tecnologico, il concetto di capitalismo si estese, come lo stesso concetto di accumulazione della ricchezza. L’accumulazione della ricchezza era, in prima istanza, da considerarsi una vera e propria esigenza pre-borghese, appartenente alla cultura militare dell’epoca medioevale. In Italia il concetto di accumulazione, specie in epoca signorile, era una questione militare e pubblica, funzionale a soddisfare esigenze di sicurezza.

Con il passare dei secoli e con l’avvento della rivoluzione industriale, la questione di accumulazione della ricchezza iniziò ad avere un’accezione differente. Superare la concezione militare, ma andare oltre. Non accumulare per difenderti, ma per investire, per fare “affari”. Attraverso la ricchezza produrre nuova ricchezza. La vera rivoluzione culturale avvenne in quanto il capitalismo non era un statico, ma dinamico.

Ma poi arrivò un certo personaggio, chiamato Karl Marx, il quale sosteneva che il capitalismo si autogenerasse attraverso il plusvalore. Il plusvalore è la differenza tra il capitale investito e il capitale ottenuto dall’investimento.

Ebbene, secondo Marx, questo plusvalore era dovuto allo sfruttamento dell’uomo a opera dell’uomo, del proletario a opera del capitalista. L’uomo capitalista creava plusvalore sottraendolo il valore prodotto dal lavoratore.

Marx (come poi Keynes) sosteneva che il capitalismo sarebbe arrivato ad un punto di non-ritorno. Nonostante il capitalismo avesse avuto un ruolo fondamentale per il progresso, sarebbe stato presto sostituito da un sistema più equo.

Peccato però che il capitalismo è capace di adattarsi alla società in modo impeccabile. Questo perché il capitalismo è fondato sì sul capitale, ma anche sull’innovazione. Il capitalismo innova la società tanto quanto sè stesso. L’economia capitalista non si basa solo sulla quantità, ma sulla qualità. Una qualità in grado di rompere le tradizioni, gli schemi mentali prestabili, le precedenti abitudini.

Basti pensare alla rivoluzione Apple dello smartphone. Il primo iPhone, per quanto ancora rudimentale, fu un prodotto indiscutibilmente rivoluzionario. Un prodotto che inaugurò una nuova categoria di mercato, un prodotto che riuscì a rivoluzionare la vita delle persone.

Un prodotto che rivoluzionò anche la concorrenza, se consideriamo che Samsung, prima dell’avvento dell’Iphone, prima di rispondere al nuovo e rivoluzionario prodotto sul mercato, dovette attendere tre anni.

Questa vicenda Apple-Samsung, ci permette di aggiungere un terzo pilastro per descrivere il capitalismo, dopo l’accumulazione della ricchezza e l’innovazione. Parliamo della concorrenza.

Questi tre pilastri sono fondamentali per un sano capitalismo. Se manca uno, gli altri due sono più vulnerabili. Basti pensare che concorrenza e innovazione vanno spesso di pari passo, se consideriamo che l’innovazione è l’arma vincente per attaccare e vincere nel mercato di concorrenza. Anche l’innovazione va di pari passo con l’accumulazione della ricchezza. Non è precario solo il posto di lavoro, ma anche la ricchezza può essere precaria, se manca la volontà nell’investire o nell’innovare.

Il capitalismo è riuscito a rialzarsi sempre, nonostante gli attacchi di socialisti, comunisti e fascisti o statalisti vari. Il capitalismo in Italia è già in fase di transizione. Si tratta di una nuova sfida che coinvolge tutti, lavoratori e capitalisti. Dopo la seconda guerra mondiale, l’Italia era come la Cina di oggi. Produrre nel nostro Paese era semplice e poco costoso. Ma ci sono due fattori che hanno contribuito a porre fine a questo paradiso industriale: lo Stato e la concorrenza fra nazioni.

Lo Stato ha numerose colpe. La prima colpa è sicuramente quella di aver ampliato, nel corso dei decenni, la sua struttura composta da burocrazia, tasse e ostacoli vari. Basti pensare che il datore di lavoro, quando si ritrova a pagare uno stipendio, è costretto a pagare una marea di tasse. La seconda colpa è stata quella di abituare le aziende alla svalutazione della moneta.

Infatti, alla prima crisi di produzione, il governo di turno distruggeva il valore della Lira, per rendere appetibile l’Italia nel mondo. La terza colpa è stata quella di aver “ucciso” lo stimolo all’innovazione, sia verso il datore di lavoro e sia verso il lavoratore. Infatti, non si investiva per nulla sulla formazione del lavoratore, rendendolo con il tempo obsoleto rispetto ai nuovi tempi che arrivavano.

Se prima esisteva una sola categoria di lavoratori, ossia quella che deve limitarsi a fare e magari a farlo con continuità, con il processo di alfabetizzazione e di scolarità, la nuova economia capitalista impone due categorie di lavoratori: lavoratori specializzati e lavoratori non-specializzati.

La vera differenza tra le due categorie consiste nel fatto che se per fare un lavoro specializzato occorrono alcune persone (scarsità), per fare un lavoro non-specializzato si possono coinvolgere (quasi) tutti. Pertanto, se per un posto di lavoro specializzato esiste una concorrenza al rialzo, per un posto di lavoro non specializzato esiste una concorrenza al ribasso.

Fateci caso, le categorie di lavoratori manifatturieri non specializzati sono state quasi tutte dislocate all’estero. Il dubbio è che se un lavoro può farlo chiunque perché rimanere in una nazione dove la manodopera costa 100 volte tanto? Rimangono i call center.
Invece, il lavoro specializzato non solo non è mai stato in crisi in Italia, ma sta crescendo gradualmente.

Ed ecco qual è la vera sfida del capitalismo italiano. Diventare un paese specializzato nel mondo del lavoro. Investire di più sui lavori che contano e sulla continua formazione. Il vero ostacolo rimane lo Stato che, finché sarà circondato da una certa cultura socialista e statalista, continuerà ad essere un freno per il Paese.

Milton Friedman e la (sua) Flat Tax

Era il 1956 quando la mente brillante di Milton Friedman (1912-2006) elaborò l’idea della Flat Tax. Sono passati 63 anni ed oggi la sua proposta politica è diventata oggetto di numerose discussioni in tutte le economie mondiali, seppur con qualche imprecisione. Imprecisioni sia da parte di chi la sostiene, specie in Italia, che da parte di chi non la sostiene.

Questo è un indizio di come già in quell’epoca Friedman prevedeva le pecche, i difetti, i limiti del sistema statalista. In quel tempo, l’Europa era nel pieno del boom economico e l’interventismo statale era considerato un bene, ma lo stesso economista statunitense rilevava quei problemi che oggi sono ormai evidenti, in Italia e nella stessa Europa.

Come tutti sanno, la proposta della Flat Tax è uno dei cavalli di battaglia del partito Lega Nord. Lo stesso Matteo Salvini, oggi viceministro del consiglio, ha inserito la proposta di Friedman come il pilastro portante per assicurare una Pace Fiscale ai cittadini.

A tal proposito, nella proposta leghista si riscontrano alcune piccole ma significative differenze rispetto all’idea originaria. Pertanto, ritengo opportuno parlare della Flat Tax, raccontando semplicemente come lo stesso Friedman se lo immaginava.

Come punto di partenza, non possiamo non parlare della moneta e del suo rapporto con la persona. Per l’economista statunitense, la moneta è un “bene di lusso”. Pertanto, la considerazione di essa cambia a seconda del reddito della persona. Se la persona possiede un basso reddito, la moneta è molto veloce, dinamica. Basti pensare al fatto che il basso stipendio di una persona finisce molto rapidamente tra spese primarie o secondarie. Quando il reddito tende a salire, la moneta inizia ad avere una polifunzione. Non solo sarà utilizzata con lo scopo di soddisfare le spese primarie e secondarie, ma permette anche di fare investimenti oppure di organizzare la moneta in risparmi.

Ebbene, la Flat Tax ha lo scopo primario di permettere alle persone di costruirsi i propri risparmi e investimenti. Non solo, ma se la riforma fiscale venisse fatta con i sani criteri previsti dall’economista, sarebbe una vera e propria svolta per la società italiana. Oggi, la moneta vive un momento non felice. Se prima abbiamo sostenuto che la moneta, per una persona con basso reddito, è veloce e dinamica, nel caso di chi ha un reddito più alto, la situazione diventa preoccupante. Oggi abbiamo un fisco invadente che contribuisce a mortificare le persone da qualsiasi tentativo di risparmio o di investimento. Lo stesso regime progressivo lo dimostra, in quanto chi possiede un reddito maggiore deve pagare un’aliquota più alta, quasi come se fosse un reato guadagnare di più.

Come già accennato in precedenza, la Lega Nord è favorevole alla Flat Tax e già dalla campagna elettorale per le elezioni del 4 marzo proponeva un’aliquota fissa per le imposte sui redditi delle persone fisiche e delle imprese compresa tra il 15% e il 23%. Ma le intenzioni o gli obiettivi non sono gli stessi. Infatti, non prevale l’intenzione di far respirare le tasche dei cittadini, bensì quella di semplificare il rapporto cittadino-fisco e di diminuire l’evasione fiscale. Della serie “dietro una proposta liberista, si nasconde la stessa logica socialstatalista”.

La Flat Tax non deve essere un diversivo per arricchire diversamente le casse dello Stato. Altrimenti qui rischiamo di andare verso il principio “pagare tutti le tasse per pagare meno”. La Flat Tax deve avere come unico scopo quello di alleggerire gli italiani. Alleggerire per permettere loro dei consumi migliori, dei risparmi certi e degli investimenti stimolanti.

Sul semplificare possiamo, invece, andare tutti d’accordo. Oggi il sistema fiscale in italiano è sempre più garbugliato, confusionario, ma ha la straordinaria dote di costringere l’imprenditore o il libero professionista a chiudere la partita IVA o a trasferirsi altrove. Il lavoratore sente meno questo problema, perché oggi abbiamo la figura del sostituto d’imposta, ossia è il datore di lavoro ad occuparsi delle tasse del suo dipendente. Il Sostituto d’Imposta è la più grande genialità mai realizzata dai socialisti, poiché il lavoratore dipendente non avrà la piena consapevolezza di quanti soldi versa allo Stato ogni mese.

Secondo l’idea di Friedman, l’unica forma di progressività attraverso la creazione di una Flat Tax è attraverso una no tax area e con conseguente eliminazione della politica degli sgravi fiscali. In parallelo, lo stesso economista statunitense ha parlato di Tassazione Negativa di Reddito, specie per coloro che possiedono un reddito al di sotto di una certa soglia.
Altro dettaglio fondamentale, oggi trascurato da chi sostiene la Flat Tax, è che questa riforma può funzionare solo in un regime di bassa spesa pubblica. Da non trascurare se consideriamo che la spesa pubblica in Italia è giunta ad un livello molto più che preoccupante.

Prima di concludere ecco alcune significative affermazioni di Milton Friedman sul tema della Flat Tax

“[…] ciò costituirebbe una difesa contro l’aumento dell’aliquota. Adesso ogni volta che c’è un aumento di aliquota lo si giustifica dicendo che va a colpire qualcun altro. Non si tassa mai sé stessi ma il proprio vicino. In questo modo si nasconde il fatto che alla fine vengono tassati tutti. Con l’aliquota unica, con un’unica percentuale, pagata da tutti ad esclusione di quelli che hanno un reddito inferiore al minimo, sarà molto più difficile ottenere il sostegno popolare per un aumento di aliquota”

“Flat Tax non sostituisce le altre imposte? Certo, non ho mai sostenuto che l’imposta ad aliquota unica potrà, ad esempio negli Stati Uniti, sostituire altre tasse quali l’imposta sulla proprietà. Dubito che vi sarà il sostegno politico alla proposta di sostituire l’imposta sugli alcolici, sul tabacco, sulla benzina. Queste imposte sono di natura diversa fra loro. La tassa sulla benzina, per esempio, è una forma di finanziamento da parte degli utenti per la manutenzione delle autostrade.
Si tratta, se così si può dire, di una tassa per un servizio più che di una comune imposta.”

Sussidi di disoccupazione? Opponiamoci con l’Imposta Negativa sul Reddito

Purtroppo per noi, purtroppo per l’Italia, il Reddito di Cittadinanza (RdC) è sempre più realtà. Ormai siamo ai ritocchi, siamo arrivati al livello di chi e come dovrà essere gestito.

Non nascondo che tutto ciò mi fa molta paura, anzi più di una paura. Paura per oggi perché il RdC tenderà ad aumentare la già eccessiva spesa pubblica italiana.

Già, la spesa pubblica, quella voce terribilmente conosciuta, sia dai cittadini e sia da alcuni addetti ai lavori. Una spesa pubblica, oggi con livelli davvero altissimi, che sta penalizzando l’italia e gli italiani. Paura del domani perché questo tipo di misure dovranno essere drasticamente gestite in futuro.

La spesa pubblica, quella spesa pubblica nata per esaltare il principio di giustizia sociale. Un principio, a dir poco assurdo, che pretende di combattere la povertà e le disuguaglianze, penalizzando chi ha un reddito al di sopra di una certa soglia.

Un principio che pretende di governare la ricchezza, con il pretesto che esso si distribuisca male se lasciato alla libera scelta. Il reddito di cittadinanza viene considerato il tentativo più grande mai compiuto – di un governo – di redistribuzione della ricchezza e dei redditi. Sin dagli anni sessanta, tutti i governi hanno cercato di provare a governare la ricchezza, con pessimi risultati.

Quando l’Italia andava verso la recessione, gli addetti al lavoro socialisti, piuttosto che prendersela con le proprie politiche, erano dell’opinione che le manovre di distribuzione erano troppo deboli. In poche parole, la ricchezza doveva essere governata sempre di più.

Ecco, perché penso che il reddito di cittadinanza sia l’ultimo grande tentativo dei socialisti.

Noi individualisti siamo fieri di essere contrari al RdC perché siamo convinti che fare assistenzialismo con i soldi degli altri, non sia corretto. Siamo fieri di essere contrari al RdC perché siamo convinti che questo tipo di misure, con il passare del tempo, tenderà a impoverirci tutti.

Pertanto, l’assistenzialismo deve essere sostituito con l’investimento sociale. Se lo Stato deve spendere per una persona, deve essere allo scopo di stimolarlo a far meglio.

Invece, l’impressione è che si voglia usare il Rdc come antidoto alla disoccupazione. Ecco, lo slogan esatto per opporci al RdC è “l’assistenzialismo non è un posto di lavoro”.

Per questo motivo, la vera risposta al RdC è l’Imposta Negativa sul Reddito (INR), proposta da Milton Friedman. Il principio è quello di “aggiustare il reddito” del contribuente che percepisce al di sotto di una certa soglia. Quella soglia è il simbolo del minimo reddito che dovrebbe percepire una persona o una famiglia per garantirsi il minimo indispensabile.

Ma come funzionerebbe l’INR?
Funzionerebbe come le aliquote fiscali che prevede l’IRPEF, con la differenza sostanziale che qui parliamo di quanto dovrebbe dare lo Stato al cittadino, e non viceversa.

Ecco qualche esempio:
CASO A
Soglia minima 1000€
Reddito contribuente 500€
Differenza tra soglia minima e Reddito contribuente 500€
Aliquota 50%
Sussidio 250€

CASO B
Soglia minima 1000€
Reddito contribuente 100€
Differenza tra soglia minima e Reddito contribuente 900€
Aliquota 50%
Sussidio 450€

L’INR è l’unica forma di assistenzialismo perfettamente in linea con la proposta dei liberali di un sistema con tasse minime. Con questa misura, il cittadino è giusto che venga risarcito, piuttosto che tassato. Le tasse non possono e non devono indebolire il cittadino; per questo motivo, l’INR riduce le tasse ad un livello basso, da consentire un reddito sufficiente per soddisfare le proprie esigenze.

Ovvio che per noi liberali non è mai positivo attuare qualsiasi tipo di assistenzialismo. Ma se vogliamo essere per lo Stato Minimo, quindi per uno Stato che garantisca infrastrutture, giustizia, sicurezza, è giusto che si occupi anche di tutelare i poverissimi.

Ebbene, l’INR permetterebbe di assistere i poverissimi, ma senza viziarli come il RdC. L’INR permetterebbe di assistere i poverissimi, ma senza incorrere in spese troppo eccessive. L’INR permetterebbe di assistere i poverissimi, evitando inutili caos burocratici, come invece previsti dall’INPS.

Se il Reddito di Cittadinanza equivale a considerare l’assistenzialismo come un posto di lavoro, con l’Imposta Negativa sul Reddito mettiamo in condizione il cittadino di mettersi ad un livello minimo che gli permetta di vivere meglio la propria vita e che gli permetta di costruire meglio un risparmio per sè e per la propria famiglia.